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#Franco Nebbia
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Your Vice Is a Locked Room and Only I Have the Key (Sergio Martino, 1972)    
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Gli altri ci sono,
ma fai conto che sono
impegnati altrove.
Torna alla nebbia,
alla neve,
mastica il vento.
Ogni volta che ti svegli
parti dal niente,
nulla ti è dovuto,
azzera ogni discorso,
guarda, cammina, prega.
Sappi che sei fai una cosa bella
stai offrendo un'occasione
per ignorarla. Fanne altre,
smonta ogni attesa,
prendi per mano la tua morte,
portala in giro nella vita.
Ricorda che nessuno può dare
quello che non ha:
dona agli altri la tua verità,
è il dono più grande che puoi fare.
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Franco Arminio
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susieporta · 1 year
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CONSIGLI D'AUTUNNO
Gli altri ci sono,
ma fai conto che sono
impegnati altrove.
Torna alla nebbia,
alla neve,
mastica il vento.
Ogni volta che ti svegli
parti dal niente,
nulla ti è dovuto,
azzera ogni discorso,
guarda, cammina, prega.
Sappi che sei fai una cosa bella
stai offrendo un'occasione
per ignorarla. Fanne altre,
smonta ogni attesa,
prendi per mano la tua morte,
portala in giro nella vita.
Ricorda che nessuno può dare
quello che non ha:
porta agli altri la tua verità,
è il dono più grande che puoi fare.
Franco Arminio
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giancarlonicoli · 7 months
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11 set 2023 17:05
IL BARONE RAMPANTE! - FRANCO CAUSIO, L'EX CALCIATORE DELLA JUVENTUS SOPRANNOMINATO "IL BARONE" SUL CALCIO DI OGGI: "CI SONO GIOCATORI CHE NON SO NEANCHE DA DOVE ARRIVINO. NON C’È PIÙ LA SENSIBILITÀ DEL PIEDE E SI È PERSO IL GUSTO DI DRIBBLARE" - "OGGI ESISTONO SOLO LE SCUOLE CALCIO A PAGAMENTO, CHI NON SE LE PUÒ PERMETTERE NON VA. INFATTI, A CALCIO SI GIOCA MOLTO MENO" - IL CAMPIONATO ARABO, L'ADDIO ALLA JUVE, LO SCOPONE SCIENTIFICO CON PERTINI DOPO LA VITTORIA DEL MONDIALE DELL'82 E L'ORIGINE DEL SOPRANNOME… -
Estratto dell'articolo Maurizio Crosetti per “La Repubblica”
La maglia numero sette, un paio di memorabili baffi, una divisa quasi sempre bianconera, le finte, il dribbling micidiale, i cross perfetti. Questo era Franco Causio detto “Brazil” ma anche “il Barone”, per l’eleganza del gesto oltre che per gli estri sudamericani. Campione del mondo a 32 anni con l’Italia di Bearzot, nel 1982 […]
Causio, le piace il calcio di oggi?
"Mi addormento. Ci sono giocatori che non so neanche da dove arrivino: ma l’ultimo mercato dove sono andati a farlo? Chiedo a mio figlio come si pronunciano quei nomi, e a volte nemmeno lui lo sa”.
Poi, però vanno in campo. Con quali risultati?
"Spesso, approssimativi. Non c’è più la sensibilità del piede, abbiamo perso un organo vitale. Io ho indossato le prime scarpette da calciatore a 15 anni[…] Erano nere, con i tacchetti. […]”.
Eleganti le scarpette nere, non trova?
"Uniche, irripetibili. Oggi i calciatori portano ai piedi pennarelli fosforescenti. Ma io dico: si può giocare al football con scarpe rosa o azzurre? Al limite, se c’è la nebbia…”
Quando si è accorto di essere Causio?
"Ero piccolo, e mi facevano fare due partite a settimana contro i più grandi. Lì ho avuto il sospetto che qualcosa di particolare la possedevo”.
Cosa?
"La fantasia che ti insegna la strada. Oggi, se dei bambini si mettono a prendere a calci una palla all’aperto, le automobili li investono dopo due minuti. Esistono solo le scuole calcio a pagamento, chi non se le può permettere non va. Infatti, a calcio si gioca molto meno. […]”.
Questi ragazzoni grandi e grossi, però, sono uno spettacolo.
"Hanno muscoli ma scarso talento, partono da un metro e 90 in su. Il risultato è uno sport ipertrofico, tutto fisico, non soltanto il calcio. Prendiamo il tennis: che noia queste partite con servizi a 200 all’ora e nessuno che si sposti dal fondo del campo. Io mi esaltavo guardando Panatta, Connors, Vilas”.
Forse lei non sta parlando solo di sport.
"Tutta la nostra vita è diventata una faccenda muscolare, se non sei potente e veloce non rendi, non ti considerano. Non c’è posto per la lentezza bella, quella della riflessione e della calma. Così viviamo peggio”.
[…]
È una deriva inarrestabile?
"A volte mi chiedo se il calcio non sia impazzito, se non si stia buttando via”.
Si riferisce ai soldi degli arabi?
"Beh, se queste offerte le avessero fatte a me a fine carriera, mi sa che sarei andato a Riad invece che a Trieste. Ma finché mi sono divertito e basta, ai soldi non ho pensato. […]”.
Magari, quelli nella lista del Pallone d’oro.
"L’ho letta. E penso che tra i primi venti di quell’elenco, ben pochi potrebbero competere con noi, faticherebbero a esserci. […]”
Causio, ma se adesso le diciamo Juve?
