#divanetto
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Voglio troppo sapere se ha visto la S2 raga
#non l'ha vista perché stava facendo quella trashata del musical però c'è sempre raiplay#lui e la zita sul divanetto dai#anche se lei non ha conosciuto nic così tanto dal pov lavorativo#però domenico penso di sì
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Home Bar Family Room Venice

Inspiration for a small modern enclosed light wood floor and wainscoting family room remodel with a bar, white walls and no tv
#sgabelli bar bianchi scandinavi#petrol green sofa#boiserie verde menta#mint green boiserie#tavolo laminato effetto legno#divanetto verde petrolio
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Datemi il coraggio di sfilarmi questi jeans e accasciarmi sul divanetto
buy me a coffee / offrimi un caffé
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Quella generazione che passava il tempo stando cavalcioni sui muretti sfinendosi di parole e di sguardi tra ansie e cuori rotti. Quelli con i volti ancora accesi dopo un film non visto dall'ultima fila. Quelli che leccavano insieme i primi gelati d'aprile tra giuramenti eterni come l''acqua che scorre dalle fontanelle. Quelli con desideri impigliati come una montagna di capelli ricci. Storie dentro sciarpe di lana, appuntamenti alle fermate dei bus o davanti i cancelli delle scuole. Amori riparati al buio dei portoni o di cabine telefoniche, in auto gonfie di musica o su un divanetto sotto un poster di Lucio Battisti. Delusioni che provavi a scrollarti di dosso come fanno i cani dopo un tuffo nel laghetto. Era un tempo pazzo che ci scivolava addosso.. Noi di quella generazione.
@ilpianistasultetto
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La zia Lucia

Lucia era la quinta di sei fratelli. Antonia era la maggiore di tutti e tra le due donne c'erano quindici anni di differenza. Vicende vollero che Lucia avesse ormai quarant'anni e fosse stata lasciata da suo marito cinque anni prima, perché invaghitosi di una sgualdrinella più giovane.

In occasione di un matrimonio in famiglia, Filippo, l'universitario figlio ventenne di Antonia, con galanteria aveva invitato a ballare sua zia Lucia. Che era bellissima, come sempre. Il ragazzo la adorava letteralmente e dalla pubertà poi le era praticamente devoto: ella infatti rappresentava il suo massimo sogno erotico. Zia Lucia delle sue notti insonni.

Vivendo a poche decine di metri di distanza, ingressi delle case sullo stesso marciapiede, se l'era spessissimo vista in giro per casa; altre volte invece era stato lui ospite a casa sua. Talvolta aveva intravisto nell'intimità casalinga, grazie alle vesti slacciate o a qualche porta socchiusa, le sue forme perfette di donna matura ma soda. E senza un uomo: che spreco, aveva pensato.

Ma ora in quella sala e vestita in modo così provocante lei era un vero splendore. Lui ne era attratto magneticamente, perciò l'abbracciava di continuo e la stringeva a sé. Lei gli diceva: “ehi ragazzino, ora basta”, ma dopo cinque minuti lei stessa gli ronzava attorno di nuovo. E gli faceva dei piccoli dispetti: minimi tentativi di seduzione subliminale. Solletico dietro le orecchie. O magari gli soffiava sul collo, gli accarezzava teneramente la testa.

Lei quella sera si sentiva strana: non aveva mai pensato veramente al suo nipotino come a un uomo, ma ora lo vedeva forse per la prima volta sotto una luce molto diversa dal solito e quindi lo stuzzicava, flirtava per un po’ palesemente e poi si faceva invitare a ballare di nuovo. Dopo un po' si stringeva spudoratamente a lui. Era proprio un gran bel pezzo di gnocco, nel vestito che calzava come fosse un fotomodello. E odorava del caratteristico profumo di dopobarba misto a deodorante maschile di marca che a lei faceva girare la testa.

Anche se da fuori nessuno poteva notarlo, lei ballando gli si stringeva oltre la decenza: gli premeva forte il bacino contro. Poi, scansando i suoi capelli bellissimi e profumati, apriva con nonchalance il suo collo nudo al contatto della bocca del ragazzo e ogni qualvolta egli “casualmente” per un istante vi poggiava sopra le labbra, lei gemeva di piacere al suo orecchio, carezzandogli la nuca e premendogli più forte il bacino contro.

Filippo stava per scoppiare, travolto dal profumo e dal contatto intimo con quel corpo meraviglioso di donna in pieno rigoglio a sua disposizione. Lei lo invitò per l'indomani a casa, perché voleva parlargli di alcune cose. Per il suo bene, naturalmente. Perché oramai era un uomo fatto. E ci sono certe cose che… Perciò, di mattina Filippo si recò da lei. I due figli piccoli di Lucia erano entrambi fuori a scuola e lei aveva preso un giorno di ferie apposta. Lo fece sedere di fronte a lei e si tolse pian piano tutti i vestiti di dosso.

Il ragazzo era paralizzato da quello spettacolo meraviglioso, dal piacere ma anche dal pensiero di star forse commettendo peccato. Non ci poteva credere! La zietta a lungo sognata, uno specchio di virtù coniugale, era invece una vera e grande porca. Allora, pensava, forse tutte le donne lo sono… Lucia infine restò nuda sul divanetto davanti a lui e gli sorrise, maliarda e irresistibile, con le gambe allargate e la fica completamente aperta.

Lui poteva sentire il profumo delle sue parti intime e goderne. Stava per svenire. Da ultimo, la donna si sfilò le mutandine e gliele lanciò. Gli ordinò: “chiudi gli occhi e odorale. Sentirai l’aroma di una donna che ti vuole. E capirai da quel profumo di cosa ha bisogno una bella donna come me.” Dopodiché iniziò a sgattaiolare sul pavimento verso di lui. Nuda, bellissima e sensualissima…

Lo raggiunse, gli slacciò i pantaloni e gli tirò fuori l'uccello. Gli disse che stava scoppiando di voglia, che erano anni che non prendeva il cazzo di un uomo e che di fatto solo lui, oramai uomo maturo ma ancora non impegnato, poteva capirla e aiutarla.

