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beholdthebornking · 5 years
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Purista. Incisiva. Senza tempo.
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beholdthebornking · 5 years
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Tutto è voluminoso in questo secolo. Niente è monumentale. A parte te.
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beholdthebornking · 6 years
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C'è un margine sottile, una linea invisibile, uno stretto ponte di cristallo che divide, ma collega, realtà ed immaginazione. Ci piace pensare che la prima sia brutale, efferata e crudele, mentre nella seconda si celino ogni genere di bellezza, di sogno recondito, di salvifica purezza. Eppure nella quotidianità è di solito nascosta più che altro la noia, una routine rodata che nel suo essere scontata diventa grigiore e malinconia; di rado ci troviamo di fronte al'orrore ed anche quand'è, esso diventa eccezione inaspettata, un frammento di metallo lucido che ci taglia e fa sanguinare prima d'esser in grado di ritrarsi. Nell'immaginazione invece c'è spazio per ogni fantasia, ogni torbida essenza di follia, per l'inganno, per l'angoscia e per il rancore. Favoleggiamo spesso il male che vorremmo assaporare, ma non osiamo concretizzare. Ed allora dov'è il candore e la nobiltà di ciò che si cela nei reconditi angoli bui del nostro immaginare, cosa si annida dietro le nostre apparenti idee luminose? Datemi della banale realtà, condita di pressapochismo e ovvietà ed io dormirò quieti sonni, ricchi di incubi.
Polvere. Disuso. Raschiate di sabbia. Il miasma è quello indemoniato del catrame, quello ferrigno dei tiranti, quello sbiadito, gemmeo, scosceso, d’un ematosi difficoltosa. La mole delle spoglie esagita vago scossone, mentale prima che fisico. Espira. Un vezzo fine di traspirata incolla panni del talamo alle gambe, alle braccia, stempera l’alito di costanza affossandolo in una mezza agonia. Adirante si desta, quasi di soprassalto, senza graffiare rumore oltre il colpo di reni, vagamente fonico, che lo riporta tangibile. Gusto, ottica, strimpellano confine, carattere, di quel vano a popolare un blindo sotto il Delaware. Tachipnea un atto ventilatorio che lo smuove appena verso l’alto. Cemento armato. Camano antisabotaggio. Quattro brandine arcuate di sagome. Plafoniere futuristiche sbiancate degli scatti termoplastici. Ridondare lontano, quasi d’ovatta, di battenti da torpedine. Sobilla la spannata della destra ad infilare il taglio sferzato dal sonno, dita affusolate che impestano le radici di un ordine che è più liberante che consueto esercizio di stile. Sbassa nuovamente il capo sull’ammorbidire della fodera in gommapiuma. Lo sguardo s’incastona, per una dozzina di secondi, a ridosso dell’abside durevole, frenetica, con la quale il fosso aderisce anatomia, sotto una valanga d’acqua insanguinata. Rivolta sfogliata, viride, smaniosa di pratica, su quel silfo arroventato che fionda il tondeggiare smagliato della schiena sotto l’incipiente crollare di fiotti fangosi, del tessere azteco di un color cacao sulla conciata scattante, imperitura, dissidio vivente roboante di letargo. Calca la Moglie per un momento, arrota la mandibola e sfratta l’espressione di durezza incalcolabile, vessato dall’orrore, dal panico, di ribadire un ciclo, che lo raggira con la foggia di un vecchio amico, tornato ad assillarlo. Bisticcia pressochè antologico, visivo, col fervore intenso di un allarme fulmineo, diseredante compimento. Si alza, scoppia d’un varco muscolare che lo lascia quasi stremato, prostrato, lo porta a vacillare brevemente. Inerte raccoglie il gelo, per le piante dei piedi nudi, da un assito che lo radica, che forgia e cristallizza l’intensità di un’epoca che lo impicca, ancora. Oppone ed incorona l’ossimoro piacente di un incanto che gira su se stesso. Ossa che vanno a fuoco. Fra le dita ritrova, d’inerzia, il tritare del tabacco, lo strozzare della cellulosa, l’acidulo remare del filtro. Una fiammella che sbotta dallo zippo. S’intossica di distrazione, assorbendo nicotina, spalla destra impelagata al telaio della soglia, racimolando il tombale segreto di un assalto battente, da disimpegnare.
Datemi del raro miraggio, condito di acuta originalità ed io non dormirò tormentati sonni, ricchi d’ambizione, avvinghiando nozione al paradosso. Verità controcorrente. Falsità convenzionale.
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beholdthebornking · 6 years
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September 20, 2027 - 05:12 AM
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Häagen & Kinder Sept. 20, 2027
“Adventure is out there.”
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beholdthebornking · 6 years
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Farinoso impiccare, scocciato, d’un asma soffuso, ove l’asciugare lampante del Sole disperde Maestà, Nume, entro la statura smagliante di un empireo ferito, soffocato. Infernale titubare aranciato si schianta, focale, sulla couche cristallina dell’ampio pannellare dell’infisso, fotocatalitico, idrofilo e autopulente, che ha perso piglio sul panorama sottostante. Cento piani sulla Strada. Fra le Nuvole. In mezzo al Nulla. Lo scocca dello Smartphone residua un baluginare scostante dei Pixel superiori, cassati in una falciata di lento fulgere, a definire decine di smaccate entro un’orario ed entro un animoso contatore di notifiche, che vibra e rovina come l’annunciarsi d’anime alla Ferocia Illuminata che custodisce l’Acheronte e il suo passaggio. Un silenzio disarmante svuota d’insistenza il varo d’un regime che ancora non ha soggiogato. Un Ufficio che ancora non sente suo. Vano di qualsivoglia indotto personale. Il sassoso spannare di ambedue le mani vortica, ad aderire, sul volto. Cinge di morigerata sobrietà il varco scatenante che è un morbido, dissolto, sferrare espressivo. L’intralcio delle dita, dei puntelli operanti scelte, indicativi, figurati, i polpastrelli, scapestrano l’attacco della chioma, seviziata dell’unto traspirare di una temperatura che sbrocca il grondare del guasto, del livore, del veleno, di quella Città come dell’apogeo della sua essenza, impalcatura ripida e instabile da fondere, per impalare certezza. La schiena è piegata, apporta appena quella posta chinata. I gomiti raschiano basamento sulla cera sregolata del piano in rovere dal sipario futuristico, sostenendo una testa che gracile annoda se stessa al pregio andante, e mediocre, di un adozione fatale.
E, per l'amor di Dio o in qualsiasi altra cosa in cui tu possa credere: tira fuori i coglioni e reagisci in maniera utile, costruttiva ed intelligente. Non necessariamente razionale, ma intelligente e smettila di compiangerti, perché, a quelli come noi, non serve la compassione, non serve il compatimento e non serve nemmeno essere assecondati. Noi siamo fatti per dominare e conquistare, ricordatelo sempre. Noi siamo squali, noi mordiamo, non ci facciamo mordere, noi prediamo, soggioghiamo, umiliamo, usiamo e sfruttiamo, pur di arrivare dove vogliamo arrivare, ma siamo umani, Arthur. La nostra pecca è questa, il nostro punto debole è esattamente questo e, come ogni umano, abbiamo bisogno di qualcuno che ci stia vicino, che ci accetti per come siamo e con cui possiamo deporre armi ed armatura ed essere liberi di mostrarci interamente, con cui condividere i momenti di trionfo e a da cui farci leccare le ferite dopo le sconfitte che prenderemo durante tutta la nostra vita. Perché è questo il destino dei condottieri: vincere e perdere fa solo parte del gioco. E tu, Arthur, non sei più il ragazzino che a quattordici anni se n'è andato perché gli stavano strette le imposizioni dei nostri genitori. Tu sei diventato un uomo e come tale devi comportarti. Non per obblighi e restrizioni verso qualcuno o qualcosa, ma perché lo devi a te stesso, per rispetto della tua medesima persona ed amor proprio. Pensa a te e a ciò che ti conviene fare, ma ti sconsiglio fortemente di spargere sale sulla terra affianco a te.
La vita solitaria è bella fino ad una certa, ma poi ti mancherà avere qualcuno che corre da te quando finisci male per strada o che vada a comprarti i cambi da portarti Dio solo sa dove.
Belle parole, Fratello, da pronunciare come lode, raccolti davanti a una Tomba.
Desolata devastazione ottunde l’annerire delle palpebre, schiacciate da una presa che artiglia il capo per il momento di sgonfiata, terminale un respiro che ronda il talento d’un bocchettone, dopo un’Inverno Abissale. Lampi. Dello stritolare cadenzato, traverso, collerico, dispotico, sgargiante, del vanto, dardeggiiante, del trionfo mentale, di una culla, di un lignaggio, che non ha esitato a prentendere come suo. Quattro numeri e una via. Quattro numeri, una via, la devastazione. Quattro numeri, una via, la devastazione, la sua stirpe... perduta.
Ma ciò che è assurdo, è il confronto di questo lancinante, assoluto, bruto, ossessivo, irrazionale con il desiderio violento di chiarezza, il cui richiamo risuona nel più profondo. L'assurdo dipende tanto dall'uomo, da me, quanto dal mondo, da lei, ed è, per il momento, il loro solo legame.
Perso questo confronto, che ti tiene in vita, cosa Resta? Cosa Vale?
Digita. Non invia. Cancella. In fondo a un Corridoio, aspira a scalare il tenore compiuto di quella ratifica, di quel conforto. Qualcuno bussa, qualcuno lo vuole. Quel mondo in rovina, forse quell’unica luce residua.
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beholdthebornking · 6 years
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“Sai che posso...”
Arriva a scuotere il capo, lentamente ma con una certa decisione di fondo davanti all'affermazione altrui circa il poter farle dimenticare certe immagini, che volente o nolente la sua testa ha già riprodotto:
“Non questa volta.” 
Sussurra, profondamente abbattuta, consapevole di aver perso. Resta di nuovo in silenzio, rifugiandosi dietro quella bolla di assoluto mutismo, verso cui scappa. Non va ad interrompere in alcun modo il discorso altrui, che paragona la loro situazione alla Teoria della Misura. Tira su con il naso e di tanto in tanto singhiozza mentre si lascia toccare ed accarezzare la guancia ed il palmo della mano sinistra, stretta nella sua:
“Io lo so che non valeva niente. Che non era importante ma...”
Spezza la frase con una leggera pausa, carica però di un profondo dubbio, che la porta a mettere in discussione tutto quanto:
“...Come faccio a sapere che non è veramente quello che ti serve? Se tu avessi bisogno di spazi? Spazi che non hai finché resti con me?”
Incalza, sbattendo un paio di volte le palpebre, per riflettere ulteriormente:
“Non voglio che tu mi scelga quando ti sei accorto che sono il meglio dopo il peggio che tu abbia incontrato. Voglio che tu mi scelga, quando hai davanti tutte le possibilità. E se io sono la prima a negartele, come faccio a sapere che è questo ciò che ti serve?”
Snocciola tutti i dubbi e quelle domande che si accumulano nella sua mente, costantemente aggrottata. Torna a zittirsi, lasciando che il marito muova la propria mano verso di lui, appoggiandola contro il suo petto: distende le dita sopra la stoffa in lino, lasciando scorrere il palmo verso il centro del suo petto, sopra il suo cuore, così da percepirne il battito. Quasi potesse toccarlo ed accarezzarlo:
“Hai ragione.”
