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Vai a vedere Cyrano e capisci cos’è l’amore. Come vorrei essere la sua Rossana, e poi la colonna sonora dei The National. / Il Bullone - OrianaG
Pubblicato su Il Bullone n° 63, aprile 2022.
Su Cyrano le chicche da raccontare sarebbero milioni. Che la versione teatrale debutta off-Broadway al limite del lockdown globale, nel 2019. Che il film è girato interamente in Sicilia. Che il protagonista, Peter Dinklage, è negli occhi della maggior parte di noi per Game of Thrones e che Erica Schmidt, regista e drammaturga a teatro e sceneggiatrice del film (oltre che sua moglie), in realtà non aveva scritto il ruolo pensando a lui. Che Joe Wright, il regista, non si è mai occupato di musical, ma di sogni e amore sì (Pride and Prejudice e Pan - Viaggio sull’Isola che non c’è da vedere, se ancora non l’avete fatto). Potrei andare avanti, ma non lo farò. Il motivo per cui ho chiesto di raccontare di questo film è l’Amore, un amore che arriva da lontano.
Sono andata a vederlo quasi solo per la musica firmata dai The National, gruppo indie-rock americano, non nuovo alle colonne sonore, ma vergine di musical. Li ho conosciuti nel 2017, sul lungomare di Ostia, durante la Maker Faire a cui partecipammo a Roma con i ragazzi del PiuLab. Era la prima uscita pubblica del progetto Cicatrici, il seguito è storia. Dei The National quella sera mi raccontava Valerio, futuro angelo custode, e l’album appena uscito che mi consigliò era Sleep well beast, ancora oggi uno dei pochi antidoti infallibili ai miei attacchi di panico. Perciò, a prescindere dalla qualità, Cyrano era già Amore prima di entrare in sala.
La trama è nota. Cyrano, ottimo poeta e spadaccino, è follemente e da sempre innamorato della bella Rossana, ma non ha il coraggio di dichiararsi per un proprio difetto fisico. Quando lei gli confessa di essersi innamorata di Cristiano, cadetto da poco arrivato in città (sano e bello, ma molto meno abile con le parole), e gli chiede di aiutarla, Cyrano accetta. In segreto, scriverà lui per Cristiano le lettere a Rossana, affidandogli quelle parole d’amore che non ha mai osato dirle.
Tutto nel film è di una bellezza disarmante: i luoghi, le parole, gli attori, i costumi (di un italiano, Massimo Cantini Parrini, candidato agli Oscar 2022), i movimenti coreografici... è un quadro, un ipnotico, delicatissimo acquerello. Anche per i non amanti del genere. Le acute parole di Cyrano, in musica acquistano potenza. E la scelta di Schmidt di sostituire l’originale nasone con il nanismo di Dinklage regala universalità al racconto, al senso di inadeguatezza e vulnerabilità, al timore di essere rifiutati che tutti, innamorati, abbiamo provato almeno una volta.
Quel Cyrano guerriero, combattente che ha la meglio da solo su dieci uomini, è lo stesso che trema con gli occhi lucidi mentre canta a Rossana: «Ogni volta che ti vedo / sono sopra atto / provo a dirti / dirti quanto ho bisogno di te / ma mi volto e scappo». Dualità che attraversa ogni personaggio, perfino il perfido De Guiche («Mi merito un po’ di gentilezza / Merito che il mio amore venga ricambiato / Come tutti») e i soldati al fronte, che col brano Wherever I fall meritano una nota in più. «Una delle canzoni più forti che abbiamo scritto nella nostra carriera», ha dichiarato la band.
Cyrano, a capo del battaglione, ordina al messaggero di aspettare le ultime lettere di ogni soldato prima di levarsi di mezzo per l’ultimo, forse fatale, attacco del nemico. Quell’ultima lettera è per tutti d’amore. Per papà, i figli, l’amore mai confessato: «Ditegli di non piangere affatto / Il paradiso è ovunque io cadrò». Un inno, a ritmo di marcia, all’Amore che non muore, nemmeno in guerra.
Riciclo le parole di una recensione del Cyrano di qualche anno fa: forte, fragile, libero. Questo è Cyrano, questo è l’Amore.
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Quella figlia del tranviere nata per danzare. Nel film Carla, la storia della Fracci. Nureyev ballava con la sua leggerezza. / Il Bullone - OrianaG
Pubblicato su Il Bullone n° 61, febbraio 2022.
Quasi un anno fa, con la sua voce, avevamo raccontato il Festival super blindato. Avevamo deciso di raccontare Sanremo con gli occhi degli addetti ai lavori, fermi da troppo tempo, ed entusiasti di solcare il palco del Teatro Ariston, pur con l’atmosfera surreale data dalla platea vuota: Giacomo Castellana, ballerino solista dell’Opera di Roma, è la controfigura di Rudolf Nureyev (interpretato da Léo Dussolier) in Carla, dedicato alla vita di Carla Fracci, morta il 27 maggio scorso, che ha collaborato direttamente alla realizzazione del film, insieme a Beppe Menegatti, suo compagno e regista, che ha assicurato, alla prima, che Carla sarebbe stata molto felice del risultato.
«Leggerezza» è sicuramente una delle parole di Carla Fracci. Leggera, piccola, ma tutt’altro che fragile o debole. Lei che torna sulla scena a un anno dal parto, per preparare lo Schiaccianoci in cinque giorni e tiene testa a un testardo Nureyev; lei che, a dieci anni, all’audizione per entrare nella scuola de La Scala, quando una delle insegnanti commenta: «Gracilina», lei risponde «Non sono gracilina, io ho musicalità». Ma «leggerezza» era anche una delle nostre Tre Parole di Sanremo 2021, «Fa parte del mio essere un lavoratore dello spettacolo. Leggerezza è la danza», era stata la risposta di Giacomo.
Papà e mamma Fracci riescono a far frequentare a «Carlina» la scuola della Scala perché è gratuita, Carlina ci cresce, senza mai dimenticare o disprezzare le sue origini, nonostante vessazioni e prese in giro. «Elegante per quanto può esserlo la figlia di un tranviere», le dicono quando Luchino Visconti la sceglie per l’assolo nella Sonnambula. Quella sera sul palco c’è Maria Callas, Leonard Bernstein dirige l’orchestra e l’entusiasta recensione avrà la firma di Eugenio Montale. Per Carla, diciannovenne, è l’inizio di una carriera luminosa e interminabile, iniziata dal tram di papà, che per accompagnarla si ferma davanti al teatro, anche se una fermata lì non c’è. «Andrà come andrà, Carlina», abbracciandola.
Carla emoziona, soprattutto per i rapporti e le relazioni che racconta. Tutte forti, durature e vissute senza risparmiarsi mai. Il legame fraterno con Rudolf Nureyev, il grande amore con Beppe Menegatti, l’amicizia nata a scuola con Ginevra, l’orgoglio e l’affetto di papà Luigi e mamma Santina...
Ancora pochi anni fa, nel 2018, in un’intervista con Diego Dalla Palma, Carla Fracci racconta con un emozionato sorriso che tutte le mattine, quando il suo papà passava sotto il teatro, suonava il campanello del tram, per salutarla, per farle sentire che era lì. Nel film, Beppe la raggiunge senza preavviso a New York, in camerino prima dello spettacolo, per farle la proposta di matrimonio. Nureyev, per il suo Schiaccianoci da preparare in cinque giorni, non ha in mente nessun’altra ballerina. «Vederti danzare è un regalo che tu fai a tutti noi, tu sei la danza stessa», le dice l’amica Ginevra, consolandola dopo un infortunio alla caviglia.
