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musicultura-blog · 5 years
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Carlotta Natoli a La Controra di Musicultura 2019: “Fare l’attrice è un fatto di poesia.”
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Sabato 22 Giungo è terminato lo splendido viaggio de La Controra di Musicultura, una settimana di incontri in musica, poesia, letteratura, con l’appuntamento di cui è stata protagonista Carlotta Natoli, figlia del piccolo e grande schermo. 
L’attrice, a soli 8 anni si ritrova nel cast di Con…fusione, di cui il “papà artigiano” - come lei lo definisce - è regista. Volto riconoscibile in molte serie tv, solo per citarne alcune Distretto di Polizia, Gli insoliti ignoti, Braccialetti Rossi, I misteri di Laura, è anche stata a contatto con il mondo dell’insegnamento. Infatti seguendo le orme materne, dal 1997 al 1998 insegna recitazione alla Giuseppe Ferlito di Firenze. La Natoli, con puntuale e leggera ironia, si racconta alla redazione di Sciuscià.
Ha esordito molto giovane. Lei ha scelto la recitazione o viceversa?
È l’arte che mi ha scelta. Ho iniziato comparendo per la primissima volta a 6 anni nel film “Armonica bocca”, proseguendo con un’altra apparizione in “Pugni in tasca”, fino ad arrivare a ricoprire un ruolo più importante a 8 anni. Son partita, praticamente, dal mondo di mio padre; lavorando, mi sono resa conto di quanto mi piacesse e quanto fosse facile per me interpretare dei personaggi. Ho una grande passione per la recitazione, però non nego che mi ha sempre interessato anche l’insegnamento, mestiere di mia madre.
Una vita tra fiction e cinema. Cosa vuole raccontarci del suo amore per la recitazione?
Il grande amore rimane sempre il cinema, anche se dalla tv ho imparato molto. Nonostante la mia preoccupazione, di essere in qualche modo risucchiata dalle dinamiche televisive, ho sempre avuto un piano B, quello del cinema. Ad oggi posso ritenermi fortunata di essere stata scelta dalla televisione, che consente di avere più tempo per studiare il personaggio da interpretare. Ovviamente è un ragionamento fatto di contraddittorietà, dove ai vantaggi si affiancano sempre gli svantaggi. Per essere un bravo attore, devi saperti muovere in quelle che sono le tre radici di questo scenario: tv, cinema e teatro.
Se dovesse interpretare un grande della musica italiana, chi sceglierebbe? E perché?
Se fossi una donna mi piacerebbe essere Fiorella Mannoia; se fossi un uomo, Lucio Dalla. Sono due grandi artisti che, anche se per aspetti differenti, hanno segnato la mia vita.
Ha presentato le tante sfaccettature femminili interpretando donne forti e diverse tra loro: ci sono delle persone della sua vita da cui ha tratto ispirazione?
Assolutamente sì. Alcuni volti ben conosciuti, altri intravisti. L’attore ha sempre un repertorio a cui attingere, per prendere spunti e coglierne aspetti particolari.
Se Musicultura fosse un film, quale sarebbe il protagonista principale?
Sicuramente Al Pacino, che è in grado di interpretare tutti i generi, partendo dal classico, al repertorio shakespeariano, fino al contemporaneo; si è sempre messo in gioco e continua a farlo, grazie anche ad uno studio continuo del mestiere. Inevitabile è il collegamento con Musicultura: l’attore dovrebbe sempre avere un approccio musicale alle cose.
Giulia Mencarelli
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musicultura-blog · 5 years
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“Giovani artisti, non cercate opinioni, ma risposte”: Sananda Maitreya a Musicultura 2019
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Dopo l’incredibile performance della sera prima sul palco dell’arena Sferisterio, venerdì 21 Giugno, il multiplatino artista Sananda Maitreya ha raccontato i suoi 30 anni di Post Millenium Rock newyorkese al pubblico de La Controra, dimostrando la saggezza e l’auto consapevolezza di chi la musica l’ha vissuta in tutte le sue possibili sfumature.  
Più di musicista, molto di più: ha esordito in un paio di film e, più recentemente, ha anche partecipato alle riprese di una serie televisiva. Com’è stato vestire i panni dell’attore? Qual è il suo rapporto con l’industria cinematografica?
L’approccio con la macchina da presa è stata un’esperienza magnifica; mi ritengo, ancora oggi, molto fortunato ad avere collaborato a un progetto simile. Faccio un mestiere invidiabile.Tuttavia, essere stato a contatto con il cinema mi ha dato tempo e modo di capire il perché stessi puntando tutto sulla musica. La recitazione è stata una bella opportunità, che non mi ha distolto dallo scopo della mia vita, ossia la musica, la mia vocazione.
Icona leggendaria del soul e del R’ n ‘B. Quali sono, nel panorama musicale internazionale e non, gli artisti che l’hanno accompagnata e influenzata nel corso della sua carriera?
A livello internazionale, sicuramente prediligo i Beatles e i Rolling Stones; anche Jimi Hendrix, James Brown, il magnifico Prince e gli Slayer and The Family Stone hanno avuto un ruolo fondamentale nella mia formazione artistica. Per quanto riguarda l’Italia, sono invece appassionato di musica classica: Verdi, Puccini e Rossini.
Anni fa lasciò una major per un’etichetta indipendente, la Tree House Publishing. Da cosa, in particolare, derivò la scelta di autoprodursi?
Ho sentito il bisogno di apportare un cambiamento nella mia vita. È come quando cresci e decidi di lasciare la casa dei tuoi per vivere da solo. Avevo tutto ciò di cui sentivo il bisogno, ma al tempo stesso ho capito che era arrivato il momento di intraprendere una nuova strada: uscire dalla comfort-zone è vitale per un artista, per rinnovarsi e trovare sempre nuove strade.
La musica, in passato, veniva spesso reputata un'attività femminile e, nonostante ciò, le donne venivano comunque escluse dalle attività concertistiche e sinfoniche. Erano gli uomini a dominare la scena. Quanto sessismo c’è, ancora oggi, nell’industria musicale contemporanea?  
Anche se in misura nettamente minore rispetto ai secoli scorsi, c’è ancora oggi del sessismo nel mondo della musica. Ogni generazione ha le sue croci e i lasciti di quella precedente. Tuttavia, se posso esprimere un parere prettamente personale a riguardo, ritengo che negli ultimi anni la voce femminile, nell’ambiente artistico, stia diventando ormai un valore aggiunto.
Da artista di fama internazionale c’è qualche consiglio che si sentirebbe di regalare agli otto vincitori di Musicultura?
Molto semplice: non aspettate il consiglio di nessuno. Fate ciò che vi sentite di fare e basta, senza chiedere il permesso a nessuno. Quello che dicono gli altri non ha e non deve avere importanza quando sapete chi siete. Non cercate opinioni, cercate risposte.
Silvia Collesi
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musicultura-blog · 5 years
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A tu per tu con Fausto Pellegrini, ospite de La Controra di Musicultura 2019
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Domenica 23 Giugno il giornalista, scrittore e carismatico cantastorie Fausto Pellegrini ha guidato il pubblico de La Controra di Musicultura in un viaggio alla scoperta della canzone d’autore al femminile, presentando il suo ultimo libro Incanto.Viaggio nella canzone d’autrice. 
Fausto raccoglie di storie e di vite di artiste, tutte diverse tra loro, per esaltare la vera importanza e la rilevanza della scrittura femminile all’interno del panorama musicale italiano contemporaneo. Pellegrini ha raccontato il festival per RaiNews24 e ha parlato della canzone d’autore, del suo straordinario mestiere e di molte altre avventure in questa intervista, a cura della redazione di Sciuscià.
Nel 2009, in compagnia del poeta e scrittore Erri De Luca, ha girato l’Italia con lo spettacolo itinerante “chiacchiere e chitarre”, frutto della sinergia tra il culto della scrittura e quello della musica popolare. Come nasce il vostro sodalizio artistico?
Io ed Erri eravamo già amici. L’idea di collaborare è nata per caso, seduti sul divano: abbiamo intrapreso un’avventura insieme, nata quasi per gioco, e ci siamo resi conto che il nostro progetto avrebbe potuto funzionare. Tutto è avvenuto il maniera naturale, considerando che musica e poesia creano un binomio inscindibile. Sono estremamente fiero e grato di conoscere una persona come Erri.
Giornalista e scrittore, con il gusto della musica e del raccontare storie. Parlando di libri, cosa c’è al momento nella “Bisaccia” di Fausto Pellegrini?
Mi vengono in mente i grandi classici della letteratura italiana. Sono molto affezionato ai miei libri preferiti. Ora come ora non sto leggendo nulla di particolare, ma se dovessi consigliare un libro, sceglierei le opere dei maestri come Dante e Boccaccio.
In “Incanto”, viaggio nella canzone d’autore al femminile, compare anche la storia di Patrizia Laquidara, partecipante delle edizioni passate del festival di Musicultura. Negli ultimi anni, nel campo della musica popolare, quali cambiamenti ha portato il riconoscimento dei talenti femminili?
Lo sguardo femminile, soprattutto in musica, riesce a mostrare il mondo secondo una diversa prospettiva: le donne riescono perfettamente a rappresentare le proprie storie, in una maniera autentica, a cucirsi addosso il loro “vestito” più bello.
È autore del documentario “Guccini racconta Francesco”. Il cantautore modenese cantava “Infilerò la penna ben dentro al vostro orgoglio, perché con questa spada vi uccido quando voglio.” Da scrittore e giornalista, quanta veridicità c’è in una simile espressione?
