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I minori non accompagnati sbarcati ieri sera dalla Diciotti sono infine 27. Tra questi 25 sono ragazzi e 2 sono ragazze. Una delle ragazze è somala, mentre tutti gli altri sono Eritrei. Hanno un età compresa tra i 14 ed i 17 anni. Tutti hanno passato lunghi periodi di detenzioni nei lager libici, anche fino ad 1 anno e mezzo. Ne portano i segni ben visibili addosso; sono tutti molto molto magri e molto provati. Stessa cosa per le altre 150 persone private della loro libertà sul ponte di poppa di quella nave. Arrivano dall'Eritrea, in fuga dal servizio militare obbligatorio e da una delle peggiori dittature al mondo. Il rapporto 2015 di Freedom House inserisce l’Eritrea tra i 12 peggiori paesi al mondo (“Worst of the worst”) per quel che riguarda diritti e libertà civili e politiche. Ad Asmara c’è un presidente in carica da 22 anni (Isaias Afewerki è al potere dal 1993); non esiste stampa libera (l’ultimo giornale non governativo è stata chiuso nel 2001 e i giornalisti imprigionati); è impossibile avere visti per lasciare il paese legalmente, non ci sono elezioni dal 1993, senza libertà politiche e di associazione, senza potere giudiziario e fonti d’informazione indipendenti. Ogni eritreo è costretto alla leva obbligatoria di 18 mesi, ma in pratica il periodo di servizio militare è indefinito, durando spesso più di un decennio.Le condizioni del servizio militare sono considerate al pari della schiavitù e i soldati sono spesso costretti ai lavori forzati, oltre che ad abusi fisici e torture. Il viaggio dall’Eritrea all’Italia, e all’Europa in generale, che attraversa Etiopia, Sudan, Libia, può durare anche 2 anni ed è una tratta pericolosa, caratterizzata da abusi, violenze e spesso torture. Comprese quelle perpetrate dal Ministro degli Interni e dallo Stato Italiano.
Vento Ribelle (FB)
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Come nell'America del primo ‘900
Il 5 giugno 2018, a Como, due autisti di autobus furono picchiati da quattro immigrati africani.
Se ne parlò molto, in quel momento.
Salvini era diventato da poco ministro dell’interno e un po’ ovunque si invocavano “pene esemplari” per i colpevoli.
Il 6 giugno, i quattro erano già stati tutti arrestati, giusto in tempo per la visita di Matteo Salvini, che sarebbe avvenuta due giorni più tardi.
Un capolavoro di celerità che avrà senza dubbio soddisfatto moltissimo il ministro leghista.
Due dei quattro presunti colpevoli, Abdulganiyu Oseni e Jolly Imade, nigeriani, furono catturati quasi subito, ed entrambi ammisero di trovarsi a bordo di quell’autobus, pur minimizzando il proprio ruolo nel pestaggio.
Per i gambiani Salifu Camara e Yusupha Ceesay, invece, le cose sono andate un po’ diversamente.
Sono stati fermati dopo, altrove, riconosciuti sulla base di due tratti distintivi abbastanza “discutibili”, per usare un eufemismo: la maglietta gialla che indossava uno e il cappellino grigio sulla testa dell’altro.
Esatto: i due sono stati arrestati e poi riconosciuti dagli autisti aggrediti sulla base di un’identificazione fotografica sommaria, in cui erano gli unici ad indossare una maglietta gialla e un cappellino grigio, gli indumenti che loro stessi avevano segnalato alla polizia per descrivere gli aggressori.
Immaginate di essere picchiati da quattro uomini africani che vedete per la prima volta in vita vostra.
E immaginate che, a distanza di parecchie ore, vi mostrino delle foto per chiedervi di riconoscerne un paio.
E in quelle foto solo gli imputati indossano degli indumenti simili a quelli che voi stessi avete provveduto a segnalare nella descrizione alla polizia.
Il riconoscimento di Como è avvenuto così.
Ma uno dei due gambiani, al momento dell’arresto, aveva con sé una bici.
E l’altro era stato visto da una testimone (ritenuta, però, inattendibile, visto che a quanto pare ricordava “troppo bene” gli orari, a detta del giudice) in un altro posto, all’ora del pestaggio.