La forza della Fracci arriva tanto anche da loro. Da quella rete stretta e solida di affetti che la accompagnano per tutta la vita, rendendola ancora e sempre più integra, decisa e risoluta. Carla è la storia di Carla, e di chi, intorno, l’ha sostenuta, rendendola quel riferimento universale nel mondo della danza.
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«Quando lei è felice, il nostro caffè è più buono», forse la morale è questa, ho bisogno che lo sia. Sclero di Edoardo Vecchioni il libro che fa pensare. / Il Bullone - OrianaG
Pubblicato su Il Bullone n° 59/60, dicembre 2021/gennaio 2022.
Forse perché è Natale. Forse perché ho finito di leggere il libro in treno con Michael Bublé nelle orecchie. Ma è l'ultima frase di Sclero che mi rimane in testa più di tutto il resto della rocambolesca storia scritta da Edoardo Vecchioni: «E quando lei è felice, il nostro caffè è più buono». Forse la morale è questa. O forse ho bisogno che lo sia. È la felicità che porta il buono. Non la frustrazione, non il rancore, non il bisogno di rivalsa, né la vendetta.
Cornelio, il protagonista di Sclero, è arrabbiato per la maggior parte del tempo. Vaga, per la maggior parte del tempo. Il mondo che vede intorno è distorto. Ma è questo l'effetto che fa una diagnosi cronica prima dei trent'anni. E se è degenerativa, come la sclerosi multipla, l'unica promessa che ti fa è che sarà sempre peggio. Ed è normale arrabbiarsi, sentire tutto, specialmente il negativo, amplificarsi ogni minuto che passa. Se poi la tua ragazza ti lascia perché non regge l'idea della malattia, ti cornifica col tuo migliore amico, ti trovi solo. Solo e arrabbiato. E se, per caso, ti capita di trovarti nelle mani di un altro, solo e arrabbiato più di te, che si propone come mentore, via d'uscita da quella rabbia e quella solitudine, beh, è facile che il tuo mondo si ribalti.
È difficile definire il romanzo di Edoardo. Ma è difficile sempre entrare nella testa di «uno di noi», B.Liver, ragazzi che con la malattia vanno a braccetto anche quando non te ne accorgi, quando è invisibile, quando ci ridono sopra perché faccia meno paura. Il nostro cervello diventa facilmente un labirinto intricato e impenetrabile, complesso da raccontare. Il cocktail di emozioni ha sapori strani, mai completamente felice, mai completamente arrabbiato, oppure sì, anche troppo. L'unica forma plausibile è suo fedele riflesso: un racconto strano, un'avventura che inizia romanzo di formazione, tocca lo splatter alla Tarantino, si rivela poi thriller, con romantico finale. Sembra e diventa tutto e il suo contrario.
Vi è mai capitato di sbagliare barattolo, e mettere il sale nel caffè, al posto dello zucchero? Ecco, a volte vivere con una malattia cronica, un passato orrendo, un trauma mai risolto, ha lo stesso sapore. In questo, molti personaggi di Sclero si somigliano: Angelo, affetto da nanismo e per questo abbandonato, Cornelio, neodiagnosticato con sclerosi multipla, Yayo, suo migliore amico, disorientato dai suoi cambi di rotta, Napoleone, doppiatore cinico ma con un gran bisogno di tenerezza... Tutti hanno una scelta. Rifilare per rabbia un pessimo caffè col sale a chiunque incontrino, o perdere un secondo in più, respirare profondamente e decidere di zuccherarlo.
«E quando lei è felice, il nostro caffè è più buono». Vale anche il contrario: se il caffè è buono, e me lo fai «sentire», io di riflesso torno felice. E non perché la rabbia, la frustrazione, la solitudine spariscano. Torneranno. Ma quel caffè concede una tregua, ossigena il cervello, fa dormire qualche ora in più, la visione del mondo è meno distorta.
Ed è più difficile che un nano sadico e fissato con gli imperatori romani ti usi come un burattino, usando la tua umana debolezza a suo disumano vantaggio. È il ruolo di Ambra, che da sempre lavora ad AmikaMokA, il bar dei suoi, e grazie a quel caffè non si limita a deliziare i clienti, ma li salva, in molti modi.
È difficile dire se, o a chi, consiglierei di leggere il romanzo di Edoardo Vecchioni. Non è semplice. Anzi, rasenta l'assurdo. Ma è il nostro mondo. Benvenuti tra i B.Liver. Vi va un caffè?
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Il Chicago di Bob Fosse riflette sull’epoca attuale in cui apparire sul web sembra la necessità vitale. / Il Bullone - OrianaG
Pubblicato su Il Bullone n° 79, novembre 2023.
Chicago, opera di John Kander e Fred Ebb (gli stessi di Cabaret) del 1975, soggetto e regia di Bob Fosse al debutto con Liza Minnelli tra gli interpreti, non ha un gran successo, ma il revival degli anni Novanta diventa record di repliche sia a Broadway che a Londra. Il film del 2002, diretto da Rob Marshall, e interpretato da Richard Gere, Catherine Zeta-Jones, René Zellweger e Queen Latifah, vince 6 Oscar, tra cui miglior film.
La star del vaudeville Velma Kelly (Stefania Rocca) uccide la sorella e il marito dopo averli trovati a letto. Anche la ballerina Roxie Hart (Giulia Sol) viene arrestata per aver ucciso l’amante. Roxie convince il marito Amos (Cristian Ruiz) a dichiarare alla polizia che l’uomo ucciso fosse un ladro. Lui acconsente, ma quando capisce che la moglie aveva una relazione con lui, dice la verità e Roxie viene arrestata. Il carcere è vigilato da Mama Morton (Chiara Noschese), che fa favori alle detenute (che si presentano nell’iconico «Cell block tango») in cambio di denaro. Mama è riuscita, grazie ai suoi agganci, a far finire su tutti i giornali Velma Kelly, alla quale Roxie ruba sia le prime pagine che l’avvocato, Bill Flynn (Brian Boccuni, degno erede italiano di Richard Gere), dopo aver convinto il marito a pagare la sua esorbitante parcella. L’avvocato-divo prende in mano il suo caso e reinventa la sua vita precedente per renderla più appetibile alla stampa e in particolare alla giornalista Mary Sunshine (Luca Giacomelli Ferrarini, straripante di divertimento e talento, en travesti). Roxie arriva a ngere una gravidanza pur di non perdere visibilità. Visibilità che non toccherà mai il marito Amos, nonostante tutto ciò che fa per lei, nemmeno quando si dichiara padre del bambino in arrivo («Mister Cellofan» è forse tra i cavalli di battaglia più intensi e malinconici della storia di Broadway, e Ruiz lo veste alla perfezione).
A Chicago, nei ruggenti anni Venti, la visibilità sembra essere tutto e lo spettacolo è un continuo oscillare tra visibile e invisibile. Roxie, al centro delle cronache, iper-visibile, rivela diverse volte un’estrema superficialità, in contrasto col marito Amos, Mr. Cellofan, invisibile no a diventare trasparente, che si rivela la persona forse più concreta e leale di tutta la storia. Velma che bolle di rabbia e gelosia per la visibilità perduta; Mama Morton che, nel buio, tira le fila del destino delle assassine; Billy Flynn che insegue più la prima pagina che la sete di giustizia; Mary Sunshine che ha il potere di decidere arbitrariamente dove e su chi puntare i riflettori; Hunyak, detenuta «non colpevole» e non ascoltata, che, non potendosi permettere i favori di Mama o la difesa di Flynn, semplicemente sparisce, unica innocente e condannata.