Ho la speranza che un’affermazione simile possa, col tempo, possa diventare sempre più vera. La capacità di raccontare anche le contraddizioni di un mestiere è una virtù che va non solo protetta, ma coltivata. Questa propensione non deve necessariamente essere considerata come controcorrente, ma un modo diverso per provare a tirar fuori delle cose importanti che vanno al di là dell’ovvio, quindi una maniera diversa per raccontare e per capire il mondo. Gli scrittori e i giornalisti, quelli onesti e non quelli obiettivi, servono a questo. L’oggettività non esiste; conta solo e sempre la sincerità. Bisogna cercare e trovare, tra i tanti, il punto di vista che riesce a tracciare i confini della realtà. Questo crea un legame di fiducia tra lo scrittore e il lettore.
Lei qui è di casa, un amico fedele di Musicultura. Cosa la lega in maniera così speciale a questo festival? 
Mi piace sostenere il pensiero del festival: c’è un vincitore, ma non ci sono perdenti. Si dà spazio ai giovani, si sta insieme; tutto questo è molto importante, per chi vuole vivere in maniera sana la musica. A Musicultura si percepisce un’intensa positività, capace di coinvolgere tante persone diverse, in maniera leggera. Ad unire tutti, qui, è la cultura.
Silvia Collesi
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musicultura-blog · 5 years
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Ernesto Assante ospite de La Controra: “Musicultura, il festival che continua a resistere”
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Era il 1979 quando Ernesto Assante iniziò a scrivere di musica per La Repubblica; da quell’anno tante sono state le vicende, le esperienze, gli incontri che hanno consacrato il giornalista come critico musicale tra i più importanti e influenti del nostro Paese, riconosciuto per stima, dedizione verso il proprio mestiere e per il suo grande bagaglio culturale. 
Nella sua carriera, oltre alla carta stampata, anche radio, televisione e da poco tempo la cattedra universitaria, che gli consente di regalare i suoi aneddoti ad un pubblico nuovo, forse lontano da alcuni modi di concepire, ascoltare, fruire della musica di una volta, come quella degli anni ’60, dell’epoca hippie, della voglia di rivoluzionare il mondo attraverso l’arte, che Assante ha raccontato in Woodstock ’69. Rock revolution, libro che ha presentato in occasione de La Controra di Musicultura e in questa intervista, realizzata dalla redazione di Sciuscià.
Giornalista per la carta stampata, per la radio, per la televisione e ora anche docente universitario. Ci parla di questa sua esperienza e di quanto abbia influito l’approccio diretto con i ragazzi, nell’esplorazione di nuovi orizzonti musicali? Sono stato docente universitario per circa 5 anni; ora insegno al master di critica dello spettacolo all’Accademia Nazionale di Arte Drammatica “S. d’Amico”. È magnifico essere a contatto con gli studenti, dà soddisfazione. Trovo che, superata una certa età e avendo fatto una lunga serie di esperienze, condividerle con dei ragazzi sia la cosa migliore; in più durante le lezioni ho modo di rivivere di nuovo certe sensazioni. Se mi avessero pagato abbastanza, probabilmente lavorerei solo come professore.
In un recente articolo di Repubblica.it racconta come nasce la sua passione per il giornalismo musicale: dalla lettura spassionata di quello che l’epoca musicale forniva, al ritaglio dei settimanali, poster appesi in camera, recensione di concerti mai visti. Che consiglio si sente di dare a tutti coloro che vogliono intraprendere la sua professione?
Bisogna avere l’atteggiamento degli artisti e non dei giornalisti. Questo è un mestiere che non porta necessariamente guadagno, ma incredibile soddisfazione! Credo che ovviamente sia il lavoro più bello del mondo, che però va alimentato con grande dedizione. Nella vita ho non ho mai fatto nient’altro che questo. Un consiglio? Fare ciò che si ama, accettando qualsiasi conseguenza del caso.
Woodstock ’69. Rock revolution ripercorre lo sconvolgimento musicale e culturale che questa manifestazione mondiale ci ha lasciato. Secondo lei, in Italia, quanto c’è ancora di quell’ ideale di Woodstock?
Niente, nella maniera più totale. Ma anche tanto se si pensa a tutti quelli che immaginano ancora, anche se in minoranza, che il mondo possa essere cambiato in meglio. Speranza coltivata nel seme gettato dai quei tre giorni di Festival.
Partito su Repubblica.it in forma di scommessa folle, ora il format Webnotte è un appuntamento fisso con il popolo della rete, alla scoperta di storie musicali, dei personaggi della nuova musica e di quella di un tempo.  Come nasce il progetto?
Nasce da semplici gesti: prendo in mano il mio smartphone, lo accendo quando mi pare e metto online ciò che ritengo interessante senza imporre alla gente di assistere a qualcosa di bello, ma ordinando all’artista di suonare in una condizione semplice, come se fosse a casa mia. Webnotte ha i presupposti simili a quelli di Musicultura, ossia dare ai giovani l’opportunità di esibirsi al pubblico di Repubblica.it. Il progetto nasce perché ero insoddisfatto dalla musica italiana degli ultimi vent’anni, noiosa, che ora sto rivalutando grazie ad artisti che non necessariamente mi piacciono, ma che stimo per la passione verso ciò che fanno, per il loro impegno. Tutto questo va valorizzato e sostenuto.
Nel 2014 è stato a Musicultura come giornalista, per raccontare il Festival e coglierne i retroscena. Com’è stato ritornare?
Sono entrato in contatto con Musicultura in una delle sue prime edizioni, a Recanati. Ora torno da ospite, da intervistato e non da intervistatore: tutto ciò mi diverte, perché sono chiaramente un egocentrico, considerando il lavoro che svolgo. Mi gratifica che la mia firma sia riconosciuta e faccio finta di essere modesto, ma dentro di me sono presuntuosissimo. Tornando al festival, credo sia molto bello che da trent’anni un pubblico attento, la città, le persone che ci lavorano e che mostrano passione siano fedeli alla rassegna, con passione. Musicultura continua a resistere, nonostante le condizioni che questo Paese vuole imporci.
Mencarelli Giulia
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musicultura-blog · 5 years
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Carlo Massarini a La Controra 2019: “Vi racconto il rock dagli absolute beginners ad oggi”
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Il sabato de La Controra ripercorre La fine del sogno, quello dei Beatles, con un grande giornalista, conduttore televisivo e radiofonico: Carlo Massarini. Un artista completo che ricordiamo soprattutto, ma non solo, per Mister Fantasy - Musica da vedere e Non Necessariamente, trasmissioni televisive dedicate al rock e in particolare al concetto di videoclip.
Massarini ha rivoluzionato il modo di concepire la musica attraverso le immagini, dedicando la sua carriera allo studio di nuove tecniche cinematografiche e alla grafica computerizzata, che hanno segnato la storia dei video musicali. Nel 2009, a 25 anni di distanza dall'ultima puntata di Mister Fantasy, pubblica Dear Mister Fantasy, fotolibro sugli anni ’70 e ’80, periodi storici che ha raccontato come fotografo e giornalista musicale: un” diario di bordo” per rivivere il rock dell’epoca attraverso parole e immagini, le stesse che il giornalista ha presentato alla redazione di Sciuscià, in questa intervista.
La sua trasmissione Mister Fantasy è stata la prima trasmissione italiana a riprodurre videoclip musicali: cosa ha cambiato il linguaggio del video nel rapporto tra ascoltatori e musica?
Il linguaggio del video ha cambiato il rapporto che l’ascoltatore aveva con la musica e con i musicisti. Si tratta di una rivoluzione: Mister Fantasy nasce come strumento promozionale per poter mandare in diretta televisiva gli artisti senza la loro necessaria presenza fisica. Questo cambiamento venne inizialmente adottato dai Beatles, dai Rolling Stones, dai Quee che volevano mostrare  una loro ulteriore dimensione, quella di protagonisti di mini documentari. La realizzazione delle clip divenne così, gradualmente, un’abitudine che Mister Fantasy ha voluto evidenziare. Fu l’impronta di Paolo Giaccio ad approfittarne per farci un programma vero e proprio, per esplorare il mondo del video nelle sue innumerevoli e continue sfumature: video-arte, video-moda, video-architettura. Si creò un’idea onirica della realtà.
Il videoclip ha acquisito sempre più una maggiore importanza, diventando un elemento costitutivo del prodotto musicale, quasi quanto la musica stessa: l’avvento di Internet ha amplificato una tendenza già in atto o ne ha creata una nuova?
Internet è stato importante perché, al di là dell’avere una banca dati pazzesca, ha anche fornito ai musicisti la possibilità di esprimersi in modi diversi. Ci sono stati siti strumentali per la scoperta di nuove band e seguaci, che identificandosi con questi gruppi emergenti, hanno contribuito a costruire quello che oggi definiamo il “social”; ciò ha permesso una cambiamento nel rapporto tra musicisti e pubblico.
Oggi è a Musicultura per parlare dei Beatles: sono state le divergenze musicali a farli allontanarli o quell’invadente successo e tutto ciò che gravitava intorno a loro?
