Tumgik
#Proletari-ant
kilowogcore · 4 months
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I don't care if he's a joke, Proletari-ant is my favorite Soviet superhero. It is the perfect name. A million superheroes could think of a million names each day for a million days, and never come up with a name as perfect as Proletari-ant.
I also love how he just keeps trying, despite being pretty much entirely ineffectual. I want a spinoff, DC!
But seriously, organize. It's the only way we win.
(Art sampled from "Alan Scott: The Green Lantern" Vol. 1 #6 by Tim Sheridan, Cian Tormey, Jordi Tarragona, Matt Herms, Lucas Gattoni, Marquis Draper, Andrew Marino, and Katie Kubert)
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maemil · 6 months
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Communist who can shrink called Proletari-ant...
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paoloxl · 5 years
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Movida. E' più forte di me. Movida. Non mi so controllare. Movida. Basta poco e ci ricasco io… E' più forte di me." Così recitava una canzone del 2004 degli ATPC, gruppo rap torinese, celebrando un'epoca spensierata e piena di speranze della città, ma di cui già iniziava ad intuirsi la crisi.
Sono passati quindici anni e molta acqua del Po è passata sotto i ponti tra la Gran Madre e Corso Vittorio. Quindici anni fa in quelle acque, da metà primavera ad inizio autunno, si riflettevano le luci dei Murazzi che si riempivano di vita tra locali più o meno alternativi e sottoculture diverse che si incrociavano. I giovani torinesi appesi tra la sperimentazione della precarietà e la visione di un futuro fuori dalla fabbrica dove erano stati tumulati i padri si affollavano ad ascoltare musica, discutere e fare esperienze nuove. Oggi, dal 2012, le arcate dei Murazzi sono deserte se non per qualche presidio di resistenza che continua a tenere accesa la luce.
Nel frattempo il termine Movida ha assunto altri significati nella percezione comune. Il fenomeno della movida è diventato un pomo della discordia in una città che invecchia e si spopola, ma al contempo si riempie di giovani fuori sede con le loro esigenze. Per altri, i soliti noti, ha significato un bel po' di quattrini.
Tutto sommato si può dire che la movida è una delle fabbriche che hanno progressivamente sostituito la vocazione industriale di Torino e che hanno permesso di continuare a fare profitti ai padroni della città o a quei pochi che hanno intuito dove stava girando il vento giusto in tempo. Certo non l'unica fabbrica e non quella più redditizia, ma una tra le altre. Una industria, quella del divertimento, che impiega migliaia di giovani sottopagati e precari, ma su questo ci torneremo più avanti.
Per adesso ci concentriamo su un paio di domande centrali per comprendere cosa è successo: come si è generata questa fabbrica? Come è stato recuperato il bisogno di socialità che migliaia di giovani spaesati dal futuro esprimevano?
Per quanto la narrazione dei giornali e delle tv voglia indicare la movida come un fenomeno "fuori controllo" la verità è che specifici investimenti, piani urbanistici, facilitazioni nella vendita delle licenze, tentativi di "normalizzazione" e dispositivi di controllo e disciplinamento hanno permesso, anzi sponsorizzato, l'attecchire di questa fabbrica in contesti territoriali circoscritti e scelti ad hoc.
Il processo di una movida spontanea, dal basso si è consumato ormai molti anni fa, con il recupero delle esperienze alternative che avevano fatto gridare alla "Torino nuova Berlino", ma rispunta ogni tanto in esperienze di autorganizzazione subito represse e attaccate dai giornali come fu il caso del Botellon in Piazza Valdo Fusi.
Dunque come si è sviluppato questo processo di messa a valore della movida?
Il primo tentativo di convogliare i bisogni giovanili di aggregazione e socialità in un territorio specifico è proprio quello che ha coinvolto i Murazzi tra la fine degli anni '70 e l'inizio degli anni '80. Le arcate prima di questo progetto erano le rimesse, per lo più abbandonate, delle barche dei pescatori. L'amministrazione comunale intuisce le potenzialità di quel luogo sotto il profilo economico e di recupero delle rivendicazioni giovanili di quegli anni che volevano rompere con la visione padronale di Agnelli della città che è ben riassunta in queste sue parole: "Torino ricorda le antiche città di guarnigione, i doveri stanno prima dei diritti, il cattolicesimo conserva venature gianseniste, l’aria è fredda e la gente si sveglia presto e va a letto presto, l’antifascismo è una cosa seria, il lavoro anche e anche il profitto." Una città dove non c'era spazio per il divertimento e la socialità, ma che doveva essere impostata sul sacrificio, sulla sobrietà e sull'austerità… ma solo per gli operai, che dovevano tornare a casa presto per svegliarsi al mattino e fare il turno, mentre l'Avvocato magari faceva ancora bisboccia.
I murazzi, dunque, vengono designati come il luogo dove sperimentare un processo che tenga insieme il tentativo di recupero dei bisogni giovanili e la messa a valore di un'area della città sostanzialmente abbandonata. Gli strumenti che vengono scelti per mettere in moto questo processo sono principalmente tre: la concessione di licenze per l'apertura dei locali, la creazione di un servizio di navigazione sul fiume Po e l'istituzione di una ronda notturna di polizia operante fino all'alba.
Questi tre strumenti sembrano abbastanza elementari, ma pongono le basi per lo sviluppo di una vera e propria governance della movida. In primo luogo la concessione delle licenze come facilitazione dell'impresa capitalistica con questo genere di vocazione. In secondo luogo la predisposizione del territorio con la fornitura di nuove attrattive, di trasporti più facili, di infrastrutture e servizi (salati) per convogliare gli utenti e gestirne la permanenza. Infine la forza di polizia come strumento di controllo e disciplinamento dei comportamenti e in certi casi di vera e propria repressione.
Vedremo questi tre elementi ripresentarsi e affinarsi nelle altre zone predisposte negli anni alla movida, ma la differenza profonda è che mentre i murazzi erano tutto sommato una zona abbandonata e in disuso, in una posizione centrale della città, affianco al salotto buono, nel caso di San Salvario, del Quadrilatero e di Vanchiglia la vicenda assume nuove sfaccettature. Queste zone sono state tutte quartieri proletari ed operai dentro al centro o a pochi passi da esso, delle anomalie. Zone con delle potenzialità di rendita molto alte per le loro posizioni strategiche, ma occupate da settori popolari con un basso reddito e altre priorità. L'uso combinato della movida per mettere a valore questi territori e espellere i loro abitanti tradizionali è stata una scelta strategica delle amministrazioni che si sono susseguite e che oggi vediamo in azione anche con i 5 stelle su numeri più grandi e in maniera più cruenta a Porta Palazzo.
Molto spesso accompagnata da una campagna giornalistica martellante sul degrado e la necessità di un recupero, la riqualificazione di queste zone è stata accolta in maniera contraddittoria dalla popolazione che le abitava tra una effettiva necessità di delle migliori condizioni di esistenza e l'intravedere un'opportunità economica. Giusto per capirsi citiamo un pezzo di Repubblica del 2017 che celebra i vent'anni della riqualificazione al quadrilatero con queste parole: "Oggi e domani si celebrano i vent’anni di quella intuizione che cambiò pelle non solo ad un angolo di Torino, rifugio per prostitute e tossici, ma diede una patina nuova alla città. Lo slogan dei festeggiamenti è “Come è bello avere vent’anni”. "Un esempio di collaborazione pubblico-privata - dice il presidente di Confesercenti Giancarlo Banchieri - vent’anni dopo possiamo dire che quella scommessa è stata vinta e che il Quadrilatero costituisce un esempio di movida sostenibile e di buone pratiche che, con gli opportuni adeguamenti, potrebbero essere applicate in altre zone".