Perché lei non desiderava certo farsi una cattiva nomina in paese, sporcare ulteriormente il buon nome della sua famiglia. Che con lui le cose sarebbero rimaste in un certo senso molto riservate e assolutamente segrete… “mi raccomando: neppure tua madre lo dovrà mai sapere, mi sembra ovvio, no?”

E poi era proprio ora che lui facesse pratica, per non far brutta figura con le ragazze che presto sarebbero arrivate nella sua vita. Non disse altro e quindi, non resistendo più, si tuffò golosa sull'asta del giovane che quasi scoppiava. Lo inghiottiva tutto e lo lavorava sapientemente di lingua. Ma dopo alcuni minuti:
"Zia Lucia, basta per favore…"
"Che c'è: non ti piace come ti spompina la zia? Devo aumentare il tiraggio, tesoro mio?"
"No, no… Va tutto bene, per carità! Ma il fatto è che da quando ero adolescente io non desidero altro che scoparti; lo sogno, lo voglio con tutta l'anima…"

Lucia allora rise di gola. Lo prese per mano, lo portò in camera, lo fece spogliare nudo e intanto lei si mise sul letto a pancia sotto. Filippo si gettò su quella grazia divina e la infilò in culo quasi a freddo. Il dolore per la penetrazione secca, fatta soltanto con un poco di sputo, in lei subito mutò in lunghi e crescenti brividi di piacere. Mentre pompava, il giovane prese a giocare con quelle grosse mammelle calde. Poi la girò e baciandola con trasporto la scopò da davanti: le leccava le tette, se ne infilava una tutta in bocca, mentre strizzava e titillava dolcemente il capezzolo di quella libera.

Poi invertiva il gioco dei seni. Lucia godeva, godeva e godeva. Finalmente aveva un cazzo nella fica. E che cazzo! Dopo tutti quegli anni. Mentre Filippo le sussurrava con voce roca dall’eccitazione: “sei una vera porca, una puttana da riempire di sborra, zia Lucia. E io ti sfonderò, ti farò dire basta…”

Lei in cambio gli diceva: “oh, caro, caro… nipote mio! Fottimi, sfondami, fammi tua. Fai godere la tua zietta come solo tu, giovane stallone ventenne, puoi fare. In seguito cercheremo il modo per continuare, noi due: ti farò scopare e godere spesso, vedrai. Ti darò le chiavi del paradiso.”

A sentire quelle parole, il ragazzo prese a montarla con foga maggiore e una furia tale che Lucia a un certo punto ebbe un orgasmo talmente forte che urlò, perse il controllo e allagò il letto. Lui in quel frangente le sborrò dentro: lentamente ma continuamente, per due interi minuti.

Con fiotti regolari. Sembrava inesauribile. Si riposarono un po’. Si prepararono un tè. Dopodiché lei per ringraziarlo gli riprese a lungo in bocca l'uccello, lo portò di nuovo a morire di piacere e lo fece sborrare dentro la sua bocca. Ingoiò di gran gusto il suo seme fresco.

Anche qui finalmente di nuovo il sapore che preferiva di un uomo: quanto le era mancato! Adorava farsi venire in bocca e ingoiare un carico di sana e salutare sborra. Stavolta la venuta di quel cazzo benedetto fu più breve, ma il piacere sia del ragazzo che della donna fu ugualmente intenso.

Lei a quel punto gli spiegò il programma della prossima volta: lei avrebbe indossato il collare. Lui l'avrebbe dovuta tenere al guinzaglio e portarla in giro per casa, dandole degli ordini e facendosi leccare spesso l'uccello, le palle. Ordinandole infine di spompinare. Poi, una volta venuto, l'avrebbe dovuta sculacciare forte. Molto.

Quando avrebbe pianto e le natiche le si fossero arrossate completamente, solo allora lui gliele avrebbe dovute leccare e baciare. Per raffreddargliele e lenirne la sofferenza. Quella donna a lungo repressa voleva soffrire, piangere di dolore e quindi gioire. Voleva essere dapprima umiliata e infine posseduta. Dopo averle baciato e leccato le natiche, sarebbe dovuto passare con la lingua a lubrificarle a lungo l'ano. Per poi finalmente incularla e spaccarle il culo.

"Voglio che tu mi rompa il culo, con vigore. Mi prenderai per i capelli e non potrò sfuggirti. Anche se ti implorerò, anche se vedrai che piango, tu sfondami pure tranquillo. Io sogno di farlo così. Voglio sentirti sborrare nelle mie viscere. Da stasera mi preparerò, tenendomi lubrificata ogni giorno e cercando la sera di allargarmi l'ano con un dildo per facilitarti. Terrò dentro di me un plug di dimensioni XL ogni notte: lo farò solo per te, tesoro."

Al marito non aveva mai consentito di entrarle nel culo, ma ora che c'era lui, quel bel pezzo di ragazzone sexy, lo voleva ovunque nel suo corpo e con tutte le sue forze. Per legarlo ancor di più a sé, gli si sedette in grembo, gli diede i seni sul viso e se li fece di nuovo succhiare a lungo; lo nutrì di sé. Il ragazzo fu infatti felice, quando alcune gocce di latte si depositarono sulla sua lingua.