"Mi dite tutto. La mia vita meravigliosa. Arrivai a Villar Perosa che ero un bambino e mi misero in camera con Castano e Leoncini, il capitano e il vice: me la facevo sotto, però quei giganti mi hanno aiutato in tutto[…] Il mio maestro è stato Helmut Haller, uno dei campioni più formidabili che siano mai venuti in Italia. Crossava da fondo campo di collo pieno, destro o sinistro senza differenze. Alla fine degli allenamenti, lo prendevo da parte e gli dicevo: “Tedescaccio, vieni qui e fammi vedere come fai”. Nessuno degli stranieri del nostro campionato, oggi, può essere paragonato ad Haller”.
[…] E come finì, invece?
"Trapattoni non mi voleva più, preferiva Fanna e Marocchino. Così andai via e fu la mia fortuna. A Udine sono rinato perché non ero mai morto, nonostante le critiche di certa stampa. Oggi giocano fino a quarant’anni e io ero vecchio a trenta? Ma per favore… A Torino mi dissero arrivederci e grazie, loro fanno così da sempre e con tutti e hanno ragione, perché le persone passano mentre la Juve resta. Però, quando seppero che da Udine sarei andato all’Inter, mi telefonò Boniperti per chiedermi di tornare. Gli dissi “presidente, mi spiace, ma chi non mi vuole è ancora lì da voi”. Nove anni ho giocato, dopo avere lasciato Torino da dove non sarei andato via per niente al mondo”.
Come giocatore dell’Udinese, lei vinse la Coppa al Bernabeu. La gioia più grande?
"Senza dubbio. Quando andai a Udine, la prima telefonata me la fece il vecio Bearzot. Mi disse: “Mona, sei nella mia terra e fai vedere a quelli di Torino cosa sai ancora fare. E poi io ti porto in Spagna, anche se il titolare sarà Bruno Conti”. Andò proprio così. Gli risposi che insieme a lui sarei arrivato in capo al mondo. E poi quella partita a scopone in aereo con Pertini, e la Coppa del mondo sul tavolino come una bottiglia di acqua minerale. Il presidente, ma vi rendete conto? Gli incontri che ho fatto io, neanche in dieci vite una in fila all’altra. Forse è proprio questa la ricchezza più grande”.
[…]
Quanto conta la felicità, in campo?
"In campo e fuori, è tutto. Come ha detto mister Claudio Ranieri, resto finché mi diverto. E io mi sono divertito proprio tanto”.
[…]
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lollosdiner · 1 year
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Spaghettino alle vongole dai "nonni"
Si provi a immaginare un uomo che nella sua gioventù ha lavorato i campi. La mattina presto, quando i campi sono ricoperti di quella nebbia gelida e tutto quello che si vorrebbe sono cinque minuti in più sotto le coperte. Quando gli ho chiesto come mai stesse in maniche corte tutto l'anno, pure quando c'erano due gradi sotto zero fuori, ,mi ha risposto dicendo che quando lavori per campi da giovane, poi il freddo non lo senti più per tutta la vita. Ma lì evidentemente era un talento sprecato, come lo è stato quando ha aperto un bar dopo anni di lavoro in un ristorante. Quando quell'estate mi ha fatto una penna al pomodoro come non l'avevo mai mangiata prima mi son reso conto che forse i cicchetti di pesce che esponeva sul bancone non erano buttati là a caso. Infatti poi si è stancato di tutti i vecchiotti che andavano nel suo locale a giocare a carte e a bere ombrette di prosecco. Metti Van Gogh a dipingere di bianco muri per il comune e vedi cosa succede. Un giorno si è stufato, ha preso un rischio, ha chiuso il bar e ha aperto un ristorantino di pesce, 20 posti a sedere, "non potevo fare carne e pesce, sarebbe stato troppo dispersivo, così mi concentro su quello che mi piace e lo faccio meglio". Queste non sono le parole di chi non sa cosa sta facendo, secondo me. Gli spaghetti sono una sinfonia di piaceri primordiali, sottilissimi, probabilmente sono numero tre, fatti al momento perché come dice la moglie di Franco, Maria, "se li fai prima non è la stessa cosa", il sugo è diverso. Gli ingredienti per uno spaghetto alle vongole sono pochi, ma solo un vero artista riesce a metterli in risalto, forse con il giusto vino bianco, forse con le giuste conoscenze per le vongole che fanno la differenza. Quello che è certo è che non sono gli spaghetti alle vongole che ti aspetteresti, hanno qualcosa che solo Franco sa fare. E probabilmente è legato ai cinquant'anni di cucina professionale che stanno alle sue spalle.
P.s. Ogni piatto che esce dalla sua piccola cucina è una prelibatezza che ti fa domandare quanto ti verrebbe a costare mangiare lì a pranzo e a cena tutti i giorni dell'anno, pensando che qualsiasi cifra fosse ne varrebbe la pena, perché il signor Franco è un mago, e sua moglie Maria ti tratta sempre come fossi suo nipote, che tu abbia sette anni o sessanta.
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cerentari · 1 year
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Gioielli Rubati 242: Alessandro Della Valle - Filipa Moreira da Cruz - rb.z - Mariella Tafuto - Franco Bonvini - Tania Pizzamiglio - Max Ponte - Salvatore Leone.