Al quadrilatero il rilancio iniziò con la cessione di 40 licenze gratuite per aprire locali, una vera e propria liberalizzazione ante-litteram. Oggi le strade del quartiere sono per lo più deserte durante il giorno e spesso anche nelle serate intra-settimanali per poi vedere qualche passaggio in più nel weekend, ma con una affluenza che neanche lontanamente ricorda i bei tempi. Il quartiere è stato spopolato e valorizzato, ma la valorizzazione in questo gioco non dura mai in eterno e la movida cambia gusti e mode, sceglie altre zone, abbandona quelle precedenti lasciando spesso simulacri vuoti e ristoranti e locali oziosi. Questo genere di messa a valore è vorace e consuma in breve tempo i territori lasciando ben poco dopo il suo passaggio. Persino i valori delle case che in un primo momento salgono vertiginosamente, consigliando ai residenti di spostarsi altrove per affittare le vecchie abitazioni, successivamente crollano a causa degli effetti non graditi della fabbrica divertimento: il rumore, il traffico, la percezione di insicurezza ecc… ecc… come ad esempio si può notare a San Salvario dove i cartelli affittasi e vendesi affollano i portoni di molti palazzi, via via scolorendosi.
Man mano che la movida viene sperimentata e si fa sistema le esperienze di questo tipo aumentano e gli strumenti si raffinano. Vanchiglia in questo senso è paradigmatica: la mutazione del quartiere è stata pensata dall'inizio alla fine. Qui la potenzialità è quella di avere una zona sostanzialmente vergine a pochi passi dalla sede universitaria di Palazzo Nuovo: il quartiere è una vera e propria zona di confine tra il centro e zone più residenziali. Oltre a ciò è un luogo con un suo fascino per le storie che qui sono nate e i personaggi che hanno percorso le sue strade. Dunque è il luogo perfetto per dar vita a un Campus urbano in maniera da, in un colpo solo, mettere a valore il territorio e il consumo degli studenti universitari che in Vanchiglia passano ormai la gran parte del loro tempo. La trasformazione è impressionante: in pochi mesi dalla nascita del Campus Luigi Einaudi bar storici, piccole botteghe, negozietti lasciano il posto a locali pettinati, ristoranti, atelier artistici con qualche presidio di resistenza che dà un tocco di autenticità alla situazione.
Le licenze anche qui vengono quasi regalate e la promozione del quartiere passa anche attraverso una serie di feste in strada ed eventi. Vanchiglia nel giro di pochissimi anni cambia completamente volto.
Il processo parte molto prima però, già nel 2002 si parla di trasformare l'ex Italgas in corso Regina Margherita in una residenza universitaria. Questa area sarebbe stata riqualificata per utilizzarla come villaggio olimpico per ospitare una parte dei giornalisti nel 2006 e poi sarebbe diventata un collegio universitario all'interno del futuro campus. La residenza ancora non è stata costruita, ma nel frattempo atterra nella zona l'astronave Campus che viene inaugurata nel 2012. Nell'estate del 2015 poi sono partiti i bandi per trasformare l'area degli ex gasometri (simbolo del quartiere) nel collegio che sarebbe costruito e gestito in una combinazione pubblico-privato e che dovrebbe ospitare 500 studenti. Come leggiamo in un altro articolo di Repubblica: "L'area dei gazometri diventerà residenza e avrà anche una parte di servizi per gli studenti, come palestre e aree di ristoro. Ma non è previsto in questa trasformazione l'inserimento di centri commerciali. In Comune spiegano che le piastre commerciali verranno comunque realizzate a poca distanza: nel medio periodo dovrebbe infatti partire la ristrutturazione dello scalo Vanchiglia, parte della variante urbanistica 200, legata alla nuova linea 2 della metropolitana." Dunque un'ulteriore riqualificazione di una parte di territorio che si dovrebbe combinare con un'altra zona destinata alla movida come leggiamo ancora nello stesso articolo:
"Quando il progetto di intervento sull'area Italigas sarà completato, la vocazione universitaria dovrebbe trasformare tutta la zona oltre la Dora in una nuova meta per la movida torinese. Un fenomeno che è già in parte iniziato dopo l'entrata in funzione del Centro Einaudi. L'obiettivo è di distribuire sulla carta geografica della città una decina di nuove residenze universitarie in grado di trasformare gli atenei torinesi in un vero e proprio motore di sviluppo economico." Chiara la dinamica, no?
Ma di chi sono le responsabilità di queste scelte?
Sicuramente, come abbiamo visto è determinante il ruolo dell'amministrazione pubblica, ma non solo. A giocare un ruolo centrale sono le banche come Intesa San Paolo, vere e proprie registe della trasformazione urbana e della valorizzazione, i consorzi di commercianti e imprenditori e nel caso di Vanchiglia, naturalmente, l'università.
La movida come fabbrica e i suoi lavoratori
Il quartiere Vanchiglia incrocia qualche parallela e qualche perpendicolare delimitata da fiumi e da grandi corsi urbani che, facendo da collante tra alcuni poli universitari, ha subito nel tempo una profonda trasformazione, caratterizzandosi come una costellazione di bar, locali, ristoranti, air bnb. Il pullulare di formule attrattive per uno specifico target di soggetti ha determinato le modalità di vivere il quartiere e le relazioni al suo interno secondo precise direttrici. Il consumo, non solo in termini di cosa si compra ma anche in termini di tempi e di spazi, è la forma principale di sfruttamento, da un lato del territorio stesso e dall’altro di coloro che lo vivono. I giovani studenti e studentesse, i giovani e le giovani lavoratrici, che frequentano questo luogo non solo vi consumano, ma vengono consumati nel momento stesso in cui il loro lavoro, condizione sine qua non per poter sopravvivere tra affitti, tasse universitarie, libri, socialità, fa gola al profitto di molti. A titolo di esempio, qualche mese fa fu reso noto il caso di un locale, il Bouyabes, in cui il cuoco non veniva pagato per ciò che gli spettava. Durante alcune serate un gruppo di solidali si è riunito per occupare lo spazio antistante il locale per denunciarne la situazione di sfruttamento. Sicuramente non è questo l’unico caso.
In un contesto di sovraffollamento di locali che hanno un’offerta sostanzialmente simile e una domanda che rientra in un target specifico chi ci vuole guadagnare deve pur tirare la coperta, che già è abbastanza corta. Come ottenere profitto dunque in un contesto in cui la concorrenza è spietata e la richiesta rimane molto alta? Soprassedendo sulle condizioni dei lavoratori e delle lavoratrici. Facendo qualche chiacchiera durante l’iniziativa in solidarietà al cuoco del Bouyabes, sentendo i racconti dei compagni di corso o di colleghi di lavoro (perché di lavori se ne hanno almeno due o tre), diventa immediato notare come le esperienze simili si moltiplicano : contratti in nero, mal pagati, orari inumani, straordinari non pagati, flessibilità obbligata e, non da ultimi, maltrattamenti, molestie, obbligo di ringraziare perchè si occupa un posto di lavoro. Le condizioni di vivibilità e accettabilità diventano clausola non scritta nei contratti, quando ci sono, portando con sé il peso della ricattabilità e dell’impossibilità di rifiuto. Al contempo, quando si ha la fortuna di trovare un posto in cui si possa lavorare in un contesto sereno e “sicuro” non si ha la garanzia che possa durare per un tempo utile.
Insomma, una catena di profitti che per non incepparsi utilizza il tempo, i corpi, la disponibilità e l’impossibilità di scelta di tutti e tutte coloro che hanno bisogno di lavorare per poter vivere, facendo leva su un tessuto sociale logorato e disgregato che si tiene insieme sulle dinamiche di consumo, di sfruttamento e di precarietà.
Territorio, utenti e socialità asservita al consumo
Qual’è la trasformazione territoriale provocata dalla dimensione della movida? Su che territorio impianta la sua estrazione di valore?
Al di là della composizione assai variegata, di persone che vivono questo fenomeno di socialità del consumo, un ruolo importante lo gioca il territorio su cui si impianta questo tipo di fenomeno, inteso come rapporto fra elementi architettonici e spaziali e relazioni sociali preesistenti. Il Quartiere di Vanchiglia è un quadrante cittadino ed un quartiere tutto sommato limitato come dimensioni, caratterizzato dalle classiche vie perpendicolari alla torinese, condomini di metà - fine 800, non molto alti, anch’essi caratterizzati dal torinesissimmo sistema a ballatoi su cui poi si sviluppano gli appartamenti. Il quartiere ospita un mercato in piazza Santa Giulia che insieme a Largo Montebello rappresentano i due maggiori spazi aperti del quartiere. Fino a qualche anno fa, all'incirca fino al 2010-2012, la composizione sociale del quartiere era popolare tipica dei quartieri adiacenti il centro cittadino. Semplificando, si può definire di ceto medio-basso e proletaria, con però la quasi assenza in termini numerici significativi di quello che classicamente può essere ascritta alla parte più bassa del proletariato metropolitano spesso ai confini del sottoproletariato. La mancanza di agglomerati significativi di case popolari in Vanchiglia è abbastanza emblematica in questo senso.