Filippo la succhiò avidamente per una mezz’oretta. Quindi si inginocchiò, le leccò rapidamente i piedi, poi decisamente più a lungo le mangiò la fica e così Lucia venne un'ultima volta. Prima di uscire, le diede un casto bacio sulla guancia e le disse semplicemente: “grazie, zia Lucia.” La donna arrossì timidamente. In fondo, lei era soltanto un altro essere umano, seminascosto dietro un portone. Con un grande cuore, semplicemente in cerca di risposte e di un po' d’amore.
“Sei sulla Terra, non c’è una cura per questo” (Samuel Beckett)

RDA
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4.04.25
Nulla fotte e sfotte come il tempo
Una sera d’ottobre, l’insonnia mi porta a stilare per la prima volta una playlist seria. Di quelle che a una fine ci arrivi, magari con le cuffiette sfondate, ma ci arrivi. Solo che l’impegno porta sonno e allora mi fermo, pensando “la finisco domani”.
E il domani arriva, sì, ma storto. Durante una visita di passaggio con una dottoressa che non avevo mai visto prima, scopro di avere un tumore enorme. Così, dritto in faccia. E da lì tutto corre, scivola, rotola. Ti senti come una pallina da tennis finita fuori campo, che passa da un piede all’altro. Ti trascini.
Quel Natale lo passi a occhi bassi, domandandoti se sarà l’ultimo. E a Capodanno, mentre tutti gridano e brindano, tu stai sotto il tavolo a ingozzarti d’uva, ché alla fortuna certo non ci credi, ma almeno un pezzetto di speranza vorresti tenerlo stretto.

Poi finisci in lista d’urgenza, perché quella massa cresce, ti ha già fregato un’ovaia e una tuba, e ti lascia con un taglio cesareo senza cesareo. Non sei madre, ma hai partorito una cosa di 3,5 kg. Un caso. SEI IL CASO. Quello particolare, quello silenzioso, quello che partorisce una massa di 3,5 kg in mezzo a una massa di donne incinte. Ed è brutto, perché qualcosa in te si zittisce, si muta, cambia. E certo, non è solo la pelle vuota che ti ritrovi a fine operazione, ma quel taglio cesareo che guardi, che ti crea problemi e fastidi. E un po’ stronza ti ci senti.
È uno scatto che nasce alla terza settimana di ospedale, all’ennesima mamma, nonna o parente che ti vede camminare a gambe strette, a passo lento, sostenendoti il ventre e applicando smorfie. Ti sorride e ti chiede se hai marito e di quanti giorni è tuo figlio. E tu rispondi che hai 22 anni, con lo stesso effetto di quando dicevi di averne 7 e che hai avuto un tumore. Certo, lo rovini quel momento. Eccalà, indelicata. Ti senti pure in colpa e quindi passi le tue giornate in camera, tra una fitta e l’altra, perché lo sai ci sono dolori che non si possono raccontare. Ti prendono alla gola, si fanno strada nelle ossa, e l’unica cosa che puoi fare è stringere i denti e aspettare che passi.

Dal 23 marzo al 15 aprile 2025 sono stata in ospedale. Non ero sola. C’erano pareti bianche, odore di disinfettante e farmaci, ma anche persone. Non so se il dolore affina le anime. So che le avvicina.
I. , con la sua forza silenziosa. S., coi suoi ricci e la tempra che faceva sembrare tutto meno pesante. R., e quella sua fede che non ho mai capito, ma che la teneva in piedi. E poi la signora P. , che entrava nella mia stanza cantando “Piccolo fiore, dove vai?” solo per farmi ridere, voleva addirittura piazzarmi col figlio, il grande.
E poi c’è mia madre ( di cui rapporto è sempre stato discutibile) . Tre settimane su una sedia. Senza mai cedere. Senza mai andarsene. Mi ha retto anche quando io non volevo più reggermi.
E poi ci sono loro, quelli che hanno aspettato ore fuori da una porta solo per vedermi un quarto d’ora. Che sono venuti anche quando io non ne avevo voglia. Qualcuno mi ha accarezzato i capelli in silenzio, qualcuno ha provato a farmi ridere. E tanto bastava.
Poi, c’erano la musica e la scrittura. Le uniche due cose che non mi hanno mollata. Sono rimaste accanto a me, sul divanetto con i libri, quando il resto spariva. Quando la notte sembrava non finire mai e il giorno arrivava solo a disturbare.