È un insieme di cose. In questa risposta, occorre indubbiamente menzionare Yoko Ono. Lei rappresenta quella forza decisionale mancata a John Lennon, arrivando a chiuderlo in una sorta di bolla autoreferenziale, fino ad allontanarlo dal gruppo. La sua presenza inizia a diventare sempre più fastidiosa: dall’intervento nelle incisioni fino a metterlo in difficoltà con gli altri membri della band. Lo scioglimento de “i quattro di Liverpool” è dovuto anche dal manager americano, Allen Klein, che iniziò a lavorare con la band, impressionando Lennon per la profonda conoscenza dei suoi lavori (recitò a memoria il testo di molti dei suoi brani). Proprio per la sua elevata preparazione, John convinse George Harrison e Ringo Starr che Klein era l'uomo giusto per loro. McCartney, però, dissentì e si rifiutò di firmare un accordo, mandando su tutte le furie i suoi tre compagni di gruppo. Questo fondamentale disaccordo portò allo scioglimento della band. Tutto ciò che è stato fatto dopo, non ha mai raggiunto la consistenza e la continuità di quanto fatto prima, artisticamente.
Secondo lei bisogna guardarsi nostalgicamente indietro, tra le grandi leggende del rock, per trovare gli innovatori o gli “absolute beginners” ci sono ancora oggi?
Per saper rispondere a questa domanda bisognerebbe avere il senso della prospettiva. Ovviamente gli innovatori pescano sempre dal passato. Tutti i grandi della musica hanno un punto di riferimento solido dal quale partire. Non nascondo, però, che anche adesso ci sono proposte interessanti, ma serve una certa distanza storica per giudicarle fino in fondo.
Da giornalista e conduttore radiofonico, quale domanda porrebbe agli 8 vincitori di Musicultura?
Istintivamente chiederei che visione hanno del loro percorso. Quanto hanno intenzione di mettersi in discussione? Quanto sono artisti e quant’è profonda la loro visione in questo momento? Mi piacerebbe sapere da loro dove vogliono arrivare: è importante darsi obbiettivi con una scadenza, avere una solidità interiore.
Giulia Mencarelli
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musicultura-blog · 5 years
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“Quando chiudi gli occhi senti i Beatles, con gli occhi spalancati…li vedi”: i Beatbox a Musicultura 2019
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Venerdì 21 Giugno sul palco dello Sferisterio i Beatbox hanno reso omaggio ai Beatles, interpretando i celebri brani che hanno segnato la storia della musica internazionale. Quello di Federico Franchi, Mauro Esposito, Riccardo Bagnoli e Filippo Caretti non è un semplice tributo alla band di Liverpool: con il loro spettacolo “Revolution The Musical” hanno ripercorso i più importanti capitoli della carriera beatlesiana, avendo cura non solo dell’esecuzione delle canzoni, ma anche dei costumi, del make up e dell’espressività. 
Al pubblico di Musicultura, i Beatbox, accompagnati dalla Roma Philarmonic Orchestra, hanno regalato una performance unica, intonando “Sgt Pepper’s”, “Hello Goodbye”, “All you need is love”, “A day in the life”, “Hey Jude”. Prima, però, si sono raccontati in questa intervista alla redazione di Sciuscià.
Ogni volta che salite sul palco è come rivivere la straordinaria epopea dei Beatles. In che modo ricostruite l’atmosfera di quegli anni?
La ricostruiamo attraverso l’utilizzo degli abiti, del make up, della iconografia tipica dei Beatles. Dietro al nostro progetto si cela uno studio artistico e teatrale dell’atteggiamento che i musicisti avevano sul palco. Inoltre abbiamo voluto utilizzare gli strumenti originali che loro stessi usavano durante le esibizioni.
Interpretando la musica dei Beatles avete una grande responsabilità artistica. Su quale aspetto puntate maggiormente, la massima fedeltà o la reinterpretazione?
Massima fedeltà! Intendiamo le opere beatlesiane come patrimonio della nuova musica classica. Così come le orchestre sinfoniche reinterpretano pochissimo le grandi opere del passato, noi eseguiamo le canzoni dei Beatles restando fedeli alla sensazione di somiglianza con la band inglese.
A tal proposito, la loro musica è senza età, per chi ama un genere che non ha seguito una moda, ma l’ha inventata. Per quali aspetti artistici vengono considerati figli della loro epoca e per quali, invece, hanno anticipato un nuovo periodo storico?
I Beatles sono figli della loro epoca per la ricerca di qualcosa di nuovo: rappresentano, in carne ed ossa, l’espressione della felicità di quegli anni, in cui tutto era in evoluzione e la società stava prendendo una direzione migliore. La musica della band ha rappresentato un periodo storico, il loro; nonostante questo, molti brani continuano a essere attuale.
I Beatles sono l’icona del pop per eccellenza. Come mai avete voluto creare un connubio tra questo genere e gli arrangiamenti orchestrali?
La nostra scelta è folle, come incastrare un quadrato all’interno di un tondo. I brani dei Beatles si sposano perfettamente con un arrangiamento orchestrale. La musica può fare qualsiasi magia!
Ricordate quanto sia importante l’esibizione dal vivo, con il vostro progetto artistico. Anche Musicultura esalta il confronto con il pubblico, dando la possibilità ad artisti emergenti di calcare un palco importante, come quello dello Sferisterio. Quanto e com’è cambiata la promozione della musica? Le piattaforme streaming hanno soppiantato i live?
Inizialmente sì. Ora però la dimensione live sta diventando la salvezza dei talenti emergenti. Si deve creare una situazione ben definita nel panorama artistico, che permetta ai giovani, tramite un ritorno economico, di poter vivere di musica.
Mencarelli Giulia
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musicultura-blog · 5 years
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A La Controra di Musicultura, da De André a The André
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The Andrè è un vero fenomeno del web, che prende ispirazione dall’amore per la musica di Faber. Proprio da questa premessa, nasce l’idea dell’artista di interpretare i brani degli autori oggi più in voga nel genere trap, imitando la voce di Fabrizio De Andrè.
Vanta oltre 4 milioni di visualizzazioni su Youtube  e si sta affermando sempre di più nella scena artistica, come un progetto innovativo, ironico, intelligente. Venerdì 22 Giugno The André è stato il protagonista di un talk show condotto da John Vignola a La Controra di Musicultura e, per l’occasione, ha intonato delle cover più significative del suo album Themagogia.
Ad incuriosire il pubblico della rete è stata la sua identità mascherata. Come mai ha deciso di tenerla nascosta?
Il mio progetto nasce su Youtube senza un volto, con la pubblicazione di video le cui immagini illustravano i cantanti trap, autori dei brani che eseguivo imitando la voce di De André. L’intento era quello di preservare il più possibile l’illusione e la suggestione. Quando poi hop iniziato ad esbirmi dal vivo, ho voluto mantenere il mistero sulla mia identità, per non disturbare l’ascoltarore, per salvaguardare l’illusione della vocalità e della sonorità tipica di Faber.
Quindi, come nasce l’idea di cantare con una voce che somiglia incredibilmente a quella di De André? È stata una sua idea o è il frutto di una collaborazione?
Il progetto nasce da alcuni scambi di messaggi vocali su WhatsApp tra me e un mio amico, in cui cercavamo di interpretare alla maniera di De André delle canzoni di Dalla e Guccini. Siamo approdati a Fabri Fibra e poi alla trap, genere musicale che viene considerato come il nuovo cantautorato. È nato tutto per gioco.
Vuole dunque dimostrare quanto la trap abbia delle radici cantautoriali o si tratta di un’operazione satirica, la sua?
In principio il mio intento era satirico, proprio per mettere in relazione due mondi che, almeno per il mio punto di vista, avevano poco in comune. Nell’approfondire poi la coscienza di questo genere, ho conosciuto artisti che hanno un approccio piuttosto serio nei confronti della musica; oserei dire in maniera “più artistica” (ride).
È per la prima volta ospite di Musicultura, in veste di ideatore di una nuova corrente musicale contemporanea o come unicum?
Non ho la presunzione di aver inaugurato nessuna corrente e non so se, ora come ora, esista qualcosa di simile al mio progetto. Di sicuro ci sono molti artisti che rivisitano i generi della trap e dell’indie in modo ironico.
Secondo lei in che modo oggi un cantautore può essere rivoluzionario e rompere gli schemi?
Una cosa che manca moltissimo nella musica mainstream contemporanea è l’impegno politico e sociale. Ad esempio l’indie è molto introspettivo, caratteristica che non è della trap. Forse l’impegno sociale potrebbe far la differenza, per diventare un cantautore rivoluzionario.
Nicola Verdenelli
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musicultura-blog · 5 years
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“Musicultura, un festival meraviglioso”: il Quinteto Astor Piazzola a La Controra
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Mercoledì 18 Giugno il tango argentino del Quinteto Astor Piazzolla è stato protagonista dell’appuntamento di musica live de La Controra, al Teatro Lauro Rossi di Macerata: composizioni di grande ricchezza melodica, ritmica e armonica, quella dei cinque artisti di Buenos Aires, che hanno riportato in auge gli arrangiamenti del celebre compositore Piazzolla, brani perlopiù inediti. 
Il gruppo formato da Lautaro Greco, Sebastian Prusak, German Martinez, Sergio Rivas e Cristian Zarate, sotto la direzione del maestro Julian Vat, ha incantato il pubblico presente in sala e hanno confidato, alla redazione di Sciuscià, i successi del loro progetto artistico. In qualità di portavoce della band, Vat ha rilasciato un’intervista alla redazione di Sciuscià, poco prima della loro esibizione.
Com’è nato il Quinteto Astor Piazzolla?