È sempre stata presente una componente di studenti fuori sede abbastanza numerosa ma minore rispetto a quella attuale. Anche se questa è sicuramente un’analisi superficiale, serve a capire quali sono stati i cambiamenti negli ultimi 8 anni.
La costruzione del Campus Luigi Einaudi e il masterplan che lo ha accompagnato hanno cambiato le carte i tavola. È aumentata la presenza di studenti agevolata dai prezzi inizialmente bassi degli affitti, aumentati a dismisura negli ultimi due anni, questo meccanismo è stato frutto di un disegno preordinato da Intesa San Paolo, Comune e dinamiche immobiliari private, fra cui quella di numerosi piccoli e medi allocatori che hanno sfruttato l’onda di profitti crescenti.
Questo meccanismo ha scatenato un progressivo aumento della popolazione di studenti, e mescolato alla liberalizzazione delle licenze per l’apertura dei locali ha innescato, insieme ai fattori trattati sopra, uno stravolgimento delle attività commerciali del quartiere e dello spazio comune. L’estensione dei parcheggi a pagamento e un certo intervento sull’arredo urbano hanno facilitato questo meccanismo. All’oggi però va specificato come questo sia ancora un processo in divenire e lungi dall’essere compiuto, e vive ancora molte contraddizioni e stratificazioni sociali fra chi abita il quartiere. Non va dimenticata infatti l’alta percentuale di mono-proprietari che storicamente abitano in zona e che non hanno materialmente la possibilità o la volontà di cambiare casa.
Tutto sommato, si riscontra una presenza di attivismo di quartiere e attenzione alla vivibilità abbastanza sostanziale e capace di interagire con queste dinamiche, non soltanto in funzione delle periodiche attenzioni mediatiche. Il problema della crescita della frequentazione notturna del vanchigliese ha creato una massa di utenti della movida che non interagiscono in maniera organica con il tessuto sociale del territorio e di fatto ne logorano gli equilibri. Una specifica va fatta per i giovani, studenti e non, che vivono entrambi i lati della vita del quartiere.
Il fatto che non ci sia in generale interazione fra la dimensione di utenza della movida e la vita sociale del quartiere, esasperano quelle dinamiche di isolamento sociale e individualismo che già di per sé caratterizzano i rapporti sociali di questa società.
La socialità notturna inasprisce la dinamica di delega al consumo dell’interazione sociale, creando solitudine e rapporti umani tendenzialmente deboli poiché mediati dalla possibilità di avere del denaro o delle capacità da consumare per ottenerli.
Tutto ciò avviene a fronte di un bisogno umano inestinguibile e irriducibile di socializzare, che soprattutto nei giovani rappresenta di per sé una possibilità di alterità e di antagonismo al sistema capitalista. Il rifiuto di estinguere i propri rapporti alla dimensione produttiva e lavorativa (che sia lavoro salariato o studio), è un terreno di contesa e di possibilità per il capitale collettivo nella sua spinta a rendere totale la messa a profitto di ogni aspetto della vita delle persone. Proprio l’origine di questi comportamenti rappresenta un’ambivalenza, che potenzialmente può cambiare di segno.
Ritmi produttivi alti, affitti esosi e accesso sempre più difficile ai consumi, portano ad una socialità (che spesso viene definita come tipica della movida), che viene percepita da chi la vive come dovuta e nel concentrare migliaia di ragazzi e ragazze insieme, è difficilmente governabile solo attraverso l’uso delle forze dell’ordine (i fatti di Piazza Santa Giulia del 2016 lo simboleggiano abbastanza chiaramente), ma necessita di meccanismi di cooptazione molto più raffinati che non sempre sono possibili nei piani di ristrutturazione cittadini.
Nota sull'impatto territoriale dello spaccio
Una breve nota va fatta sul cosiddetto spaccio, che rappresenta una delle tante sfaccettature del meccanismo di messa a profitto che abbiamo provato a descrivere poco sopra. La prima importante differenza è la particolarità e varietà di prodotto che viene commerciato, sembrerà banale ma questa crea dinamiche uniche nel loro genere. È difficile qui affrontare la tematica del consumo di “droghe” e delle sue ambivalenze e contraddizioni e ci soffermeremo brevemente invece sull’impatto territoriale e sociale che questo tipo di narco-industria genera in questo particolare angolo della nostra città.
Premettiamo necessariamente che rifiutiamo qualsiasi interpretazione semplicistica e moralista del problema dei consumi, sia in senso proibizionista che antiproibizionista, e che siamo abbastanza coscienti dei danni provocati da questo tipo di approcci nel corso dei decenni passati.
In Vanchiglia, lo spaccio è cresciuto insieme alle dinamiche speculative immobiliari e di modificazione del territorio dall’alto. Lo spaccio è sempre stato presente in quartiere sia nei fasti della motorcity che nella sua fase di decadenza degli anni 80 e 90; tanto sull’uso padronale dell’eroina è stato scritto, detto e documentato, ma all’oggi crediamo di trovarci davanti ad un fenomeno per certi versi differente.
Il volume di spaccio è cresciuto gradualmente a partire dal 2012, è ha coinvolto principalmente piazza Santa Giulia e le vie adiacenti, inizialmente preponderante era la vendita di erba, hashish, cocaina; ora si estende a crack e ed eroina. Inutile negare che fra la grande presenza di giovani e l’aumento di spaccio ci sia una correlazione, ma non è la sola. Infatti le dinamiche di fornitura e lotta per l’egemonia nel controllo delle “piazze” spaccio in città fra le “mafie” della droga al dettaglio, come quella nigeriana, ne hanno favorito l’organizzazione e la crescita. Negli ultimi anni si sono visti progressivamente diminuire i piccoli spacciatori “indipendenti”, e sono aumentati i veri e propri salariati dello spaccio.
Se il grosso traffico è gestito dalle ‘ndrine calabresi, la gerarchia di quest’industria si diversifica ai vari livelli, ed è ingenuo pensare che con essi non interagiscano in vario modo le istituzioni cittadine, compresa la Questura. L’intensificarsi di retate ad uso e consumo giornalistico di questi mesi, la dice abbastanza lunga.
Il grosso impatto sul territorio di questo odioso raket, va ben aldilà delle percezioni di insicurezza di madamine e ultras del decoro urbano, e ha effetto concreto sulla vita sociale del quartiere. La tendenza di chi pratica questi affari è quella di controllare il territorio per poter massimizzare i profitti e l’irrompere nella scena di crack ed eroina peggiora la situazione. Questo aspetto, al di là delle narrazioni dei media, è abbastanza in marginale e in nuce, ma non è detto che rimanga sempre così. Ovviamente la percezione del fenomeno varia da il tipo di composizione che abita il quartiere e ci sembra che venga percepito da chi vive il solo aspetto della movida, perlopiù come un servizio clienti.
Come in altre situazioni analoghe lo spaccio si lega alla dimensione della movida e assume un carattere predatorio, gli esempi di San Salvario a Torino o di San Lorenzo a Roma sono abbastanza simili, anche se in Vanchiglia non sono dinamiche consolidate.
Questa vera e propria industria viene usata dalle istituzioni per aumentare il controllo poliziesco e disciplinare quegli aspetti della socialità che rappresentano un anomalia o che banalmente mostrano un’indisponibilità a piegarsi al solo consumo. Non vengono colpiti i fornitori di materia prima che spesso sono collusi con le forze dell’ordine e parti dello Stato, ma vengono colpiti occasionalmente i reparti bassi della forza lavoro impiegata, per poi stringere il controllo su di un territorio storicamente riottoso al sopportare una manifesta militarizzazione.