Essere pazienti significa perdere il controllo sul tuo tempo, sul tuo corpo, sul futuro. Significa guardarti allo specchio e chiederti se sei ancora tu. E accettare che la risposta sarà sempre “non lo so”.
La sanità è fatta di luci e ombre. Ho incontrato mani che mi hanno sollevata, occhi stanchi ma onesti. E ho visto sale d’attesa troppo piene, corridoi troppo vuoti e infermieri che meriterebbero molto di più di quanto ricevono.
Ora sono tornata a casa. Con le cicatrici, le notti insonni, le smorfie ogni volta che mi alzo dal letto. Ma soprattutto, con addosso i volti di chi ha fatto questo pezzo di strada con me. Donne giovani, madri, figlie, tutte con un dolore addosso e un futuro da ridefinire.
Ascoltarsi non è un lusso. È un dovere. Smettetela di rimandare. I segnali arrivano, anche se fanno paura. E ignorarli non li fa sparire. La prevenzione può salvare. Anche se non salva tutto, può salvare qualcosa. E qualcosa, in certi momenti, è tutto.
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꧁ MY MASTERLIST ꧂
Una miriade di pensieri pervase l’astuta e machiavellica mente del Dio degli Inganni, appena sedutosi sul divanetto del salotto.
Elucubrazioni mentali dedicate nondimeno che alla graziosa figlia di Bjorn e Sigrid, affiancata da uno scellerato come suo futuro consorte.
Preferì lasciare il ricevimento prima delle loro imminenti nozze, permeato da un’insana gelosia finora repressa agli occhi dei presenti.
Bramava quella giovane donna dalla bionda chioma, salvandola da uno spregevole destino filato dalle Norne.
Eppure comprese a proprie spese che nel giro di poche ore non le sarebbe mai più appartenuta.
Odiò entrambi con estremo ardore, crogiolandosi nella più completa solitudine dentro gli sfarzosi appartamenti privati.
La consueta lettura notturna lo avrebbe aiutato a distrarsi da tutto il resto.
Afferrò il tomo riposto sopra il tavolo, leggendo a mente ogni singola frase scritta.
Sfogliò le svariate pagine del libro, finché l’udire di un lieve bussare non interruppe l’azione.
Da dietro il portone, l’inconfondibile voce di Sigyn non poté far a meno di sorprenderlo.
L’accolse con innata freddezza, permettendole di accomodarsi.
Costei indossava una semplice veste bianca e i capelli erano completamente sciolti.
“A cosa devo la vostra inaspettata visita, Lady Sigyn?”
Proferì con un punto di domanda, tagliente e affilato come uno dei suoi immancabili pugnali.
Sigyn notò l’atteggiamento pacato, ma ben distaccato e gelido nei suoi confronti.
Covava rabbia, risentimento e forse anche dolore a causa di ciò che sarebbe avvenuto l’indomani.
“Sono qui per te, Loki di Asgard. Non lascerò che le nostre strade si separino, almeno per stanotte.”
Confessò informale, decretando che lo avrebbe amato per l’ultima volta.
Loki emise un risolino amaro, squadrandola rapace.
Le gemme azzurre della bella Vanir si scontrarono col verde intenso dei suoi occhi, perdendosi l’un l’altra.
Un lento esame visivo da sconvolgerne gli animi inquieti.
Ultimato di studiarsi a vicenda, Lingua D’Argento riprese la parola.
“Hai corso un gran bel rischio, venendo qui; che nessun Einherjar abbia avuto modo d’incrociare la tua presenza. Puoi ritenerti fortunata.”
Riconobbe sardonico, ghignando maliziosamente.
Dopodiché estrasse dalla credenza una bottiglia di pregiato idromele, versando il liquido ambrato in due appositi calici argentati.
Glielo porse cortese, sorseggiando il proprio con eleganza.
Sigyn saggiò il contenuto, definendolo di ottimo gusto.
“Non proverò mai simili sentimenti per Theoric, sei tu l’uomo a cui voglio donare il mio cuore.”
Precisò lei, stanca di celare le proprie emozioni.
Si erano odiati e in seguito amati nell’arco di una sola annata, tra litigi e incontri carnali davvero intensi.
Una potente attrazione sia fisica che mentale, travolgendoli a pieno.
“Esserti fedele sempre, nonostante tutto. Non m’importa dei pregiudizi che circondano la tua persona, non più. Sono certa che tu sia migliore di così.”
Continuò la graziosa dama, dichiarandosi apertamente a colui che ordiva imbrogli con estrema facilit��.
Confessioni da smuovergli l’anima, inducendolo a posare la coppa sul tavolo.
“Non temi la mia indole volubile e menzognera, piccola e sfacciata Vanir? Che possa usarti per i miei crudeli scopi?”
Mormorò beffardo vicino al suo viso, desideroso di fiondarsi sulle sue morbide labbra.
Ella dissentì con una sicurezza e determinazione mai viste prima, stupendo il principe.
“No, perché non ne saresti capace quando si tratta di me.”
Affermò decisa, dimostrando di sapere cosa volesse.
Le dita piccole e delicate si posarono sopra le sue, infondendogli conforto.
Le loro bocche si cercarono dolcemente, perdendosi nell’oblio dell’eccitazione.
Bramarono molto di più, proseguendo coi baci sempre più insistenti e passionali.
La donna fu distesa sul sedile dalla stoffa verde con eccessiva grazia, lasciandosi andare a lui.
Premure docili, ma al contempo furiose da renderla schiava delle sue attenzioni.
“Stolto vigliacco di un soldato, non la otterrai mai.”
Giurò vendicativo tra sé, intento a torturarle avido il collo.
Sigyn gemette e sospirò di piacere, invocando il nome dell’amato.
Il Signore del Caos si dilettò a vederla in balìa del suo potere, riserbandole parole seducenti.
L’Amica della Vittoria fremette di ardente desiderio, ansimando per la voluttà.