Sembrava solo un diversivo dopo due giorni di InVisibile Festival intensi ed emotivamente impegnativi, e invece anche Chicago al Teatro Nazionale risuona con i nostri temi, confermati nelle note della regista, e interprete, Noschese: «Chicago s’incastra perfettamente in un’epoca come quella attuale: un’epoca in cui essere un caso e finire sulle prime pagine dei giornali o diventare virali sul web, sembra la necessità primaria».
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orianagportfolio · 5 months
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Dopo la pandemia è tornato il Cirque du Soleil. Il «Cercatore» esplora il cielo e il mare in un’atmosfera steampunk. / Il Bullone - OrianaG
Pubblicato su Il Bullone n° 74, maggio 2023.
Faccio richiesta di accredito da giornalista, accennando anche alla disabilità, ma senza presentarla come punto principale.
«Buongiorno Oriana, grazie per la mail. Perdonami se sono indiscreta, potresti darci qualche informazione in più rispetto alla tua disabilità così da poter tornare da te con le giuste risposte?». «Buongiorno Giulia, nessuna indiscrezione, anzi grazie. Spesso cammino con la stampella e, quando riesco, cerco di non affrontare posti affollati da sola. La situazione ideale sarebbe almeno una riduzione (mi rendo conto che la gratuità non sia sempre attuabile) e la possibilità di un accompagnatore (anche se non è previsto dal mio verbale INPS). Non ho necessità dei posti riservati a spettatori non deambulanti (c’è chi ne ha più bisogno di me). Riesco tranquillamente a fare le scale».
I posti assegnati sono perfetti. Una prima fila in 2° settore, sul corridoio. Le mie gambe possono stendersi, e la stampella non intralcia il passaggio a nessuno. Anche la visibilità è perfetta, ma lo è da ogni postazione, il tendone è costruito apposta. Non mi sembra vero di non dover mostrare verbali, giusti carmi, sbattere contro un «nulla di fatto». È talmente semplice da sembrare stupido: in mancanza di una regola uguale per tutti, e non potendo conoscere i bisogni di ogni spettatore disabile, bisogna chiedere e smettere di pensare di essere indiscreti. Grazie Giulia e Valeria, spero tanto che altri colleghi prendano esempio!
Il Cirque du Soleil manca dall’Italia dal 2019. Doveva tornare nel 2021 e nel 2022, ma il Covid l’ha bloccato. Finalmente abbiamo in mano due accrediti per Roma, Tor di Quinto. L’enorme tendone giallo e blu starà qui per un mese, poi a Milano. Kurios - Cabinet of curiosities è un viaggio nel tempo agli albori dell’elettricità, dei primi aeroplani, della tecnologia. In un’atmosfera steampunk esplora il cielo e il mare attraverso lo sguardo del Cercatore, scienziato sognatore che ci guida tra invenzioni e scoperte, accompagnato dal signor Microcosmos, creatura a vapore, Nico, l’uomo fisarmonica e Klara, la donna telegrafo.
La bocca rimane spalancata dallo stupore per due ore. Non solo la visibilità è perfetta dappertutto, ma in ogni posto si assiste a uno spettacolo diverso. In ogni momento, ogni artista e movimento di contorno sono accurati quanto il numero principale. In ogni punto dove posi lo sguardo, c’è un micro spettacolo in corso. Nessun dettaglio a caso, anche i macchinisti a vista, l’americana che sorregge le luci, o il trasmettitore del microfono dei musicisti sono «vestiti» in stile Kurios.
Dalla pancia del signor Microcosmos si srotola una locomotiva, ne escono ballerini, giocolieri, percussionisti che riempiono la pista. Un’enorme mano meccanica sorregge il contorsionismo di strane creature marine. Due gemelli siamesi si separano, la libertà di un corpo solo nel volteggio delle cinghie aeree. Un mondo parallelo capovolto incornicia il numero d’equilibrio sulle sedie. Una ciclista vola sulle nostre teste, anche lei sottosopra. Pesci volanti. Grammofoni. Robot costruiti con scarti. Bambole di porcellana. Arcobaleni pescatori. Aerei e aviatori. Un circo invisibile. Gatti. Orologi da taschino che diventano yo-yo.
Una folle meraviglia. Bentornato Cirque!
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orianagportfolio · 5 months
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Muoversi nello spazio senza permesso. La mostra di Andrea Bowers al Gam di Milano dove è facile riconoscere i nostri diritti. / Il Bullone - OrianaG
Pubblicato su Il Bullone n° 69, novembre 2022.
Muoversi nello spazio senza chiedere il permesso. Il titolo è poten- tissimo. E ha un incredibile potenziale di universalità (intersezionalità sarebbe il temine corretto). Perché chiedere il permesso per muoversi nel mondo, quindi per esistere, è una questione che chiunque sia femmina, o non bianco, o non sano, o non eterosessuale, in generale chi non corrisponde allo standard, riconosce come familiare.
Moving in space without asking permission, al GAM di Milano fino al 18 dicembre, è la prima mostra personale di Andrea Bowers in Italia. «Andrea Bowers - ci dice la cartella stampa - è un’artista e attivista americana la cui ricerca combina pratica estetica e impegno politico da una prospettiva femminista. L’artista indaga questioni fondamentali come la parità di genere, i diritti della donna e dei lavoratori, l’immigrazione e l’ambientalismo, attraverso un approccio di forte impatto visivo e una sperimentazione linguistica che abbraccia vari mezzi espressivi, dal disegno al video, dall’installazione al neon. La sua capacità di restituire argomenti complessi in un vocabolario accessibile e diretto è l’esempio di come l’arte possa, attraverso il suo potere estetico, veicolare messaggi socialmente rilevanti».
La cifra di Bower è studiare e progettare i suoi interventi in stretta connessione con il luogo che la ospita. Già nell’atrio del GAM, prima di passare in biglietteria, ci accoglie un colorato neon: Another kind of strenght (un altro genere di forza), dal titolo del saggio di Alessandra Chiricosta, attivista italiana e insegnante di arti marziali. Bower le ha chiesto di collaborare alla mostra e ne è nato il video proiettato in una delle stanze: Chiricosta e le sue allieve mostrano sequenze di combattimento, schierate nella sala da ballo della galleria, in lunghi abiti d’epoca. Quale miglior modo di raccontare un’altra storia? Combattere e muoversi in libertà in vestiti creati apposta per costringere, nel luogo del debutto in società, dove lo scopo principale era cercare un buon partito e accasarsi. Il GAM stesso è contenitore e simbolo, istituito tra ne Ottocento e primi del Novecento, quando i primi movimenti di emancipazione femminile iniziavano a farsi sentire in Italia, e particolarmente a Milano. Nell’ultima stanza sono stati raccolti documenti del primo femminismo, presi in prestito da diverse istituzioni milanesi, che raccontano storie completamente diverse da quelle che potremmo immaginare.
Nella prima stanza, ricoprono le pareti nastri di raso con diversi slogan. L’artista invita a prenderne uno, non ci tiriamo indietro. Il sessismo fa schifo, Il genere è un universo e noi siamo tutti stelle, Smantella il patriarcato, Il mio corpo non sono fatti tuoi, sono i Nastri Politici (Politic Ribbons, li chiama Bower) che decidiamo di portar via, prima di continuare la visita della collezione ssa del GAM, guidati dalla nostra Elisa. E scoprire che, per utilizzare l’ascensore riservato ai disabili, dobbiamo chiedere il permesso al personale del museo.
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orianagportfolio · 2 years
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Sintesi Sanremo 2021 / 7 marzo 2021
Io la storia che cambiava la sentivo già 5 anni fa.Sul podio Fiorella Mannoia, Ermal Meta -classe 1981+ e Francesco Gabbani -classe 1982-.