Il sole . Il sole fa il suo mestiere, ogni giorno usa un colore diverso, quello che sento, resta dentro. Non cambia. Mi seguirà ovunque. Devo cercare la bellezza, anche quando si nasconde nella nebbia. Sarà bello ricominciare a ridere. . di Alessandro Della Valle,…
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Per i 100 anni di Pier Paolo Pasolini
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Per i 100 anni dalla nascita di Pier Paolo Pasolini, che cadono in questo 2022, continuano omaggi e contributi. In merito è da portare a conoscenza anche l’impegno della “Scuola di Arti e Mestieri – F. Bertazzoni” di Suzzara (MN), presieduta da Giovanni Marani, che ogni anno bandisce il concorso “Arti in Arti e Mestieri”, giunto al 22° appuntamento per artisti under 40, selezionati da una apposita commissione formata da Mauro Carrera (curatore di Arti in Arti e Mestieri), Alberto Ferrari (direttore della Scuola di Arti e Mestieri), Chiara Gallo (membro della citata scuola) e giudicati da Fabrizio Binacchi (giornalista), Daniela Fonti (presidente della Fondazione “Carlo Levi” di Roma), il già citato Giovanni Marani, Ivan Ongari (sindaco del Comune di Suzzara) e Stefano Roffi (curatore). Ma non è questo che ci interessa in quest’articolo, ma per la cronaca il primo Premio “Enzo Lionello Natilli” è stato assegnato al libro d’artista Tevere di Emanuela Alexandra Sandu (Romania, 1998, laureata in Grafica d’Arte presso l’ABA di Roma) «per l’intensità poetica e la perizia grafica nella realizzazione del leporello» (Mauro Carrera, Arte in Arti e Mestieri XX+II. 100% Pasolini, in 100% Pasolini, 2022, p. 19); a Giulia Bozzetti (Vizzolo Predabissi-MI, 1994, specializzata in Grafica d’Arte all’ABA di Urbino), con l’opera Senza titolo, il Premio “Nebbia Gialla”, mentre il premio alla carriera, destinato a personalità che si distinguono per meriti artistici e culturali, è stato assegnato all’artista romano Luca Maria Patella. Tornando a Pasolini, la XXII edizione della rassegna è proprio dedicata al poliedrico intellettuale di Casarsa col titolo 100% Pasolini (da cui �� stato pubblicato l’omonimo volume-catalogo), inaugurata il 4 settembre e aperta al pubblico fino al 2 ottobre. Sotto la cura di Mauro Carrera sono stati invitati alcuni poeti con i quali si apre il volume che raccoglie gli omaggi pasoliniani, «a guisa d’epigrafe: si va dagli acrobatici Anagrammi per Pier Paolo Pasolini di Franco Carrera alle dicotomie illuminanti de El ingenioso hidalgo… de Casa Arsa de la Delicia di Mauro Carrera, dall’intimo conflitto contemporaneo de lo stomaco in fermento fomenta disordini di Oronzo Liuzzi all’eloquente Acrostico per Pier Paolo Pasolini di Gian Ruggero Manzoni, dall’altro suggestivo acrostico Poesia non consolatoria di Giorgio Moio fino alla sincera e contraddittoria Identità di Gian Paolo Roffi, seguiti da interventi di due maestri dell’area verbovisuale: Luca Maria Patella (Cari Taglia!, con Rosa Foschi, introdotto con un breve scritto, L’umanesimo sperimentale di Luca Maria Patella, da Mauro Carrera)  e Lamberto Pignotti con Intervento invisibile. Seguono alcuni scritti letterari (del curatore ‒ Nomen omen ‒, dello scrittore spagnolo Carlos Martín ‒ Pasolini visto dalla Luna ‒ e di Tito Pioli ‒ Gli occhiali di Pasolini ‒» (Mauro Carrera, Arte in Arti e Mestieri XX+II. 100% Pasolini, ivi, p. 14). La parte più corposa, dopo alcuni saggi a firma di Guido Andrea Pautasso (Pasolini “incontra” Fantozzi: galeotto fu il calcio…), Francesco Tuscano (Guttuso, il realismo socialista l’Astrattismo. Pittura e rivoluzione in “La Rabbia”), Alessandro Zontini (Pasolini, l’arte, il cinema e Dante), è rappresentata dalla carrellata di opere in mostra (Bruno Aller, Bruno Ceccobelli, Omar Galliani, Giovanni Tommasi Ferroni, Fausto Beretti, Maria Cristina Crespo, Gianantonio Cristalli, Angelo Bianchi, Gruppo Sinestetico, Benedetta Bonichi, Marco Rigamonti, Sergio Borrini, Anna Boschi, Dario Brevi, Pietro Dente, Silvano De Pietri, Paolo Collini, Ruggero Maggi, Nadia Nava, Nero Corsa, Giovanni Fontana, Gian Paolo Roffi, Fernanda Fedi, Barbara Grossato, Valdi Spagnulo, Gino Gini, Maurizio Osti, Andrea Pellicani); dal progetto P.P.P. (Progetto Portatile Pasolini). «Il progetto nasce sui Navigli a Milano, una bella domenica mattina di primavera nello studio degli amici Fernanda Fedi e Gino Gini per i quali stavo lavorando ad una importante esposizione al Collegio Cairoli di Pavia. La ricorrenza del centenario dalla nascita di Pasolini e l’esigenza di avere una mostra pronta per partire verso qualsiasi destinazione ci si offrisse all’orizzonte mi ha spinto a concepire con loro questo piccolo progetto portatile a cui partecipano 39 artisti invitati (40 – Gino Gini)» (Carrera, ivi, p. 100). Citiamoli tutti, non altro per il valore di questo progetto espositivo che annovera alcune importanti personalità del panorama artistico italiano, scusandoci se l’elenco potrebbe sembrare come un lungo elenco della spesa: Gabriele Albanesi, Franco Ballabeni, Milena Barberis, Fausto Beretti, Carla Bertola, Angelo Bianchi, Adalberto Borioli, Claudio Calzavacca, Angelo Caruso, Giorgio Celon, Andrea Cesari, Luca Compiani, Nero Corsa, Gianantonio Cristalli, Renzo Dall’Asta, Antonio De Marchi-Gherini, Fernanda Fedi, Mavi Ferrando, Kiki Franceschi, Nunzio Garulli, Pino Lia, Nadia Magnabosco, Marilde Magni, Annalisa Mitrano, Giorgio Moio, Daniela Nenciulescu, Giacomo Nuzzo, Alvaro Occhipinti, Antonella Ortelli, Andrea Pellicani, Antonella Prota