[Julian Vat] Il Quinteto nasce diciannove anni fa per iniziativa di Laura Escalada Piazzola, per mantenere viva l’eredità di Astor Piazzolla con ilo suo stesso spirito, il suo tango e la sua musica. Fu lei stessa a convocarmi per un provino. Tra i prerequisiti,  oltre all’esperienza e a un certo tipo di professionalità, si richiedeva un amore speciale per l’arte del Maestro.
Com’è esibirvi, presentando a tutto il mondo la musica di Piazzolla?
Credo che Astor Piazzolla sia un artista universale, perché è riuscito a descrivere, con la musica, il suo paese. Portarlo in giro per il mondo è sempre un grande onore.
I genitori di Astor Piazzola avevano origini italiane: quale emozione provate nel riportare la sua musica in Italia e suonare nel nostro Paese?
Piazzolla è legato a questo Paese per tanti motivi: è la terra di origine dei suoi genitori e il posto in cui ha prodotto gran parte della sua musica, registrando molti pezzi del repertorio con musicisti italiani. Abbiamo avuto la fortuna di suonare in Italia in varie occasioni; abbiamo una grande responsabilità, in quanto Astor è molto conosciuto e apprezzato qui.
Siete stati acclamati dalla stampa internazionale come l’unico gruppo in grado di suonare la musica di Piazzola con una ricchezza melodica e ritmica senza precedenti. Come descrivereste la vostra performance?
Cerchiamo di diffondere con umiltà tutta la musica del Maestro, un autore molto fecondo; ha, al suo seguito, più di tremila opere, tra cui due sono le più famose, forse una quindicina quelle più conosciute. Noi abbiamo la fortuna e responsabilità, anche attraverso i nostri tre dischi, di far conoscere la restante parte della sua musica meravigliosa, perché merita di essere riproposta al pubblico. A Musicultura le opere più inedite di Piazzolla, affiancate dai grandi successi come Libertango.
Musicultura, in una sola parola?
Meraviglioso. Promuovere la canzone d’autore e i nuovi talenti come noi, che non ci riteniamo di certo consacrati.
Nicola Verdenelli
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musicultura-blog · 5 years
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“D’Annunzio: una vera rock star!”: Giordano Bruno Guerri a La Controra di Musicultura 2019
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Giovedì 20 Giugno l’autorevole e carismatico storico Giordano Bruno Guerri ha presentato il suo ultimo libro Disobbedisco. Cinquecento giorni di rivoluzionea La Controra di Musicultura, nel cortile di Palazzo Conventati. Accademico, Presidente e direttore generale della Fondazione Vittoriale degli Italiani, Guerri si è raccontato al pubblico, ripercorrendo i tratti salienti della sua vita professionale e privata: la famiglia, gli interessi, le prime esperienze tv e l’amore per Gabriele D’Annunzio.
Il suo ultimo lavoro tratta la celebre presa di Fiume del Vate, che per sedici mesi fu teatro di cospirazioni, feste, beffe, battaglie, amori, in un intreccio diplomatico e politico sospeso tra utopia e realtà. Cercando di valorizzarne gli aspetti innovativi e inediti, l’autore ha sottolineato come quell’impresa non fu solamente il gesto plateale di un poeta esteta, ma fu anzitutto la realizzazione politica di una «controsocietà» sperimentale.
In questi giorni gli studenti stanno svolgendo gli esami di maturità, senza una prova puramente storica: ritiene che lo studio della storia non sia adeguatamente valorizzato nella scuola come nella società di oggi?
È gravissimo che la storia non sia prevista negli esami, in quanto è la conoscenza del nostro passato e consente di capire il presente e progettare il futuro. Senza questo tipo di apprendimento, un popolo è mutilato e non potrà capire da dove viene la propria cultura.
Disobbedisco. Cinquecento giorni di rivoluzioneè una delle tante opere in cui racconta le gesta e la vita del poeta Vate della letteratura italiana. Come nasce l’interesse per Gabriele D’Annunzio?
L’interesse per D’Annunzio nacque mentre lavoravo alla tesi di laurea, ricercando il materiale di cui avevo bisogno negli archivi del Vittoriale. In quel periodo decisi di voler scrivere un libro, che pubblicai quindici anni dopo.
L’impresa di Fiume, da come spesso viene raccontata, sembra aver avuto più che un valore storico uno estetico, considerato come il gesto di un letterato al centro dell’opinione pubblica. Quei 500 giorni che cosa hanno significato per la storia italiana?
In realtà è una credenza che deriva da un errore storiografico e fu sicuramente un gesto nazionalistico logico. Si pensi, ad esempio, al clima post primo conflitto mondiale, quello che D’Annunzio chiamava Quarta Guerra d’Indipendenza. Da quel momento, prese il via una rivoluzione sociale, politica ed economica, come dimostra la Carta del Carnaro, la costituzione rivoluzionaria che il Vate diede a Fiume.
Per rimanere in tema, lei è Presidente della Fondazione Vittoriale degli Italiani, di cui è anche direttore generale. Quali sono gli aspetti del poeta che ha voluto valorizzare, per suscitare nuovo interesse nei confronti della sua figura?
D’Annunzio viene considerato un decadente, lussurioso, peccatore e protofascista. Ho cercato, con buoni risultati, di modificare questa sua rappresentazione. Fu in realtà un modernizzatore che trasformò la società italiana, fatta di una piccola borghesia ottocentesca, in una società più dinamica e aperta. Una cosa tengo a sottolineare: non fu mai fascista.
Sarà ospite di Musicultura: quale genere musicale ascolta? Se dovesse scegliere un brano più significativo della sua vita, quale potrebbe essere?
Ascolto musica rock e pop, in prevalenza quella degli anni ’60 e ’70: Frank Zappa, Beatles e Rolling Stones. Un mio brano preferito? Love in vaindei Rolling Stones.
Nicola Verdenelli
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musicultura-blog · 5 years
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Detto Mariano a La Controra di Musicultura, per raccontare “Una musica lunga una vita”
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Compositore, arrangiatore, direttore d’orchestra, pianista, paroliere e produttore: Detto Mariano è un artista a tutto tondo. A lui, il compito di analizzare il legame che si crea quando la musica incontra la parola, durante l’evento “una Musica lunga una Vita”, che si è svolto mercoledì 19 Giugno a La Controra di Musicultura. 
Ha fatto rivivere, con i suoi racconti, le pietre miliari della canzone d’autore, come L’immensità, Mi ritorni in mente, Acqua azzurra, acqua chiara. Marchigiano d’origine, Detto Mariano ha cavalcato la scena musicale fin da piccolo. Durante il servizio militare ha conosciuto Adriano Celentano e da quell’incontro, l’ascesa della sua carriera, consacrata da una miriade di arrangiamenti e di brani per cantanti famosi e colonne sonore di film ancora oggi trasmessi dalle maggiori emittenti nazionali.
L’incontro con Adriano Celentano ha segnato una svolta decisiva nella sua carriera: su quali aspetti musicali vi siete trovati subito in sintonia? Cosa ha fatto scattare la “scintilla”?
Io e Adriano Celentano ci siamo incontrati durante il servizio di leva e, in quell’occasione, siamo diventati amici. Ci siamo conosciuti in maniera rocambolesca o, come si dice oggi, “alla Celentano”. Morale della favola: la casualità ci fece incontrare perché lui guidava la jeep del capitano che doveva portarmi dall’ospedale militare al campo estivo. Tra noi è nata un’amicizia, che invece non è scattata con il gruppo che mi aveva affidato, I Ribelli, perché erano di estrazione rock, mentre io venivo dal Conservatorio. Loro avrebbero voluto farmi suonare il pianoforte anche con i piedi, come faceva all’epoca Jerry Lee Lewis; io, invece, consideravo questo gesto come un andare contro la religione: baciavo il pianoforte, non ci avrei mai messo i piedi sopra! È per questo motivo che mi hanno allontanato. Un altro episodio rocambolesco è il mio essere diventato l’“Arrangiatore ufficiale del CLAN”, nonostante fossi stato allontanato dal Gruppo. Celentano, per la casa discografica di sua proprietà, aveva già realizzato tutte le basi con un famosissimo arrangiatore ma, suo fratello Alessandro, aveva fatto in modo di farmi rifare una di esse: il brano intitolato "Sei rimasta sola”. Adriano, dopo aver ascoltato la nuova base, mi chiese di rifare col mio stile anche tutte le altre che aveva già pagato. Fu questo il meccanismo che, rocambolescamente, ha consacrato il mio ingresso nel Clan.
L’immensità, Mi ritorni in mente, Acqua azzurra, acqua chiara: ha costruito e arrangiato le musiche che calzano perfettamente con il senso profondo dei testi. Ci racconta il processo creativo di questi brani?
Sì, non era solo la musica a guidare le mie scelte emotive ma lo erano anche i testi. Tu citi Mi ritorni in mente, Acqua azzurra, acqua chiara delle quali oltre alla melodia non si possono non apprezzare i geniali testi di Mogol, come anche quello de  L’immensità (di cui tra l’altro sono anche co-compositore). E’ proprio questo che ho sottolineato, sia nella mia “Commedia Musicale Autobiografica” che nel talk show de La Controra, ovvero come si arriva da un semplice provino cantato (da Battisti in quel caso) con il solo accompagnamento della chitarra, alla versione completa di musica, testo e arrangiamento.
Arrangiatore, paroliere, pianista, produttore discografico ed editore musicale. Se dovessi definirti con una sola parola, quale sceglieresti?