“Ho bisogno di te.”
Confidò sommessa, stupendo l’Ase mentre lambiva e baciava la pelle soffice della fanciulla.
“Facciamo l’amore, ti prego.”
Supplicò poi, inspirando l’odore di cuoio e muschio.
Non ci pensò due volte che la prese in braccio, conducendola in camera da letto.
La depose sul materasso, rimuovendole il candido abito per assaggiarla ovunque.
“Appartieni a me, Sigyn di Vanaheim: vedi di rammentarlo in eterno.”
Sancì risoluto il Fabbricante di Bugie, trapelandone comunque la devozione.
“Lo so.”
Soffiò la bionda, sorridendo mesta.
Ella cominciò a spogliarlo dei suoi indumenti, abbandonandosi alla libidine.
Il sagace ingannatore del regno d’oro stabilì un nuovo contatto con le labbra, divenendo sempre più profondo.
Mugugnarono inebriati, amandosi disperatamente.
Separarsi era come commettere un orribile sacrilegio.
“Ti amo, Loki.”
Pronunciò commossa la figlia del generale Vanir, baciandogli uno zigomo.
Il moro non rispose, sconvolto da una rivelazione così autentica e colma di romanticismo.
Non era abituato a simili manifestazioni affettive da parte di donne che non fossero sua madre.
Afferrò il dorso della mano, elargendole un bacio carico del medesimo sentimento.
Sigyn arrossì per via del gesto, ridacchiando felicemente.
Consumarono l’amplesso, rotolandosi tra le lenzuola di seta smeraldine.
Si ritrovarono ansanti e sudati, l’una tra le braccia dell’altro.
“Sfiderò la sorte se necessario. Theoric e tutti coloro che sono favorevoli alla vostra insulsa unione non l’avranno vinta.”
Garantì duro e al contempo determinato, sfiorandole la chioma lucente.
“Pensi davvero che i tuoi stratagemmi funzioneranno? Odino non ne sarà affatto lieto.”
Replicò titubante la bellissima Vanir, blandendogli il torace glabro.
“Gli Æsir non conoscono la resa, cara Sigyn: lotterebbero con le unghie e con i denti pur d’ottenere ciò che spetta loro di diritto. Mio padre dovrà mettersi l’animo in pace non appena lo saprà.”
Una pericolosa promessa che avrebbe potuto minare l’equilibrio tra un’antica alleanza, durata per diversi secoli.
“Se dovesse accadere qualcosa d’irreparabile a te, non me lo perdonerei mai. Non meriti di pagare l’alto prezzo per la mia infedeltà verso Vanaheim.”
Loki invertì le posizioni, gravandole sopra: fu lesto a stringerle i polsi, però senza recarle dolore.
“Credo sia il caso di rivalutare il vero concetto di fedeltà, principessina. Non recherai alcun torto, seguendo i tuoi desideri. Riscrivere la propria storia, cambiando le regole del destino è un atto puramente leale verso sé stessi. Non lasciare che nessuno t’intralci, sii libera.”
La Dea rimase piuttosto colpita da quelle frasi ferree, ma terribilmente veritiere.
Annuì silente, scrutando il fisico scultoreo e asciutto del guerriero su di sé.
I lunghi riccioli d’ebano le solleticarono la fronte, vogliosa d’accarezzarli.
La liberò dalla presa, concedendole d’essere toccato e riempito d’adorazione.
La luce fioca e tremolante delle candele la resero ancora più incantevole e sensuale dinnanzi ai suoi occhi.
Rinunciare a quella donna sarebbe stato impossibile per uno del suo calibro.
Avrebbero passato assieme la loro ultima notte, percorrendo i sentieri più insidiosi e oscuri della lussuria.
Un turbine di sfrenata follia, mescolandosi all’indissolubile legame instauratosi nel corso del tempo.
Un amore devastante da superare qualsiasi ostacolo.
𝑭𝒊𝒏𝒆
One Shot:
~ Mischief And Fidelity ~
Name Chapter:
~ The Last Night ~
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20 Aprile 2025 - Pasqua
Parte 3/3
Anche oggi, altro giorno altra corsa.
La stessa amica giapponese che avevo invitato a cena, mi aveva chiesto di andare a casa dei suoi genitori per vedere un divanetto che vorrebbero buttare via. Poiché sto traslocando mi hanno chiesto se lo volevo, assieme ad altra roba che non usano più.
(In Giappone si paga una tassa aggiuntiva sui rifiuti ingombranti, quindi se riescono a regalare/rivendere roba, tanto meglio.)
Il divanetto in realtà lo volevo a prescindere perché la stanza è praticamente vuota e la mia amica mi aveva fatto anche una foto... quindi tutta sta necessità di vederlo dal vivo non c'era però vabbè. La sera stessa poi mi dice:"Mio padre ha detto che vuole cucinare la pasta anche per te, quindi rimani anche a pranzo!"
Figuriamoci se dico di no a un pranzo gratis però, ho pensato... aeh e mo chissà che cazzo di pasta mi combina. Però vabbè qua se magnamo tutto figuriamoci.
Quindi di nuovo sveglia e viaggio in treno per arrivare a destinazione verso la prefettura di Saitama, a nord di Tokyo.
La casa è bella grande e ha anche un sacco di verde intorno. Anche dentro è molto più spaziosa di quella dei genitori dell'altra mia amica giapponese (o almeno, questa è stata la mia impressione), nonostante sia piena zeppa di roba (le casi giapponesi certe volte sembrano discariche ordinate; in casa avevano persino una bicicletta...).
Il padre ha seguito un corso da cuoco e gli piace tantissimo cucinare, infatti è praticamente lo chef della casa perché la moglie non cucina niente. Gli spaghetti che ha preparato alla fine non erano per niente male e, anzi, sono stati preparati proprio come li farebbe un italiano: tanto olio, sugo e olive nere. Top.
Poi c'era della carne con qualche verdura e foglia di insalata e per dessert mochi con fagioli adzuki (il mio dolce giapponese preferito).