In questo senso l’industria dello spaccio aiuta il meccanismo di trasformazione del territorio ed è parte integrante dei piani istituzionali, anche se da essi venduto come effetto collaterale da controllare. Al saldo finale fa parte di un meccanismo di disciplinamento dei giovani che attraversano la socialità notturna, fa il gioco di palazzinari e banche. Inoltre il fatto che gran parte dei lavoratori impiegati nella vendita al dettaglio siano di origine africana o nord africana, aiuta a costruire retoriche razziste capaci di aumentare la coltre di fumo che occulta i veri responsabili e chi trae profitto dalla movida.
Vivendo il quartiere tutti i giorni crediamo, e da sempre ci siamo battuti per questo, che vada eliminata la presenza di spacciatori dagli spazi autogestiti, e nelle nostre possibilità anche dal quartiere dialogando e interagendo con chi in zona riconosce il pericolo di un attacco alle proprie condizioni di vita materiali, fuori da retoriche razziste e fasciste e al contempo battendoci contro la militarizzazione del quartiere anche a costo di denunce e arresti, perché crediamo che palazzinari e imprenditori della droga abbiano molto più in comune di quanto di solito non si pensi.
Ipotesi per orientarsi
Se, come crediamo, il punto di vista dal quale guardare al “fenomeno della movida” sia evidenziarne le dinamiche da fabbrica predatoria, diffusa su un territorio e che coinvolge numerosi soggetti, è fondamentale capire come lottare in questo campo. Certo è che il processo di trasformazione di Vanchiglia è ormai avviato ma questo non significa che dovremmo accettarne le conseguenze o apprestarci a raccogliere i cocci quando la tempesta sarà passata lasciando il quartiere che viviamo spolpato fino all’osso. Combattere in una fabbrica sociale come quella della movida vuol dire necessariamente frapporsi con la tendenza alla mercificazione della socialità e del territorio, vuol dire richiedere più diritti sul lavoro, consapevoli di non essere singoli dipendenti di un locale, ma parte di una forza lavoro che complessivamente produce su un territorio determinato, vuol dire trovare delle alleanze tra chi subisce gli effetti di questo processo facendo delle specifiche ricadute una forza comune da ribaltare verso l’alto, vuol dire mettere in discussione la valorizzazione come unica possibilità di trovare spazio in un’ottica meramente individualistica.
Significa cercare una prospettiva comune tanto tra gli abitanti del quartiere che affrontano l'invasività e il peggioramento delle condizioni di vita, quanto tra i giovani che si consumano consumando, al fine di rifiutare l’espropriazione di risorse, di ricchezza, di tempo che implica un costo sociale troppo alto per la socializzazione oggi.
Non si tratta tanto, né semplicemente di chiedere una regolamentazione della movida, quanto di pretendere che il quartiere e le forme di relazione che in esso si riproducono non siano un’impresa di profitti per pochi che rapina tutti gli altri. Oggi questo può avvenire solo individuando chiaramente chi sono i responsabili della situazione e chi ci guadagna a discapito di tutti gli altri.
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jgmail · 4 years
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LA GUERRA DE GUERRILLAS
Primera publicación: En Proletari, núm. 5, 30 de septiembre de 1906. Fuente: Biblioteca de Textos Marxistas. Preparado para el MIA: Juan R. Fajardo, abril de 2000.
La cuestión de la acción guerrillera es de sumo interés para nuestro Partido y para las masas obreras. Ya nos hemos referido de paso a ella más de una vez, y ahora, tal como lo habíamos prometido, nos proponemos ofrecer una exposición más completa de nuestras ideas al respecto.
I
Comencemos por el principio. ¿Cuáles son las exigencias fundamentales que todo marxista debe presentar para el análisis de la cuestión de las formas de lucha? En primer lugar, el marxismo se distingue de todas las formas primitivas del socialismo pues no liga el movimiento a una sola forma determinada de lucha. El marxismo admite las formas más diversas de lucha; además, no las "inventa", sino que generaliza, organiza y hace conscientes las formas de lucha de las clases revolucionarias que aparecen por sí mismas en el curso del movimiento. El marxismo, totalmente hostil a todas las fórmulas abstractas, a todas las recetas doctrinas, exige que se preste mucha atención a la lucha de masas en curso que, con el desarrollo del movimiento, el crecimiento de la conciencia de las masas y la agudización de las crisis económicas y políticas, engendra constantemente nuevos y cada vez más diversos métodos de defensa y ataque. Por esto, el marxismo no rechaza categóricamente ninguna forma de lucha El marxismo no se limita, en ningún caso, a las formas de lucha posibles y existentes sólo en un momento dado, admitiendo la aparición inevitable de formas de lucha nuevas, desconocidas de los militantes de un período dado, al cambiar la coyuntura social. El marxismo, en este sentido, aprende, si puede decirse así, de la práctica de las masas, lejos de pretender enseñar a las masas formas de lucha inventadas por "sistematizadores" de gabinete. Sabemos -- decía, por ejemplo, Kautsky, al examinar las formas de la revolución social -- que la próxima crisis nos traerá nuevas formas de lucha que no podemos prever ahora.
En segundo lugar, el marxismo exige que la cuestión de las formas de lucha sea enfocada históricamente. Plantear esta cuestión fuera de la situación histórica concreta significa no comprender el abecé del materialismo dialéctico. En los diversos momentos de la evolución económica, según las diferentes condiciones políticas, cultural-nacionales, costumbrales, etc., aparecen en primer plano distintas formas de lucha, y se convierten en las formas de lucha principales; y, en relación con esto, se modifican a su vez las formas de lucha secundarias, accesorias. Querer responder sí o no a propósito de un determinado procedimiento de lucha, sin examinar en detalle la situación concreta de un movimiento dado, la fase dada de su desenvolvimiento, significa abandonar completarnente la posición del marxismo.
Estos son los dos principios teóricos fundamentales que deben guiarnos. La historia del marxismo en Europa Occidental nos suministra innumerables ejemplos que confirman lo dicho. La socialdemocracia europea considera, en el momento actual, el parlamentarismo y el movimiento sindical como las principales formas de lucha; en el pasado reconocía la insurrección y está plenamente dispuesta a reconocerla en el porvenir si la situación cambia, pese a la opinión de los liberales burgueses, como los kadetes1 y los bezzaglavtsi2 rusos. La socialdemocracia negaba la huelga general en la década del 70 como panacea social, como medio para derribar de golpe a la burguesía por la vía no política, pero admite plenamente la huelga política de masa (sobre todo, después de la experiencia rusa de 1905) como uno de los procedimientos de lucha, indispensable en ciertas condiciones. La socialdemocracia, que admitía la lucha de barricadas en la década del 40 del siglo XIX, y la rechazaba, basándose en datos concretos, a fines del siglo XIX, se ha declarado plenamente dispuesta a revisar esta última opinión y a reconocer la conveniencia de la lucha de barricadas después de la experiencia de Moscú, que ha iniciado según las palabras de Kautsky, una nueva táctica de las barricadas.
II
Establecidos los principios generales del marxismo, pasemos a la revolución rusa. Recordemos el desarrollo histórico de las formas de lucha que ha hecho aparecer. Primero, las huelgas económicas de los obreros (1896-1900), después, las manifestaciones políticas de obreros y estudiantes (1901-1902), las revueltas campesinas (1902), el principio de las huelgas políticas de masas combinadas de diversos modos con las manifestaciones (Rostov 1902, las huelgas del verano de 1903, el 9 de enero de 1905), la huelga política en toda Rusia con casos locales de combates de barricadas (octubre de 1905), la lucha masiva de barricadas y la insurrección armada (diciembre de 1905), la lucha parlamentaria pacífica (abril-junio de 1906), los alzamientos militares parciales (junio de 1905-julio de 1906), las sublevaciones parciales de campesinos (otoño de 1905-otoño de 1906). Tal es el estado de cosas en el otoño de 1906, desde el punto de vista de las formas de lucha en general. La forma de lucha con que la autocracia "contesta" es el pogromo de las centurias negras, comenzando por el de Kishiniov en la primavera de 1903, y terminando por el de Siedlce en el otoño de 1906. Durante todo este período la organización de pogromos por las centurias negras y las matanzas de judíos, estudiantes, revolucionarios, obreros conscientes han ido constantemente en aumento y se han ido perfeccionando, uniéndose la violencia de la chusma sobornada a la violencia de las tropas centurionegristas, llegando hasta utilizar la artillería en aldeas y ciudades, en combinación con expediciones punitivas, trenes de represión, etc.