Era il mio 1° festival da cronista. Per la prima volta vedevo due poco più che miei coetanei sul podio, e non era una "classica canzone sanremese" a vincere, ma una canzone intellidivertente che parlava, finalmente, la mia lingua.
L'anno dopo vincono Fabrizio Moro e Ermal, di nuovo si parla "di me", della mia generazione diventata adolescente a braccetto col nuovo concetto di "terrorismo", che niente aveva a che vedere con quello vissuto dai miei genitori.
Sul podio con loro Lo Stato Sociale -classe 1984/1986- e Annalisa -classe 1985-.Sul podio di Sanremo, più che nel mondo reale, i trentenni riescono a farsi vedere e sentire.
È il mio 2° festival da cronista, il primo per Il Bullone, da "indipendente" (con il direttore Perego che mi dice "Su Sanremo scrivi tutto quello che vuoi"). Incontro I Lupi di Ermal per la 2ª volta, stavolta entro a far parte del branco, seguendoli per tutta la notte.
Nel 2019 Il Bullone è in sala stampa per la prima volta. Dentro sono da sola, fuori mi affiancano Fabio e Luca.
Sul podio Ultimo -classe 1996-, Mahmood -classe 1992-, Il Volo -classe 1993/1995-.
Spodestati anche i trentenni. Nemmeno "Soldi" è un pezzo "da Sanremo", ma all'Eurovision facciamo, di nuovo, la nostra figura.
Il premio Mia Martini va a Daniele Silvestri, accompagnato sul palco da Rancore. Perché è importante, ve lo scrivo dopo.
Nel 2020 in sala stampa Lucio Dalla siamo in due. Fabio è "passato di grado". Fuori ci raggiunge Debora Zanni che si gode una città in festa, un'unica passerella dal Teatro Ariston Sanremo a Casa Sanremo, concerti pazzeschi e fiumi di gente ovunque.
Un mese dopo entreremo in lockdown. Il coronavirus è ancora solo roba cinese.
Sul podio Diodato -classe 1981-, Gabbani di nuovo, i Pinguini Tattici Nucleari -classe 1991/1994-. È ancora la mia generazione a parlare, benissimo e in modi diversissimi, di cosa siamo.
È il mio 4º Festival da cronista, il 3º col Bullone, il 2º in sala stampa. E detto così, sì, ha ragione la Peracchi sul "percorso che mi sto costruendo", ho addosso un orgoglio gigante. Che mi spinge a spendere sempre, anche nella fretta delle conferenze stampa, due parole per raccontare per chi sono lì, per un giornale che non è "normale", è speciale, e fa innamorare tutti.
Il 14 febbraio seguente la 1ª intervista esclusiva della mia "carriera" è con Rancore -classe 1989-, grazie alla sala Lucio Dalla più bella di sempre, e al suo "capitano" Rita, che tiene le redini di quel magico caos.
Oggi, 6 (ormai 7) marzo 2021, finisce il mio 5° Festival. Sto convertendo in mp4 una diretta Zoom di circa 4 ore e mezza. La quinta, perché quest'anno la "sala stampa" abbiamo dovuto inventarcela, anche con chi di sale stampa non ne aveva mai viste.
Seguo conferenze in streaming da tre settimane, per le prossime tre prenderò accordi per interviste in streaming, sto dando ripetizioni in streaming da ottobre.
Ho un bisogno e una nostalgia spaventosi di contatti con esseri umani in 3D, con cui stasera avrei saltato sui banchi di una sala stampa in delirio, con Debora dentro con me, e Alessia fuori ad aspettarci.
Tra le Nuove Proposte vince Gaudiano -classe 1991-, che canta di lutto senza pietismi e piagnucolii, in un anno dove alla morte quasi ci siamo abituati, tanto da scendere in piazza per urlare che il virus è un'invenzione, che le misure restrittive sono anti-costituzionali, che i vaccini ci uccidono.
Sul podio salgono Ermal Meta -classe 1981-, Francesca Michielin -classe 1995-, Fedez -classe 1989- e i Måneskin -classe 1999/2001-. Cantano d'amore e di voglia di esplodere.
Il premio Mia Martini va a Willie Peyote -classe 1985-, che io speravo sul podio, canta la mia generazione, in un modo ancora diverso dai suoi predecessori. E spero sia la nostra prossima intervista.
Sì, il mondo sta cambiando.
Passati i trent'anni me ne accorgo di più, amico Manzotti. E no, non lo so se è in bene o in male. Ma cambia, e noi dovremmo semplicemente farlo con lui. Tu, mondo fuori dall'Ariston, che non hai vissuto con me questa mia 5ª bolla, prova a prenderne esempio. Riparti da noi, da quegli anni lì, dal 1981 al 2001. Mettici in mano le cose, facci, finalmente, cambiare il mondo per davvero.
Fai come l'orchestra, questa sera, e come Amadeus -classe 1962- e Fiorello -classe 1960-, che alle quasi tre di notte saltavano urlando sul rock di quattro appena ventenni che vogliono cambiare il mondo...
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orianagportfolio · 3 years
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E tu cosa metteresti nella capsula del tempo: Il DVD della mia vita / Il Bullone - OrianaG
Pubblicato su Il Bullone n° 36, giugno/luglio 2019.
Dunque, premetto che alla mia capsula c'è chi ci ha pensato prima di me. Sono entrata a far parte di un protocollo sperimentale a marzo all'istituto Besta, dove mi seguono dal 2012. Due boccette del mio sangue e una delle mie urine sono già crioconservate (cioè, congelate e messe in archivio). I posteri potranno clonarmi, volendo.
Ora, data questa per fatta, farei una capsula bis, di cui decidere io. Un lettore con dentro un DVD con i filmati belli della mia vita: spettacoli, cazzeggi in macchina con amici e familiari, anniversari e Natali con tutta la mia famiglia ancora intera...
Una selezione di cose che ho scritto: articoli, testi teatrali, la mia tesi di laurea, lettere. Non ho mai pensato a un modo diverso e più efficace per farmi ricordare, lasciare un segno.
E un quaderno vuoto, o una Polaroid con scorta di pellicole. Qualcosa da completare, da usare, per chi verrà dopo di me.
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orianagportfolio · 3 years
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Poetry Slam, i poeti (comici) al Rob de Matt. / Il Bullone - OrianaG
Pubblicato su Il Bullone n° 36, maggio/giugno 2019.
"Una chiacchiera tra amici veri, con la birra in mano", così Enrico Pittaluga spiega cosa sia il Poetry Slam ai microfoni di Router Radio (che intervista anche noi cronisti...!). Una gara tra poeti che recitano, spesso a memoria, propri componimenti davanti a un pubblico assolutamente eterogeneo, spesso popolare, unico giudice supremo nel decidere il miglior poeta della serata. Un cocktail tra una corte rinascimentale, un circolo culturale avanguardista e una battle tra rapper. L'unico paletto è il tempo. Tre minuti massimo. Insieme a poeti, poesia e pubblico ascoltante e votante, i due MC, i presentatori, maestri di cerimonia sono una colonna portante, non solo in quanto "arbitri" e supervisori delle regole.
In particolare in questo caso, perché il già citato Enrico, in perfetta coppia comica con Luca D'Addino (debuttante come poeta qualche mese fa), si divertono, e fanno divertire parecchio. Con la scusa di essere ospitati al Rob De Matt a Milano, e l'ufficiale, a quanto dicono, certificazione di "Matt" vantata da Luca, i due MC si sono dotati di camice, termometro e stetoscopio, servendo la poesia come medicina universale, cura assoluta a ogni male dell'uomo moderno. E tutti i torti non li hanno.