Lo ammette: sarebbe stato da ipocrita tenerla all’oscuro di tutto e fare finta che tutto andasse bene:
“Così come io non ti ho nascosto il senso di colpa che ho provato con tuo fratello. Non hai fatto né più e né meno di quello che ho fatto io: parlare. È quello che abbiamo sempre fatto. Che abbiamo deciso.”
Aggiunge, annuendo appena mentre sembra riordinare meglio i pensieri in quel marasma di confusione mista a paura e dolore. Le dita della mano si richiudono sulla stoffa della sua maglietta, la stringono con forza in un pugno:
“Sì.”
Conferma, quando l’altro le domanda in quali altre occasioni le è “sfuggito”:
“Non voglio che tu mi tenga all’oscuro di ciò che pensi o di quello che provi, per timore di schiacciarmi. Non sei un peso. Non lo sarai mai. Buttati. Così come ho fatto io. Sono qui. Ti afferro e non ti lascio cadere. Ti risollevo.”
Mormora in quella che ha tutta l’aria di essere una presa di posizione consapevole, sentita, arrivando a strattonare appena la stoffa in lino di quell’indumento che l’uomo indossa: tutto per dare maggiore enfasi e convinzione in quelle parole profondamente sincere, di chi ci crede veramente e ne è convinta:
“E non devi provare vergogna alcuna, per il dolore che provi, per la morte dei tuoi figli o di quella di tua moglie. Io non posso riportarteli indietro ma se potessi, se avessi questo potere, giuro che lo rifarei e solamente per vederti Felice.”
Assicura, prima di abbozzare un sorriso, appena accennato davanti all’ironia altrui a cui l’altro si abbandona: sul prendersi a schiaffi come nei migliori film Western:
“Non ci riesco. Non riesco a farti del male, anche quando sei tu a ferirmi. Io ti Perdono e mi Annullo, quando sono con te. Non so chi sono, quando siamo insieme, eppure non vorrei essere niente di diverso.”
Perché lui è Tutto e lei lo accetta, esattamente come accetta il modo in cui la fa sentire: Croce e Delizia. Torna ad umettarsi le labbra, ascoltando la promessa matrimoniale che l’altro torna a ripetere, ad alta voce:
“Non ho dimenticato quella promessa che ti ho fatto sull’Altare.”
Ci tiene a dirlo, per far sapere che le sue convinzioni ed i suoi sentimenti non sono cambiati di una virgola:
“Voglio solo cercare un modo di andare avanti. Un modo Giusto. Un modo che non costringa me a soffocarti e non costringa te a bloccarti dal fare qualcosa, per timore di sbagliare.”
Dice, prima di arrivare a scuotere appena la testa, quando l’altro le domanda se si è mai vantato di qualcosa:
“No, mai. Ed è una delle tante cose che mi fa impazzire per te.”
Constata decisiva, mostrando sentimento ed un amore incondizionato. Un attimo che viene spezzato da quei pensieri negativi e masochistici, da quelle domande che divengono parola e che la portano a prendere le distanze da lui, ad allontanarsi. Si copre il viso con le mani mentre recupera aria dalle labbra, prendendo profonde boccate d’aria volte a regolarizzare i respiri strozzati e bloccati di quell’attimo di iperventilazione, che la coglie all’improvviso. Entra in panico mentre le dita delle mani affondano tra i capelli castani, che va a stringere con forza, tirandoli come se potesse estrarre quei brutti pensieri dalla testa. Scuote la testa, difficile dire se lo faccia perché è incapace di accettare la versione confusa di Arthur o semplicemente perché vuole tentare in qualche modo di bloccare quei pensieri, di cacciarli via. Che sia uno e l’altro, si ferma solamente nell’istante in cui il marito torna ad avvicinarsi, spostandole le mani dal viso, che viene successivamente raccolto nei suoi palmi: le lacrime non si fermano, continua a piangere, lasciando che la pelle delle guance si inumidisca mentre singhiozza, sussultando in maniera vistosa ma non troppo eccessiva. Lentamente riabbassa le braccia, lasciando che le mani cerchino appiglio sui suoi fianchi, inizialmente timorosa di quel contatto, che diventa sempre più bisogno. Non dice nulla. Resta in silenzio, limitandosi a tenere le palpebre aperte con lo sguardo rivolto negli occhi del compagno.
Frastorna un dirotto indagare, di tenuta stagna, preminente, ampio, reverendo di una cognizione atavica, viscerale, che macera quel dolo di volta con il quale l'altra affreca immagini, in serie. Le labbra steccano brevemente verso l'alto, in un cenno di foga, una guerriglia che mareggia caligine, cruccio, rodimento. Scuote il capo quasi inavvertibile mentre frasca di scrosciata la barbetta a cerchio, stepposa e affogata di sudore, lacrime e del vistoso sforzo mentale di mancata resa, dello sbirindellare di una bandiera bianca che brucia, ardito e implacabile. A quella sconfitta, a quell'asserzione, a quel sussurro, stravolge nello scompiglio tacitano entro la quale si chiude, con il viride baccano dello sguardo a fenderle il tratteggiare morbido, arrossato, cremisi di uno spolpare celebrare, di un'arsura devastante, della cute di lei, tempestata di una pigmentazione regale sconnessa dal bronzo. Non si ritira, medita e benda quella frustata gioviale, quello scettro d'espressione, alle volte concitato dell'ebrezza spiritata di una reazione connaturata, alle volte crucciato d'immonda estinzione, tarpato di potenziale da sferzate insolenti. Un vento etereo che gli raschia il respiro dalla gola. Tant'è che se lei singhiozza lui ravvolve, copioso, la carezza su di lei, strisciando piano il polpastrello del pollice a sformare le lacrime, a inchiodarle, trascinarle lontano, come pioggia su un dipinto. Poi lei parla, piantona brevemente le verdine sulle labbra in mozione che ritagliano riva, teoria, contestazione, assottiglia il cipiglio in una fessura selvatica, che svia a destra brevemente, mentre smaglia lucidità che non sferra, stantia, distante, fracassato intimamente dal momento:
“Sai bene dov'è l'unico spazio di cui ho bisogno, Murph...”
E si, adesso scanala carnale, tortuosa, erotica, gabola, senza scaltrezza, ma piccando un sorriso eloquente, facondo di una verità affrancata di ogni sfumatura, diretta, ma poi integra, lasciando i rettiliani a un momento più comodo:
“...Il mio Cuore è un indigente, un bisognoso, un povero, si...”
Annuisce:
“...indubbiamente. Non osa sempre mendicare, ma è sempre vicino alla fame e all'inedia. Il fatto è che è al punto schizzinoso da non cibarsi altro che dell'anima di un Diamante Sudafricano, spuntato dal nulla fra una rena troppo rovente da calpestare in solitaria.”
E sulle scelte, intransige uno spettacoloso laminare dorato per l'espressione, che si ravviva di quella nota squarciata in una maniera esacerbata, incapace d'involare solo sofferenza, sferrando la potenza dell'affetto, fra le righe:
“Ho visto cento volte le possibilità di questa Terra. Il fatto è che quando ami qualcuno, non hai scelta. L'Amore ti nega ogni scelta. Quando hai votato ogni tua singolare particella a una persona non puoi infeudarti all'ombra d'un viatico differente. Non puoi. Mi chiedi come fai a saperlo? Te lo dico io. Chiedimelo.”
Le propone, molto semplicemente, sfaldando di parafrasi, adattiva, al punto nitida da risultare sfrenata nell'asserzione, nel valore, nel peso specifico. Retorico la incava di realtà, roccia, garanzia, una concezione che regala lei, nobile, in un sorridere stemperato di profondità, leggero, segnato della modulazione tipica della quiete, pacata, dello stato ruspante del compimento che lei gli porta addosso semplicemente guardandolo. Annuisce, sulla ragione, sul Fratello, adocchiandola di un pestaggio visivo che non insiste, che refola una coccola fulgida d'Amore. Affanna trapasso d'unzione a quella pugnata, che lo stringe, slegando il palmo dalle nocche di lei, per farlo sospendere a mezz'aria, lentamente, come parasole di quella presa rinsladata, a quello sfuggire. Reclina in avanti il capo, inspira, phatos, un tremito vistoso, al positivo, con il frondare mentale per giunture vaghe, solenni di una definizione dolorsa, di asfalto, cocci di parabrezza, del Sangue, della Carne, della distanza sopratutto. Sette metri, ventiquattro centimetri, circa. Che diventano dieci, e dodici alle urla. Uno spasmo lo ristagna sul reale, sul presente, si lascia impiastrare di quella gestura secca, decisa, dell'altra, ragliando il prateggiare delle iridi, fra rovi carbone, nuovamente sul fertile infangare delle perle di lei. Annuisce, all'enfasi, alla convinzione, e sulla vergogna, sul potere, tormenta la voce di una notazione adusta, rocciosa sulle consonanti e vagamente roca di mistica tessitura:
“Li onori ogni giorno Murph, i miei Bambini, Lyanna, con un sorriso, con una carezza, con una rigata frontale, con un cucchiaio di gelato goffamente Sexy. Questo mi rende Felice. Questo mi rende Completo, di nuovo. Solo questo.”
E trancia d'esclusiva quel carattere, impittura di drastica convinzione quell'intonata finale, le fa comprendere che lei è già oltre tutti loro, che da lei sgorga la paligenesi dallo sfascio. Prende una boccata d'aria aspirando, sibilino, aria fra le labbra schiuse. Sul fatto che non ci riesca, sul dolore, sul Perdono, sull'annullamento, gli occhi incorniciano un tremore svasato, pregno d'un espressione infernale, diabolica del dolore che ha provocato lei. Ravvede dannazione a se stesso e insieme le sorride, caldamente, pervaso di quella Croce e Delizia che è, che non definisce lui, che calca un tripode di trascendente onniesistenza:
“Il Perdono è prerogativa degli individui dotati di personalità, che non subiscono le situazioni, che non si sottomettono passivamente ai dinamismi del contesto in cui sono inseriti. Sei una Donna forte, con me, come io sono un Uomo forte, con te. C'è un discriminante fondante, l'accezione Plurale...”
Sfuma e d'ascesi spanna il rovare della cute, incrostandola appena sulla fronte schiaffata di capelli unti e appiccicati dell'altra, per liberarla, adagio, con delicata parsimonia:
”...Non ti permetterò mai di tornare sola, di sperimentare la perdita. Su tutto ciò che è Sacro Murphy Lowell, io e te siamo una cosa sola.”
IInsacca una fioritura ferrata di una catena, una singolare, sfavillante giogaia dorata nello sguardo per lei, al momento incastonato sulle convinzioni che l'altra emette. Scuote il capo brevemente, alza la mancina, ripone il polsare della mano dell'altra sullo scafandro fra pollice e indice, pistonando di rilievo l'anulare, per poter avvicendare, trafiggere, come fosse la prima volta, quel buffo anellino a forma di Hamburger. Vorrebbe rimetterlo al suo posto, raschiandolo di lealtà mirata, con lo smeraldo di braci degli occhi a seguire la gestura e scaldare la voce, successiva:
“Qualsiasi modo vorrai sarà Giusto. Come prima, più di prima. Non mi importa, tu non mi soffochi, non lo farai mai, nemmeno se volessi farti portare in giro come un Koala per l'intera giornata, mangiucchiando caramelle e baciandomi il collo.”