Poi sono spuntate le immagini della video sorveglianza di un tabaccaio.
Immagini cui si vede chiaramente il gruppo di africani, non si vede il ragazzo con il cappellino grigio, ma c’è quello con la maglietta gialla.
Quel ragazzo non è Yusupha Ceesay.
Ma secondo il giudice, il fatto che un altro africano con una maglietta gialla comparisse nel filmato non esclude che, non inquadrato, da qualche parte ci fosse anche lui, il ragazzo identificato in base al colore della sua maglietta.
Attualmente, Yusupha Ceesay, dopo diversi giorni di carcere, è ai domiciliari.
Salifu Camara resta in galera.
Insomma, giustizia è stata fatta e le impeccabili forze dell’ordine di Como hanno incassato i complimenti dello sciacallo padano per la loro abilità nel catturare immediatamente i “colpevoli”.
Perché tanto erano colpevoli di sicuro.
Erano neri, no? Serve altro?
È curioso come l’Italia del 2018 inizi a somigliare sempre di più all’America di Sacco e Vanzetti.
Emiliano Rubbi via Facebook
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Ciao terroni
Ciao terroni, come va? Mi ricordo di voi, eravate quelli che arrivavano con il treno e la valigia di cartone, scendevate a Torino o a Asti e vi piazzavate davanti al municipio: «Vogliamo una casa». Eh, bravi. La fate facile. Altro che 35 euro al giorno. Parlavate di «diritti», ma i doveri? «Ma noi venivamo a lavorare». Cazzate. Non avevate voglia di far niente. Il terrone, piccolo, scuro e con i baffetti, non aveva voglia di fare un cazzo. Se proprio entrava in fabbrica, nel tempo libero andava al bar a giocare a carte. Il piemontese, nel tempo libero dalla fabbrica, andava nei campi, nelle vigne: il terrone niente. D’altronde, si sa, ad Alba, negli anni in cui ero ragazzino, i primi ’80, si sapeva che Ferrero e Miroglio, le due aziende più grandi, erano state costrette ad assumere meridionali, controvoglia, perché i piemontesi erano finiti. Stavate in via Maestra, a gruppetti, a fare non si sa cosa, noi dovevamo abbassare lo sguardo perché altrimenti arrivava il «Che cazzo hai da guardare?» ed erano botte. Vi chiamavate Di Gangi, Cotilli, Esposito, Caruso, Rizzo, Di Gianbartolomei, Romeo. Venivate dalle popolari, picchiavate, sia nei cessi delle medie che alle feste di paese. Noi, se dovevamo insultare qualcuno, lo chiamavamo «tarrone». Nemmeno terrone, ma con la a, perché in piemontese si dice «tarùn». Gazzetta d’Alba nel 1963 titolava «Voteranno anche 200 meridionali», alle politiche imminenti, questi oggetti sconosciuti, questi esseri che chi lo sa cosa vogliono, e chissà che cosa votano. In ogni compagnia c’era il terrone buono, ognuno di noi aveva uno zio acquisito (si specificava: «Acquisito, eh!»), venuto su perché militare, o una zia acquisita perché lo zio di sangue era avanti con gli anni e prendeva moglie giù, per non rimanere zitello. Quelle volte era un distastro. «Ma chiel lì a l’è ‘n napuli», quello lì è meridionale, si specificava con stupore, quando si aveva notizia di qualcuno che s’era innamorato e sposava un terrone. «Ma noi vogliamo bene a tutti», se proprio si voleva giustificare il nipote, o il figlio, se proprio si era di buon cuore, si diceva, senza rendersi conto di quanto in realtà vi disprezzavamo: perché, di grazia, si deve puntualizzare di «voler bene a tutti», che cos’hanno