Il pubblico del Rob de Matt, variegatissimo per età (presenti sia passeggini che capelli bianchi, con tutte le sfumature anagrafiche in mezzo), stile, forse anche estrazione sociale, dopo una a volte timorosa curiosità, si ferma all'ascolto dei Matt. Si emoziona, sorride, ride.
Nelle due manche si alternano odi per l'erre moscia, per anziani e bambini, per i matti, per città, condizioni di spirito, anagrammi, disagio, papà... "La poesia è atto curativo!", esclamano a un certo punto gli MC dottori matti. E questo conta, non chi vince o chi perde. La poesia cura, ancor più se dal vivo. La prossima che leggerete Poetry Slam sulla porta di qualche locale, fatevi un regalo: entrate, ordinate una birra e sentite che hanno da dirvi quei poeti matti.
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orianagportfolio · 3 years
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Non muore chi vive nel cuore di chi resta. / Il Bullone - OrianaG
Pubblicato su Il Bullone n° 36, giugno/luglio 2019.
"La musica ci salverà e ci renderà immortali".
È partita da qui la riflessione. Da una frase che, come spesso mi capita, non mi ricordavo di aver scritto. Pensavo a Dre, a quante persone si stanno muovendo per realizzare il suo disco. Alle sue parole scritte sui quaderni che mi ha lasciato. Al regalo di immortalità che gli, e ci, faremo.
E penso a me. Alla mia ossessione di essere dimenticata. A quante volte ho realizzato che il mio bisogno spasmodico di scrivere fosse il mio unico modo per lasciare qualcosa nel mondo, quando non ci sarò più.
E penso a tutti quei personaggi che non sono più su questa Terra, ma che in realtà non sono morti mai. Che hanno avuto un impatto tale sul mondo, che la loro eco risuona ancora dopo decenni, secoli. Penso a Leonardo Da Vinci, a Mozart, a Nelson Mandela, Freddie Mercury, Jim Morrison, Gandhi, Giordano Bruno, Claire, la nostra Eleonora, la Cleme, Leo, Isa...
Era Jim Morrison, credo, che scriveva "Non muore chi vive nel cuore di chi resta". 
L'essere umano, in realtà, forse lo è davvero potenzialmente immortale. Ma chi ancora è vivo, spesso fraintende il significato di immortalità. Mi raccontava un conducente di Blablacar che sono in corso degli studi per ringiovanire le cellule del corpo umano a zone, rendendole praticamente immortali, o quasi. I pochi eletti che potranno sperimentare queste nuove tecniche, avranno una aspettativa di vita di 200, 300 anni probabilmente. Forse di più. Ma, seriamente, siamo sicuri di volerlo? Trecento anni di vita sono davvero tanti. Non si rischia una noia mortale? Una stanchezza di spirito insopportabile? Un'antipatia acuta verso gli altri abitanti del pianeta?
Io so che vivo più serena da quando ho fatto pace con l'idea di morire, prima o poi. E capita ancora che mi chieda "Se dovessi morire domani, sarei felice di quanto ho vissuto? Di cosa ho lasciato a chi resta?", e la risposta la maggior parte delle volte è sì.
Tanto non c'è modo di sapere quando arriverà quell'ultimo respiro. Tanto vale viverseli tutti, cercando magari di lasciare quanto di meglio possibile chi resta. Se dovessi morire dopodomani, domani cosa vorresti aver fatto?
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orianagportfolio · 3 years
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Ghironda, violino e la cornamusa. La musica de L'Orage, una super band folk valdostana. / Il Bullone - OrianaG, Eleonora Bianchi e Debora Zanni
Pubblicato su Il Bullone n° 35, maggio 2019.
Il nuovo album de L'Orage, band folk valdostana, "Medioevo digitale", è uscito ad aprile. Suoni tradizionali su testi che toccano l'attualità di cui anche Il Bullone si sta occupando da tempo: migranti, tecnologia, confronto generazionale...
Abbiamo ascoltato il CD in anteprima e intervistato Antonio Visconti, voce e chitarra della band.
«Il punto del disco è riprendere il filo di un discorso già iniziato, e molto elaborato, ma interrotto con l'attentato alle Torri Gemelle, che ha dato il via al nuovo terrorismo. Prima dell'11 settembre, al G8 di Genova a luglio, era fortemente presente, con quasi un milione di presenze, quel movimento globale apartitico, apolitico e pacifista che non era lontano dalla protesta di Greta oggi. Ecologia, accoglienza e parità di genere erano già temi portanti. L'infinita possibilità di informazione azzera la percezione della memoria, che costruisce ideali, pensiero critico. I millennials sembrano isolati dal processo di memoria. Il passato non è meglio, ma segna un tracciato. Non puoi capire Achille Lauro se non hai idea del lavoro di Vasco. Ascoltare i "vecchi" è un contatto tra generazioni importantissimo.»
Perché il nome L'Orage? «Dalla celebre canzone di Georges Brassens e non solo. È una parola che spesso appare nel mondo delle canzoni francofone e brilla in modo particolare, incuriosisce. In più dà la possibilità di creare moltissimi giochi di parole.»
Come mai vi siete assentati per 3 anni? «Nell’estate 2017 abbiamo deciso di prenderci un momento per noi anche per ciò che accadeva nel nostro privato. Io ho avuto un figlio, il chitarrista storico è andato via, e io, con più tempo a casa, ho ricominciato a studiare la chitarra elettrica. Ci siamo dati tempo anche per valutare i cambiamenti del mondo musicale, più attivo su web e social, che non è subito stato nelle nostre corde. Siamo molto legati al contatto diretto col pubblico, dal concerto come festa.»
Com'è il contesto musicale valdostano? «È una regione piccola e per ciò molto "contemplativa": il rapporto con la natura è diretto e forte, e questo determina una grande creatività. La scena musicale è molto varia. Sono frequenti le fiere, le sagre, dove anche i più giovani ancora cantano insieme e ballano in coppia, cosa che non si vede quasi più. Noi siamo partiti da lì, affacciandoci al panorama italiano con una fan base già molto solida, di gente che con noi si diverte, fa festa. Mantenere un contatto forte con la tradizione (i fratelli Boniface sono musicisti da 4 generazioni, suonano ghironda, violino, cornamusa...), mescolandola a rock, cantautorato, elettronica ha portato qualcosa di nuovo.»
Di chi sentite di più l'influenza? «Realtà molto diverse. Rock alternativo anni 90, grunge, canzone d'autore italiana e no. I fratelli Boniface hanno il mondo celtico e il metal più cattivo, il punk folk. Poi il punk nord europeo, la ritmica africana. Il repertorio di cover che portiamo live spesso spiazza.»
Se ti diciamo Rivoluzione, Cicatrici e Viaggio... «Sono parole potenti. "La rivoluzione è nella testa", Lennon: quello che serve oggi, a partire dalle cose piccole come fare spesa con meno plastica. "Gli amanti cullano le cicatrici come segreti da svelare", Cohen: i ragazzini ne sono orgogliosi, è confortante averle da mostrare come segni di battaglia. Sono la memoria del nostro corpo, della paura affrontata. "Prego di trovare il grande viaggio tra le pareti di una scatola", Noir Desir. Viaggiare è bello, ma il vero viaggio è dentro.»
I B.livers hanno 3 parole: essere, credere e vivere. Le tue? «Inquietudine, intesa come valore; leggerezza, quella di Calvino che trova l'ironia anche nel dolore. E memoria, mezzo per prolungare la vita, espanderla e mantenerla attiva creando ricordi importanti.»
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orianagportfolio · 3 years
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Il messaggio di Andrea: "Non perdere tempo ad avere paura". / Il Bullone - OrianaG
Pubblicato su Il Bullone n° 35, maggio 2019.
"Solo gli stupidi non hanno paura".