Giurleo, Carlo Alberto Rastelli, Gian Paolo Roffi, Filippo Soddu, Stefano Soddu, Antonio Sormani, Tommasina Bianca Squadrito, Alessandro Traina, Alberto Vitacchio. Il volume-catalogo si conclude con le opere che hanno partecipato al Premio riservato, come già detto, agli artisti Under 40 che quest’anno è stato intitolato all’artista Enzo Lionello Natilli, «invitato alla passata edizione della Rassegna e scomparso recentemente. nelle intenzioni della Fondazione “F. Bertazzoni” e del curatore ricordare in questa occasione l’artista e l’uomo, che ha lasciato un segno indelebile nella memoria della Rassegna e di coloro che lo hanno conosciuto» (Carrera, ivi, pp. 18-19). A conclusione di questo scritto va sottolineato che la scelta di questo omaggio pasoliniano (in sostanza di un poeta), anche con lavori artistici, dalla poesia visuale alla pittura, da parte del curatore, non già con alcune poesie o perché il curatore è un critico d’arte, non è casuale. Si ricordi che Pasolini, oltre che poeta, critico letterario, scrittore, regista e drammaturgo, si dedicò con discreti risultati anche alla pittura che, in modo particolare, soprattutto lungo gli anni sessanta-settanta, ebbe una significativa evoluzione. C’è da dire che la sua attività pittorica (più di duecento dipinti e disegni che partono però dai primi anni quaranta, in quel di Casarsa, dove il giovane Pasolini creò parallelamente alle prime poesie in friulano, che dal 14 ottobre fino al 16 aprile 2023, saranno esposti alla Galleria d’Arte Moderna di Roma, a cura di Graziella Chiarcossi, Silvana Cirillo, Claudio Crescentini e Federica Pirani), spesso fu trascurata dalla critica, ma forse anche perché rimase nell’oblio, ai limiti e oscurata dalle altre attività intellettuali di Pasolini con più cassa di risonanza nell’ambiente culturale del tempo. «… ritratti, nature morte e paesaggi dal sapore fortemente intimista e familiare, fino alla serie di giovani ragazzi ritratti seduti, sdraiati o con fiori che documentano da altro punto di vista l’eccezionale sperimentazione artistica del giovane Pasolini. Un focus è dedicato all’ambiente creativo bolognese de Il Setaccio, mensile della GIL, (Gioventù Italiana del Littorio) di Bologna, tra novembre 1942 e maggio 1943), dove troviamo in particolare i disegni di Pasolini e Fabio Mauri realizzati per la rivista, a testimonianza di una forte amicizia, che fu anche frutto di continui scambi di idee, e allo stesso tempo della crescente passione di Pasolini per la storia dell’arte» (da L’iter artistico di Pier Paolo Pasolini. Una mostra alla GAM di Roma nell’autunno 2022, in «RAI-Cultura», s.d.). Read the full article
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massimomelani58 · 2 years
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Fiaba horror : La ragazza ubriaca
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filmap · 3 years
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Il tuo vizio è una stanza chiusa e solo io ne ho la chiave / Your Vice is a Locked Room and Only I Have the Key Sergio Martino. 1972
Square Via S. Giovanni, 6, 35044 Montagnana PD, Italy See in map
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tina-aumont · 6 years
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Anita e “Coso” part I/III
"L’Urlo" arrived on the screens at the time of summer depression, when the cinemas are empty for the heat and the few spectators are part of the desolate, abandoned, loneliness in the city, so - absurd law - you have to punish them with film that do not come out at Easter or Christmas, or ugly, or difficult, or incomprehensible, or eccentric. This is part of the last category. It is a film eccentric, unusual, intelligent, revolutionary, without a real story, but with a warp, woven capriciously in a plot of dreams. Let's say that it overflows with modern poetry and painful satire. Let's say that at some point - if minimally one loses the thread - remains obscure and there is no way to find the explanation in the next steps. Let's say that it is a difficult work, but it is a duty - even if it is not intended - to affirm what happens at the end of the film, that is to say that you leave the cinema with a sense of liberation.
Photo: Tina Aumont, here in the role of the main character of "L’Urlo" (Anita), after escaping a police raid meets "Coso". They flee by bus and will end up scandalizing everyone, starting to flirt. The passengers, for the disgusting, will eventually burn the bus.
By Franco Nebbia.
Scans and caption from Intrepido magazine, 29th August 1974.
Although this film was filmed in 1968 it was censored for some years in Italy, it was premiered in September 1974...
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francomonari · 7 years
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STREAMERS OPEN CALL - EXHIBITION OF THE FINALISTS
Irene Alison and Steven Music in front of my “E poi verrà la nebbia” overpainted photographs.
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STREAMERS Officine fotografiche Roma 21.4.2017 - 7.5.2017
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Your Vice Is a Locked Room and Only I Have the Key (Sergio Martino, 1972)    
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Bisognerebbe fare un canto per noi tutti,
a cominciare da sotto, da chi scivola tra le ortiche
fino alla mosca e al mare e all'isola sconosciuta
dei colossi, fino al mito e a questo straccio
ad occhi chiusi che è diventato il mondo.