Emette quel sorriso raffermo di luce, vistoso, erede privato, maliardo, dell'incanto che è lei, di un tributo a quelle poche parole, crepato, spaccato, dal tostare cerebrale che la scalcia finale. Va nel panico, lo percepisce. Si piazza in piedi, lurido del terrame, del dolore, del Sangue a fiotti cosparso sull'anima, per attecchire quello sconquasso dell'altra, quello squallore sadico in cui s'è ficcata, di sfascio, uno scossone clangoroso, rumoroso, con il quale torna a detenerla, d'una scorreria talata, canonica, praticante, fedele, religiosa, devota. Lei piange, trasluce a sua volta quella tristezza, la specchia quasi per evaporarla, sui bagliori dei Neon che ronzano in sottofondo, sul soffitto. Sussulta, e lui stira un viscoso strisciare del fiato. Silenzia, quieta, con il pregio friabile, sollecito, amorevole, agro di precisione, illustre d'astante delizioso, digradante di un velluto malfermo che vorrebbe cingerla, incoronarla, ancora una volta, di scelta, partito, adozione, cernita, assoluta. Le si avvicinerebbe, se permesso, con le labbra arbitrarie, erte, impervie, dirupi sottilo sotto lo scalmanare di una mattonata corposa, spessa, accidentata, di filate arcute, scaricate del tranquillante umido che è il caldo. Brevissimo attrito per lo sferare della gote mancina di lei, un irritazione che vorrebbe micrometrica staffare densità, contatto, cristallino, sagace, per poi sventrare in un raffinare d'eco, risonante, roboante del tagliare perspicace dell'interno slabbrato, di un fiato ustionante, sulla guancia di lei. Richiuderebbe quelle lacrime, capitale, incardinando le labbra di strettoia, in un bacio concorrente, capace di staccarle di dosso il salino calcare del pianto. Si nutrirebbe, per secondi d'eternità, letterale, del dolore di lei, affossandolo, logorante, dentro di se. Le pulirebbe il viso, piano, di una movenza da primordio che sconfina le parole allo stipite, remote. Andrebbe a fissarla nuovamente, finale, portante di conquista, di una raccolta sconclusionata di tonate esangui, bastonate di spinate. Favorisce una tronfia rassegna di lume, uno spaccato squisito che conclama bramosia, legame, slancio, gioiello, solidale venerazione, disattenzione talentuosa per ogni forata di zelo mancato, coscienza, Matrimonio. Un incespicare vitale crogiolato di colori a trebbiarle il voto, il tessuto, l'idillio, l'umanità, che solerte campeggia per la mota fangosa di quel guazzo da genesi smezzato in due, dell'altra. Grave, scandaloso nell'endemico, peculiare, riservato, trattamente vocale, intransigente, intimo, topico, che le preserva e le riserva:
“Ti Amo”
E s'avventa, irrefrenabile, fanatico, ma d'una gestura smorzata, a schiodarle il lippare di corona delle labbra dalla posta di dubbio, tetra d'esoterismo involuto, piegherebbe appena il capo per slavinare violazione, una dolce sevizia che intollerante schiaccerebbe il plenario spettinare della calanca, tutt'altro che rada, su per la rigata fluente, copiosa, sotto l'arcata di cupido altrui, per fendere, possessivo, illimitato, provinciale di una severità che scova letterale rarità, incantevole di posta, assurdamente crivellato di magica distinzione, a spiccarla d'impagabile singolarità, ad accompagnarla della perfezione che merita. Affonderebbe, a svegliare il gusto dell'altra, toccandolo da prima con un reiterare insistente, regolato, e dunque sempre più sfogato d'impari nobiltà. Un lungo, intenso, autentico, sfaccettato, passionale bacio.
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beholdthebornking · 6 years
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E' un istante, il boato smottante del terraneo trancia l'etere e vortica volano d'oggetti, detriti. Non è sufficientemente reattivo, non scoppia a velocità Luce da fermo, per emettere schivata, e la stangata di quella ghiacciaia arrugginita affossa il torace di una conca metallica che gli opprime il gabbiato toracico anteriore mediano, sfibrando la muscolatura di una corruzione che innerva dolore. L’Head-Up Display è strattonato dall'impatto, che crepa l'occhiaia destra del Visore, smorta del rubino acceso schiantato dall'urto. L'energia cinetica che lo investe è tale da scalciarlo sulla distanza, fin a sfondare la latta d'un bandone di fortuna, che sfracassa a terra rumoreggiando. Scombussolato finisce rapinato dal dolore che divampa su per la schiena e il torace. Un urlo liberatorio, che rende il respiro un vacuo fracasso d'annaspate, stringe i denti fino a scomporre la chiusura della mandibola verso destra. Così, disteso su quel talamo di spine e tetano, fatica a respirare, placcato dall'oppressione internale di un fiotto di sangue che sente ragliare per le viscere, caldo, ardente, ustionante, quasi come l'aria che aspira, faticoso. Crepa un breve mormorio:
“Wen...d...”
Ma non riesce a dire altro. E' il rimasuglio energetico, di un eco bivalido, femmineo eppure incavernato dalla rottura di sensori con la caduta:
“Protocollo Holding Out attivato” 
Proferisce semplicemente, con la levatura e il calibro di servosterzi e pistoni che, viscosi, trascinano il corpo quasi esanime appena verso l’alto, A scatenare ossatura, impulso, manetta, su per il fibrare febbrile, livido di stento, delle imborsate degli elevatori. Silenzio. Inatteso. Fulminante. Cataste di catrame, lignite, carbone, a perdita d’occhio. Scheggia la vallata d’asfalto che spolvera sei o sette metri poco oltre di lui con una visione scompigliata di bagliori, con l’asfissia rovente, ferrosa, di un metro appassito dallo scontro. Un ciuffo d’erba, rado, divelto sul catrame, è coronato da zolle di terra, franate, sradicate, da una nerboruta frattura, dissidio del parere di quell’angolo di mondo sventrato dalla Bestia. Chiude gli occhi, scarna abbattimento di una coscienza che non vuole morire dietro l’assillo tranciante di uno Shock Ipovelmico reso remoto da brando e ceppi di quella cassa frigorifera che ne obera e frantuma sensazioni. Chiosa un soggiogare doronico, un buio adusto e senza sogni, fatto solo di ombre, e di un orizzonte mentale che schianta insolvenza.
La musica non esiste se non nell'istante in cui è eseguita, persino se si potessero leggere le note abbastanza bene e si avesse una forza d'immaginazione abbastanza viva, non si potrà tuttavia negare che è solo in senso improprio che essa è nel momento in cui la si legge. Propriamente esiste solo mentre la si esegue. Ciò potrebbe parere un'imperfezione per quest'arte a confronto con le altre arti, le cui creazioni continuamente sussistono, perché hanno la loro sussistenza nel sensuale. Eppure non è così. Ciò è per l'appunto una prova che è un'arte più elevata, più spirituale.
Fra il calcare di bronzo della Gloria, dell’Incanto, di quell’ Häagen-Dazs Dulce de Leche, sotto quella croce, custodia di un tesoro, arida, desertica, di un sabbia sudata, che gli dà le spalle ogni mattina, all’entrata dai vasti accessi di un pilastro di vetro, opulenza, progresso, su un mare dislivellato, pronto a strabordare. 
Fra il mareggiare siderale, banchigia boreale, chiazzata di un’Aurora che nasce per durare, in quell’eternità sbracciata dei tentoni di fenderla tangibile, dietro grandiose offuscate, che snaturano, disfano, di ogni cortina, di ogni orpello, di ogni inibita sensazione. 
Fra il tedio compassato, osseo, astrale, che fomenta scempio di un’anima verace, frastagliata di sporgenze e piccate, incomprensibile senza disporsi alla ferita, allo strappo, ad adescare solenne, incrinata, umanità, quella vera. Quell’errore spiegato d’elezione, ideale, indefessi, inscalfibili, che rovinano, distruggono, eppure, nel profondo, appagano, danno senso.
Fra Sangue, Sacro, fra Fede, Vocazione, fra Estimo, Turba, l’unica domanda è: 
Sono Musica o non esisto nemmeno?  
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beholdthebornking · 6 years
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beholdthebornking · 6 years
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“When the Great Library burned, the first ten thousand years of stories were reduced to ash. But, those stories never really perished. They became a new story. The Story of the Fire itself...
...of man’s urge to take a thing of beauty and Strike the Match”
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beholdthebornking · 6 years
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'Til Death Do Us Part.
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«Sposiamoci. Domani. Io e te. Senza dire nulla. Mio padre non si aspetterà un gesto simile e poi rimandiamo l'altra… Versione in grande stile con tutti i tuoi amici a dopo la metà di giugno.» propone Murphy, stirando un angolo delle labbra in un lieve sorriso «Non voglio sprecare più un istante. Non voglio che sia troppo tardi. Non stavolta. Non con te.»
Palpami il culo, recupera il telefono dalla tasca destra posteriore e chiama W.E.N.D.Y….» sfuma, si umetta il labbro inferiore e ultima: «Non domani. Adesso.» iaconico, sobrio, epigrafico.
È uno di quei momenti così: improvvisi. Con lui è sempre tutto improvviso. Un minuto prima sei sotto la pioggia, a cercare di pensare a come proteggere l’unica persona cara della tua vita e l’attimo dopo decidi di sposarla. Non c’è mai stato troppo tempo per le lunghe riflessioni, per pensare al modo migliore in cui agire: non c’è mai stato un programma. Proprio come adesso.
È alle 3 del mattino che decidono, che è quello il momento giusto per sposarsi. Niente cerimonie in grande stile, niente parenti o amici da invitare: solo loro, il povero Prete obbligatoriamente svegliato per celebrare questa assurda funzione e una chiesa.
È bagnata dalla testa ai piedi. Si è scordata di portare l’ombrello e di ricordarlo anche ad Arthur, ma non importa. Esattamente come non le importa di essere vestita con quei soliti abiti sportivi e anonimi e con quei capelli dalle tinte multicolor che solamente così, bagnati e gocciolanti, sembrano restare in ordine.
Sta in piedi davanti a quell’altare spoglio, illuminato solamente da qualche candela tremolante, fronteggiando l’uomo che tra pochi istanti diventerà suo marito. Gli stringe con forza le mani, tanto da arrivare a far sbiancare le nocche. È agitata: l’agitazione tipica di chi sta per compiere un passo importante, decisivo, carico di così tante speranze ma anche paure.
«Ehy…» lui se ne accorge sempre quando la sua testa viaggia alla velocità della luce, per chissà quanti e quali pensieri, ad un ritmo quasi insostenibile. «Non pensare. Aggrotti la fronte quando pensi. Non farlo adesso o non ci sposiamo più.» 
La conosce bene, più di chiunque altro e forse anche più di se stessa. Le rivolge un sorriso morbido, rassicurante ma macchiato della stessa “ansia” tipica di chi sta compiendo un passo determinante nella vita.