È l'ultimo messaggio che ti ho scritto. Il 26 maggio. Il giorno prima che ti addormentassero. Credo. Poi ti ho mandato le mie prime foto dal Viaggio delle Stelle. Venerdì. Da Milano a Cortina, dalle montagne bianche, i selfie storti. Qualcuno le ha viste, hanno tutte la doppia spunta blu. Magari aveva il tuo telefono qualcuno che era con te. Che era lì a vederti andar via sorridendo. O magari ti sono arrivate poco prima che salissi lassù, sopra le nuvole, e magari, quel qualcuno che era con te, te le ha raccontate quelle foto. Mi piace pensare che sia vera la seconda ipotesi. Che ti sia sentito parte del nostro viaggio quell'attimo prima di raggiungere Eleonora, Clementina, Leonardo. Che il tuo sorriso dipendesse da quello. Dal sentirti parte di quel qualcosa, di quella redazione dove non sei mai stato, di quella famiglia di matti che non sei riuscito a conoscere per intero, ma alla quale sei piaciuto immediatamente. Devo ricordarmi di trovare il modo di fartelo avere il bullone. Al collo ancora non l'avevi, credo.
"Se sei malato, tu non sei morto. Hai molto da fare, quindi non perdere tempo ad avere paura".
Questo l'hai scritto tu. Su uno dei quaderni che avrei dovuto restituirti quando ti avessero dimesso dall'ospedale, o quando ti fossi venuta a trovare. Pare che qualcuno sapesse che li avevo io. Che glielo avessi detto tu. Rimarrò sempre col dubbio di quanto questo "compito" che mi hai lasciato fosse una volontà precisa, decisa, calcolata. Sai di cosa mi sto convincendo? Che quando ti ho detto che dei miei testi mi vergognavo, tu abbia deciso di sfidarmi. Che, dopo averne letto qualcuno, ti fossi convinto che era il momento di sbloccarla la mia vergogna, la mia paura del giudizio degli altri su quel qualcosa di troppo mio. Quasi ti vedo adesso, lassù, a ridacchiare per lo spintone che mi hai dato. A chiederti perché in chiesa hanno messo un organo e non una batteria. A goderti lo strappo alla regola che mi hai fatto fare al funerale col whisky, come se lo stessi bevendo tu. A scusarti per le maledizioni che tiro alla tua illeggibile calligrafia in corsivo, mentre trascrivo i tuoi appunti per chi, insieme a me, ha deciso che il tuo disco, il tuo "Origami perfetto", deve essere registrato per davvero. 
Siamo in sei, per adesso. Se ne aggiungeranno altri. Forse la notizia raggiungerà anche Jack. Vedi? Non ti smentisci mai. Se non fai casino ovunque metti le mani, non sei contento. Sto radunando un esercito, per rendere realtà un progetto che avevi in testa tu da solo. Forse perché una voce sola non basterebbe, per raccontarti. Credo.
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orianagportfolio · 3 years
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Giuseppe Fava: scrivevo di mafia ridendo. Se ridi, le togli potere. / Il Bullone - OrianaG
Pubblicato su Il Bullone n° 35, maggio 2019.
Pippo Fava è giornalista, drammaturgo, pittore, romanziere. Nato a Catania nel 1925, dedica la vita a raccontare il mondo della mafia, ci incontriamo per la mostra a Milano di dipinti, schizzi a penna, bozzetti di scenografie. In tram mi arriva una pessima notizia. Lo sforzo per non pensarci aspettandolo in Buonarroti, davanti alla casa di riposo per musicisti, è infinito. Poi arriva sorridente e mi abbraccia, come un vecchio amico. 
Non ho domande. «Perché?»
Troppi temi "miei", mafia, teatro, giornalismo, sport. Non riesco a razionalizzare. Se ti va, andiamo a braccio. «Va bene! Ti racconto della mostra?»
Va bene! «È un lavoro nato dall'archivio della Fondazione a cui lavora anche mia nipote Francesca, che va nelle scuole per far conoscere il mio lavoro e parlare di anti mafia. Ma l'impegno più grande ora è il riordino dell'archivio. Ha iniziato mio figlio con sua moglie, continua lei. Sono riusciti persino a ritrovare un testo che scrissi con Pippo Baudo!»
Pippo Baudo? «Ci siamo conosciuti a Catania, è un po' più giovane di me. Ha incontrato anche mia nipote a una prima a teatro. Comunque, ti dicevo, la mostra. Vacci a Milano, fino all'8 giugno, alla Biblioteca Sormani. I miei dipinti in casa li ho sempre appesi, e qualche personale l'ho fatta, per il gusto di spiare la gente, come reagiva. Ma hanno trovato anche tanti schizzi, disegni che nemmeno ricordavo di aver conservato. Li facevo al bar, sovrappensiero. Dipingevo anche le pietre, prese a Taormina in spiaggia.»
Cosa hai studiato? «Giurisprudenza a Catania. Mi piaceva scrivere però. Il primo racconto me l'hanno pubblicato due giorni dopo la laurea. Francesca ha ritrovato il manoscritto e il ritaglio di giornale incorniciato, da mio padre penso. Racconti, spettacoli teatrali, articoli. C'è quasi tutto ancora. È la curiosità il motore. Scoprire le storie, raccontarle, regalarle al mondo. Mi sono sempre appuntato idee, spunti, progetti da sviluppare in un futuro. Vivessi 200 anni non basterebbe a fare tutto.»
Ho tanti flash pensando al tuo lavoro. La morte di mio cugino, le inchieste di Fabrizio Gatti, Peppino Impastato. Era un periodo con un'incredibile concentrazione di teste pensanti. «Tante teste pensanti che sono state fermate, zittite. Oggi con internet sarebbe forse più facile farci scudo uno con l'altro. Eravamo cellule isolate. Stavano nascendo radio e giornali indipendenti, ma erano embrioni. Ma cos’è successo a tuo cugino?»
Ho scoperto tutto per caso, a 18 anni, dopo aver visto "I cento passi" con la scuola. Mio nonno era venuto via nel 1963, per non rischiare che di 11 figli qualcuno rimanesse incastrato in quel giro. Una mia zia si era già sposata ed è rimasta giù. Mio cugino è stato ucciso poco prima della tua intervista da Biagi. «E com'è stato scoprire la verità?»
Infinita gratitudine per il coraggio di mio nonno, incazzata nera perché mi avevano raccontato una bugia, perché un colpevole non ci sarà mai. Ho cercato di farmi raccontare di più. «È importante raccontare e farsi raccontare, perciò ho voluto farlo da Biagi. Mantenere la memoria, la sua potenza, e prendersene la responsabilità. "La mafia non c'è" è una frase comoda, ti fa dormire tranquillo. Ma se ti informi, se la conosci, poi devi per forza prendere posizione, decidere da che parte stare. E inizia il cambiamento. Dai tuoi sei mai scesa?»
Cinque anni fa, due dopo la diagnosi. La malattia ribalta le priorità, e la famiglia ha vinto sulla rabbia. Come io ho una malattia ma non sono la malattia, così la mia famiglia è la mia famiglia, e basta. I tuoi nipoti di te sanno? «Sì, in famiglia se n'è sempre parlato. Il mio pronipote di 10 anni, quest'anno per la prima volta ha letto il mio nome alla manifestazione di Libera ed è molto orgoglioso della storia del bisnonno. Francesca era a Genova e ha fatto lo stesso, scoprendo un approccio molto diverso dal suo. Meno familiari delle vittime, ma stessa voglia di capire e raccontare. Raccontare la tua storia ha un senso se glielo dai tu.»