Detto Mariano! Mi sembra una parola che comprende tutto. L’hai detto tu: sono un compositore, arrangiatore, direttore d’orchestra, pianista, paroliere, produttore ed editore musicale.
Hai composto colonne sonore per il cinema e per i cartoni animati. Come cambia l’approccio tra la realizzazione di questi prodotti culturali?
Sono stato fortunato anche nel comporre le musiche per i cartoni animati come ad es. Gundame Judo Boy, i film Il Bisbetico Domato, Mia moglie è una strega, tra i tanti. Il mio sito è www.dettomariano.com, che mi piacerebbe andaste a visitare: molti conoscono i titoli di alcune pellicole, senza conoscerne l’autore. Quando in sala avevo 90 elementi d’orchestra per lavorare su un film, accettando le proposte di alcuni produttori che mi chiedevano di realizzare le musiche per i cartoni animati, mi ritagliavo gli ultimi 15 minuti per creare le sigle che poi sarebbero state ascoltate da quei bambini, oggi quarantenni che, proprio per quello, sentono la differenza tra i prodotti musicali di allora e quelli di oggi.
Se un artista di Musicultura gli chiedesse qual è il segreto della canzone popolare che resiste ai cambiamenti del mercato musicale, cosa risponderebbe?
Non lo so, forse per un fatto generazionale. Conosco poco della musica popolare attuale e, anche se lo cerco, non trovo qualcosa che mi colpisce in modo particolare. Non è colpa mia se ho avuto a che fare con gente come Battisti, Mina, Celentano, Albano, Mario Del Monaco. Però, per contro, la canzone vincitrice di Sanremo 2019 (il suo interprete compreso) mi piace moltissimo: ha un testo innovativo, intelligente, una musicalità arabeggiante, compresi i quarti di tono inseriti in modo elegante!
Giulia Mencarelli
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musicultura-blog · 5 years
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Franz Di Cioccio a Musicultura: “Vi racconto come abbiamo vissuto il Rinascimento della musica italiana”
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A parlare della Premiata Forneria Marconi, pietra miliare della storia del Progressive Rock e leggenda internazionale fin dagli anni ’70, è Franz Di Cioccio, frontman e batterista della band, ospite de La Controra e della prima Serata Finale di Musicultura; mercoledì 19 Giugno, l’artista ha raccontato le tappe del Rinascimento della musica italiana e di quando nel ’74 registrò un disco live tra il verde e i grattaceli, nell’Hyde Park di New York. Poco prima dell’incontro con il pubblico al Palazzo Conventati, Di Cioccio ha rilasciato questa intervista alla redazione di Sciuscià.
Vi esibite senza sosta dagli anni ’70, siete reduci dall’intenso tour mondiale “Emotional Tattoos tour”, che ha fatto tappa in Giappone, in America, nel Regno Unito e nel nostro Paese. Come accoglie il pubblico internazionale la vostra musica?
Bene, abbiamo abituato il pubblico tanto tempo fa alla nostra musica. Difatti, abbiamo iniziato presto a suonare all’estero, pensando fosse troppo riduttivo esibirci solo nel nostro Paese, considerando che il confronto con altre persone ci avrebbe offerto ulteriori possibilità di crescita. Siamo incuriositi dalla continua ricerca di stimoli e suoni: è la chiave del mestiere di musicista. Mano a mano questa strategia si è consolidata, di pari passo al nostro confronto con più tipologie di ascoltatori. Il coronamento della scelta di suonare all’estero è stata la vincita, lo scorso anno, del titolo di Band Internazionale all’International Prog Awards, dopo un contest del Prog Magazine inglese, rivolto a lettori di tutto il mondo. Ci capita spesso di cantare in italiano, fuori dal nostro Paese. Infatti “Emotional Tattoos” è stato registrato nella doppia versione. Nonostante questo, nell’ultimo concerto londinese abbiamo cantato in lingua originale per la melodia, la dolcezza e la poesia di alcuni testi.
Una carriera al fianco di De André, la vostra. I brani di Faber appartengono anche a questa nostra società, cinica e disincantata. In che modo, oggi, è possibile raccontare quelle tematiche cantate da Fabrizio, che continuano a essere ancora attuali?
Il nostro incontro con De André è stato un evento eccezionale, nato da una mia intuizione. In America abbiamo constatato che i generi sono rispettati e non vengono discriminati, perché chi fa musica fa parte del tessuto sociale e culturale del Paese: nascevano infatti collaborazioni molto interessanti tra cantautori e band; basti pensare a Jackson Browne con gli Eagles o Bob Dylan con i The Band. Il pubblico italiano però non era abituato a questi incontri e a questi approcci alla musica. La PFM aveva già lavorato con Fabrizio per “La buona novella”; un giorno ci venne ad ascoltare a Nuoro e ci invitò a pranzo. Ne approfittai per fargli una proposta indecente, prendere coraggio e fare quello che nessuno in Italia aveva mai fatto. Inizialmente titubante, vista la sua natura ostinata e contraria, disse “Belin, è pericoloso!? allora lo faccio!”. Abbiamo messo a sua disposizione un patrimonio musicale. Tutto questo non ha segnato solo la storia della nostra discografia, ma anche il senso della musica in Italia, dimostrando che la condivisione artistica, nella nostra ricerca e sperimentazione, avrebbe dato un grande apporto alla diffusione della poetica dei suoi testi all’interno delle canzoni.
La fruizione e la produzione della musica subiscono continuamente evoluzioni. In che modo vi approcciate ai cambiamenti, sempre più frequenti, del mercato musicale?
Non credo nel mercato musicale, propenso soltanto alla vendita dei dischi, magari di quelli più orecchiabili. Confido però nel talento delle persone. Non esiste un genere che ti fa vendere con assoluta sicurezza; esiste la capacità dell’artista, che dà la giusta carica all’animo. A discapito dei fenomeni indotti, quelli spontanei sono più duraturi perché più liberi. Non c’è una regola per arrivare al “successo”, participio passato del verbo succedere. Prima bisogna produrre un bel disco; solo quando è successo, allora arriva il successo.
La vostra storia è segnata da tanta musica e innumerevoli collaborazioni. Qual è il prossimo progetto della PFM? 
Quest’anno abbiamo fatto la tournée “PFM canta De André Anniversary”, perché spesso le cose belle in Italia non vengono ricordate. Eppure, ci sono state 45 date sold out, 6 delle quali solo a Milano. Abbiamo suonato con rigore e con maestria, ma soprattutto con passione. Fabrizio è come un’autostrada: ti fa viaggiare dove vuoi, sapendo che sarà un viaggio lungo. Il prossimo progetto? Fare un disco diverso, quindi non sapere cosa riserverà il domani. Nel futuro c’è l’intrigo, che manca nella replica di una cosa che ha già il profumo di successo. Se scaviamo attraverso le emozioni, tra i ricordi e tra i viaggi, arriverà un’idea nuova: quello sarà il prossimo album!
Quale consiglio dareste agli otto vincitori di Musicultura, per vivere una carriera premiata e fortunata come la vostra?
Uno dei consigli più semplici: essere quello che si è e mai quello che si vuol sembrare. Per fare heavy metalnon basta comprare un chiodo e suonare la chitarra bassa; l’hanno già fatto. Bisogna raccontare ciò che ci fa gioire o soffrire. Non tutti i sogni vengono subito a galla; qualcuno diventerà realtà inaspettatamente.
Loretta Paternesi Meloni
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musicultura-blog · 5 years
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“Qui a Musicultura ho trovato l’eredità di Fabrizio”: Fabio Frizzi a La Controra 2019
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Mercoledì 19 Giugno Fabio Frizzi è tornato a Macerata, come ospite di Musicultura. Proprio lo scorso anno, l’artista è salito sul palco dello Sferisterio, per ricordare suo fratello Fabrizio con gli amici del festival. Chitarra alla mano, a La Controra, l’artista si è esibito in una rivisitazione dei più celebri brani del cinema italiano. Alla redazione di Sciuscià ha rilasciato questa toccante intervista in cui parla anche del rapporto con il fratello.
Con l’avvento del digitale e con la produzione sempre più cospicua delle serie tv, il cinema sta progressivamente perdendo la sua leadership. A tal proposito, come vedrebbe un suo eventuale passaggio definitivo dal grande al piccolo schermo?
Verso la fine anni ’90 ho avuto la fortuna incontrare il regista Vittorio Sindoni, che mi ha coinvolto per circa dieci di anni in una fiction, che io ho reinterpretato esattamente con lo stesso metodo che utilizzo lavorando per il cinema. Ogni puntata, l’ho considerata un film a sé stante. Anche se oggi si sta andando verso altre frontiere, io continuo a difendere il grande schermo, per la sua importanza.
Per anni ha lavorato al fianco del celebre regista Lucio Fulci. C’��, nel panorama cinematografico italiano contemporaneo, una figura che possa essere considerata l’erede spirituale del suo cinema?
Lucio ha lasciato la sua eredità lontano dalla sua terra. Anche se nel nostro Paese ci sono cineasti molto validi, questo è un Paese un po’ sterile nell’accettare o, più semplicemente, nell’ascoltare le esigenze e le idee dei giovani. Il cortometraggio ne è un esempio, tanto apprezzato all’estero quanto sottovalutato in Italia. Dunque il semino piantato da Lucio, col cinema di genere artigianale – tanto amato oggi - sta crescendo, ma di più all’estero.