La madre è letteralmente un personaggio. Oltre a fare sempre le stesse domande in continuazione, è proprio simpatica e fa un sacco di battute. Poiché la mia amica tra qualche mese andrà a fare un viaggio in Sardegna la madre ha fatto:"Porta anche me!!" "La prossima volta dai" "Ma per la prossima volta morirò!! Poi te ne pentirai e penserai:'Se solo l'avessi portata in Italia quando me lo aveva chiesto...'" - io sono letteralmente scoppiata a ridere per come l'ha detto.
Dopo mangiato, mi hanno chiesto se volevo un po' di verdure del loro orticello perché loro non riescono a finire tutto. Ovviamente con il costo che hanno le verdure qui, non posso che dire di sì e quindi mi sono guadagnata dei cipollotti delle erbe e dei baccelli di piselli. Quando abbiamo riempito una bustina di tipo 300gr di baccelli ha fatto "questo ti basta per una settimana!" e io:"Veramente questo me lo mangio in una volta...". (Le loro porzioni già sono piccole ma con la verdura hanno proprio la manina corta... posso capire pure dato il prezzo, ma è soprattutto un fatto culturale. E io con quelle quantità, non me lo sento nemmeno nello stomaco).
A quanto pare, la madre ha il pollice verde e, come molti vecchietti fanno qui anche attorno a dove vivo ora, si sono comprati un pezzo di terreno altrove dove hanno un altro orticello in cui coltivano di tutto. Presa la verdura, mi hanno promesso pure di darmi pomodori e melanzane quest'estate (super felice perché sono verdure costosissime) e poi ce ne siamo andate.
Loro hanno pure viaggiato un sacco e hanno visitato tantissimo l'Europa: Spagna, Italia, Portogallo, Austria, Estonia, Lituania... ma pure Taiwan, Sri Lanka e un paese in Africa che ora non ricordo.
"Ora non ci sono più soldi quindi niente più viaggi ahahah", segno che i tempi prima erano molti migliori (poi ci lamentiamo dei giovani) e che i vecchietti con la pensione se la passano non troppo bene.
È sempre curioso entrare nella vita dei vecchietti giapponesi... mi piace proprio assai.
Tornando a casa ho pensato ai miei nonni, che avrei dovuto chiamare per far loro gli auguri, ma che non ho chiamato perché questi giorni sono emotivamente duri e non ne avevo voglia. D'altra parte nemmeno loro hanno chiamato me, l'unica nipote lontana... si vede che tra i festeggiamenti non ero tra i loro pensieri, per cui va bene così.
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Seeing you write in italian made me feel so proud of my studies for being able to understand it all lol. But now I'm really curious how a whole fanfic written in that language would be like coming from you! I know a lot of people hate writing this sort of content in their mother tongue (me included) but would you ever think about making a short piece anyway? It's obviously fine if not, I'm just curious is all, the foreign languages major in me wants to study the difference in your prose so bad
Not to play Sherlock Holmes, but I’m guessing you’re from the same general area of Europe—probably not Spain, so I’d bet on France, Belgium, Germany, or somewhere close by.
And that ties into my answer: I actually write poetry in Italian, mostly because English has some serious limitations. So, for fanfiction, I often have entire sections in my drafts written not just in Italian but in whatever language feels most natural at the moment. Then I have to hunt for the best translation to match the meaning.
I studied languages too, and I can tell you that Italian flows like water. The funny thing is, in my Ghost fanfiction, I had entire parts written not in Italian but in Latin.
But, hey, indulging you costs me nothing—what do you say?
(silco's office)
Lo studio era modesto, ma ricco al contempo: un vecchio grammofono d'ottone riproduceva distrattamente una melodia sommessa che aleggiava per la stanza, aggrappandosi alle tende e ai pennacchi del tappeto che, con i suoi decori dorati, faceva fieramente capolino da sotto la scrivania di massiccio legno intagliato a mano. La luce verdastra filtrava da una finestra di vetro e piombo scuro come il carbone, dall'intricato decoro raffinato, creando complicati giochi di luci che davano a quel luogo un aria a tratti surreale.
Eri nella stanza del demonio, e mai cosa fu stata più palese.
Eppure qualcosa, forse l'odore caldo del tabacco, o i giocosi scarabocchi azzurri e rosa che ricoprivano le superfici, sembravano rivelare la vera natura di quel posto: poco formale, a tratti amichevole, addirittura domestico. Se non avessi avuto la certezza che l'uomo seduto davanti a te non ti avrebbe ucciso sul colpo, ti saresti tolta la giacca e l'avresti abbandonata sul divanetto. Ma con la consapevolezza dell'esito che avrebbe portato quella tua stupida decisone, optasti invece di sederti composta sulla sedia davanti a lui.
"Signore."
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Sempre avuto un rapporto molto forte con mio nipote. Forse perché sostituisce il figlio maschio che non ho avuto.
Lui parla e si confida con me molto più che con suo padre e con sua madre, mia figlia. Mi ha sempre raccontato i suoi sogni, le sue idee, le sue emozioni, i suoi problemi. E, da quando è diventato grande, è a me che racconta le sue cotte e le sue delusioni d’amore.
Il mio tesoro non ha fortuna con le ragazze. Saranno le ragazze d’oggi, che disprezzano i suoi modi gentili, timidi, la sua dolcezza. Quante volte ha pianto raccontandomi dei suoi amori non corrisposti. Eppure non è brutto, è solo impacciato. Da nonna l’ho confortato e incoraggiato. Quante volte l’ho stretto a me e accarezzato.
“Dovrei trovare una ragazza come te, nonna…” mi dice. “Sono solo una vecchia signora…” replico. “Sei bellissima, invece….”
Che tenerezza queste parole. E che piacere notare quando mi guarda, non di rado le gambe, e che tenerezza quando gli faccio capire che mi sono accorta e diventa tutto rosso. E che languore mi viene quando lo abbraccio stretto….e sento che si irrigidisce per evitare di stare troppo a contatto con me….”come vorrei trovare una ragazza che mi abbracci come fai tu, nonna….” “E come vorrei trovartela”, penso, senza dirglielo.