Bisognerebbe cantare pure per i poeti ed i cantanti,
per l'ossequio dovuto a chi non si sveglia mai
nella stessa galassia, a chi quel giorno vide
una ragazza che non vedrà mai più,
a chi scomparve e chi ricorda ora una nebbia
o questo risveglio di maggio pieno di uccelli.
Certo c'è pure la paura e questo strisciare
che ho già cantato troppo, questo mio indugiare
nel pensare alla fatica di andare avanti
sapendo che è diventato assai facile cadere
o subire inganni. Meglio alzare il muso piccolo,
scrivere alla luce, invitare Dio a colazione,
prendere appunti su quello che accade
appena fuori dall'universo: pare che domani
i nulla di ogni dove si siano dati convegno
per farne uno solo, lo stesso nulla che noi
sfioriamo ogni giorno e per questo
sappiamo quanto siano enormi la matita e il libro
e la ciabatta per la presa e le cose appese al muro
e le bottiglie d'acqua che ho bevuto ieri.
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Franco Arminio
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Raul Gardini e il Moro di Venezia
«[...] A poppa c’era lui, Raul Gardini, quello che le cronache ribattezzarono “17esimo uomo”. Una cosa impossibile fino al 1991, ma tanto era potente il ravennate che aveva fatto aggiungere una clausola ai regolamenti della Coppa per cui l’armatore poteva stare a bordo.»
Fu verso la fine degli anni ’80 che Raul Gardini si presentò a Giulio Donatelli, l’allora presidente della Compagnia della Vela di Venezia, per comunicargli l’intenzione di costruire uno scafo e partecipare alla Coppa America. Gli chiese di poter essere rappresentato dal suo Yacht Club e di issarne a dritta il suo guidone sociale. Donatelli in principio pensava fosse uno scherzo ma alla fine accettò la sfida, consapevole che da quel momento in poi la Compagnia della Vela si sarebbe affermata a livello mondiale. Fu così che il Moro di Venezia regatò con la bandiera del Leone di San Marco, un leone più agguerrito che mai.
Cinque gli scafi costruiti per il progetto Moro di Venezia, tutti usciti dai cantieri Tencara di Porto Marghera. L’ambizioso progetto di Gardini poteva godere di un budget astronomico (qualcuno parla di oltre 100 miliardi delle vecchie lire ma c’è chi sostiene siano stati molti di più) e del supporto del team di ricerca e sviluppo messo a disposizione dalla “sua” Montedison.
Il “battesimo” del Moro di Venezia I
Quella mattina faceva freddo e c’era parecchia nebbia. Gardini aveva scelto di varare il Moro di Venezia I domenica 11 marzo 1990 e, come gli si addiceva, organizzò l’evento in grande stile. Davanti a Punta della Dogana venne allestito un pontile lungo quaranta metri per i circa cinquemila ospiti. Ennio Morricone scrisse la musica mentre la regia fu affidata a Franco Zeffirelli. Quel varo lasciò tutti a bocca aperta e ancora oggi molti lo ricordano come il più spettacolare della storia della vela. Quando l’enorme gru posò sulle acque della laguna lo scafo rosso in kevlar e carbonio lungo circa 23 metri, numero velico ITA-01, ci fu un’ovazione.
 Il ruggito del Moro
Per sfidare il Defender, vale a dire il detentore dell’America’s Cup, bisognava prima vincere le regate di selezione della Louis Vuitton Cup. Nel 1992 il Moro di Venezia dà battaglia e giunge in finale con la fortissima NewZealand. Gli italiani seguivano l’evento da casa, le telecronache si aprivano con la voce di Pavarotti che incitava il nostro Leone sulle note della Turandot e della celebre aria “all’alba vincerò”. I Kiwi infilano tre vittorie ad uno e sono ad un passo dalla vittoria, si gareggia al meglio delle nove regate. Gardini vede la fine di una grande avventura e di tanti soldi spesi inutilmente. Quando la battaglia volge al peggio un vero corsaro tira fuori un colpo a sorpresa e rilancia la sfida, come ad esempio una bagarre legale per dimostrare l'illegalità del bompresso e mettere in crisi l'avversario che aveva tentato di barare. Da quel momento i neozelandesi vanno veramente in crisi, colpiti sull'orgoglio, le sicurezze dei freddi uomini di mare cadono ed è buio pesto. Non vincono più una regata!
«[...] Chi non era grande esperto di vela imparò una nuova parola, anzi LA parola: bompresso. Di questo si parlava nella primavera del 1992, del bompresso montato sulla prua di New Zealand, degli elicotteri che sorvolavano i campi di regata e delle fotografie grazie alle quali si scoprì “l’anomalia” dello scafo dei kiwi.»
Il Moro di Venezia, clamorosamente recupera la situazione 3-3. Furono match race estenuanti, guerra di carte bollate, stress, qualche strategia sbagliata, ma il Moro di Venezia allungò gli artigli, mostrò i denti e vinse 5 a 3. Il mito era nato. È il trionfo di Gardini. Il Moro di Venezia poteva sfidare il defender dell’America’s Cup.
«Anche Occhetto mi fa gli auguri? Che vi devo dire, mi fa piacere. In giro succede di tutto, è il mondo che sta cambiando. [R. Gardini]»
 America’s Cup 1992
Da una parte Gardini con il Moro di Venezia V, dall’altra il magnate Bill Koch con America 3. Nella baia di San Diego si sfidarono due uomini potenti e pronti a tutto pur di portare a casa la vittoria. Entrò in scena addirittura lo spionaggio. Si dice che durante la Luis Vuitton Cup gli americani costruirono mini sommergibili, assoldarono sommozzatori, noleggiarono elicotteri, e tutto per “passare ai raggi x” Il Moro di Venezia e trovarne i punti di debolezza e batterlo. Ma si capì subito che la lotta era impari, lo scafo bianco era più veloce. e infatti alla fine vinse con un secco 4 a 1. Era il 16 maggio del 1992. Per Venezia, il Moro aveva comunque vinto.