Deglutisce a vuoto e rilassa la presa sulle mani del compagno, a cui resta aggrappata. Non lo lascia, simboleggiando così, tramite quel semplice gesto, l’impegno delle proprie intenzioni.
«Possiamo cominciare? Gli anelli?» incalza il Prete in un tono di voce alquanto sbrigativo, determinato a mettere fine a quel matrimonio improvvisato il più presto possibile, vista l’ora tarda. Annuisce silenziosamente, concedendosi un profondo respiro dalle narici, incamerando aria ma anche una buona dose di coraggio mentre da una tasca della felpa estrae gli anelli… O almeno: quelli che saranno i loro anelli, gli oggetti che suggelleranno la loro promessa.
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Non hanno avuto tempo per le fedi. Non alle 3 del mattino. Non quando decidi, di punto in bianco, di sposarti. Li hanno recuperati da uno di quei distributori che vendono sorprese ai bambini, con una spesa di soli due dollari e cinquanta. Un dettaglio che porta il Parroco a sospirare e mentre alza gli occhi al cielo, si ritrova a fare il segno della croce, a chiedere indirettamente ed eloquentemente, il perdono alla Divinità di cui, quest’oggi, sono ospiti in Casa sua. Nella Chiesa.
«Prima di iniziare, vuole dire qualcosa?» la incalza il Parroco, concedendole del tempo per dire qualcosa, prima dei voti nuziali. Sbatte le palpebre un paio di volte, colta visibilmente alla sprovvista, spiazzata, ma approfitta comunque di quel momento: torna a guardare Arthur, le labbra si schiudono un paio di volte, senza riuscire a pronunciare nulla nel concreto. Esita, temporeggia, cercando probabilmente il modo giusto per cominciare:
«Io non avevo pensato di dire qualcosa, ma ci provo…» 
Ammette con voce flebile, strozzata da un po’ di sana agitazione, che tuttavia non le impedisce di continuare. 
«Direi che un “Grazie di essere qui” è un buon punto da cui cominciare, perciò… Grazie.» 
Comincia dalle basi, impacciata, cercando di trovare ordine in quel fiume di pensieri che corrono veloci nella sua testa. Murphy non è mai stata brava con le parole, men che meno con le persone o l’esternazione dei propri sentimenti. E si vede.
«E non è un ringraziamento rivolto solamente alla tua presenza, qui, in questo istante: è un ringraziamento a trecentosessanta gradi, a tutto tondo. Grazie di essere qui, con me, nella mia Vita.»
Lentamente ma con maggior scioltezza, quei pensieri si trasformano in un discorso tutt’altro che scontato. Profondo. Sincero. Vivo. 
«Grazie per esserci stato, quando nessun altro voleva farlo. Per avermi vista, quando nessun altro voleva vedermi. Per essermi stato vicino, quando tutti hanno scelto di allontanarsi o quando ti ho dato mille motivi per farlo, ma sei rimasto. Grazie per non aver esitato, nemmeno una volta; per essere stato ostinato, anche al mio posto. Per non esserti arreso ancora prima di cominciare, ma soprattutto: ti ringrazio per avermi mostrato, che in questo mondo, vale la pena lottare e rischiare per qualcosa di bello. Perché le cose belle esistono.»
Si concede una breve pausa, in cui arriva a stringere le mani del compagno con una certa forza, per sentire, percepire quel contatto e dare maggiore enfasi a quelle parole. Piange. Sembra accorgersene solamente ora ma è evidente come quelle non siano affatto lacrime tristi o amare: al contrario sono lacrime di contentezza, di sollievo. Come se finalmente, dopo tanti sforzi, si fosse liberata di un gigantesco peso, che non la faceva Vivere. Tira su con il naso, deglutisce un paio di volte, si dà un contegno e con un sorriso sulle labbra, riprende:
«And you, you can be mean. And I, I’ll drink all the time. ‘Cause we’re Lovers, and that is a fact. Yes we’re Lovers, and that is that. Though nothing will keep us together. We could steal Time, just for one day. We can be Heroes, for ever and ever. What’d you say?»
Cita, testualmente e volutamente, Heroes di David Bowie, per rendere singolari quelle promesse che vengono pronunciate in maniera sincera, profonda, sentita, cariche di Amore. Sorride. È un sorriso macchiato di una leggera nota furba, come se fosse perfettamente consapevole che il compagno, il futuro Marito, abbia colto quel testo, nonostante sia stato estrapolato, diviso da quella base musicale che l’ha resa famosissima. Per fortuna o con la voce da gabbiano che possiede, l’avrebbe sicuramente rovinata. Non aggiunge altro, visto che riporta lo sguardo verso il Parroco con cui va a ripetere consequenzialmente quelli che sono i veri e propri voti nuziali:
Io, Murphy Steen, prendo Te, Arthur Lowell, come mio legittimo Sposo e prometto di esserti Fedele sempre. Nella Gioia e nel Dolore, in Ricchezza e in Povertà, in Salute e in Malattia. Prometto di Amarti, Onorarti e Rispettarti tutti i giorni della mia vita, finché Morte non ci separi.
Pronuncia con attenzione ed estrema lentezza, dando peso ed importanza ad ogni singola parola, leggermente strozzata dalla commozione. Gli occhi, visibilmente lucidi, non smettono di focalizzarsi in quelli del compagno per tutto il tempo, prima di abbassarlo verso l’intreccio di quelle mani: in particolare sulla mano sinistra di Arthur. Recupera quel buffo anello, quello a forma di confezione di patatine fritte e lentamente lo fa scorrere lungo tutta la lunghezza del suo anulare, arrivando fino alla base dell’ultima falange. Sbuffa un sorriso, disteso, uno dei pochi e rari che riesce a mostrare con naturalezza, mescolato ad una nota di sincero divertimento per la scelta di quella singolare Fede, che non hanno scelto ma che è stato il regalo del Destino. Dell’Improvvisazione. 
Si umetta le labbra e torna a guardarlo con la stessa attenzione e lo stesso sguardo di chi contempla un’opera meravigliosa, di cui è davvero impossibile stancarsi. È proprio istintivamente che dopo quel momento così intenso, si sbilancia in avanti, si muove, come se fosse spinta da una forza incontrollabile: gli lascia andare le mani e le allunga verso il suo viso, lo tiene fermo ed in parte lo trascina verso di sé, per catturare le sue labbra in un bacio, che viene interrotto da dei colpi sonori di tosse da parte del Prete: «Non ho ancora finito…» dice, ammonendo così l’impulso della donna, dettato dalle emozioni più pure: l’Amore, la Passione, il Desiderio ma soprattutto l’Impazienza dell’Attesa. 
Si stacca subito da Arthur, seppure gli rimanga vicina, tenendo ancora il viso tra i palmi delle sue mani, in un gesto delicato.
«Nemmeno io. Ho appena cominciato.»
Lo incalza con una nota scontata nella voce, macchiata di quella sua solita sincerità disarmante, che non lascia spazio ad altro se non ad un silenzio spiazzato. Non arriva a farne un dramma, comunque, tant’è che dopo aver recuperato le distanze, lentamente, torna di nuovo a fronteggiare il compagno, a cingergli nuovamente le mani, restando in attesa di sentire i suoi voti e di suggellare, una volta per tutte, quella Promessa.
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Oh we can beat Them, for ever and ever. Then we could be Heroes, just for one day.
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beholdthebornking · 6 years
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I owe Everything to You Jo
[...]
Rimane lì a guardarlo con una certa attenzione, anche quando va pungerla sul proprio orgoglio. Non è cosa da poco, ma appunto anche lei sta puntando alle stelle, stare piantata lì a terra è qualcosa che le da decisamente fastidio. Un piccolo sospiro dalle labbra e rimane lì a guardarlo con una certa sicurezza:
“Ho visto la nave dei Vaasariani.”
Ammette verso di lui:
“L'ho studiata per quanto la nostra fisica , potesse applicarsi a una tecnologia del genere.”
Storce appena le labbra come se appunto la cosa non le piacesse molto. Va a guardare quel bicchiere, quello che si è andato a riempire e poi ritorna di nuovo verso di esso:
“Senza i poteri, senza la scoperta di nuove leggi collegate ai poteri che siano divini, mistici o di mutazione, staremo per sempre ancorati a questa roccia fluttuante nello spazio.”
Alza quei occhi e sono occhi che vanno ben oltre alle lenti, che vanno ben oltre al soffitto che sta guardando:
“E' come se ci fossimo scordati chi siamo Arthur: Pionieri, esploratori. Non dei guardiani.”
Allarga un sorriso ampio verso l'altro. In fondo chi non ha visto Interstellar e si è immaginato lì a fluttuare nello spazio. Era piccola quando è uscito al cinema, ma si ricorda attentamente com'era affascinata dalle stelle e da gargatua ed era uscita fuori saltellando gridando che lei sarebbe uno dei Lazzurus, poco le importava di andar contro la morte, quasi certa. Però quella è un'altra storia, poi si è andato a sostituire con il Nobel, ma dettagli. Fa uscire un piccolo sospiro dalle labbra e va a guardare di nuovo Arthur:
“Ci andremo.”
Sicurissima di quello che sta dicendo. Lascia che l'altro osservi il suo bicchiere, che assimili la notizia, rimane lì a guardarlo con un sorriso ampio e non poco. Rimane lì a studiarlo attentamente con quei occhi che non lasciano andare. Vi è un lieve imbarazzo, sincero, cristallino che si palesa sul viso, ma viene scacciato via da un sorriso morbido, di quelli dolci che ormai sono diventati rari in quei giorni di lutto costante. Rimane lì a guardarlo, studiarlo e quando sente del loro matrimonio, quasi gli scoppia a ridere in faccia, trattenendo il tutto con un paio di colpetti di tosse:
“Dovevo mettermi un vestito bianco.”
Ammette con un tono della voce, abbastanza divertito, andando a osservare i due calici che si baciano, provocando un rumore quasi celestiale, quasi per suggellare quella loro Unione. Va a portare il bicchiere nella direzione delle labbra e va a prendere un sorso da migliaia di dollari. Labbra che si aprono e fanno scivolare quel nettere divino verso la bocca e andando ad assaporare quel gusto che pizzica il palato, per poi deglutire il tutto, rimanendo ferma e immobile di fronte all'altro. Sposta il bicchiere dalle labbra, rimanendo con quel gusto sprizzante in bocca:
“Sono stata sposata Arthur.”
Lo dice con un tono abbastanza nostalgico e dolce si potrebbe dire:
“E ci deve esser collaborazione, intuizione, rilassamento quando si è uno di fronte all'altro.”
Un piccolo sospiro e rimane lì a guardarlo studiarlo ancora con una massima attenzione:
“Sono preoccupata.”
Lo dice con un tono apprensivo quasi da mamma, ma dettagli:
“Per quanto poco ci hai messo a dimenticarti di Calliope e a gettarti su di questa persona, per come la vuoi tenere per te.”
Si stringe le spalle e poi le distende in un movimento fluido e rimane lì a guardarlo negli occhi con una certa intensità:
“Non vorrei che stessi per commettere un errore, perchè quello che sarà scalfito non sarà solo questo...”
Avvicinandosi e andando a puntare il dito verso il suo cuore:
“Ma pure la tua anima.”