L’ennesima delusione d’amore lo ha fatto proprio soffrire. “nessuna mi vuole, nonna, nessuna mi vorrà mai…” Povera stella, penso, mentre lo stringo al mio petto, gli accarezzo il viso e i capelli, cerco di confortarlo, quanto vorrei dimostrarti il contrario….
Stiamo andando a un matrimonio di un familiare. Fuori città, ci fermeremo tutti a dormire in hotel. Mio genero guida, mia figlia sonnecchia sul sedile davanti, io e Marco siamo dietro.
È già buio fuori, in auto c’è silenzio. Marco seduto accanto a me sul sedile dietro sembra che insegua i suoi pensieri. Ma ho visto che spesso il suo sguardo è andato sulle mie gambe. Ne sono lusingata, come lo sarebbe ogni donna. Le muovo e le accavallo. La gonna sale. Le scopre. Lui non perde un movimento. Puoi anche fargli vedere il reggicalze, mi dico, che c’è di male, questo ragazzo si deve svegliare….
Avvicino le labbra alle sue orecchie e gli sussurro: “Ma che guardi?” “N..n..niente, nonna”, è la ovvia, ma bugiarda, risposta.
“Ti piacciono le mie calze?”, insisto, provocatrice. Gli prendo la mano, la guido sulle ginocchia, poi sulle cosce. Lascio che gonna e soprabito vi ricadano sopra per nasconderla. Mio genero è assorto nella guida, mia figlia, sua madre, dorme. E Marco continua il viaggio con la mano che accarezza le mie gambe…..
Il matrimonio è noioso come tutte le cerimonie. La folla di parenti mi da la scusa per evitare Marco. Lo guardo ogni tanto, a distanza, solo, un po’ incupito, non simpatizza con nessuna delle altre ragazze presenti. Peraltro tutte brutte o insipide. Loro.
La festa è finita, tutti salutano e vanno via. Noi siamo troppo lontani per rientrare in nottata. Ci hanno riservato una camera in albergo. Una per mia figlia e mio genero, Marco ha la sua, io la mia.
Quando entro, mi sdraio un attimo, a riposare e ..pensare.
Gli scrivo un messaggio: “Marco, tesoro, non riesco a prendere sonno, mi ci vorrebbe una boccata d’aria. Ho paura però da sola a quest’ora. Mi faresti compagnia? Tra dieci minuti giù nella hall?”
Ovviamente risponde di sì. Ma io faccio passare, dieci, poi quindici, poi venti minuti. Alla fine gli scrivo di nuovo, un nuovo messaggio: “ho cambiato idea. Sono stanca. Vieni a trovarmi in camera?”
Quando bussa gli apro subito. Sbarra gli occhi nel vedere sua nonna accoglierlo in sottoveste. Da quel che è accaduto in macchina in poi non capisce più cosa stia succedendo. Lo faccio sedere sul divanetto che c’è in camera. Sufficientemente piccolo da stargli praticamente addosso. Gli prendo il viso fra le mani, lo costringo a guardarmi negli occhi. “Volevo stare un po’ sola con te” gli dico. Gli faccio appoggiare il viso sul seno. Prendo la sua mano e, stavolta, la guido decisa, non più solo sulle gambe, ma proprio in mezzo alle cosce.
“Pensi sempre che sia bellissima, tesoro?” Un suono strozzato esce dalla sua bocca, a metà fra un sì e un singhiozzo di timidezza.
“Non è vero che nessuna donna ti vuole, amore.” Lo bacio delicatamente sulle labbra. “Ti mostrerò io come ci si comporta con le donne, tesoro. Ti insegnerò io….come si fa l’amore….”
Lo porto sul letto dove si fa spogliare docilmente. Accarezzo il suo corpo. Solo al momento di abbassargli gli slip, il pudore lo trattiene, mi prende il polso. Ma non basta certo questa timida resistenza a fermarmi. Adesso è nudo, e gli accarezzo il pene, duro, grande.
Salgo su di lui mettendomi a cavalcioni. Accarezzo sensualmente il suo petto, i suoi capezzoli, lo sento fremere sotto di me. Mi abbasso su di lui. Quando lo sento penetrarmi mi scappa un gemito di piacere. “Accidenti, nipote, le ragazze di oggi non capiscono proprio niente….” , penso.
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ieri sera stavamo seduti in un piccolo piccolissimo teatro d'un paese si dice sperduto solo perché ti senti trovato al centro del mondo? nelle colline marchigiane, poco più a sud di me, con le sedie separate che ti potevi spostare se non vedevi bene ché quello davanti aveva i capelli tanti ricci, e metterti vicino al palchetto a terra, con quell'altro appoggiato al davanzale che ti respirava nell'orecchio per quant'era a pochi centimetri dalla nuca tua, e c'era il fumo della macchina del fumo dietro a ogni suonatore, tre, che faceva le croci e i colori diversi, e sembrava l'anima che esalava una dal violoncello e una dal pianoforte e una dagli strumenti elettronici, mi manca la sapienza per nominarli. non c'erano pellicce e velluti, o c'erano ma intervallati dalle cornici di foto appese come a casa mia, tra le scalette da un ordine disordine a un altro, del paesino, dello skyline e del teatro e poi degli attori, mica per forza passati di lì, magari solo perché amati, e poi vecchie locandine con la gran cantante lirica che diede onore al paese, in cui c'e' solo un bar uno, che fa anche la pizza e gli hamburger e gli aperitivi le feste di compleanno e un via vai di asporto come metropolitano, e sta accanto al teatro e poi sotto la scalinata della gran chiesa, e pei vicoli non c'è quasi nessuno, sono tutti al bar mario, pure noi, ma il non-nessuno che passa di lì e ti dà le indicazioni è ironico, fa ridere come fa spallucce del vuoto in cui vive, è sapiente e sorride, una sagacia saggia, che chissà perché ti stupisce. Teatro pieno, pochi stucchi, musica d'un'ora d'altrove, gente che non si conosce che saluta, ti saluta, mi saluta, che ti invita a usare l'altro bagno perché quello all'entrata non ha la ciambella, grazie la mia amica ce la farà comunque. un divanetto dove aspettare prima, dove aspettare dopo, in fila per comprare chissà il vinile svedese. fuori ci stava la luna a metà perfetta, con la gobba verso l'alto, ombrellino senza bastone. Era freddo ma anche no, era d'aprile, io prima, durante, dopo, ma durante sopra a tutto, la musica e le spalle e le teste degli estranei nel fumo nel colore negli accordi, quando spilucchi un punto a fuoco del tuo qui ed ora: a cosa pensi? Cercavo di fermare, nominare tutto questo, a me raccontarlo, per la storia mia, o piccolo, o sperduto, anfratto di tempo salvo. Era fortuna, la sensazione panica, forse passeggera, forse verrà rubata, forse è inafferrabile, eppure fortuna, qui sulla poltroncina incastonata tra noi gente che ci salutiamo, lo sappiamo che questi sì sono minuti, ore di fortuna, secondo me lo si sa, sempre più, tocchi con mano quello di cui prima non t'accorgevi, pure questa l'ho sentita sì, una fortuna. piccola, sperduta.