Tal es el fondo esencial del cuadro. Sobre este fondo se dibuja -- evidentemente como algo particular, secundario, accesorio -- el fenómeno a cuyo estudio y apreciación está consagrado el presente artículo. ¿En qué consiste este fenómeno? ¿Cuáles son sus formas? y ¿cuáles sus causas? ¿Cuándo surgió y hasta dónde se ha extendido? ¿Cuál su significación en la marcha general de la revolución? ¿Cuáles son sus relaciones con la lucha de la clase obrera, organizada y dirigida por la socialdemocracia? Estas son las cuestiones que debemos abordar ahora, después de haber bosquejado el fondo general del cuadro.
El fenómeno que nos interesa es la lucha armada. Sostienen esta lucha individuos aislados y pequeños grupos. Unos pertenecen a las organizaciones revolucionarias otros (la mayoría, en cierta parte de Rusia) no pertenecen a ninguna organización revolucionaria. La lucha armada persigue dos fines diferentes, que es preciso distinguir rigurosamente : en primer lugar, esta lucha se propone la ejecución de personas aisladas, de los jefes y subalternos de la policía y del ejército; en segundo lugar, la confiscación de fondos pertenecientes tanto al gobierno como a particulares. Parte de las sumas confiscadas va al partido, parte está consagrada especialmente al armamento y a la preparación de la insurrección, parte a la manutención de los que sostienen la lucha que caracterizamos. Las grandes expropiaciones (la del Cáucaso, de más de 200.000 rublos; la de Moscú, de 875.000 rubios) estaban destinadas precisamente a los partidos revolucionarios ante todo; las pequeñas expropiaciones sirven en primer lugar, e incluso a veces enteramente, al sostenimiento de los "expropiadores". Esta forma de lucha ha tomado un amplio desarrollo y extensión, indudablemente, tan sólo en 1906, es decir, después de la insurrección de diciembre. La agudización de la crisis política hasta llegar a la lucha armada y, sobre todo, la agravación de la miseria, del hambre y del paro en las aldeas y en las ciudades han desempeñado un importante papel entre las causas que han originado la lucha de que tratamos. El mundo de los vagabundos, el "lumpenproletariat" y los grupos anarquistas han adoptado esta forma de lucha como la forma principal y hasta exclusiva de lucha social. Como forma de lucha empleada en "respuesta" por la autocracia, hay que considerar: el estado de guerra, la movilización de nuevas tropas, los pogromos de las centurias negras (Siedlce) y los consejos de guerra.
III
El juicio habitual sobre la lucha que estamos describiendo, se reduce a lo siguiente: esto es anarquismo, blanquismo, el antiguo terrorismo, actos de individuos aislados de las masas que desmoralizan a los obreros, que apartan de ellos a los amplios círculos de la población, desorganizan el movimiento y perjudican a la revolución. En los hechos comunicados todos los días por los periódicos se encuentran, sin dificultad, ejemplos para confirmar este juicio.
Pero ¿son convincentes estos ejemplos? Para comprobarlo tomemos el hogar en que esta forma de lucha está más desarrollada: la región de Letonia. He aquí en qué términos se lamenta Nóvoie Vremia3 (del 9 y del 12 de septiembre), de la actividad de la socialdemocracia letona. El Partido Obrero Socialdemócrata Letón (sección del POSDR) publica regularmente 30.000 ejemplares de su periódico; en las columnas de anuncios de éste se publican listas de confidentes cuya supresión constituye un deber para cada hombre honrado; los que ayudan a la policía son declarados "enemigos de la revolución" y deben ser ejecutados, y, además, confiscados sus bienes; se llama a la población a no dar dinero para el Partido Socialdemócrata más que contra recibo sellado; en la última rendición de cuentas del Partido figuran, entre los 48.000 rublos de ingreso del año, 5.600 rublos de la sección de Libava para la compra de armas, procurados mediante expropiaciones. Como es natural, Nóvoie Vremia lanza rayos y centellas contra esta "legislación revolucionaria", contra este "gobierno de terror".
Nadie se atreverá a calificar de anarquismo, de blanquismo, de terrorismo, estas acciones de los socialdemócratas letones. Pero, ¿por qué? Porque en este caso es evidente la relación de la nueva forma de lucha con la insurrección que estalló en diciembre y que madura de nuevo. En lo que concierne a toda Rusia, esta relación no es tan perceptible, pero existe. La extensión de la lucha de "guerrillas", precisamente después de diciembre, su relación con la agravación de la crisis no sólo económica, sino también política, son innegables. El viejo terrorismo ruso era obra del intelectual conspirador; ahora, la lucha de guerrillas la mantiene, por regla general, el obrero combatiente o simplemente el obrero sin trabajo. Blanquismo y anarquismo se les ocurren fácilmente a gentes que gustan de los clichés, pero en la atmósfera de insurrección, que de un modo tan evidente existe en la región de Letonia, es indudable que estas etiquetas aprendidas de memoria no tienen ningún valor.
El ejemplo de los letones demuestra perfectamente que el método, tan común entre nosotros, de analizar la guerra de guerrillas al margen de las condiciones de una insurrección, es incorrecto, anticientífico y antihistórico. Hay que tener en cuenta esta atmósfera insurreccional, reflexionar sobre las particularidades del período transitorio entre los grandes actos de la insurrección, comprender qué formas de lucha surgen necesariamente como consecuencia de ello y no salir del paso con un surtido de palabras aprendidas de memoria, que son empleadas lo mismo por los kadetes y por la gente de Nóvoie Vremia : ¡anarquismo, pillaje, rufianismo!
Las operaciones de guerrillas, se dice, desorganizan nuestro trabajo. Apliquemos este razonamiento a la situación creada después de diciembre de 1905, a la época de los pogromos de las centurias negras y de la ley marcial. ¿Qué es lo que desorganiza más el movimiento en dicha época: la falta de resistencia o bien la lucha organizada de los guerrilleros? Comparad la Rusia Central con sus confines del Oeste, con Polonia y la región de Letonia. La lucha de guerrillas ha adquirido indudablemente mucha más difusión y desarrollo en esos confines occidentales. Y es no menos innegable que el movimiento revolucionario en general y el movimiento socialdemócrata en particular, están más desorgenizados en la Rusia Central que en las regiones del Oeste. Evidentemente, ni siquiera se nos ocurre la idea de deducir que si los movimientos socialdemócratas polaco y letón están menos desorganizados es gracias a la guerra de guerrillas. No. La única conclusión que se desprende de ello es que no puede imputarse a la guerra de guerrillas el estado de desorganización del movimiento obrero socialdemócrata en la Rusia de 1906.
Se invocan frecuentemente las particularidades de las condiciones nacionales, lo cual revela manifiestamente la debilidad de la argumentación corriente. Si se trata de las condiciones nacionales, es que no se trata de anarquismo, de blanquismo, de terrorismo -- pecados comunes a toda Rusia e incluso específicamente rusos --, sino de algo diferente. ¡Analizad este algo diferente de un modo concreto, señores! Veréis entonces que la opresión o el antagonismo nacionales no explican nada, pues siempre han existido en los confines occidentales, mientras que la lucha de guerrillas ha sido engendrada solamente por el período histórico actual. Hay muchos sitios en que existen la opresión y el antagonismo nacionales, pero no la lucha de guerrillas, que se desarrolla a veces sin que se dé la opresión nacional. Un análisis concreto de la cuestión muestra que no es del yugo nacional de lo que se trata, sino de las condiciones de la insurrección. La lucha de guerrillas es una forma inevitable de lucha en un momento en que el movimiento de masas ha llegado ya realmente a la insurrección y en que se producen intervalos más o menos considerables entre "grandes batallas" de la guerra civil.