Con un tono sempre dolce e allargando un sorriso lieve solo per l'altro:
“Comunque rispetto la tua decisione e ci sarò sempre qui per te, per gioire e per porgerti la tua spalla, sono solo preoccupata.”
Tanto per far comprendere all'altro che appunto è qualcosa di profondo, non è gelosia non è solo preoccupazione è che non vuole vederlo a pezzi come quando si sono conosciuti o semplicemente come lo è stata lei per delle settimane, senza Brendan.
Sulla risvolta dello sguardo di lei, su quella poggiata ulteriore, sull'arrotare quella spiegazzata di labbra cui segue un negare concitato. Alza i palmi, allentando la presa delle sopracciglia sopra il taglio degli occhi, che si allargano di seguito fisiologico, affossa le labbra dietro il disquisire appena fruttato dell'oro fuso che va bevendo. Scarena una coscienza innata, quasi tronfia nell'ammissione che genera verso di lei, meramente visiva, senza l'inquinare del verbo, sul valore o meno. Come a dire che vale tutto. Sulla puntura, sull'orgoglio, sullo stellare intento di lei, di cui è ben conscio, s'appropria, con immane signoria, con una sensazione cardinale di stima e credito, di quelle ammissioni in serie. Scuote, quasi voltaico, l'artiglio sottile delle labbra, velate da lanugine incipiente e appena sregolata, in un moto di pura constatazione e differisce, aspirando a lineare dettame, che non impone. Non sfacchina Universale Dio di qualsivoglia realtà. Racconta percezione:
“Esiste una sorta di... dialettica naturale e inevitabile di quella che noi vagliamo come Ragione. Non parlo di una fase in cui si irretisca, per incompetenza, la figura di talento dell'improvvisatore, o dell'inventore, o ancora dell'avanguardista...”
E non c'è parola dalla quale scansa il plateale, energico, valente tributo che lo sguardo verdastro dedica lei, accorto:
“...piuttosto di un frangente di salvifico Inganno, artificioso, pomposo, aderente a una realtà consolidata priva dell'incoscenza di chi ha i mezzi, il tempo, le risorse, per imbrigliare il progresso.”
Sottende il fatto che la Visione di lei deve trovare sintesi con quella di chi vive terra-terra, lontano dalla prospettiva o anche solo dalla presa in considerazione del fattore pionieri, in ogni campo:
“Il Buon Senso delle persone, della maggioranza di quel peso che poche personalità sono in grado di portare sulle spalle, ha bisogno di essere fuorviato e tradito. Perchè non c'è scoperta senza drastico strattone. Anche se la stessa è a un tiro di schioppo da te. L'infondatezza non cesserà di sedurre chi fa d'un piglio razionale contorno. Viviamo di errori momentanei, che verranno, sempre, rimossi e soppiantati da altri. Non abbiamo alternativa...”
Schioda, cerca di snocciolare il punto di vista dell'altra, su quell'arresto. Non lo giustifica, lo pone come imprescindibile passaggio, per finire oltre, come a renderlo radicalmente fatale, se forzato. Sui Filmati, sull’andare nello Spazio, annuisce:
 “Più presto di quello che crediamo.”
Fomenta. Il lieve imbarazzo dell'altra è caterva divina di una profusione assoluta, che aizza ulteriore, senza staffilare all'eccesso. Al sorriso, all'abito bianco: 
“OH! Almeno una soddisfazione. Murphy si sposerebbe in tuta, fosse per lei.”
Annuisce una volta, rasenta legge nel proferire. Alla memoria, all'amabile delicatezza altrui, sullo sposalizio, sul sospiro. Accoglie, in silenzio, quel dire di lei, e quella preoccupazione scompensa i tratti per un momento. Inspira, gonfia il petto appena, con le spalle che s'ascendono piano. Non smotta tutto l'ossigeno che brucia a causa di quelle due semplici parole. Fino alla parola Calliope. Deglutisce a vuoto. Sulla dimenticanza. Scuote il capo, diviene perentorio, quasi solenne. Fa silenzio qualche secondo. China il capo. Alza la mancina, allarga il pieno dorso internale delle dita, e finisce per strisciare col tatto del palmo giù dalla barbetta a cerchio, un po' scarognata, fin sulle labbra, e verso il mento:
“Non mi sono dimenticato di Call. Lei...”
Si umetta il labbro inferiore, chiude gli occhi un istante, senza ancora respirare, quasi avvitato in sospensione, allenta le spalle:
”...a quel Regime di... Donazione... che è tutto quello che mi rimane, ha opposto una scelta di Cuore. Ha incoccato la Resistenza e ha preso la mira, diversamente, con...”
Scatta la mandibola in stretta per un momento:
”...successo, da quello che so. Non c'è attenuante, non c'è spirito, non c'è dedizione più grandiosa della sua. E' fortunata. Ha l'audacia che io non posseggo più...”
Rialza il capo, che svaria un po' a destra:
”...ho accettato ciò che ha deciso. E... come appena detto... viviamo di Errori Momentanei. A volte durano il tempo di una legislatura...”
Leggi Oscene, naturalmente:
”...altre animano, dolcemente, un'intera vita.”
Le sorride, forse si riferisce anche a lei, a Brendan, privo di connotati amari, di rimessa, ma appare alquanto deciso, quella delibera, quell'ordinanza, di chi è davvero morto su un Ponte del Delaware, e ora vive di echi, in una chiesa svuotata della Fede e riempita di una Musica che tanto bene gli rassomiglia. Quando l'altra allunga la mano sul cuore di lui, la fascia con la sua, e sul finale la alza, baciandole le nocche, elegante, ultimando:
“Quello che conta è che in questa Galassia Lontana Lontana, io sono il tuo Copilota”
Ammette e, dal nulla, tira un gorgoglio scartapestato che è un imitazione alquanto scadente di Chewie.
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beholdthebornking · 6 years
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Sostenere lo sguardo non è facile, ma lo fa, con la devozione di un compito assegnato dall'alto, in secondi fin troppo densi in cui a malapena respira; la sua espressione di brusco sospetto diventa un broncio cupo e tetro; ha i capelli sciolti sparsi e vagamente disordinati attorno al volto, le finiscono in faccia e sulle guance in riccioli ben più che disordinati. Sonda e indaga pure lei, senza curarsi di risultare pesante o indiscreta, dimenticandosi le macchine, il cielo lattiginoso e grigio e l'asfalto bagnato, fino a che l'uomo non inizia a cantare; esprime tutta la sua perplessità in una svirgolata delle sopracciglie - sempre verso il basso, sempre più verso il basso e si fa appena indietro con il busto, premendosi contro lo stipite della porta dietro di sè e stringendosi nelle spalle ossute sotto la felpa sbiadita. La linea della mandibola è così rigida che lo stacco con la gola, sottile, dalle venature bluastre in rilievo, è evidente; tutto, in lei, sa di tensione. Un vago tremolio delle spalle si spande fino al petto e si allunga le maniche della felpa fin al di là delle dita, afferrandone e tirandone la stoffa come una mocciosa. Ascolta, in silenzio di tomba, senza cantare di rimando nè riuscire ad aprire la bocca in alcuna maniera, e passa dalla canzone al caffè senza soluzione di continuità, e non abbassa nemmeno lo sguardo verso il bicchiere come se il suo unico scopo fosse leggere il labiale; solo alla fine si degna, sempre a fatica, di parlare. La voce rimane bassa - ma è fondamentalmente la stessa ad averla messa nei guai, con la radio, i discorsi e tutto quello con cui la SCF l'ha ricondotta alla Gifted Alliance. Prima di parlare boccheggia, come se, dopo quella domanda insensata, facesse fatica:
“Non posso berlo.”
Rifiuta, non categoricamente e con una certa difficoltà, qualcosa a cui prima era abituata:
“È alcoolico.” 
Spiega, prima di recitare, a memoria e a macchinetta, qualcosa di ingurgitato precedentemente e che deve pronunciare per forza, altrimenti soffoca:
“Da uno a tre anni di reclusione per possesso, consumo di bevande alcooliche. Da uno a tre anni di reclusione per vendita, o fornitura di bevande alcoliche a mutante.”
Gli rigetta contro l'accusa che potrebbe venir rivolta a lei, a lui, alla stessa maniera compita dell'interrogazione scolastica. Cerca di sbuffare via il peso sul petto con un sospiro e un paio di parole più naturali:
“E mi manca solo di finire decapitata...”
Una battuta che esce fuori in maniera più macabra che allegra o anche solo furbesca. Allunga la mano sul bicchiere ma senza prenderlo, senza stringere le dita attorno - solo per sentirne il calore, probabilmente; strattona però all'ultimo gli occhi su di lui a quel bentornata che rimbomba, e sconquassa, e la fa barcollare ancora. Prova a sorridere, ma è un tentativo assai maldestro:
“Sono sempre stata qui.”
Irroato di un certo, vivo, autentico, credito, estima in silenzio per qualche momento l'abbigliare dell'altra. Lo sgomento altrui, quell'altalena di scossoni emozionali, non impediscono lui di enumerare gli Shorts e la T-Shirt chiazzata di Sangue, rilegando i bagliori di riflesso del bitume e della piastrata del marciapiede a sfocati aloni di contorno. Adotta, quasi, quella affannosa, ostica, invisa asperità con la quale l'altra resiste, dedita, a stagliare lo sguardo, di ferro rugginoso sotto un cielo in panne, dato alla macchia. E di certo non è scalfitura o anche solo importuna, vaga, cancrena, quella che emette sotto l'occhieggiare rifratto dell'altra, privando quel pungolo d'invadenza di ogni colore differente dalla stortura o dall'inadeguatezza. Esprime agio, e non erutta indignazione, tutt'altro. Le smeraldine, sfaldate di bruciature a imperniare il cuore sfavillante coronato dalle sclere, paiono intaccare il profilo dell'altra, quando sembra vagliare soffocoamento, con quel movimento posteriore, grossolano, steccato, irrigidito dallo spandersi delle scapole sotto il felpone. Piccole, riarse, reazioni del tessuto, fanno intendere quell'antefatto d'esiziale serrata di lei. Incarna quella spigliata, pedante, legnosa, rigidezza della mandibola. E' come se fosse pronta a scoppiare in mille pezzi. Lo intende, in qualche modo rasenta un'empatia inequivocabilmente risibile, sotto il panneggiare dei tratti, che sembra quasi affinarsi un pelo, senza eccesso, a costringere, di volontà, silente affissione d'affinità. Inchioda anche sulla maniera in cui il labiale viene brandito, quasi eviscerato, dall'altrui cipiglio espressivo, voltaico, irrequieto. Accosta anche tremenda e verace comprensione, a quel sollazzato travaglio della Voce dell'altra. Non è chiaro se sfondi quella disinibita angoscia di fomentarlo, quello strido, ma di certo non rimane a scalfire la superficie di quell'apparenza innegabilmente corrotta dalla permanenza in Sandman. Ascolta, valente, spolvera lustro per ogni singola emissione vocale dell'altra, a trattare ogni parola di lei, inconsciamente, o forse radicalmente deliberante, come oro colato, a spronare di sottinteso, indiretto, il fatto che quella Voce non debba venir sfasciata da un illusione, come quella reclusione che porta sulle spalle. Non lo disegna pratico, amalgama la maniera dietro al clangore esorbitante, astrale, della franchezza, senza distorsione. Col rifiuto, annuisce, inspira gonfiando appena il torace, la lingua si passa sulla dentatura, bocca chiusa, pare accigliato, non infastidito da quel remore, semmai avverso al sistema che l'ha generato. Alza la destra, sorseggia giusto un poco di quella cremosa calura, centellinando anche quella singola, defilata, gestura, con la quale le dita di lei vanno a raggomitolarsi attorno alla greve trama plastificata del boccale. Lascia che un sollievo mentale venga solo abozzato dal sorbire del Bolena, che dunque, come nulla fosse, lancia in aria, dietro la spalla mancina. Il bicchiere vola e scoppia acquoso, sordo, sul marciapiede, ricoprendo il granitico crepato smottare della piastrata pedonale di una svampata di fumo, di un colore vivace, che non ha bisogno di luce per ardere, in silenzio. Accenna un moto di vivida aderenza, d'elogio, giù per il cratere d'altofuoco che è lo sguardo, allargando quella scintilla in un moto dei tratti che è un copioso sorriso, sul finale. Dunque, sempre in silenzio, dal nulla, andrebbe ad allungare la destra verso l'altra, palmo all'insù, una chiara mozione che non estromette di finalità, e anzi. Qualora l'altra prenda, quella mano, la tirerebbe a se, quasi sottovoce, senza flemma, con forgiata, solenne, delicatezza, per prenderla in vita e ricercare, eventualmente, la credenza d'un abbraccio, costruito con determinante, frugale, continenza. Non c'è uno spoglio malizioso, di fondo, è semmai un gesto naturale, quasi assordante in quell'opulenza disinvolta con cui viene solo ipotizzato, incondizionale.