L’arrangiamento di una colonna sonora avviene dopo un primo assetto di montaggio o la musica viene concepita prima, durante l’ideazione del film insieme al regista. Qual è il tipo di approccio più in voga, oggi?
Dipende molto dalle situazioni: ci sono delle volte in cui ti chiamano per lavorare, a film girato, e hai modo di vedere il montaggio. Se il regista fosse un sarto, la sceneggiatura sarebbe il cartamodello del film, un pezzo fondamentale dell’opera. Questo è l’aspetto più delicato: ogni volta hai un riferimento nuovo e anche una brillante idea può essere considerata non valida. Servono umiltà e voglia di lavorare, in una qualsiasi professione. Il mio è un mestiere difficile, ma dà grandi soddisfazioni.
Quale potrebbe essere la colonna sonora perfetta per Musicultura?
Un mio brano, che  potrei comporre in futuro. Mi piace molto com’è organizzato questo festival e lo spirito che si respira nell’aria, che permea completamente la città. Sarebbe bello scrivere un inno per i 30 anni di Musicultura. Senza dubbio, dovrebbe trattare il tema dell’amore.
Fabrizio, un amico fedele di Musicultura. C’è un momento o un aneddoto legato al festival, che suo fratello le ha raccontato?
Mi raccontò di essere venuto a Musicultura, il primo anno della sua conduzione, con un grande punto interrogativo in tasca. Eravamo già stati insieme allo Sferisterio un po’ di tempo prima, per uno spettacolo. Sin da subito mi ha parlato benissimo di questa realtà. Ha sempre vissuto il festival con grandissimo entusiasmo, quasi come se lo considerasse un regalo da conservare gelosamente. Durante la malattia, uno dei suoi rammarichi maggiori era proprio la paura di non riuscire ad arrivare alla settimana finale del concorso.  Qui a Macerata ho trovato l’eredità di Fabrizio: la gente mi ricorda lui, come anche la città, tra i pochi luoghi che mi fanno vivere bene la mancanza di mio fratello. Lui aveva la caratteristica di essere una persona buona, capace di farsi carico delle cose belle e dare importanza a tutto quello ciò che merita di avere risalto. Voi avete perso un grande amico, io un grande fratello. Ce lo ricordiamo sempre, lui è qui!
Silvia Collesi
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musicultura-blog · 5 years
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A La Controra di Musicultura, Lidia Ravera racconta la letteratura dell’amore
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Fervente femminista, rivoluzionaria e penna prestigiosa della letteratura italiana contemporanea, la scrittrice Lidia Ravera è approdata a La Controra, per raccontarsi attraverso un’emozionante lettera che ha scritto per la sorella, scomparsa 26 anni fa, con l’inedito format “Le parole che non ti ho detto”. Con una lettura a cuore aperto, la Ravera, continua a parlare, attraverso la forza della scrittura, con l’amata sorella, raccontando anche i passaggi fondamentali della sua vita: il rapporto con la religione, la maternità inaspettata, i progetti, di cui alcuni ancora in cantiere.
Dall’assessorato alla cultura e alle politiche giovanili alla finale del Premio Strega 2008 fino all’ultimo romanzo distopico “Gli Scaduti” (2018), emerge il ritratto di una donna istrionica e combattente che ha sempre tenuto alto il suo pensiero attraverso una sola unica arma: la scrittura.
In “L’Amore che dura” definisce la scrittura come ‘l’unica forma possibile di espressione dell’inesprimibile’. Quanto si rafforza un testo con la musica?
Moltissimo, perché la musica alza la temperatura emotiva, consentendo ad altre parti dell’essere umano di lievitare liberamente. Con la musica, quindi, non si è più solo testa, cervello e attenzione critica ma si riesce a toccare la sfera sublime dell’emozione, difficilmente raggiungibile con la sola scrittura.
La sua è una preziosa voce nel documentario di Paola Columbia “Femminismo”. Le battaglie per la conquista dei diritti non sono mancate, ma ancora oggi assistiamo a tragedie consumate dentro le mura domestiche. Qual è, secondo lei, l’espressione artistica che più, tra le altre, riesce a sensibilizzare l’opinione pubblica sulla questione?
Ancora e sempre la letteratura, poiché rappresenta un esercizio di empatia: attraverso la scrittura, si cercano di capire le ragioni e ci si mette dal punto di vista degli altri, della vittima e del carnefice. Un buon libro consente di comprendere la meccanica alla base di queste tragedie. Io ho una fiducia sconfinata nella letteratura proprio perché passa attraverso un esercizio dell’attenzione culturale, intellettuale ma anche spirituale. Ho scritto un monologo che si chiama “A me non era mai piaciuto”, e ho usato questo strumento per cercare di capire le ragioni profonde degli atteggiamenti dei protagonisti, e di conseguenza degli uomini. Una delle funzioni chiave della letteratura è mantenere viva la compassione, un lavoro che noi scrittori e scrittrici ci dobbiamo accollare.
La scrittura è per lei una protagonista indispensabile per restare al mondo. Nel caso di “Sorelle”, mette in scena un suo testo molto intimo. Com’è stato ritrovarsi nel ruolo di spettatrice della propria stessa vita?
Lavoro con il materiale della mia vita come qualsiasi scrittore fa da sempre. In particolar modo ho scritto due racconti autobiografici: il primo è “Sorelle”, che ho deciso di scrivere dopo la sua scomparsa. Dovevo guardare in faccia a questo dolore immenso e distanziarlo; è stata una scelta obbligata. In un dialogo mai interrotto tra me e lei, il libro però rintocca qualcosa che è comune a tutti, cioè la nostra vulnerabilità, la nostra fragilità e quanto l’amare qualcuno ci espone al dolore, sia che si ami un uomo, un figlio, una sorella o un padre. Soltanto chi non ama nessuno non soffre, ma è un prezzo alto però da pagare, una vita senza amore è miserabile. Il secondo scritto autobiografico nasce, invece, su commissione, quando sono imprevedibilmente rimasta incinta senza averlo deciso. All’epoca venivo considerata una femminista di quelle cattive, senza nessun desiderio femminile e distante dall’idea di maternità. “Stampa Sera” mi chiese un articolo su questa scelta di diventare madre. Riportai un buon elaborato, piacque molto, tanto che un dirigente della Bompiani mi chiese di farne un libro e io scrissi “Bambino mio”. È un inno alla maternità, che ancora adesso fa qualche vittima. Non è più in circolazione ma lo fotocopio e lo regalo a qualche giovane coppia di amici che solitamente, entro l’anno, rimane incinta.
In “Sorelle”, in cosa lo spettatore si sente più emozionato? Nel ripercorrere la scrittura o nello spettacolo teatrale?
Non lo so. Da “Sorelle” è stato tratto uno spettacolo teatrale nel 2006 con Lina Sastri e Patrizia Zappa Mulas. É una lettera alla sorella quella che leggo oggi, quì a Macerata. Rintocca qualcosa che è comune a tutti, cioè la nostra vulnerabilità, la nostra fragilità e quanto l’amare qualcuno ci espone al dolore, sia un uomo, un figlio, una sorella, un padre. Soltanto chi non ama nessuno non soffre. È un prezzo alto però una vita senza amore è miserabile. Io racconto questo rapporto unico tra sorelle, diverso dall’amicizia perché si è come due rami dello stesso albero. Si può divergere ma la radice è comune. Io sciaguratamente avevo un rapporto talmente bello con mia sorella, morta quando ha compiuto 46 anni, che continuo a parlarle. È un dialogo, mai interrotto, proprio grazie la scrittura.
Ne “Gli scaduti” racconta di una società che allontana tutti coloro che hanno raggiunto il 60esimo anno d’età, per permettere ai giovani di realizzarsi. Secondo lei, oggi, manca lo spirito d’iniziativa dei giovani oppure la società odierna non è ancora pronta ad un cambio generazionale?
Nessuna delle due cose. Per l’universo de “Gli scaduti” ho trovato ispirazione dalla mia irritazione per una parola usata da Matteo Renzi, “rottamazione”, riferita agli esseri umani. Questo ha messo in moto il desiderio di raccontare questa società in cui un cretino tra i 30 e i 40 anni prende il potere e ne costituisce una nuova in cui il ricambio generazionale è forzato. Io penso che ciascuno debba fare la sua parte, non si può non tener conto del fatto che la vita si è allungata di 30 anni; arriviamo alla terza età in condizioni fisiche spesso smaglianti ed intellettuali (siamo l’ultima generazione formata sui libri e non su Wikipedia, il che ci offre qualche vantaggio). Perché, allora, rottamare una generazione così stimolante? Troviamo spazio per tutti. Dai giovani mi aspetto che rovescino il tavolo a spallate, tocca loro fare la rivoluzione. Io, da anziana attiva, mi occupo di riforme. Vorrei che voi vi occupaste di rivoluzioni.
Qual è, secondo lei, il punto di forza di un festival come Musicultura, che continua a mantenere vivo lo spirito della canzone d’autore e esalta l’esibizione dal vivo?
Ha il grandissimo merito, che condivide con molti festival, di esaltare la dimensione dal vivo. Esci di casa e consumi cultura, emozioni, musica, parole, insieme agli altri. Non è come illuminare lo schermo e sentire musica da Spotify, vi è una differente modalità di consumo che, se venisse meno, a me mancherebbe molto. Quando ero in età universitaria organizzavo concerti pop, e, con i circoli del proletariato giovanile, il salto delle transenne per quei giovani che non potevano permettersi il biglietto, perché ho sempre sostenuto che la musica era di tutti. Un passato di cui ovviamente sono fiera. Negli anni ’70 ho co-diretto con Giaime Pintor una rivista musicale, Muzak: recensivamo, tra i tanti, artisti come Frank Zappa. Questo festival ha l’enorme vantaggio di unire la musica alle parole, che si completano e andrebbero sempre deliberate insieme.