No son las acciones de guerrillas las que desorganizan el movimiento, sino la debilidad del Partido, que no sabe tomar en sus manos tales acciones. Por eso, entre nosotros, los rusos, los anatemas lanzados habitualmente contra las acciones de guerrillas, coinciden con acciones de guerrillas clandestinas, accidentales, no organizadas, que realmente desorganizan al Partido. Incapaces de comprender cuáles son las condiciones históricas que engendran esta lucha, somos igualmente incapaces de contrarrestar sus aspectos perjudiciales. La lucha no por eso deja de continuarse, pues la provocan potentes factores económicos y políticos. No tenemos fuerza para suprimir estos factorcs ni esta lucha. Nuestras quejas contra la lucha de guerrillas son quejas contra la debilidad de nuestro Partido en materia de insurrección.
Lo que hemos dicho de la desorganización se aplica también a la desmoralización. No es la guerra de guerrillas lo que desmoraliza, sino el carácter inorganizado, desordenado, sin partido de las acciones de guerrillas. De esta evidentísima desmoralización no nos salvaremos ni un ápice condenando o maldiciendo las acciones de guerrillas; pues estas condenaciones y maldiciones son absolutamente impotentes para detener un fenómeno provocado por causas económicas y políticas profundas. Se nos objetará que si somos incapaces de detener un fenómeno anormal y desmoralizador, esto no es razón para que el Partido adopte procedimientos de lucha anormales y desmoralizadores. Pero tal objeción sería puramente liberal-burguesa y no marxista, pues un marxista no puede considerar en general anormales y desmoralizadoras la guerra civil o la guerra de guerrillas, como una de sus formas. Un marxista se basa en la lucha de clases y no en la paz social. En ciertos períodos de crisis económicas y políticas agudas, la lucha de clases, al desenvolverse, se transforma en guerra civil abierta, es decir, en lucha armada entre dos partes del pueblo. En tales períodos, el marxista está obligado a tomar posición por la guerra civil. Toda condenación moral de ésta es completamente inadmisible desde el punto de vista del marxismo.
En una época de guerra civil, el ideal del Partido del proletariado es un partido de combate. Esto es absolutamente incontrovertible. Estamos completamente dispuestos a conceder que, desde el punto de vista de la guerra civil se puede demostrar, y se demuestra, la inconveniencia de unas u otras formas de guerra civil en uno u otro momento. Admitimos plenamente la crítica de las diversas formas de guerra civil desde el punto de vista de la conveniencia militar y estamos incondicionalmente de acuerdo en que, en esta cuestión, el voto decisivo corresponde a los militantes activos socialdemócratas de cada localidad. Pero, en nombre de los principios del marxismo, exigimos absolutamente que nadie intente sustraerse al análisis de las condiciones de la guerra civil con frases triviales y rutinarias sobre el anarquismo, el blanquismo y el terrorismo; que no se haga de los procedimientos insensatos empleadGs en la guerra de guerrillas en un cierto momento por cierta organización del Partido Socialista Polaco, un espantajo en la cuestión de la participación de la socialdemocracia en la guerra de guerrillas en general.
El argumento de que la guerra de guerrillas desorganiza el movimiento debe ser apreciado de manera crítica. Toda forma nueva de lucha, que trae aparejada consigo nuevos peligros y nuevos sacrificios, "desorganiza", indefectiblemente, las organizaciones no preparadas para esta nueva forma de lucha. Nuestros antiguos círculos de propagandistas se desorganizaron al recurrir a los métodos de agitación. Nuestros comités se desorganizaron al recurrir a las demostraciones. En toda guerra, cualquier operación lleva un cierto desorden a las filas de los combatientes. De esto no puede deducirse que no hay que combatir. De esto es preciso deducir que hay que aprender a combatir. Y nada más.
Cuando veo a socialdemócratas que declaran arrogante y presuntuosamente: nosotros no somos anarquistas, ni ladrones, ni bandidos; estamos por encima de todo eso, rechazamos la guerra de guerrillas, me pregunto: ¿comprenden esas gentes lo que dicen? En todo el país se libran encuentros armados y choques entre el gobierno centurionegrista y la población. Es un fenómeno absolutamente inevitable en la fase actual de desarrollo de la revolución. Espontáneamente, sin organización -- y, precisamente por eso, en formas a menudo poco afortunadas y malas --, la población reacciona también mediante colisiones y ataques armados. Estoy de acuerdo en que, a causa de la debilidad o de la falta de preparación de nuestra organización, podemos renunciar, en una localidad y en un momento dado, a colocar esta lucha espontánea bajo la dirección del Partido. Estoy de acuerdo en que esta cuestión debe ser resuelta por los militantes locales activos, en que no es cosa fácil reajustar el trabajo de organizaciones débiles y no preparadas. Pero cuando veo que un teórico o que un publicista de la socialdemocracia, no lamenta esta falta de preparación, sino que repite con orgullosa suficiencia y entusiasmo narcisista las frases aprendidas en su primera juventud sobre el anarquismo, el blanquismo y el terrorismo, me causa una gran pena el ver rebajar así la doctrina más revolucionaria del mundo.
Se dice que la guerra de guerrillas aproxima al proletariado consciente a la categoría de los vagabundos borrachines y degradados. Es cierto. Pero de esto sólo se desprende que el partido del proletariado no puede nunca considerar la guerra de guerrillas como el único, ni siquiera como el principal procedimiento de lucha; que este procedimiento debe estar subordinado a los otros, debe ser proporcionado a los procedimientos esenciales de lucha, ennoblecido por la influencia educadora y organizadora del socialismo. Sin esta última condición, todos, absolutamente todos los procedimientos de lucha, en la sociedad burguesa, aproximan al proletariado a las diversas capas no proletarias, situadas por encima o por debajo de él, y, abandonados al curso espontáneo de los acontecimientos, se desgastan, se pervierten, se prostituyen. Las huelgas, abandonadas al censo espontáneo de los acontecimientos, degeneran en Alliances, en acuerdos entre obreros y patronos contra los consumidores. El parlamento degenera en un burdel, donde una banda de politicastros burgueses comercia al por mayor y al por menor con la "libertad popular", el "liberalismo", la "democracia", el republicanismo, el anticlericalismo, el socialismo y demás mercancías de fácil colocación. La prensa se transforma en alcahueta barata, en instrumento de corrupción de las masas, de adulación grosera de los bajos instintos de la muchedumbre, etc., etc. La socialdemocracia no conoce procedimientos de lucha universales que separen al proletariado con una muralla china de las capas situadas un poco más arriba o un poco más abajo de él. La socialdemocracia emplea, en diversas épocas, diversos procedimientos, rodeando siempre su aplicación de condiciones ideológicas y de organización rigurosamente determinadas*.
IV
Las formas de lucha de la revolución rusa, comparadas con las revoluciones burguesas de Europa, se distinguen por su extraordinaria variedad. Kautsky lo había previsto en parte cuando decía en 1902 que la futura revolución (tal vez con excepción de Rusia, añadía) sería no tanto una lucha del pueblo contra el gobierno, como una lucha entre dos partes del pueblo. En Rusia vemos que esta segunda lucha toma indudablemente un desarrollo más extenso que en las revoluciones burguesas de Occidente. Los enemigos de nuestra revolución son poco numerosos entre el pueblo, pero se organizan más y más a medida que la lucha se agudiza y reciben apoyo de las capas reaccionarias de la burguesía. Es, pues, completamente natural e inevitable que en una época semejante, en una época de huelgas políticas en escala nacional, la insurrección no puede adoptar la antigua forma de actos aislados, limitados a un lapso de tiempo muy breve y a una zona muy reducida. Es completamente natural e inevitable que la insurrección tome formas más elevadas y complejas de una guerra civil prolongada y que abarca a todo el país, es decir, de una lucha armada entre dos partes del pueblo. Semejante guerra no puede concebirse más que como una serie de pocas grandes batallas, separadas unas de otras por intervalos relativamente considerables y una gran cantidad de pequeños encuentros librados durante estos intervalos. Si esto es así -- y lo es sin duda --, la socialdemocracia debe sin falta plantearse la tarea de constituir organizaciones que sean lo más aptas posibles para dirigir a las masas en estas grandes batallas y, en lo posible, en estos pequeños encuentros. La socialdemocracia debe proponerse, en la época en que la lucha de clases se agudiza hasta llegar a la guerra civil, no solamente tomar parte en esta guerra civil, sino también desempeñar la función dirigente en ella. La socialdemocracia debe educar y preparar a sus organizaciones para que realmente sean capaces de actuar como una parte beligerante, no dejando pasar ninguna ocasión de asestar un golpe a las fuerzas del adversario.