Anche il farsi guardare, attività che probabilmente prima enumerava tra le sue preferite, sembra farsi angosciante, e probabilmente vorrebbe chiudersi - e ne è umiliata, forse, per questo si schernisce con un sorrisetto vago che sa di scuse, mentre sbatte le palpebre e si fa vagamente più indietro, stornando dallo sguardo di lui con un gesto della testa di lato, manco pesasse troppo sul collo sottile, anche se per poco - non è certo facile fuggire come pensava. E quando ricollega, e quando torna con la mente e la memoria fatta a brandelli alla notte prima, gli occhi celesti si tingono di una nuova e confusa interrogatività:
“Ieri eri lì.”
Mormora, come dimenticando il punto di domanda:
“Ieri eri lì.”
Ripete, la voce appena leggermente più chiara, a rafforzare un concetto senza non fare altro che ripetere le ultime tre parole. Il perchè rimane completamente sottinteso nella piega che prendono le sue sopracciglia e le sue labbra mentre tira indietro la testa, cerca di sollevare il mento in una posizione che si fa un po' più fiera, sull'attenti - da soldato. Le braccia che si stringono scivolano fino ad arrivare con le mani sul grembo, le spalle incurvate si estendono all'infuori, gonfia lo sterno ossuto in un respiro ed in un istante è come se lo volesse affrontare - o attendesse un ordine - salvo poi rimanere sempre perplessa dalla sua scelta di bere il caffè. Guarda il movimento della mandibola e della testa - lo sbircia quasi- e lo spia, come per osservare una reazione che la lascia di nuovo sorpresa: la parabola del bicchiere che impatta sul marciapiede la fa trasalire e si potrebbe giurare che forse è di paura, come qualsiasi animale selvatico ad un movimento, un suono improvviso all'interno del suo ambiente naturale. Guarda lui e guarda il bicchiere, e viceversa, un paio di volte e ricorda, di nuovo, con difficoltà:
“Temo di non poterci stare più vicino a Dio, con queste premesse...”
Si scusa, riaprendogli gli occhi addosso, arronzando un sorriso meno convinto, tra il dolciastro e l'amaro.
“Ti metterò nei guai.”
Termina, con una sicurezza feroce che più che di avvertimento, sa di minaccia: difatti la sibila, per forza di cose, tra i denti - suo malgrado. È al vederne la mano che si ferma, comunque, ed emette un sospiro che più che perplesso sa già di resa, anche se niente affatto mansueta. La prende, forse sapendo già ciò che avverrà, e si fa stringere. È sottile, ha le ossa sporgenti e più che tremare, vibra. Ma stringe di rimando affondando nel petto dell'uomo e cercando di afferrare gli orli della sua giacca di alta sartoria, chiudendoci le mani piccole attorno in una morsa febbrile, traendo i singulti non dalle lacrime, ma dalla rabbia.
Non percepisce del tutto il sentore di patema e apprensione dei quali l'altra si pervade, in quel forzoso epilogo di strettoia, più che notabile. Ma delibera un acume di sblocco, nel merito di quel fumoso diradare, al punto imploso, al punto esagitato e scintillante, in quel rigo incipiente, caratteristico, dello spirito dell'altra. Mancata contingenza, nel bene o nel male. A quel vago sorrisetto di scuse, sul quale campeggia l'osceno partito della sconfitta, dello smacco, incastra una parziale negazione, col capo di lei che ondeggia di lato, come se quella sensazione di potenza venisse crepata, usurata, scagionata malamente, dal gesto di penitente fardello con il quale perde contatto col salmastro del Mare di lei. Il cranio segue il movimento solo tendenzioso di stazzatura, come se il colpo d'accetta che è lo stato di lei non avesse sfibrato il ciocco tiglioso e sgraziato che è lui. Al mormorio, sontuoso di terno, dispiega la bocca in una più satura, fulgida, fertile conodotta. Annuisce una volta, anche al candore aggiuntivo della ripetizione. Fa silenzio, inquadrando con una portante intelaiatura espressiva l'impettire e lo scagliarsi dell'animo su per le pieghe dello stato fisico di lei, che compone splendore sinfonico in quel tentone di palingenesi e ritorno. Arido, quasi avido, fionda la mirata a crogiolarsi di quell'estasi di rinascita che va a scomporne l'irriconoscibile guscio presente. Annuisce, più vistoso, un paio di volte. Padroneggia, col tono della voce appena abbassato, la maniera in cui lei spiegazza quell'impalare cosciente, la nodale prepotenza con la quale discerne l'artificio e ritorna, lineare, entro il tenore e l'indisciplina tipici:
“Anche tu”
Prima di bere quel Caffè, e ridonda, sempre litografico nel proferire:
“Anche tu”
Dopo il ciocco per il quale l'istinto dell'altra salta, palpita di sussurro, perchè si, c'era anche lei, quella lei sulla quale impernia graffiatura ed elevazione, quasi ponesse un tangibile piedistallo al fattore di risvolto, conseguente, di quelle parole. Semplice e assoluto. Cerca di mettere ordine senza smaltire voce, parole, all'eccesso. Racconta una parabola con fare felpato, ad esaltare il risuono di ogni singola mozione, di ogni singola echeggiante vista sull'altra. Su Dio, scema quella trazione madornale, per lasciare giusto un angolo al favore teorico d'una frazione di voce, e alle scuse, ancora ricusa e contende l'affermazione, strigliando le verdine, quasi sintomatiche di quello smantellare che sa di vano lanciato dall'altra:
“...beh Mezzo Metro...”
Più o meno la distanza che li separa:
“...è già un traguardo.”
Sciorina, plisettando con l'incavo scartare della Voce una stentorea e nitida Ironia, che svaria anche in note d'Auto-Ironia, a non donare connotato di sorta, partigianeria, a quel concetto abusato e strattonato. Dio per l'appunto. Si eleva come tale, ampolloso di boria divertita, ma mai lontana, disallineata, eccessiva, incontenibile, come tendesse ad attutire ogni spigolo in grado di squilibrare presentimento e cognizione della Mutante che affronta. Sorride, a quell'affermazione, decisamente convinto, faccia di bronzo da prendere a schiaffi, atto a rilegare al buio il Dolce e l'Amaro del gesto dell'altra, appena anteriore, a renderli inconsistenti privandoli di qualsivoglia reale dimensione. Non avversione, semmai crisi e flessione, ad un ritmo che d'incalzante ha solo il timbro di meticolosa dedizione con la quale sprigiona il volerla trascinare fuori dal baratro, poco alla volta, tanto alla volta. Non replica subito a quella bestiale baldanza terminale di lei. La stringe. In qualche sorta la incastona, la coinvolge. L'altezza differente imperiosa si fa strada mano a mano che il braccio la tira a se, senza strappi e senza tironi. Il palmo della mancina va a calcare, inopinato ma non estemporaneo o inopportuno, la mezza schiena dell'altra, che sotto al tocco screpita, come la brace prima di morire, pronta a un incendio ancora più grande, pronta a mangiare ossigeno e convenzione tipica del legno in istanti, se appena rigirata. Finisce a ravvolgerla, quella schiena, massaggiando flebile, coerente di snatura che definisce riferimento, quello perduto, forse, da lei. La destra, se permesso, andrebbe a insinuarsi, senza stacchi, senza filtri, di foga, poco alla volta, su per il baruffare concitato del crine di lei, fino a paventare le radici di quegli steli spiegazzati, per ingolfarne la capigliatura nel gesto di grattarle piano il cranio posteriore. Il mento, che dapprima va poggiandosi sul capo di lei, si reclina. Il naso slarga un'inspirare il profumo di lei. Come a sventrare i tentativi d'un'autorità malata di uniformarla al resto. Parla con le labbra che scuotono un poco quel contatto, cita, in uno smembrare vocale che è solo di lei:
”I Guai, Signorina Romanoff, i Guai tornano Sempre...”
Sfuma, come a dire che non è di certo lei, il vero guaio, nella sua esistenza. La culla, lasciandosi artigliare.
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beholdthebornking · 6 years
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beholdthebornking · 6 years
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With a crash and burn We could make it better Turn it upside down Just you and me
We are the dream No other way To be
We are young We are strong We're not looking for where we belong
We're not cool We are free And we're running with blood on our knees 
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beholdthebornking · 6 years
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[...]