Le immagini delle sfide nelle acque di San Diego per molti sono ancora nitide, come pure le emozioni vissute in quelle notti magiche. Nell’avveniristico pozzetto del Moro di Venezia V, numero velico ITA – 25, spiccava un giovane riccioluto dagli inconfondibili baffi scuri. Era il timoniere Paul Cayard, il ventinovenne californiano campione mondiale della classe Star, che per poter regatare sul Moro prese la residenza italiana. Dopo selezioni durissime le 16 persone dell’equipaggio erano il meglio di cui la vela italiana potesse disporre all’epoca; un gruppo preparatissimo e molto affiatato tra cui Tommaso ed Enrico Chieffi, Cico Rapetti, Max Procopio, Andrea Mura, Dudi Coletti, Marco Schiavuta, Alberto Fantini, Lorenzo Mazza e Sergio Mauro.
Epilogo
Gardini avrà lo stesso un trionfo di pubblicità ed una grande visibilità. La sua foto mentre timona la grande barca rossa sarà sulle prime pagine di tutti i media del mondo. Ma tutta questa visibilità sarà altamente controproducente. Infatti, all'orizzonte del manager si stagliano le ombre cupe delle inchieste di "mani pulite" e Il suo impero finanziario crollerà sotto i colpi delle inchieste della magistratura. Un gesto terribile, impulsivo, ma onesto come il personaggio, porrà fine alla sua vita. Verrà trovato morto nella sua casa di Milano, il settecentesco palazzo Belgioioso, il 23 luglio 1993. [Metropolitano.it & NauticaReport.it]
«La morte di Gardini è il vero, grande rammarico che conservo della stagione di Mani pulite. Per due ragioni. La prima: quel 23 luglio Gardini avrebbe dovuto raccontarmi tutto: a chi aveva consegnato il miliardo di lire che aveva portato a Botteghe Oscure, sede del Pci; chi erano i giornalisti economici corrotti, oltre a quelli già rivelati da Sama; e chi erano i beneficiari del grosso della tangente Enimont, messo al sicuro nello Ior. La seconda ragione: io Gardini lo potevo salvare. La sera del 22, poco prima di mezzanotte, i carabinieri mi chiamarono a casa a Curno, per avvertirmi che Gardini era arrivato nella sua casa di piazza Belgioioso a Milano e mi dissero: "Dottore che facciamo, lo prendiamo?". Ma io avevo dato la mia parola agli avvocati che lui sarebbe arrivato in Procura con le sue gambe, il mattino dopo. E dissi di lasciar perdere. Se l'avessi fatto arrestare subito, sarebbe ancora qui con noi.» [A. Di Pietro]
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lanavetro · 3 years
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Quando fallisco un esame, in genere, mi piace sempre festeggiare con un libro di Zerocalcare, rigorosamente prestato, e una playlist di sottofondo che alterna pezzi più disparati: da Franco Ricciardi, passando per Fabri Fibra, sfiorando Verdena e sfidando i timpani con Idles o Queens Of The Stone Age. E’ il modo corretto per ricordarsi che di questi tempi esiste qualcosa oltre la “carriera universitaria” e il mondo accademico (che disprezzo), e se anche non lo fosse, è il mio modo corretto almeno, quindi vale sempre 30 e lode. Stamattina mi sono svegliato e c’era un sacco di nebbia. Questa si è conclusa con una luna luminosissima e così vicina tanto da poter distinguere qualche cratere. Lo so, la foto non rende l’idea, ma adesso avete una scusa per affacciarvi alla finestra.
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monicadeola · 3 years
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«Mi chiamo Alberto Paolini, ho ottantotto anni. Ne ho passati quarantadue nel manicomio di Santa Maria della Pietà a Roma. Sono entrato che avevo quindici anni e ho rivisto la città nell’anno dei mondiali, il 1990. Ho subito per tre volte l’elettrochoc perché avevano scambiato i miei silenzi per una malattia.
Ma io non parlavo perché stavo male.
Cominciamo dall’inizio, come in tutte le storie che si rispettino. Vivevo con la mia famiglia a Via Piave 15, nel quartiere Pinciano di Roma. Papà faceva il portiere e per arrotondare riparava le scarpe del vicinato. Mia madre lavorava a mezzo servizio. Era una donna dura, severa. Comandava tutto lei, una mamma “padrona”. Era sempre nervosa, urlava. A mia sorella voleva bene, a me no. Mi brontolava sempre, mi picchiava. A casa nostra nessuno dei parenti si avvicinava più, la temevano.
Papà è morto quando io avevo cinque anni. Stava bene. Una sera si è portato le mani al cuore e ha cominciato a rantolare. Mia sorella ed io ci siamo tanto spaventati. Mamma ha detto poi che era stata una “sincope” a portarlo via da noi. Da quel momento tutto è precipitato. Mia madre non ce la faceva più a sostenerci, abbiamo dovuto lasciare la casa e ci ha messo in due collegi differenti, lontani. Poi, qualche anno dopo, anche lei è morta e ci siamo trovati completamente soli al mondo.
Nel mio collegio le suore erano cattive, non ci trattavano bene, spesso ci picchiavano. Insegnavano a stare zitti e obbedire senza discutere. In collegio era obbligatorio il silenzio, se parlavi eri punito. Tutti sembravano volere solo una cosa, quando ero bambino: che non parlassi. E io obbedivo, non parlavo.