Esta es -- no es posible negarlo -- una tarea difícil, que no se puede resolver de golpe. Lo mismo que todo el pueblo se reeduca y se instruye en la lucha en el curso de la guerra civil, nuestras organizaciones deben ser educadas, deben ser reorganizadas sobre la base de lo que enseña la experiencia, a fin de estar a la altura de su misión.
No tenemos la menor pretensión de imponer a los militantes activos una forma de lucha cualquiera inventada por nosotros, ni siquiera resolver, desde nuestro gabinete, la cuestión del papel que una u otra forma de guerra de guerrillas puede desempeñar en el curso general de la guerra civil en Rusia. Lejos de nosotros la idea de ver en la apreciación concreta hecha de una u otra acción de guerrillas una cuestión de tendencia en la socialdemocracia. Pero consideramos que constituye para nosotros un deber contribuir en la medida de nuestras fuerzas a la justa apreciación teórica de las formas nuevas de lucha que la vida hace aparecer; que debemos combatir sin cuartel la rutina y los prejuicios que impiden a los obreros conscientes plantear como conviene esta nueva y difícil cuestión y abordar como es debido su solución.
*
Se acusa frecuentemente a los socialdemócratas bolcheviques de asumir una actitud irreflexiva y parcial frente a las acciones de guerrillas. Por esto no será superfluo recoldar que en el proyecto de resolución sobre las acciones de guerrillas (Nƒ 2 de Partinie Izvestia
4
e informe de Lenin acerca del Congreso
5
) el sector de bolcheviques que las defiende ha puesto las condiciones siguientes para su aprobación: no son toleradas en absoluto las "expropiacioncs" de bienes privados; las "expropiacioncs" de bienes del Estado no son recomendadas; sólo son toleradas a condición de que se hagan bajo el control del Partido y de que los recursos sean destinados a las necesidades de la insurrección. Las acciones de guerrillas que revisten la forma de actos terroristas son recomendadas contra los opresores gubernamentales y los elementos activos de las "centurias negras", pero con las condiciones siguientes: 1) tener en cuenta el estado de ánimo de las grandes masas; 2) tomar en consideración las condiciones del movimiento obrero local; 3) preocuparse de no gastar inútilmente las fuerzas del proletariado. La diferencia práctica entre este proyecto y la resolución adoptada en el Congreso de Unificación
6
consiste, exclusivamente, en que las "expropiaciones" de bienes del Estado no han sido admitidas.
NOTAS
1
Kadetes ("Los demócratas constitucionalistas"): principal partido burgués de Rusia; partido de la burguesía monárquica liberal, se constituyó en octubre de 1905. Su lider fue P. Miliukov. Encubriéndose con falsas apariencias de democratismo, se llamaron a sí mismo el partido de la "libertad del pueblo", se esforzaban por atraer a su lado a los campeshlos. Aspiraban a conservar el zarismo como una monarquía constitucional. Más tarde, el partido constitucional demócrata se convirtió en un partido burgués del imperialismo. Después de la victoria de la Revolución Socialista de Octubre, los kadetes organizaron complots y sublevaciones contrarrevolucionarias para derrocar la República Soviética.
2
Bezzaglavtsi : organizadores y colaboradores de la revista Bez Zaglavia ("Sin Titulo"), editada en Petersburgo en 1906 por S. N. Prokopóvich, E. D. Kuskova, V. I. Bogucharski y otros. Los Bezzglavtsi se declaraban abiertamente partidarios del revisionismo, apoyaban a los mencheviques y liberales, y actuaban contra la política independiente del proletariado. Lenin llamó a los Bezzaglavtsi kadetes tipo menchevique, o sea, mencheviques tipo kadete.
3
Nóvoie Vremia ("Tiempos Nuevos"): diario que se publicó en Petersburgo desde 1868 hasta 1917. Primero fue liberal moderado, y desde 1876, se trasformó en vocero de los circulos reaccionarios de la nobleza y la burocracia, luchó no solamente contra el movimiento revolucionario, sino también contra el de la burguesía liberal. A partir de 1905 se convirtió en órgano de los centurionegristas. Lenin lo llamaba "modelo de periódico venal". Después de la Revolución Democrático burguesa de Febrero apoyó sin reservas la politica contrarrevolucionaria del gobierno provisional burgués y desató una furiosa campaña contra los bolcheviques. Fue clausurado el 8 de noviembre de 1917 por el Comité Militar Revolucionario adjunto al Soviet de Petrogrado.
4
Partinie Izvestia ("Noticias del Partido"): periódico clandestino del CC Unificado del POSDR, se publicó en Petersburgo en visperas del IV Congreso (de Unificación) del Partido. Sólo aparecieron dos números: el 20 de febrero y el 2 de abril de 1906. La redacción estaba integrada por los redactores del periódico bolchevique (Proletari) y por igual número de redactores de la nueva Iskra menchevique. Representaban a los bolcheviques Lenin, Lunacharski y otros.
En Partinie Izvestia se incluyeron dos articulos de Lenin: "La situación actual en Rusia y la táctica del partido obrero " y "La revolución rusa y las tareas del proletariado ", con la firma Bolchevique. (V. I. Lenin, Obras Completas, t. X.) Después del Congreso, Partinie Izvestia dejó de aparecer.
5
Se alude al "Informe sobre el Congreio de Unificación del POSDR" -- Carta a los obreros de Petersburgo. (V. I. Lenin, Obras Completas, t. X.)
6
El IV Congreso (de Unificación) del POSDR se realizo en Estocolmo entre el 23 de abril y 8 de mayo de 1906.
Asistieron al Congreso 112 delegados con derecho a voto, en representacion de 57 organizaciones locales del POSDR, y 22 delegados con voz pero sin voto. Las organizaciones nacionales también estuvieron representadas: tres delegados por la socialdemocracia de Polonia y Lituania, tres por el Bund, tres por el partido obrero socialdemócrata de Letonia, un delegado del Partido Obrero Socialdemócrata de Ucrania y uno del Partido Obrero de Finlandia. Además, asistió un representante del Partido Obrero Socialdemócrata de Bulgaria. De los delegados, 46 eran bolcheviques y 62 mencheviques. El Congreso analizó los siguientes principales problemas: problema agrario; apreciación de la situación actual y de las tareas de clase del proletariado; la actitud hacia la Duma del Estado; problema organizativo. La discusión de cada problema provocaba áspera lucha entre bolcheviques y mencheviques. Lenin presentó informes e intervino acerca del problema agrario, de la situación en ese momento, de la táctica respecto a la elección en la Duma, la insurrección armada y otros problemas.
La superioridad numérica de los mencheviques, aunque mezquina, determinó el carácter de las resoluciones: con respecto a muchos problemas el Congreso tomó resoluciones mencheviques (resoluciones sobre el problema agrario, la actitud hacia la Duma, etc.). En lo que se refiere a los estatutos, el Congreso adoptó la formulación de Lenin para el articulo 1. Se aprobó una resolución sobre la unificación con la socialdemocracia de Polonia y de Lituania y con el Partido Obrero Socialdemócrata de Letonia, que se incorporaron al POSDR como organizaciones territoriales. Asimismo el Congreso prejuzgó la cuestión de Bund de formar parte de POSDR.
Integraban el Comité Central, elegido en el Congreso, tres bolcheviques y siete mencheviques. La Redacción del Organo Central estaba compuesta sólo por mencheviques.
El análisis detallado de la labor del Congreso aparece en el artículo "Informe sobre el Congreso de Unificación del POSDR". (V. I. Lenin, Obras Completes, t. X.) "El momento actual y el Congreso de Unificación del Partido Obrero" y "Prólogo del autor al primer tomo". (J. Stalin, Obras, t. I.)