Sentenzia, fedele, pertinace, senza desumere, senza inferire, un sondaggio deciso, come operasse una ricerca priva di reale scopo. Come frugasse sul viso dell'altra qualcosa che non c'è. Goti meno pronunciate. Sclere a focalizzare una vibranza, una coloritura, maggiorata contro le iridi ineffabili, divine, che garriscono, trepidanti, pura contraddizione, varianza e scontro insieme. Riferimenti lontani. Nebulosi. Velati. Scannati di quella nota inconscia che tarpa la virtuale potenza del Genio. Che imbriglia l'eccezione a una regola involuta, scalpitante d'evoluzione. Apre e chiude, piano, quasi irrisibile, le dita della mancina, polpastrelli di indice e pollice che s'accostano, a sfregolare d'un nervosismo insito dal quale non pare in grado di librarsi. E' corteo incoraggiante, quasi lusso, quel dimenarsi squillante e infervorato, di un estro, di una vocazione quasi, che quell'estinta montatura, quella foga del cuore, gli impongono addosso. Lui che nel nulla infausto di uno scoramento catatonico ha trovato sfogo, unico sfiato, ora perde le redini. Dapprima succede per un solo istante. Mentre scagliona, privo d'indelicatezza ma pervaso di una nota capitale di cognizione e appartenenza, l'impettire di lei. Le forme che si intuiscono dietro il corpetto. Il mento alto, sul quale si sofferma per un paio di secondi. Non è solo una carezza mentale, la sua, è un proclama, sommesso ed improvvisamente scoppiante, che opera l'indistinto, la destrezza dell'indole, a esaltare l'altra. Un grido che fatica a sentire. Sterza le labbra e ruota appena il capo verso destra, sull'asse medesima, la guarda un poco di sbieco. Lampante di rivelazione e ancora fumoso di impossibile. Il soffio iniziale è come l'onda d'urto di un tamburo, che detta il ritmo di una carica. Ascolta, valente. Sospeso in quella posta pressochè immobile, che lascia sfavillare l'altra di una luce perduta. Dall'altra parte di un Lago sferzato dalla burrasca. La natura morta della destra, che finisce dietro al corpo scattante e florido della sorella, non la recapita sopra, più impegnato ad assorbire, di stima monumentale, l'opinione altrui, che tocca corde impolverate da quasi due decenni. Scuote il capo una volta. Flebile, lento, quasi imprendibile, continuando a osservarla. Non vede un fantasma. Ritrova casa in quel dirompente schieramento astrale che è lo sguardo di lei. Il dilatare le narici, il sospiro, quell'aggrapparsi alla ciocca di capelli. La risposta. E' un eco che avvampa. Nega ancora una volta, ora con più consistenza. Non c'entra Merlino. Centra Morgana. E non sente altro. Scuote il capo un'altra volta e chiude gli occhi per un secondo, come a ritrarre un'idea, un immagine, che profuma del legno cerato delle scale nuove, a Bethesda. Il fascio di stoffa dello zaino a spalle. Sua Madre che urla. Suo Padre che non c'è. E poi lei, sua sorella. Non ricorda cosa stesse facendo. Sa che c'era. Quanto basta. Gli occhi speronano di potenza, nuovamente, la realtà, a fendere e fondere ogni ostacolo, fino a quelli dell'altra, baluginano di una certa commozione, e al contempo strepitano di palese incertezza:
“...Nicole?”
E’ tutto quello che riesce a dire, fra la meraviglia e un oppressione cangiante, che rende il Cuore una pompa di veleno, che stappa una rimanenza che nemmeno sapeva di avere. Un viatico per la sua Famiglia. Non dice altro. Non si muove ancora.
Non le resta che guardare e lasciarsi osservare, frutto di una stasi che li mette ai margini di una realtà un tempo divisa ed ora di nuovo ravvicinata. Alza il mento, in silenzio. L'orgoglio è qualcosa che non viene mai messo da parte, neppure in un frangente in cui quest'ultimo non ha bisogno di esser calato in gioco, a ridosso di un dialogo in grado di estrapolare dal passato i giusti ricordi ed appigli. Eppure il mento viene tenuto alto, quasi vi fosse, da parte propria, il latente timore di un confronto incapace di esser sostenuto. Il cuore torna a battere in un tumultuoso atto istintivo, frutto di una condizione che la vede affogare in quello stesso mutismo nel quale si è immersa, volutamente. Torna a respirare ma è questione di secondi. Forse attimi. Gli occhi azzurri cominciano ancora una volta a scorrere su ogni singolo lineamento del viso altrui, lì dove il tempo ha spinto il corpo del fratello a mutare e forgiarsi sulla scia di uno sviluppo fisiologico. Tratti più spigolosi, voce più bassa e sguardo severo sono alla base di una novità che i propri occhi e le proprie orecchie si soffermano a conoscere e memorizzare. Fa quasi male, per certi versi, aver perso per strada buona parte di quegli anni che li hanno visti separati, per scelta altrui. Ed è proprio quest'ultima a far nascere, dalla bocca dello stomaco, un fastidio che evolve in qualcosa di più violento ed innato, non dissimile dall'astio che si prova nei confronti di una forzatura:
“Arthur.”
E se lui ha pronunciato il proprio nome con quell'indiscussa incertezza, lei di certezze sembra averne fin troppe ormai. L'ha cercato e trovato. L'ha guardato e infine studiato in un lasso di tempo utile a permettersi di osservarne i movimenti che l'hanno condotto da lei, come unica introduzione ad un dialogo che prosegue a stento, tra dubbi e domande espresse appena. E quella stessa conferma che sembra aver trovata la offre anche a lui, sulla scia di un movimento che la vede annuire appena, tra fastidio e felicità smorzata in partenza. Muove difatti un mezzo passo indietro, spinta da una sorta timore atavico nei confronti del contatto fisico o di quello che potrebe portarla a rivelare apertamente la natura di un braccio protesico che muove a stento, tra dolore e fatica celati a malapena
[...]
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beholdthebornking · 6 years
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Lo scafato caracollare, vispo, diabolico, del diluvio martella, ribaldo, sul capote della Cadillac. Non è una macchina qualsiasi, quella in cui sono. Un’Escala di un elettrico, opaco, nero oblio, piuttosto scuro, che sfonde nel obliato trapassare col buio portato dall'ora, sporcato dalla pioggia. La Radio è sparata a un volume alto, ma non a sufficienza per surclassare le voci. Vola nell'aria una melodia piuttosto Anni '80. Parliamo degli Spinners, Rimasterizzati, con Rubberband Man. Sono stesi sul retro.
Le si avvicina. Un accostarsi stolido, felpato, bruciante senza l'intenso strepitare della fiamma viva. Come Luce senza Suono. Va a lambirle il naso, con la punta del suo, pianissimo. Genera un'ascesa orchestrale, privata del ritmo, come armonica melodia che scagiona la dimensione dal limite della prospettiva. Rigira appena il capo, per incastrarsi sull'altrui. Sfiora, con le labbra, ambedue, il superiore di lei, piano, a sospingerlo, costringerlo all'indietro. L'inasprire, molesto, della florida calanca che sono i baffi, spessi, a corroderle il derma tonico, delicato, attorno all'attaccatura. Aspira un poco, e dunque apre le labbra, per schiudere quelle dell'altra, subitaneo nel farsi caledoscopio avido, predace. S'inabissa in lei, se permesso, di prepotenza, con un miscuglio d'equilibrio, scordato, incapace di definire la gestura violenta. Solo passionale, veemente, di foga, andrebbe a sprigionare il gusto sul gemello, per ruotarlo, orbitare e scappare dallo stesso, fin a spuntare il palato, assaggiare il cuore solido di un viceversa volatile senso di potenza, d'Amore. Quello sprone inconscio a tirare un respiro, e sentire solo l'incedere acuito della menta, dell'agrume, del ferro, del sanguigno e impersonale sfaso di un processore. Tutt'uno e tutti per se. Tre, quattro, cinque secondi, a possedere quella bocca, per distrarsi solo un momento, ritirandosi, rimanendo labbra su labbra, e pronunciando, adagio, un sussurro quasi grutturale:
“Se ti giri ti massaggio... ma... prima...”
Le bacia il naso, nel gesto di ritirarsi, e finisce per frapporre fra lei e lui, in un silenzio che è quasi innaturale, trattenendo fra i polpastrelli di indice e pollice destro un anello, dal gambo inferiore. Sebbene la luce non sia l'ideale, è ben distinguibile la forma classica dirotta, tuttavia dal colore, e da una piccola imperfezione. La fascia risulta essere in puro oro blu, non troppo scuro, lavorata a imitare, finemente, la forma di alcuni meccanismi rotondeggianti su più livelli, simili a quelli di un orologio, ma ben definiti da coperture parziali che richiamano quelle di una famosa cabina telefonica. Un incastonatura a griffe trattiene, fra artigli in platino, bluastro, dalla forma evidente di quattro cacciaviti sonici, un Diamante a gradazione colore G, purezza VVS-VS, da dodici carati. Sull'interno della galleria, poche parole incise, leggibili e in rilievo "Together, Forever, trough Time and Space". Glielo mette proprio davanti al naso, lo sguardo fisso in quello dell'altra:
“Sposami...”
Le propone. Il piglio vocale è al punto cristallino, nervoso, stringato, energico, da favorire un connubio che è pura essenza, innata, paradossale e assoluta insieme. Per proporre lei si sistema speculare, girando giusto il torso, senza puntellare il capo, che resta svariato rispetto alla posta parallela al terreno dell'altra, adagiato parzialmente sul bracciolo e sul cuscino.
Quando avvicina il viso, lei, Murphy, è reattiva nel rispondere: il mento si solleva appena, così da agevolare quel leggero sfregamento tra la punta dei loro nasi mentre gli occhi cercano e si focalizzano su quelli di Arthur per un lungo istante. Quando sono le labbra a sfiorarsi, chiude lentamente le palpebre e si sbilancia leggermente in avanti, accogliendo ed anticipando l'impeto altrui, che ben presto le ruba quel bacio: le labbra si schiudono, pizzicate piacevolmente dai baffi altrui, mentre la punta della lingua guizza in avanti, ricecando quella del compagno così da avvilupparsi ed intrecciarsi alla sua. Istintivamente la mano sinistra si allunga, per appoggiarsi delicatamente sulla guancia destra di Arthur, un gesto che per un istante interrompe la passionalità di quel bacio, dolorante, prima di recuperare poco dopo: è un contatto ruvido, visto che la pelle del palmo è segnata da abrasioni non del tutto guarite. Si stacca dopo quei pochi secondi, intensi, arrivando ad umettarsi le labbra sul finale, come a voler godere maggiormente del suo sapore, mentre davanti a quelle poche parole sussurrate, scuote appena il capo:
“No, mi fa troppo male.”
Ammette riguardo alla scapola, rifiutando così il massaggio in modo tuttavia garbato, tanto da rivolgergli comunque uno sguardo grato. Infine si concede un profondo respiro dalle narici, gonfia appena il petto in attesa di ascoltare la risposta altrui in merito a quella richiesta, prima di portare l'attenzione su quell'anello, che le viene messo davanti al naso, dopo essere stato sfilato da una tasca. Gli occhi si sgranano e la bocca si schiude per l'evidente sorpresa, tale da portarla ad emettere uno sospiro, secco, tipico di chi rimane letteralmente senza fiato: gli occhi si fanno visibilmente lucidi mentre alterna lo sguardo dal gioiello ad Arthur, ripetutamente. Ad un certo punto sembra anche confusa su chi concentrare maggiormente l'attenzione tra i due:
“Io...”
Sussurra, impreparata:
“Avevo riflettuto a fondo su come sarebbe dovuto andare questo momento: io ti avrei chiesto di chiedermi di sposarmi, tu l'avresti fatto e allora io non avrei risposto, perché prima dovevamo valutare i pro e i contro, così da avere una lista e decidere se fosse veramente il caso di sposarci.”
Ammette, buttando fuori come una macchinetta, come a voler cercare di metabolizzare meglio quella situazione imprevista:
“Questo non... Non me l'aspettavo. Non era presente nei miei piani.”
Allude all'anello, dettaglio che l'ha lasciata evidentemente paralizzata. Richiude così le labbra, deglutisce un paio di volte, a fatica mentre gli occhi cercano nuovamente quelli del compagno, palesando un insieme di emozioni diverse: confusione, paura, eccitazione... Tutte quante che si sovrastano e mescolano insieme
“Vuoi che ti sposi anche se sai che sono già sposata?”