di male quelli nati a Trani o a Potenza, per il solo fatto di essere nati a Trani o a Potenza? Spacciavate. Sì, terroni, spacciavate. Si leggeva la cronaca e se c’era un reato era sicuro che il colpevole si chiamava Di Gangi, Caruso, Rizzo, Di Gianbartolomei, Pasquale o Rocco o Salvatore di nome. «Eh, son tutti di loro», commentavamo. Perché quelli buoni, dicevamo, non venivano su. Su, al nord, veniva la feccia. Il palermitano gran nobile, o il napoletano gran giurista, quelli mica venivano, quelli rimanevano giù. Mica scemi. Qui venivano i delinquenti. Qualcuno, timido, provava a dire: «Eh, ma laggiù c’è la mafia», e tutti gli altri ribattevano: «Appunto. Invece di stare laggiù a combattere la mafia, preferiscono venire qui a non fare un cazzo». Oppure a fare quei lavori che noi schifavamo: i secondini, i carabinieri, l’impiegato pubblico, il bibliotecario, quelli non sono lavori, sono remunerazioni in cambio di qualche ora passata in qualche posto. Lavorare è un’altra cosa: è nel privato che si lavora, nel pubblico non si fa un cazzo, e noi del nord andavamo nel privato, mica nel pubblico. «Non si affitta a meridionali» perché voi terroni dicevate di essere in due e poi eravate in sette, c’erano Ciro, Salvatore, Cosimo, Calogero, Mimì, Totò e insomma affittavi a uno e ne trovavi dieci. Ognuno di noi aveva il terrone buono, dicevo, l’amico – proprio come il ne*ro eletto in Senato per la Lega, o l’altro buono che la comunità del mantovano ha deciso di adottare: quello è terrone ma è mio amico. Le nostre nonne dicevano: «È della Bassa, MA è una brava persona». Insomma ci facevate schifo, come gruppo, di tanto in tanto qualcuno di voi, come quando addomestichi un animale, ci era magari simpatico. Oh, mica è passato troppo tempo. Vent’anni fa ci furono i gazebo per l’indipendenza della macro-regione del Nord, si dibatteva se un marchigiano era un terrone e andava fatto affondare nei debiti della sanità, o salvato nella gloriosa Padania. Un laziale, mi dispiace amici laziali che ce l’avete con i napoletani e li chiamate terroni, era un terrone. Vi schifavamo. Poi è cambiato qualcosa: sono arrivati i ne*ri, e allora abbiamo trovato qualcosa da schifare ancora di più. Ci pensavo stasera, terroni: i ne*ri sono riusciti là dove non è riuscito Cavour: a fare gli italiani. Insomma, fatta l’Italia – diceva Massimo d'Azeglio – rimaneva da fare gli italiani. Eccoli, eccoci: ci siamo scoperti fratelli così, dandogli al ne*ro. Però io sono del nord, e mi ricordo, terroni, che ci facevate proprio schifo. Forse non ve l’abbiamo detto abbastanza, non siamo stati efficaci, perché aveste saputo con quanto disprezzo siete stati nostro malgrado accolti, forse oggi non votereste Salvini, avreste timore soltanto a nominarlo, il ministro dell’Interno. Invece mi pare che lo votiate senza problemi. Secondo me, terroni, dovreste vergognarvi a votare Salvini. Almeno quanto noi del nord, certo, dovremmo vergognarci anche soltanto per averle pensate, certe cose. Quelli sono conti nostri che continuiamo a fare, o almeno: che qualcuno nel privato fa. Ma voi, terroni, Salvini proprio no. Comunque, contenti voi. È un pensiero così, ascoltando in metro un uomo dal forte accento del Sud dire che tutti i ne*ri spacciano, che dovrebbero essere ammazzati. Buona serata, napuli.