Le suore non erano caritatevoli, stava cominciando la guerra, tutti avevano fame, tutti avevano paura. A 12 anni vengo mandato in un collegio di salesiani. Anche loro erano duri, severi. Anche loro picchiavano per un nonnulla. Io che, va bene, ero silenzioso e timido, subivo tante cattiverie dagli altri ragazzi.
Si faceva l’avviamento professionale e io stavo studiando in un laboratorio di sartoria. Ma quelli più grandi mi prendevano di mira. Io ero piccolo, anche fisicamente, e poi non parlavo, o parlavo poco. Mi facevano scherzi di tutti i tipi. Al laboratorio c’erano, di norma, un capo e un maestro. Il capo però era tornato al suo paese e un giorno il maestro si assentò. Al ritorno trovò una gran confusione e volle sapere di chi era la colpa. Tutti dissero che ero stato io. Ma non era vero. Un’altra volta mi spinsero fuori dalla classe e mi lasciarono in corridoio. Quando arrivò il maestro mi punì. Io non ci volevo più entrare, in quel laboratorio. Cercavo di richiamare l’attenzione del direttore che era più buono, ma non ci riuscii.
A un certo punto vennero due benefattori, due persone ricche che avevano un locale, forse un caffè, in Piazza di Spagna. Ci andava il bel mondo romano e, visto che eravamo alla fine della guerra, anche gli ufficiali americani. La signora, credo fosse svizzera, ho saputo più avanti che aveva fatto un voto. Suo figlio, durante la guerra, si era imboscato e i nazisti lo cercavano per fucilarlo. Lei si era rivolta alla Madonna garantendo che se si fosse salvato, lei avrebbe adottato un bambino in un collegio. Quel bambino fui io. Ma non venni adottato. Stetti a casa loro per un po’ e poi loro mi seguirono nel tempo. Ma da lontano. Perché a un certo punto anche loro pensarono che stessi male. Ero poco esuberante, per essere un bambino. E parlavo poco. Ma che volevano da me? Era quello che tutti, da mia madre al collegio delle suore fino ai salesiani, mi avevano imposto di fare.
D’accordo con i salesiani mi portarono alla clinica neuropsichiatrica dell’Università. C’era un giovane professore di guardia che si chiamava Giovanni Bollea. Lui disse che spesso i bambini strappati dalla famiglia o abbandonati che finiscono in collegio, hanno queste reazioni. E che dovevo solo stare sereno, stare fuori, conoscere la città e la vita. Per un po’ fu così. Ma io ero rotto dentro e le parole non mi uscivano facilmente.
Così i benefattori e i salesiani decisero di farmi ricoverare alla clinica dell’Università. Lì mi facevano tante domande, scrivevano dei moduli, mi fecero la puntura lombare che era molto dolorosa. Fui sottoposto a vari test psicologici, tra i quali quello delle macchie di Rorschach. Il dottor Finzi disse che ero un caso interessante e mi tennero lì cinque mesi.
Poi questo tempo finì e dovevo uscire. I medici dicevano che non avevo patologie, ero solamente stato troppo vessato da un’educazione repressiva.
Ma i benefattori non volevano o non potevano accogliermi e il collegio si rifiutò di riprendermi. Avevo una zia, lo scoprii allora, ma anche lei non mi volle, perché i suoi due figli erano contrari.
Non sapevano dove mettermi. Era il dopoguerra, c’era tanta fame. E allora decisero tutti insieme di ricoverarmi al Santa Maria della Pietà.
Lì mi trovai nel reparto dei bambini, anche se avrei dovuto stare con i grandi perché il limite era quattordici anni. Io ero piccolo, mingherlino e allora mi tennero con i ragazzi. Ho fatto amicizia con un bambino che si chiamava Franco. Lui era il contrario di me, faceva scherzi, si burlava di tutti e in particolare di Italia, un’infermiera che aveva paura dei piccoli insetti con i quali lui, immancabilmente, le riempiva le tasche. D’altra parte in quei tempi erano i ragni o le lucertole i nostri compagni di giochi preferiti. Non avevamo altro. Franco stava bene di testa, aveva però delle crisi epilettiche e per quello lo avevano chiuso lì. Il primo mese giocammo sempre insieme. Scaduto quel periodo, detto di osservazione, o qualcuno ti veniva a prendere oppure il tuo destino era in un padiglione di internamento. Lui fu portato al 22 e io mi sono ritrovato di nuovo solo.
Dopo altre due settimane toccò a me. E qui la storia prende un carattere che non so descrivere. Potrei dirla così: sono finito all’elettrochoc per un equivoco. C’era un giovane medico, non il primario, che mi fece un mucchio di domande. A un certo punto mi chiese se io sentivo ogni tanto delle voci che mi chiamavano senza che ci fosse nessuno vicino. Io risposi candidamente di sì, ma volevo solo dire che ogni tanto qualcuno mi chiamava dal corridoio, insomma che ci sentivo bene. Io ero nuovo lì, non sapevo che l’espressione “sentire le voci” corrispondesse alle allucinazioni. Ho risposto di sì perché volevo dire che non avevo problemi di udito. Quando mi sono accorto dell’equivoco, o del tranello, ho cercato di correggere ma il dottore mi incalzava, era un incubo, e io ero confuso anche perché non ero abituato a parlare, non sapevo rispondere perché, da piccolo, non dovevo rispondere.
Io ho cercato di farmi capire ma lui ha scritto sul verbale che io non ero capace di spiegare la ragione per la quale sentivo le voci. Alla fine lui ha scritto qualcosa sulla cartella clinica: avevo uno “stato depressivo” il che mi rendeva, chissà perché, “una persona pericolosa”. La suora ha chiesto dove mi dovessero mandare. Lui ha risposto gelido: “Al padiglione sei a fare l’elettrochoc”.