Gli domanda.
Lui arrota, scintillante, gli smeraldi, che sfasano quasi a esplodere, scuote la terra tanto è cocente, vigoroso, sottile, forsennato, inoppugnabile, toccante, secco, feroce, canicolare, nello sprone che fomenta con lo sguardo, che rimane invece fisso, quasi drastico, assoluto, a fermare e cambiare il folto intuito della realtà. Senza bisogno di una Gemma Rossa. Appoggiandosi unicamente a quel paio di preziosi, color ambra bruciata, che insistono a non fermarsi. E' l'impreparazione. Il sussurro. Le linee scompigliate del viso, le labbra che schiudono, gli occhi che si illuminano. Il potenziale invasivo senza volontà, sontuoso, sfila nell'altra, fin a toccare l'anima. Indaga, privo di grazia, senza rovinare, ma seguendo quasi inclemente competitore, inaudibile e chiazzato di quell'equilibrio precario fra il defilarsi e la brama di appunto, che innato sfodera una registrazione inconscia. Vede tutto, senza saperlo. Ogni piccolo dettaglio è preso, svitato e ridestato su quel pulviscolo obliato che si fa sempre più definito. Racconta, tralasciando dapprima il dire sull'allusione, e spostandosi cardiale sulla domanda finale:
“Un pezzo di carta, frutto di scambismo, non ti rende la Donna più felice del mondo. Io si.”
Asserisce, diretto e fiammante, di certezza che profila con una fissazione quasi incalzante degli occhi [...] Accenna oltre lei, verso quel primario edificio che campeggia sull'auto, non troppo risibile da quella posta di entrambi:
“Quando sono arrivato a Philly abitavo qui. Ero convinto, nel profondo, che una bella casa, un buon lavoro, il non dormire la Notte, potessero distrarmi dalla fondante rottura cui sono stato costretto. Bramavo disgrazia per placare il dolore. Intento a fare d'un vortice l'esaurirsi pratico della mia esistenza. Galleggiavo.”
Propone. Stringe il pugno mancino, forte, parzialmente celato dal corpo, in quella posta astrusa con cui fronteggia l'altra. Anche le mandibole si contraggono un poco, mentre i capillari dello sguardo si riempiono d'inchiostro, annunciatore di una tragedia mai davvero raccontata, del tutto, nemmeno a se stesso. Rigira l'anello nei polpastrelli, annullando alla vista dell'altra l'effettiva circonferenza, lo pone di profilo, lei vedrà solo una linea, pone dunque riscontro visivo alle parole successive: 
“Avevo annullato l'unica dimensione capace di garantirmi un poco di pace” 
Inspira, profondamente, senza staccarle gli occhi di dosso, sorride, caldo, confidente, bruciato dalla rivelazione pregna di sensazione, sentimento, Amore, potente e cangiante, come un vento etereo capace di spazzare la Morte:
“Tu sei arrivata. Mi hai raccontato che potevo ancora muovermi. Tornare a nuotare...” 
Le prenderebbe la mano sinistra, trattenendo appena l'indice di lei sotto il suo, quasi a guidarlo a sospingere, nuovamente, l'anello, che ora trattiene con indice e pollice della destra sulla sommità e sulla base, per far riapparire, alla vista di lei, alla sua, la circonferenza, poco alla volta:
“...Che ogni dimensione è relativa. Che non esiste niente di più degno della sorpresa, per creare qualcosa...”
S'aggancia si all'imprevisto da lei citato, ma anche e sopratutto alla maniera generale in cui questo qualcosa, fra loro, è nato:
“...in grado di sorpassare tutto e tutti. Al punto che quando rimani senza, vivi come eco, in una chiesa svuotata dalla Fede.”
Ritaglia un unico distogliere dello sguardo, istantaneo, che s'appoggia all'anello per un attimo. Le lascia andare l'indice, sul quale ha disegnato il suo, e va a sostenere col dorso, la mancina altrui, rigirando l'impugnatura nei pressi dell'anulare di lei, spingendolo appena ad avvolgerlo, per poi stagliarsi novello, scattante e innamorato, entro la fangosa, brillante, quietezza, di lei:
“Ti Amo”
Tace, ascoltando la risposta del compagno, quell'affermazione così diretta ed incalzante, che la porta a distogliere per un momento lo sguardo da lui, ad abbassarlo e a distendere le labbra in un lieve sorriso:
“Sei arrogante, ma hai ragione.”
Risponde in un leggero slancio ironico, confermando il fatto che lui sia la fonte della propria felicità. L'attenzione di lei viene dunque portata verso la mano sinistra, verso il contatto del proprio dito indice e dorso, prima che l'anello venga appoggiato alla prima falange dell'anulare, per pochi istanti: il respiro sembra interrompersi, deglutisce a vuoto ed espira proprio in concomitanza del completamento di quel movimento interrotto, che ora vede l'anello scorrere verso il basso, raggiungendo così la falange finale e la base del proprio dito. Lì dove dovrebbe stare. In quel preciso spazio. Osserva per un lungo momento il gioiello, prima di riportare lo sguardo su Arthur stesso:
“Ti amo anche io.”
Risponde in un tono di voce quasi incredulo ma profondamente sincero. Una confessione davvero sentita, carica di un sentimento onesto. Puro:
“Ti ricordi quella volta che ti ho detto che non avevo bisogno di essere salvata, perché non volevo essere salvata? Ho mentito.”
Risponde, quasi ovvia; come se quella risposta fosse fin troppo scontata:
“Io non sento di averti aiutato molto nel farti ritrovare un tuo equilibrio. Anzi penso proprio di aver fatto il contrario: ho stravolto tutto il tuo mondo.”
Per una volta non ne fa una questione di vanto, c'è profonda consapevolezza nel tono di voce: un'ammissione sincera. Sbuffa un sorriso:
“In effetti anche tu hai stravolto il mio, di mondo, ma in maniera positiva; qualcosa che sinceramente non sento di meritare.”
Dice, scuotendo appena la testa, come se si fosse resa conto di aver parlato troppo:
“Scusa, sembra che ti sto dicendo che tutto quello che abbiamo, tutto ciò che mi dai, mi fa schifo. Non è così. Io sono felice. Sono Molto Felice...È che non te lo so dire come si deve.”
Conclude alla fine, lasciando bene intendere la propria incapacità nel non saper esprimere a voce i propri sentimenti.
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beholdthebornking · 6 years
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Accidentato. Come lo scoglioso banco di ceppi pietrosi, disseminato di graffiti, fra Lensen e Walnut. Non è un intuzione manifesta, descrivibile. E’ più il cupo offuscare di una spilungona pertica, contro una distinta, tersa, Notte di Primavera. C’è quel silenzio sottile, tagliente come il filo di un foglio di carta, ormai dimenticato dietro all’arrotata, concitata, digitale deriva del mondo, asperso dal frusciare sommesso di miliardi di Ioni attorno a un catodo, fra i bagliori rubino delle palmiere, dei propulsori. 
Quando vorresti conoscere solo il buio e l’incosistenza della grandinata temporale. Quando un carapce di metallo nero come l’oblio ti avvolge. Quando sei pronto a uccidere qualcuno, quasi con il pensiero.
Per fare giustizia, forse. Più per tornare a sentirti vivo, dirompente, scatenato. Per poter dissestare il fatto, mera insicurezza, mascherata da uno scrosciante effluvio di padronanza, d’agio, di quella natura inscappabile che non ti permette cali di tensione, mai, che senza lo splendido fango in cui hai scelto di annaspare, avvinghiato il quale hai scelto di lottare, sopra il quale hai scelto di tornare ad amare, non sei niente. 
Senza quella pozza sempiterna, colmata, tollerante, di un condizionale che è costruzione, invece di fuga, avversione e negazione, c’è un dispregio viscerale che tarpa ogni pensiero. Un’incompetenza al più semplice dei respiri. Peggio di uno scopo che si compie. Peggio del realizzare che ancora sei vivo, di potenza, su di una pletora di macerie.
Manca quel calibro compassato, su uno spartito di note, che dà ritmo ad una composizione altrimenti fuori dimensione.
Manchi tu. Quanto il contatto con quel foglio ripiegato perfettamente in quattro, dalla crittura precisa e indenne, senza la minima sbavatura o dispiegata, fra l’indice e il pollice del guanto destro, corazzato, nell’attesa. 
Ti preservo. Intoccata. Criminale. Tu che hai fatto dell’aspettativa, il nulla. Tu che hai spinto la mia vista fuori dallo schema. Tagli sanguigni, che scarcerano un cremisi brillante, tornano ad inquinare il calore del vecchio lampione. Sulla carta. Ancora.
Vorrei cominciare questa lettera con parole diverse dal classico: "Se stai leggendo queste parole, significa che mi hanno arrestato", ma rovinerei quest'inizio ad effetto.
Mi auguro soltanto che tu non abbia assistito alla scena o che comunque non sia stato troppo... difficile, per te.
Dirti che mi dispiace è relativo e quasi scontato, per me, ma non per Te. Non credo di avertelo ripetuto abbastanza, così come non credo di averti detto che ti amo. Avrei potuto dirtelo più spesso ma non l'ho fatto: non perché non provi questa sensazione priva di qualunque logica, ma perché ne ho timore.
Non ho amato tanto o spesso nella mia vita da poter dire di essere un'esperta, questo forse è l'unico merito che non mi prendo, ma in qualche modo conosco bene la sensazione che lascia, quando finisce. Sono arrivata a conoscere solo quella sensazione di vuoto e di solitudine, che ostinatamente hai voluto buttare giù, che si incontra quando qualcuno che ci è caro, ci lascia.
Ogni volta che ho provato o ho detto di voler provare qualcosa per qualcuno, è finito sempre che mi sono ritrovata da sola. Perciò se non ti dico spesso che ti amo, è solo per paura: temo che se cominciassi a dirlo troppo spesso, diventerebbe reale; e diventando reale, avrebbe fine.
Spero che tu sappia che anche se per te non ha senso ciò che sto dicendo, ha senso per me. Che forse non ti amo come dovresti ma lo faccio a modo mio: in silenzio. Con lo stesso silenzio e cura che si riservano alle cose più preziose.
Forse non te lo dico spesso ma voglio che tu lo sappia, adesso. E voglio anche che tu mi prometta che qualsiasi cosa succeda, ne resterai fuori. Per quanto possa essere dura, per quanto possa essere difficile, questa è ancora la mia vita: non la posso cambiare ma posso evitare che ti risucchi come un buco nero. È un vortice da cui una volta entrati, non si esce più.
So bene di aver già stravolto la tua vita e me ne scuso. Mi dispiace perché non credo che tu sia realmente pronto e convinto di che cosa significhi stare insieme a me; e quando te ne sarai reso conto, temo di vederti sparire. Ma se mai quel giorno arriverà, se ti accorgessi di aver commesso un terribile errore, sappi che andrà bene. Sarò pronta.
Sono pronta anche adesso. Lo sono sempre stata.
Tua, Murphy.
Il pollice destro accarezza l’Aggettivo Possessivo, sul ruvido, salace, tatto della carta, che si limita a immaginare. Quanto può limitarsi a immaginare lei. Unica creatura incapace di deludere qualsivoglia speranza, fiducia.
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