Giulia Mencarelli
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musicultura-blog · 5 years
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Valerio Calzolaio a La Controra: “Musicultura è sempre l’ospite d’onore a Macerata”
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Dopo aver scritto Ecoprofughi e Libertà di migrare, Valerio Calzolaio torna ad affrontare il tema attualissimo dell’immigrazione nel suo ultimo libro “Migrazioni. La rivoluzione dei Global Compact” (2019) e decide di farlo in anteprima a La Controra di Musicultura 2019. Nella splendida cornice del cortile di Palazzo Ciccolini, in un’atmosfera intima e raccolta, il giornalista ha parlato del libro dialogando con il Rettore dell’Università Politecnica delle Marche Sauro Longhi e con la Professoressa di Diritto processuale penale dell’Università di Macerata Lina Caraceni. Ad accompagnare le discussioni sull’argomento, le suggestioni musicali curate da Chopas della Compagnia di Musicultura.
È politico e accademico, ma anche giornalista e scrittore. Ha sempre avuto la  passione per la letteratura? Scrivere è stata un’esigenza più tarda, dovuta magari a finalità espressive?
Ho sempre avuto un interesse per la scrittura e la letteratura, due passioni strettamente collegate. Sono abituato a leggere molto e a scrivere tanto, fin da ragazzino.
Dopo aver pubblicato Ecoprofughi e Libertà di migrare, ha scritto Migrazioni la rivoluzione dei Global Compact, che costituisce un’introduzione interdisciplinare allo studio storico del fenomeno migratorio. Da cosa nasce l’interesse per questo tema e come mai la volontà di riproporlo anche nel suo ultimo lavoro?
A causa di impegni istituzionali ho girato il mondo per una ventina d’anni, presenziando ad alcune conferenze dell’ONU che vertevano su problematiche come cambiamenti climatici, desertificazione, biodiversità, e sui programmi ambientali sia nazionali, che internazionali. In questi incontri si annunciavano sempre esodi forzati di milioni di persone dall’Africa, o da altri continenti, verso l’Europa. Studiando il fenomeno, mi sono reso conto che i migranti che si  spostano a causa dei mutamenti del clima ci sono sempre stati. Fin da Ecoprofughi ho ragionato su queste tematiche e sto continuando a farlo.
Come abbiamo accennato, l’immigrazione è al centro del dibattito sull’attualità. Crede che la letteratura e la scrittura possano dare una visione più globale del fenomeno?
Tutti, al giorno d’oggi, hanno paura. Ognuno di noi resta turbato da ciò che non conosce. Detto ciò, bisognerebbe immaginare quel che prova un povero ragazzo, solo, costretto spesso a lavori forzati che, dopo aver viaggiato e aver attraversato il mare, si ritrova in un ambiente ostile e poco amichevole. Il timore nei confronti degli “altri” non viene mai preso in considerazione, pur essendo insito in tutti noi, anche negli animali. Dobbiamo ragionare sulla paura, non negarla; è un sentimento giusto quando è generata da astio e da comportamenti poco rispettosi. In questo momento ci sono 5 milioni di stranieri che hanno la residenza in Italia, ma allo stesso tempo abbiamo 5 milioni di italiani all’estero con la doppia cittadinanza: questo melting pot c’è sempre stato e c’è. Bisognerebbe considerare che chi arriva nel nostro Paese può essere per noi una preziosa risorsa e può dare un contributo. Abbiamo così tanti problemi (ride). La letteratura sicuramente può aiutare nell’integrazione tra le culture.
L’anteprima del suo ultimo libro avviene proprio nella sua città, Macerata. È giusta definirla anche una scelta di carattere affettivo?
È sicuramente una scelta affettiva. La mia città natale è Recanati, come d’altronde lo è anche per Musicultura; quella d’adozione è Macerata, in cui vivo da quando avevo due anni. Mi fa molto piacere accogliere l’invito de La Controra, di Musicultura e delle amiche e degli amici di Macerata racconta.
Da cittadino ed ex consigliere per tanti anni di Macerata, quanto, una rassegna come Musicultura, aggiunge lustro alla città e all’intera cittadinanza? Come vive il Festival?
Sicuramente il festival dà lustro a Macerata, città universitaria, di politica,  mai stata una terra “operaia”.  Un tempo era terziaria, fatta di impiegati, funzionari, di istituzioni. Ora questo territorio è un deposito di storia, cultura, di arte, che si apre alla musica, al teatro, alla condivisione di valori e di idee. Anche per questo motivo, Musicultura è sempre l’ospite d’onore a Macerata. La città fa molto bene a valorizzare questo tipo di eventi.
Nicola Verdenelli
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musicultura-blog · 5 years
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Una cantautrice, un rettore, un rapper: Grazia Di Michele, il Prof. Pettinari e Moreno raccontano il loro progetto a La Controra 2019
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Un confronto stimolante tra discipline artistiche e scientifiche, tra musica e chimica: questo è il fine del progetto presentato dalla cantautrice Grazia Di Michele, il Rettore dell’Università di Camerino Claudio Pettinari e il rapper Moreno. 
Nel Cortile di Palazzo Ciccolini, i tre protagonisti della prima serata de La Controra hanno intrattenuto il pubblico con una performance fuori dagli schemi, tra spiegazioni dal carattere accademico, racconti di musica d’autore e freestyle. Le connessioni complesse che legano la scienza alla musica sono state oggetto di discussione di un talk che, in futuro, diventerà un progetto concreto, per diffondere il sapere musicale nelle facoltà scientifiche dell’Università di Camerino.
Una cantautrice, un rettore, un rapper: cosa hanno in comune? Qual è il punto d’incontro tra arte e scienza?
[Di Michele] Abbiamo in comune sicuramente la passione per musica e la volontà di avvicinare questa forma d’arte, alla scienza. Abbiamo voluto presentare il progetto in maniera divertente, provocatoria, ma non priva di spunti di riflessione.
Com’è stato lavorare insieme e dunque unire le vostre competenze e professionalità appartenenti a settori cosi diversi, in questo progetto comune?
[Pettinari] È stato molto interessante! È stato un continuo reiterare gli argomenti, i concetti, i discorsi che abbiamo poi deciso di affrontare durante l’incontro. Il nostro progetto nasce come un’esperienza davvero stimolante.
Grazia, è uscito il suo ultimo album Sante bambole puttanee ha pubblicato il romanzo Apolonnia; il comune denominatore è chiaramente la donna, a testimonianza dell’impegno sociale che da sempre contraddistingue la sua produzione artistica. Quali sono le aspettative e le speranze per questi nuovi lavori?
In verità non mi pongo mai delle aspettative, perché m’interessa di più prendermi cura delle cose che amo: ho lavorato a questo album e scritto il romanzo nelle pause in treno e negli aeroporti. Chi fa un mestiere come il mio, a volte è costretto ad aspettare un momento giusto da dedicare a un progetto. Così ho utilizzato il tempo che avevo a disposizione per poter fissare tutti i ricordi, avendo il timore di perderli. Apollonia è un romanzo autobiografico e visionario, molto particolare. Ogni volta che presento un nuovo lavoro, spero che qualcuno ne possa trovare un senso proprio.
Prof. Pettinari, il rapporto vivo e fecondo tra l’Università e Musicultura ha da sempre testimoniato il profondo interesse per il giusto connubio tra mondo umanistico e musicale. Qual è stato il suo contributo in questo lavoro?
Ho voluto spiegare come la chimica possa unirsi ad altri ambiti e materie: la musica e le parole sono particolari tipologie di sapere. Noi crediamo proprio nell’unione tra più arti e discipline.
Moreno, che ruolo ha il rap in Italia, oggi?
In Italia il boom del rap è arrivato sicuramente dopo rispetto agli Stati Uniti, un Paese in cui, proprio per la diffusione del genere, ho visto anche madri di famiglia fare freestyle. Spesso i rapper si posizionano nei primi posti delle classifiche musicali e, con il tempo, si stanno aprendo ad altre contaminazioni. Sono stato felice di distinguermi non soltanto per esser stato il primo artista rap nella scuola di Amici ma anche “l’agnello sacrificale”: ho deciso di lasciare l’underground perché volevo vivere di musica e non di giudizi e pregiudizi. Da tre o quattro persone, sono arrivato a un pubblico di tre milioni di italiani. Non mi sarei mai aspettato questo successo. La soddisfazione più grande è stata quella di partecipare a un talent, vincerlo e vedere come chi ha inizialmente storto un po’ il naso, con il tempo ha avuto l’occasione per ricredersi. Sono arrivato perfino a gareggiare tra i big di Sanremo insieme alla Prof.ssa Di Michele (ride). Ora sono qui a Musicultura e credo anche di essere uno dei primi rapper a esibirsi: amo essere un pioniere anche non volutamente. Un artista non si fa capo da solo, sono gli altri a dargli dei meriti. Se sono ospite di Grazia, vuol dire che sono stato un bravo allievo.