Io mi sono subito spaventato. Quando ero con i bambini avevo visto applicare quella tecnica a un ragazzino, Claudio, e lui, a ogni scossa, era come se si alzasse in volo, se levitasse. Lo dovevano tenere per evitare che cadesse dal lettino. E poi faceva la bava alla bocca, mi aveva molto impressionato.
Tornando nella mia camerata ho chiesto a un’infermiera, si chiamava Teresa, se davvero lo avrebbero fatto anche a me. Lei mi rispose “Ma no, stai tranquillo. È per quelli che non capiscono.”. Mi rassicurò.
Ma poi mi chiamarono e mi ritrovai in una fila, tutti erano silenziosi più che disperati, gli avevano detto che dopo la cura sarebbero tornati a casa.
Arrivò il mio turno. Io volevo scappare. Avevo sentito che l’elettrochoc non si poteva fare agli anziani, ai malati di epilessia e a quelli con problemi al cuore. Allora, una volta entrato, dissi al medico che avevo male al cuore, sperando di farla franca. Lui mi appoggiò un istante lo stetoscopio al petto e disse che non avevo nulla e si poteva procedere. E procedettero. In quattro mi tennero mentre la suora mi inumidiva le tempie con un batuffolo bagnato di acqua e sale e mi appoggiava due elettrodi alle tempie. Io piangevo invocando la mamma che non avevo.
Il medico ha chiesto: “È pronto?”. La suora ha risposto: “Sì, è pronto”.
Poi non ho sentito più nulla. Mi sono risvegliato in una corsia piccola, con una sensazione penosa, non sapevo dove fossi e cosa stessi facendo, mi sentivo con la testa con la nebbia, i nervi del corpo tutti tesi.
Me ne hanno fatti tre, così. La cura prevedeva tre cicli di quindici applicazioni. Quarantacinque scosse alla tempia.
Ma poi anche io ho avuto una fortuna. Un giorno è venuta a trovarmi la benefattrice. L’aspettavo da tanto, mi aveva promesso che sarebbe venuta a trovarmi ma era passato più di un mese e non si era visto nessuno. Ero disperato, pensavo che mi avessero abbandonato tutti. Avevo quindici anni. Quando la signora è entrata e mi ha visto in quello stato, in quel padiglione, si è arrabbiata moltissimo. Non era quello che aveva concordato al momento del mio ricovero. Le dissero che c’era stato un disguido e mi mandarono subito al padiglione dei lavoratori. E lì sono rimasto fino al 1990.
Si sono avvicendati, nel tempo, vari direttori. Chi apriva i cancelli dei padiglioni, chi li chiudeva. Un direttore, Buonfiglio, diceva che i pazienti non erano dei reclusi, che dovevano muoversi, dovevano distrarsi. Organizzava feste, spettacoli, veniva spesso Claudio Villa. E anche gite. Vabbé solo una volta all’anno, ma erano bellissime. Ci si poteva anche incontrare con le donne, nascevano degli strani fidanzamenti. Ci si facevano i regalini, che so, un fazzoletto ricamato o cose così. Io avevo conosciuto una ragazza, avevamo fatto amicizia, stavo bene con lei. Ma dopo un mese è uscita e non l’ho più rivista.
Ho lavorato, per trent’anni, in tipografia, all’ufficio statistica e poi in biblioteca. Era per i medici, con testi specializzati, ma c’era un armadio con libri vari. E io li leggevo. Un infermiere una volta mi portò in regalo un pacco di riviste. Ne ero ghiotto. Mi piaceva lo sport, tifavo Venezia perché c’erano Loik e Valentino Mazzola. Poi il mio cuore lasciò posto al Grande Torino, dove giocavano i miei eroi. Di Superga seppi dalla radio e fu un dolore acuto, inconsolabile.
Un giorno vennero a dirmi che sarei uscito, avrei avuto un appartamento con altri al quartiere Ottavia. Stavo al Santa Maria della Pietà dal 1947 e ora eravamo nel 1990, la città fremeva per i mondiali. Ero entrato bambino e ora avevo quasi sessant’anni. Non sapevo cosa ci fosse fuori, in fondo stavo bene lì, tutti mi volevano bene. Quasi mi dispiaceva uscire. Quando nel quartiere seppero che stavamo per venire a vivere qui ci fu una rivolta, non ci volevano. “Questi arrivano dal manicomio, saranno pericolosi”. Hanno fatto pure manifestazioni. Poi, piano piano...
Per me era un’esperienza nuova. Solo quando ero piccolo avevo dormito da solo a casa. Dopo ero sempre in camerate insieme agli altri. Ora avevo una stanza tutta per me e una casa da condividere con altri come me. Avevo un po’ paura.
In manicomio ci ho lasciato un po’ di vita, tanta, e un po’ di cuore, tanto. Ho tanti ricordi.
Per esempio quando, attorno al 1968, vennero dei ragazzi a manifestare perché si aprissero le porte del manicomio. Avevano cartelli, bandiere, i capelli lunghi, esponevano le loro idee, idee di libertà. Parlavano di un professore che si chiamava Basaglia. Occuparono un padiglione. La polizia voleva mandarli via ma loro resistettero. Misero uno striscione con scritto “Centro sociale”. Ci facevano andare per corsi di ceramica, di lavorazione del cuoio. C’era anche un laboratorio di scrittura, che frequentai con passione.
Ed è lì che forse io, Alberto Paolini, ho finalmente imparato a parlare, a parlare con gli altri».
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