C'è un pudore che rimane sotto pelle. Sembra spesso brutto parlare di mafia, specialmente dove (sembra) non ci sia. «Per questo la mostra è a Milano. Ne sono fiero, le reazioni della gente mi divertono. I quadri, i disegni, gli schizzi ti obbligano a guardarli, non puoi sfuggire. Fare memoria partendo da Milano è importante per non rimanere isolati. Hanno il 41 bis dietro casa e se lo scordano.»
Ci sono stata. «Com'è stato?»
Tremavo. Racconto al volo la mia storia e la rabbia torna tutta. L'ispettore fa chiamare Roberto, pluriomicida di mafia. Gli chiedo quando uscirà, sorride e risponde: «Mai». Umanità, dolcezza, coraggio. È stato un ceffone. La sua storia mi ha ribaltato le prospettive. «Capisco. Mia nipote Francesca organizza giri della Sicilia in barca a vela con ragazzi del circuito penale. Incontrano ragazzi come loro con cui si confrontano. È un modo per dirgli di guardarsi intorno. La mafia esiste dove c'è povertà, assenza dello stato e ignoranza. Il mio raccontare la mafia non era un "j'accuse" gratuito. Raccontavo i contesti, le persone, quanto è facile cascarci se tutto intorno a te ti fa credere che un'alternativa non c'è. La vela gli racconta strade alternative, perché possano reinventare le loro.»
La tua strada com'è finita? «Scrivevo per lo Stabile di Catania, collaboravo alle scenografie. Mia nipote Francesca recitava in "Pensaci Giacomino". Per non farla annoiare durante le prove, me la portavo nei posti in fondo e le dicevo: "Questo è il posto migliore. Spettacoli ne vedi due, sul palco e in platea." La sera del 5 gennaio dovevo andarla a prendere, l'agguato è avvenuto tra il primo e il secondo atto. Mio figlio Claudio è stato il primo a saperlo. Francesca non è tornata a casa, Turi Ferro, un attore, l'ha portata da lui. Claudio è stato molto attento che le bambine scoprissero la verità poco per volta. La cosa divertente è che da poco, all'angolo vicino alla lapide che mi ricorda, hanno aperto un sexy shop! I gestori sono stupendi, hanno coperto le insegne il 5 gennaio. Ancora rido tantissimo. Ci scriverei un pezzo.»
Di cosa scrivevi su "I Siciliani"? «Di mafia, spesso ridendone. Se ne ridi, le togli potere. Di sport, mia passione da sempre, cultura, musica, spettacolo. Artisti e sportivi hanno molto in comune. Sono modelli sani di riferimento, concentrazione, dedizione. Senza cresce l'indifferenza, la cattiveria gratuita, il vuoto. Tanti giornalisti distratti oggi meriterebbero una testata. La velocità è incredibile, bisogna prendersi la responsabilità anche delle notizie più leggere. Ricordarsi che il direttore ha la responsabilità delle firme, dei debiti, delle minacce. È bello sentire che i miei ragazzi mi chiamano ancora Direttore. E sono orgoglioso dei miei nipoti. Hanno preso strade molto diverse, Claudia giornalista, Alessandra la passione del teatro, Francesca mare e psicoterapia, Cristina commissario di polizia, Emils studia arte... È come se mi fossi diviso in tanti pezzetti dentro di loro.»
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orianagportfolio · 3 years
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L'arte è comunicazione. / Il Bullone - OrianaG
Pubblicato su Il Bullone n° 35, maggio 2019.
Arte è comunicazione. Mittente, messaggio, destinatario. A chi arriverà cosa è una splendida incognita. Può esserci un com-mittente. Il mecenatismo ci ha regalato i maggiori capolavori esistenti. Poesia, musica, teatro, danza, cinema, fotografia, pittura, scultura... 
Perché abbiamo bisogno di etichettarla, l'arte? Perché abbiamo smesso di considerarla un mestiere? Credo sia il grande, unico, e forse grave, cambiamento. 
Un tempo "lassù" c'erano le muse, l'artista il mezzo umano. Il suo lavoro di materializzazione dell'ispirazione aveva un valore monetario. E di arte mangiavi. Ritratti di famiglia, statue votive, odi d'amore, requiem. Oggi lavoro su commissione è bestemmia. «Io Artista ho la mia poetica, non posso piegarmi alle leggi di mercato». «La mia è una vocazione, non sono un mestierante». «Se non capisci il mio messaggio, lo stupido sei tu».
L'arte è via di mezzo, l'artista umile tramite tra musa e pubblico. Cosciente del regalo ricevuto e dato, e dell'imprevedibilità delle reazioni. L'arte è consapevolezza di rendersi immortale, anche quando quell'impronta lasciata nel mondo ti è servita per pagare le bollette.
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orianagportfolio · 3 years
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A Chorus Line, ballerini senza nome raccontano storie, cicatrici, speranze. E a teatro va in scena la vita vera. / Il Bullone - OrianaG e Isabella Marino
Pubblicato su Il Bullone n°34, aprile 2019.
È tornato in Italia "A Chorus Line", con la regia di Chiara Noschese e la produzione di Stage Entertainment Italia, in scena al Teatro Nazionale dal 14 febbraio al 7 aprile. È un atteso ritorno, dopo 11 anni dall'ultima versione italiana, con la regia di Saverio Marconi, la produzione della Compagnia della Rancia e le traduzioni di Michele Renzullo.
«A Chorus line» è un musical strano, semplice, ma mai uguale. Se sei del mestiere è difficile che non ti parli diretto, guardandoti dritto negli occhi. Debutta a Broadway nel 1975, rimane in scena fino al 1990, 15 anni, 6137 repliche, 9 Tony awards (gli Oscar del musical) e Premio Pulitzer alla Drammaturgia. La trama è semplice: 17 ballerini affrontano le audizioni per la «Chorus line», la linea del coro. Nessun ruolo principale, solo corpo di ballo, ballerini di fila, quelli senza il nome in locandina. Ottenere «la linea» significherebbe riuscire a pagare le bollette, in un bisogno a metà tra passione viscerale e istinto di sopravvivenza. 
Il cast italiano, diretto come già anticipato da Chiara Noschese, che ha riunito diverse generazioni di interpreti, è bello, unito e convinto. E convince. Gli addetti ai lavori sanno bene cosa si provi a stare su quella linea, su un palco vuoto, da dove il regista che ha in mano il tuo futuro a breve termine, è solo una voce amplificata che dà ordini, un mezzo viso appena illuminato da un punto luce da scrivania, nel buio della platea. 
Il bello del gruppo sta nella sua realtà. Personaggi semplici, ben interpretati da professionisti che ti coinvolgono con sincerità, fino a farti sentire uno di loro. Viene voglia di salire sul palco e mettersi a ballare insieme a loro! L'orchestra dal vivo regala classe e magia, sulla scenografia semplicissima ma d'effetto. Un gioco di specchi che moltiplica le vite, le storie dei ballerini in scena.Il valore aggiunto di «A Chorus line» - e probabilmente il motivo che lo ha reso mitico negli anni - è che di quei ballerini senza nome racconta le storie, le cicatrici, le speranze, le paure. Quella linea per la prima volta nella storia del musical diventa tridimensionale, l'importanza di ottenere quel lavoro supera la smania di avere il proprio nome in evidenza. 
Le storie raccontate nello spettacolo sono tutte vere, registrate in diversi workshop a Broadway tenuti dallo stesso Michael Bennet, ideatore, coreografo e regista originario. Otto dei protagonisti di quelle storie vere entrano a far parte del primo cast nel 1975. Una di loro, Baayork Lee, ispiratrice del ruolo di Connie, ha seguito e curato molti allestimenti, anche in Italia. Questo passaggio diretto dell'eredità storica dello spettacolo, vive stavolta in Fabrizio Angelini, coreografo, presente in tutte le edizioni italiane precedenti, che non inventa nulla da zero, ma regala la propria storia ed esperienza ai nuovi interpreti. Il cast di questa nuova produzione è variegato, per età, esperienza, attitudine. E non solo funziona, ma rispecchia perfettamente la natura dello spettacolo, che cresce e si evolve negli anni grazie alla trasmissione diretta degli interpreti storici ai nuovi, in un'infinita eredità.