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La sequenza di oggi: letto - colazione - divanetto
Dopo farò qualcos'altro di totalmente inutile, proprio come piace a me
Buy me a coffe / offrimi un caffè: coff.ee/sullecose
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Sono molto eccitato per Dark! Jude x Reader X Dark! Cardan parte 2! Spero che tu stia bene e non vedo l'ora di leggerlo quando lo pubblichi
(Scusa se il mio italiano è pessimo, non è la mia prima lingua)
Ehiiiii Anonimo.
Spero vivamente di riuscire a finirlo presto anche io e spero che ti piaccia.
Intanto nell’attesa posso darti una piccola sbirciatina.
Jude si spostò sul divano, la posizione rilassata e morbida venne sostituita da una seduta più rigida e severa. Aveva tirato troppo la corda. ❝ (Nome) non mi ripeterò un’altra volta: vieni qui!❞ Il tono era inflessibile, niente più morbidezza né conforto erano mischiati in modo delicato a quella nota di seduzione. Ora era solo l’inflessibile Regina che temeva sempre di incontrare. Un semplice gesto silenzioso fu l’ultimo avvertimento.
(Nome) si mosse a flebili passi verso Jude che la guardava in ogni spostamento.
Con i passi di una preda di fronte al predatore, (Nome) fece per sedersi sul divanetto. Di fianco a Jude ma sempre ad una distanza di sicurezza. Una distanza che le avrebbe almeno permesso di pensare e realizzare quello che le stava per accadere.
❝ No. ❞ Jude parló senza troppa fretta. Gli occhi puntati su (Nome) e la mano impegnata a far ballare il liquore nel bicchiere. ❝ Non serderti. ❞ La mano libera indicó lo spazio di fronte alla Regina. ❝ Inginocchiati per la tua Regina. Qui di fronte a me… ❞ Una strana luce brillava ad ogni parola, e un tono oscuro e profondo diede un significato diverso a quelle parole, e ora lo stava imparando sulla propria pelle. ❝ … Cosi che possa vederti meglio. ❞
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Breve dialogo con l'intermediario di una agenzia immobiliare milanese.
- Qui abbiamo l'angolo cottura (sul balcone chiuso a vetri)
Questo e' il soggiornino (gia' quel diminuitivo e' tutto un programma) . Certo, non so dove si potrebbe mettere un divanetto ma oggi il mercato ha soluzioni sorprendenti.
Io: scusi, quella e' la cabina armadio?
- no, e' la camera da letto.
Poi non ricordo nulla che sono svenuto.
Tutto quel po-po di cas-etta lillipuziana alla modica cifra di 250mila euro. Caxxo, un affare!! 😱😱
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sangiovanni che palesemente si era addormentato su qualche divanetto ed è stato svegliato di soprassalto trenta secondi prima della presentazione di queen Loredana
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𝙇'𝙚𝙙𝙪𝙘𝙖𝙯𝙞𝙤𝙣𝙚 𝙨𝙚𝙣𝙩𝙞𝙢𝙚𝙣𝙩𝙖𝙡𝙚
Alcuni giorni fa stavo comprando delle scarpe in una grande rivendita cittadina. Molto grande e scarpe per tutti i gusti ed età.
Seduto su un divanetto circolare stavo provandomi delle "skechers" quando, circa mezzo metro accanto a me, sento un piccolo urlo prima ed un crescente pianto accorato poi di un bambino.
Mi volto alla mia destra e vedo, vicino a me intento anche lui in una prova di scarpe, un padre sui 40 anni con la faccia scocciata. Accanto un figlio di poco meno di 4 anni che piange, disperato, ferito più moralmente che fisicamente.
Arriva la madre e chiede "ma perché l'hai colpito?"...il padre "non mi dava pace!".
Mi sono chiesto: ma cosa sarà mai successo qui, a pochi centimetri da me, tra un figlio di 4 anni ed un padre di 40, di così grave, di così intenso, al punto da "togliere pace" a qualcuno?
Poco, probabilmente pochissimo. Eppure la procedura per insegnare al figlio a co-regolarsi in quel contesto è apparso colpirlo. Dal pianto, che si è protratto a lungo (ancora mentre stavo pagando alla cassa) e chissà per quanto ancora, è evidente che è la delusione, l'offesa, la mortificazione di un gesto di rabbia del padre contro di lui che l'ha così tanto insultato. Al punto che anche la madre non è apparsa capace di contenerlo.
Osservando seppur con tatto la vignetta familiare, mi sono reso conto di quanto quel padre non fosse consapevole di cosa ha prodotto. Ed è molto probabile che, il padre del padre (o madre) abbia usato con lui lo stesso metodo, alla stessa età, per ottenere una sorta di regolazione comportamentale ed emotiva.
Del tutto ignaro ipotizzo sia il nonno di questo bambino che l'attuale padre che, colpire fisicamente un figlio, scarica solo la propria frustrazione, ma non produce nessuna educazione. Nessuna capacità di ricomporsi emotivamente, di sentirsi regolati.
Ma soprattutto tramandando questa incapacità di generazione in generazione. Favorendo giovani adulti discontrollati, irritabili, irrispettosi dell'altro perché - nessuno - ha favorito un meccanismo di contenimento dei propri (piccoli o grandi) disordini interiori. Che anche a 4 anni si possono avere, si ha persino il diritto di avere.
L'educazione sentimentale, ben prima di farla a scuola ai ragazzi, dovremmo trovare il modo di farla a questi più o meno giovani genitori. Dove vivono, dove lavorano, dove si trovano con i loro figli. Dovremmo inventarci degli spazi (forse anche a scuola perché no, recentemente ne ho avuto occasione) nei luoghi di vita di questi giovani adulti, dove aprire uno spazio robusto di riflessione su questi temi. Sul pericolo del passaggio inter generazionale di una scarsa educazione sentimentale.
Nicola Artico
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