Marco Giacosa
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“Io mi ricordo che negli anni ‘70 c'erano dei migranti che si chiamavano “i maruchèin”. I maruchèin venivano da un posto che si chiamava “la bassitalia”, e vivevano nelle nostre città in posti dove la gente perbene non voleva più vivere perchè c'era l'umidità sui muri, o non c'era l'ascensore. Delle volte vivevano anche in dieci o dodici in un appartamento, e facevano dei lavori che la gente perbene non voleva più fare, tipo in edilizia sulle impalcature o nelle fonderie. I maruchèin non si chiamavano così, eravamo noi che li chiamavamo così. o almeno io li sentivo chiamare così nei bar o sull'autobus dai tizi coi baffi e col borsello, o dalle signore eleganti, quando saliva uno di questi lavoratori per dire, portavano la mano alla bocca come per non farsi sentire, e dicevano al vicino “maruchèin”, per dire che era salito uno di quelli lì, e l'altro faceva di sì con la testa, per dire che l'aveva capito anche lui che era un maruchèin. Tra di loro i maruchèin non si chiamavano in nessun modo, perchè venivano da posti diversi e loro probabilmente si vedevano uguali e diversi al tempo stesso, pensavano forse, figurati, di essere gente come noi. In terza elementare quando stavo a Portile il mio migliore amico era un bambino che si chiamava Filippo e che era appena arrivato da Palermo, che era uno dei posti da dove venivano i maruchèin. Io Filippo lo chiamavo Filippo, ma c'erano sempre degli altri bambini che lo chiamavano maruchèin, e mi ricordo che a me dispiaceva. Poi, quando al doposcuola c'era da fare la partita di calcio e c'erano i due capitani che facevano le squadre, che i due capitani erano quelli più togo, e mi ricordo che io e FIlippo restavamo sempre in fondo, ultime scelte, io perchè a giocare al calcio ero proprio lofi, lui perchè era maruchèin. “Te prendi Fantoni o il maruchèin?” diceva uno dei due capitani, “Il maruchèin”, faceva l'altro, perchè a giocare al calcio io ero lofi un bel po’.
Dopo un po’ di anni però è capitato che i figli e le figlie di queste persone perbene che dicevano “maruchèin” ai nuovi arrivati, avevano finito con l'innamorarsi dei figli e delle figlie dei maruchèin, che l'amore è una roba che non sta tanto a guardare per il sottile, e poi si erano anche sposati.
Subito le persone perbene ci erano rimaste male che i loro figli si fossero sposati con i figli dei maruchèin, che magari si trovavano ad avere una nuora che non sapeva neanche fare i tortellini, ma poi era finita che una volta li avevano invitati a cena i consuoceri, e lo sai te che poi le orecchiette non son mica male? E d'estate la gente perbene aveva cominciato ad andare al mare ospiti della famiglia di quei maruchèin con cui si erano imparentati, e tornavano con l'idea che quei posti dei maruchèin eran proprio dei bei posti, e che quei maruchèin lì erano gente davvero ospitale, che se te eri loro ospite eran pronti a tagliarsi anche un braccio se per caso ne avevi bisogno. E certe mangiate di pesce! Così si erano ritrovati con dei nipoti che erano un po’ di sangue maruchèin, ma a quel punto non se la sentivano prorpio più di chiamarli maruchèin, piuttosto si sarebbero cavati un occhio per quei bambini lì, che non c'è una cosa più bella di avere dei nipoti da viziare.
E’ finita allora che dopo un po’ gli anni ‘70 non c'erano più, e non c'erano neanche più i maruchèin, che ormai erano persone come noi, proprio uguali eh! Bravissime persone alla fine se li conosci sti maruchèin!
Poi ha cominciato ad arrivare della gente dall'Africa, e nei bar e sugli autobus la gente li chiamava “Talebani”…”
-Francesco Fantoni-
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E così è venuto fuori che il nero fotografato sul Frecciarossa aveva pagato il biglietto, dimostrando di non voler rispettare le nostre tradizioni.
(via coqbaroque)
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(Blade Runner 2049 ha – almeno – un problema) (no spoiler)
E il problema è che Harrison Ford, con la vecchiaia, ha messo su tutto un sistema di rughe d’espressione che gli fanno assumere continuamente le smorfiette di Indiana Jones. Quindi, a quanto pare, Harrison Ford adesso potrebbe anche fare ventimila seguiti di Indiana Jones, e sarebbe perfetto, ma non è più davvero Han Solo, come abbiamo visto, ahinoi, un paio d’anni fa; e non può più essere pienamente Rick Deckard, come ho potuto constatare, ahime, ieri sera in un cinema di Carpi. Harrison Ford, piaccia o non piaccia, adesso, ahilui, è Indiana Jones.
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Credo che orma si sia capito, che non eravamo pronti per internet.
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