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orianagportfolio · 3 years
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Quartet al Carcano. I B.livers incontrano Cochi, la Quattrini, Erica Blanc e Giuseppe Palmieri. / Il Bullone - OrianaG
Pubblicato su Il Bullone n° 34, aprile 2019.
"Quartet" è una commedia di Ronald Harwood, portata al cinema da Dustin Hoffman nel 2012. Giuseppe Pambieri, Paola Quattrini, Cochi Ponzoni ed Erica Blanc portano su palco la storia di quattro interpreti d'opera, ospiti di una casa di riposo per musicisti. Le dinamiche tra i quattro regalano voglia di vivere ed entusiasmo, perché, a detta degli interpreti, più avanza l'età, più è il presente a guadagnare importanza.
I B.livers hanno assistito allo spettacolo al Teatro Carcano dopo aver incontrato il cast.
Erica Blanc, Giulia sul palco, ha lavorato con i più grandi, da Mastroianni a Strehler: «Giulia è tutte le donne in una sola. Un po' sta male un po' no, un po' è innamorata un po' no... Non mi era mai capitato di interpretare tanti "personaggi" in uno solo, dà molta soddisfazione», per chi come lei, è sul campo da tutta la vita, «la televisione ha portato in teatro molti attori non teatrali, si usa sempre il microfono perché pare che il pubblico sia diventato sordo. E c'è meno piazza, le tournée di una tappa al giorno sono faticose e tanti restano fuori. Sono fortunata, in tournée abbiamo fatto una torta a sorpresa ad Arnoldo Foà per i suoi 92 anni e io non mi rendo conto che i prossimi saranno 77». Le nostre tre parole la fanno riflettere: «Essere e accettare di essere diversi da prima, superare la negatività, credere sempre ai desideri, vivere per poterli vivere, difendersi da se stessi, dal nostro pessimismo. Se piove, se c'è il sole, se fa freddo, è bello comunque. Se perdo una gamba, ma credo di poter reimparare a camminare, cresco, vivo. Il passato non mi interessa, il futuro nemmeno, ora è importante.»
Paola Quattrini ci racconta la sua Cecilia: «Tenera, vitale, folle». Anche lei in scena da una vita, racconta «Faccio un lavoro che continuerà finché la salute me lo permette. Anche fino a cent'anni. La Borboni era in carrozzina e sul palco stava in piedi. La Melato era in scena con i dolori del tumore. Adesso è più bello, assapori di più. Non è più tutto dovuto, il per sempre non c'è. Il palco è magia e te lo godi molto più che da giovane».
Giuseppe Pambieri intervista noi, curioso di sapere cosa scriviamo, quali siano i nostri temi, e quale sia la situazione politica in Camerun, paese d'origine di Sarah da dove è appena tornata. Lo colpisce l'impaginazione e i tanti temi affrontati. Descrive così il suo Rudy: «Razionale, bipolare, romantico. Non abbiamo visto il film. Gli attori sono molto diversi da noi. Non volevamo influenzarci.»
«Ottimo simbolo», dice Cochi Ponzoni del bullone. Racconta poi la sua carriera «Al cinema "Cuore di cane", storia di un cane che diventa uomo, è il ruolo più importante. Poi con un mio amico, compagno di giochi, ho fatto tanto cabaret. 30 milioni di persone ci guardavano in TV, ma c'erano solo due canali. Dicono che è tutto in crisi, ma da quando sono bambino io! Siamo solo in un'altra dimensione, i problemi non sono cambiati. L'integrazione: gli immigrati una volta venivano dal sud Italia, cosa cambia? Qua si diceva "Milan l'ha ga l coeur in man", ed era vero. L'ignoranza più la mancanza di umanità è il problema. Sono felice che la vostra generazione sia più aperta, meno impermeabile. I quarantenni di oggi sono stati problematici, cresciuti nella Milano da bere, solo soldi e tanta corruzione. Quella da cui sono scappato per 20 anni a Roma.» Le parole del suo Titta sono sesso, rimpianto, allegria. E se potesse disegnare un suo David, come abbiamo fatto col progetto Cicatrici, avrebbe un taglio sulla pancia, il magone che non lo lascia mai, dopo la morte della moglie, provocata secondo lui dai medici, che forse hanno sbagliato la diagnosi, forse non l'hanno presa in tempo... «Sono i matti che mandano avanti il mondo, io sono uno di quelli», ci salutiamo così. E lo spettacolo ha un sapore diverso.
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orianagportfolio · 3 years
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"A un metro da te", il film che insegna l'amore oltre la malattia. - Romanticismo d'ospedale. / Il Bullone - OrianaG
Pubblicato su Il Bullone n° 34, aprile 2019.
Abbiamo visto "A un metro da te", diretto da Justin Baldoni, che racconta di Will e Stella. Che si innamorano, nonostante la Fibrosi Cistica, di cui soffrono entrambi, li obblighi a stare ad almeno due metri l'uno dall'altra.
Abbiamo scoperto gli aspetti più "tecnici" della malattia, riflettuto sulle differenze col sistema americano (Po, uno dei protagonisti, serve forse a raccontare proprio quelle "differenze di classe"), riso insieme di facce gonfie, effetti collaterali e di quanto le proprietà curative del flirt siano sottovalutate.
Ci siamo conosciuti meglio, tra di noi e grazie al film. Alessia, 22 anni, B.liver, malata di Fibrosi Cistica, la sua frase è "Fino all'ultimo respiro". Oriana, 31 anni, B.liver, in cura con farmaco sperimentale per Miastenia Gravis Anti MuSk, la sua frase è "Adesso passa". Riccardo, 26 anni, volontario B.live, sano, la sua frase è "Why not".
Sulla panchina di un parco su viale Montenero, aggiorno gli orari di assunzione delle pastiglie, sembro Stella coi suoi schemi. Sulla panchina dietro di me, due innamorati aggrovigliatissimi, come Will e Stella non potranno mai. A fianco a me una ragazza dipinge, concentrata come Will coi fumetti. Vedo Will e Stella ovunque, è difficile scrivere lucidamente di "A un metro da te". 
 Il dover star bene per gli altri, quando imploderesti e basta. La speranza negli occhi di papà e mamma nel farmaco sperimentale, che cercano la stessa speranza nei miei, il senso di colpa di non sentire lo stesso entusiasmo. Il bisogno di sfogo senza filtri, la voglia di leggerezza, la necessità di ridere anche, e di più, nella paura. La cosciente ribellione alle regole, per sfinimento e voglia di vivere. La ricerca di una familiare ritualità, normalità... 
Non ho la fibrosi cistica, ma di miastenia si moriva, anni fa. Sono solo nata in un'era fortunata. Scazzata come Will, da quando sono in sperimentazione di più. Vorrei una valvola di sfogo efficace come i suoi fumetti. Maniaca del controllo come Stella, anche se negli anni di "stecche da biliardo" (andate a vedere il film se non volete spoiler...) me ne sono inventata parecchie. Invidio entrambi, perché ho provato anch'io il romanticismo da ospedale, ma non è finito con la stessa delicatezza. Ho la voglia di felicità per me e per gli altri, e la cura, di Po e di Barb... 
 Difficile scriverne lucidamente. Difficile e bellissimo.
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