Nicola Verdenelli
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“La tv è donna!”: le Signorine Buonasera a La Controra di Musicultura 2019
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Quando tutto sul piccolo schermo era nella scala di grigi ma i brividi della diretta erano variopinti, Mariolina Cannuli, Rosanna Vaudetti e Maria Giovanna Elmi erano le Signorine Buonasera ed entravano nelle case degli italiani per annunciare il palinsesto Rai. Le stesse che lunedì 17 Giugno, al pubblico de La Controra di Musicultura, con l’eleganza e l’entusiasmo che da sempre le contraddistinguono hanno raccontato una tv lontana da oggi e hanno fatto rivivere un’epoca.
Quale credete sia stato l’impatto del vostro ruolo nell’immaginario del pubblico del piccolo schermo, dalla fase embrionale della televisione italiana in bianco e nero, a quella digitale?
[Cannuli] Abbiamo iniziato il nostro percorso in tv nel 1962. A quel tempo, la televisione rappresentava l’innovazione e aveva un grande impatto sul pubblico, al punto da risultare quasi “violento”, in primis dal punto di vista educativo e sociale.
[Vaudetti] I nostri ruoli, all’inizio, erano il banco di prova per un’avventura che ha cambiato la società. I dirigenti pensavano che questo nuovo apparecchio mastodontico, entrando nelle case italiane, potesse sconvolgere le famiglie con un nuovo modo di comunicare. Per “umanizzarlo”, hanno puntato sulla nostra immagine. Abbiamo rappresentato la televisione italiana. Siamo entrate, pian piano, in confidenza con i telespettatori per creare con loro una certa complicità e per far parte della vita quotidiana di tutti. Siamo state sorelle, amiche, vicine di casa degli italiani, considerate come impiegate di “categoria B”. Abbiamo lavorato con entusiasmo in ogni occasione, mantenendo lo stesso atteggiamento di sempre, dalla conduzione delle rubriche quotidiane, al Festival di Sanremo.
Quale episodio della vostra esperienza lavorativa ricordate come il più memorabile?
[Elmi] Tra i vividi ricordi, c’è l’incontro con colleghi incredibili, Mike Buongiorno su tutti; ma anche personaggi internazionali, come Silvester Stallone. Per il ruolo che abbiamo ricoperto in tv, non siamo diventate delle star ma abbiamo ricevuto sempre molto affetto da parte del pubblico. Ad esempio ho presentato, nei panni di Azzurrina, “Il dirigibile”, una trasmissione per bambini che è andata in onda negli ultimi anni ’70. Quei bimbi ora sono cresciuti, ma ancora mi ricordano con quel nome.
Dopo anni e anni di esperienza come annunciatrici del palinsesto Rai, in che modo pensate sia cambiata la fruizione della televisione da parte degli spettatori, considerando l’importanza del web nell’informazione quotidiana?
[Vaudetti] Quando la tv dei sogni, quella in bianco e nero, si è trasformata nella televisione che oggi conosciamo, siamo entrati in una nuova dimensione, più realistica. È stato un passaggio che ho vissuto in prima linea, avendo fatto il primo annuncio a colori della storia della tv italiana. Si è cominciato a trasmettere programmi dal vivo, le prime gare sportive. Se nella Rai dei primi anni noi eravamo le protagoniste, ora lo è il pubblico: i telespettatori sono diventati interpreti, come accade nei reality. I presentatori, invece, fanno ormai da trait d’union.
Le Signorine Buonasera sono state un vivido esempio di eleganza e professionalità. C’è, secondo voi, una progressiva deriva sessista nella rappresentazione della donna nei palinsesti televisivi?
[Vaudetti] Trovo che la Rai in realtà abbia fatto passi in avanti, con la presenza di direttrici e presentatrici di rete. Un tempo eravamo le sole donne a poter apparire, come da contratto. La televisione, avendo una funzione educativa, ha il compito di fungere da trainer e dare buon esempio. La tv è donna!
Musicultura da trenta anni scova talenti cantautoriali provenienti da tutto lo stivale. La musica ha la capacità di rappresentare un’epoca, ma anche di farci rivivere dei momenti passati: un vostro brano che racconta gli anni ‘60 da annunciatrici Rai?
[Canulli] Non ho dubbi: la sigla di apertura dell’antenna.
[Vaudetti] Un brano dell’Eurovisione, di quando presentavo Giochi senza frontiere.
[Elmi] Per me quella del Mondovisione, a questo punto!
Loretta Paternesi Meloni
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musicultura-blog · 5 years
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Lino Patruno inaugura La Controra di Musicultura 2019: “Vi racconto com’è nato il cabaret con I Gufi”
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Musicultura è terreno fertile per gli incontri culturali, per i suoni e per le parole giuste; per l’arte nelle sue molteplici espressioni. Ieri, nell’affrescata cornice del Centrale Plus in Piazza della Libertà, si è svolto il primo degli appuntamenti de La Controra, che ha visto come protagonista il jazzista e cabarettista Lino Patruno. A condurre l'incontro è stato il poeta Ennio Cavalli.
Musicista di spicco nel panorama jazzistico italiano e internazionale, Patruno è compositore, sceneggiatore, co- fondatore negli anni ’60 de I Gufi. Ha scoperto la sua vocazione per la musica all’età di 18 anni da auto didatta, nata in estate, nelle Marche. Durante la sua carriera ha collaborato con celebri artisti, tra cui Dan Barrette, John Paul Pizzarelli. Alla redazione di Sciuscià, ha raccontato la sua passione per il cabaret e alcuni curiosi aneddoti sulla sua vita, tra jazz e la voglia di far divertire il pubblico.
“Quando il jazz aveva lo swing”: un racconto fluente che narra l’excursus di tutte le più significative collaborazioni che l’hanno portata a diventare l’artista che oggi è; tra le tante, quello con Joe Venuti. Cosa ricorda del primo incontro con il violinista statunitense e come ritiene che questo avvicinamento abbia influito sulla sua crescita e formazione musicale?
Mi definisco un collezionista di cultura jazzistica e, tra i miei “migliori acquisti”, mi piace citare Joe Venuti. Una sera venne in teatro a Bergamo e dopo il concerto si fermò a cenare a Milano, nello stesso locale in cui ero io. Mi avvicinai per chiedergli di incidere un disco. Lui, con un italiano maccheronico, mi invitò a duettare: con una “Ghitarra” presa in prestito da Joe Cusumano, improvvisammo per tutta la notte sui brani di George Brown, entrambi entusiasti di condividere quel momento. Fu un’esperienza incredibile. È così che è nata la nostra amicizia, fatta anche di collaborazioni e di viaggi.
Da jazzista, ci svela che la musica americana per eccellenza ha in verità origini italiane. Tuttavia perché, secondo lei, nel nostro Paese questo genere stenta ancora a sviluppare una propria connotazione stilistica o ad emergere?
Musicalmente parlando, l’Italia di oggi è purtroppo ignorante. Mi rammarica pensare che, per colpa della televisione, delle case discografiche ossessionate dai guadagni e dei talent show, il Paese che una volta era detentore della grande dell’opera e delle grandi voci, possa essere sceso così in basso. Nell’opinione pubblica c’è molta confusione tra cosa sia realmente la musica.
Dopo gli anni ’70, il jazz è entrato ufficialmente a far parte della cosiddetta “musica colta”, divenendo materia di insegnamento nelle scuole e nei Conservatori. A tal proposito, non sono venute meno le lamentele riguardo la perdita dell’immediatezza e l’estemporaneità del genere. Qual è il suo parere, a riguardo?
Voglio raccontarti un piccolo episodio: tempo fa un ragazzino di 17 anni mi mandò la registrazione di un suo pezzo al pianoforte, da farmi ascoltare; pensai di dover sentire la solita rivisitazione di Calabresella mia. Il ragazzo mi sorprese, suonando una pietra miliare della storia del jazz, Finger Breakers di Jelly Roll Morton, brano di una difficoltà esagerata. Incuriosito, gli chiesi come potesse conoscere il jazz dei primi anni ‘10 e mi rispose che il merito era di suo padre, appassionato di musica, che gli aveva tramandato l’amore per la cultura jazzistica in tenera età. Credo sia importante soprattutto come, ognuno di noi, tenda ad approcciarsi a qualsiasi forma d’arte. Alla base di ogni passione, c’è l’emozione.
A caratterizzare il suo stile artistico è il banjo. Sebbene i jazzisti suonino soprattutto il pianoforte, il contrabbasso o comunque tendano a prediligere elementi a fiato, come mai ha invece scelto di studiare questo strumento?
Prima il banjo si suonava principalmente per una questione di volume, molto più elevato rispetto a quello di un chitarra. Non c’erano i microfoni negli anni ‘20. Inoltre, si tratta dell’unico strumento inventato dagli americani, quando tutti gli altri hanno origini europee.
Oltre che jazzista, è anche cabarettista. Ha sempre portato un po’ della sua comicità nelle sue canzoni, come nei brani Crapa peladae Il gallo è morto. Quanta importanza assume lo humor nel mondo della musica e, in particolare, che valore ricopre nella sua?
Mi avvicinai al cabaret fondando negli anni ’70 I gufi. È stato un caso: una storia d’amore finita male si è rivelata significativa per la nascita del progetto. La comicità può essere di vari tipologie; ad esempio c’è quella banale, che è anche fine a se stessa, spiccia. Poi c’è quella ragionata, che affronta tematiche sociali, politiche, antifasciste, ad esempio. Quest’ultima, a mio avviso, è il tipo di approccio che veramente conta, perché ha un fine più nobile. Non a caso, sono ispirato da maestri come Totò e Peppino De Filippo.
Silvia Collesi
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