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kiro-anarka · 6 years
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<<<Las relaciones burguesas de producción y de cambio [bancario], las relaciones burguesas de propiedad, toda esa sociedad burguesa moderna, que ha hecho surgir como por encanto tan potentes medios de producción y de cambio, se asemeja al mago que ya no es capaz de dominar las potencias infernales que ha desencadenado con sus conjuros. Desde hace algunas décadas la historia de la industria y el comercio no es más  que la historia de la rebelión de las fuerzas productivas modernas contra las actuales relaciones de producción, contra las relaciones de propiedad que condicionan la existencia de la burguesía y su dominación. Basta mencionara las crisis comerciales que, con su retorno periódico, plantean en forma cada vez más amenazante, la cuestión de la existencia de la sociedad burguesa. Durante cada crisis comercial se destruye sistemáticamente, no sólo una parte de productos elaborados, sino incluso de las fuerzas productivas ya creadas [como empresas]. Durante las crisis, una epidemia social, que en cualquier época anterior hubiera parecido absurda, se extiende sobre la sociedad: la epidemia de la superproducción. La sociedad se encuentra súbitamente retrotraída a un estado de súbita barbarie: diríase que el hambre, que una guerra devastadora mundial la han privado de todos sus medios de subsistencia; la industria y el comercio parecen aniquilados. Y todo eso ¿por qué? Porque la sociedad posee demasiada civilización; demasiados medios de vida, demasiada industria, demasiado comercio. Las fuerzas productivas de que dispone la burguesía no favorecen ya el régimen de su propiedad, por el contrario, resultan ya demasiado poderosas para estas relaciones, que constituyen un obstáculo para su desarrollo; y cada vez que salvan este obstáculo, precipitan en el desorden a toda la sociedad burguesa y amenazan su existencia. Las relaciones burguesas resultan demasiado estrechas para contener las riquezas creadas en su seno. ¿Cómo vende esta crisis la burguesía? De una parte por la destrucción obligada de una masa de fuerzas productivas; de otra, por la conquista de nuevos mercados y la explotación más intensa de los antiguos. ¿De qué modo lo hace, pues? Preparando crisis más extensas y más violentas y disminuyendo los medios de prevenirlas.         Las armas de que se sirvió la burguesía para derribar al feudalismo se vuelven ahora contra ella, que no ha forjado solamente las armas que deben darle muerte; ha producido también hombres que empuñarán esas armas: los obreros modernos, los proletarios.         En la misma proporción en que se desarrolla el capital, desarróllase también el proletariado, la clase de los obreros modernos, que no viven sino a condición de encontrar trabajo, y lo encuentran únicamente mientras su trabajo acrecienta el capital. Estos obreros obligados a venderse al detalle, son una mercancía como cualquier otro artículo de comercio, sujeta, por tanto, a todas las vicisitudes de la competencia, a todas las fluctuaciones del mercado.         El creciente empleo de las máquinas y la división del trabajo quitan al trabajo del proletario todo carácter propio y le hacen perder con ello todo atractivo para el obrero. Éste se convierte en un simple apéndice de la máquina, y sólo se le exigen las operaciones más sencillas, más monótonas y de más fácil aprendizaje. Por tanto, lo que cuesta hoy día al obrero se reduce poco más o menos a los medios de subsistencia indispensables para vivir y para perpetuar si linaje. Pero el precio de todo trabajo, como el de toda mercancía, es igual a los gastos de su producción. Por consiguiente, cuanto más fastidioso resulta el trabajo, más bajan los salarios. Más aún, cuanto más se desenvuelven la maquinaria y la división del trabajo, más aumenta la cantidad de trabajo bien mediante la prolongación de la jornada, bien por el aumento del trabajo exigido en un determinado tiempo, la aceleración del movimiento de las máquinas, etc.         La industria moderna ha transformado el pequeño taller del maestro patriarcal en la gran fábrica capitalista industrial. Masas de obreros hacinados en la fábrica, son organizados en forma militar. Como soldados rasos de la industria, están colocados como colocados bajo la vigilanza de toda jerarquía de oficiales y suboficiales. No son solamente esclavos de la clase burguesa, del Estado burgués, sino diariamente, a todas horas, esclavos de la máquina, del capataz y, sobre todo, del burgués individual, patrón de la fábrica. Y este despotismo es tanto más mezquino, odioso y exasperante,, cuanto mayor es la franqueza con que proclama que no tiene otro fin que el lucro.         Cuanto menos habilidad y fuerza requiere el trabajo manual, es decir, cuanto mayor es el desarrollo de la industria moderna, mayor es la proporción en que el trabajo de los hombres es suplantado por el de las mujeres y los niños. Por lo que respecta a la clase obrera, las diferencias de edad y sexo pierden toda significación social. No hay más que instrumentos de trabajo, cuyo coste varía según la edad el sexo.         Una vez que el obrero ha sufrido la explotación del fabricante y ha recibido su salario en dinero metálico, se convierte en víctima de otros elementos de la burguesía: el casero [en edificios alquilados], el tendero, el prestamista, etc.         Pequeños industriales, pequeños comerciantes y rentistas, artesanos y campesinos, toda la escala inferior de las clases medias de otro tiempo, caen en las filas del proletariado: unos, porque sus pequeños capitales no les alcanzan para acometer grandes empresas industriales y sucumben en la competencia con los capitalistas más fuertes; otros porque su habilidad profesional se ve despreciada ante los nuevos métodos de producción. De tal suerte, el proletariado se recluta entre todas las clases de la población.         El proletariado pasa por diferentes etapas de desarrollo. Su lucha contra la burguesía comienza con su surgimiento.         Al principio, su lucha es entablada por obreros aislados, después por los obreros de una misma fábrica, más tarde  por los obreros del mismo oficio de la localidad contra el burgués individual que los explota directamente. No se contentan con dirigir sus ataques contra las relaciones burguesas de producción, y los dirigen contra los mismos instrumentos de producción: destruyen las mercancías extranjeras que les hacen competencia, rompen las máquinas, incendian las fábricas, intentan reconquistar por la fuerza la posición perdida del artesano de la Edad Media.         En esta etapa, los obreros forman una masa diseminada por todo el país y disgregada por la competencia. Si los obreros forman masas compactas, esta acción no es todavía consecuencia de su propia unión, sino de la unión de la burguesía, que para alcanzar sus propios fines políticos debe —y por ahora aún puede— poner en movimiento a todo el proletariado. Durante esta etapa, los proletarios no combaten, por tanto, sino contra los enemigos de sus enemigos, es decir, contra los restos de la monarquía absoluta, los propietarios territoriales, los burgueses no industriales y los pequeños burgueses. Todo el movimiento histórico se concentra, de esta suerte, en manos de la burguesía; toda victoria alcanzada en estas condiciones es una victoria de la burguesía.         Pero la industria, en su desarrollo, no sólo acrecienta el número de proletarios, sino que les concentra en masas considerables; su fuerza aumenta y adquieren mayor conciencia de la misma. Los intereses y las condiciones de existencia de los proletarios se igualan cada vez más a medida que la máquina va borrando las diferencias en el trabajo y reduce el salario, casi en todas partes, a un nivel igualmente bajo. Como resultados de la creciente competencia de los burgueses entre sí y de las crisis comerciales que ella ocasiona, los salarios son cada vez más fluctuantes; el constante y acelerado perfeccionamiento de la máquina coloca al obrero en situación cada vez más precaria; las colisiones entre el obrero individual y el burgués individual adquieren más y más el carácter de colisiones entre las dos clases. Los obreros empiezan a formar coaliciones actuando en común para la defensa de sus salarios: Llegan hasta formar asociaciones permanentes para asegurarse los medios necesarios, en previsión de estos choques eventuales. Aquí y allá la lucha estalla en sublevación. A veces los obreros triunfan; pero es un triunfo efímero. El verdadero resultado de sus luchas no es el éxito inmediato, sino la unión cada vez más extensa de los obreros. . Esta unión es propiciada por el crecimiento de los medios de comunicación creados por la gran industria, que ponen en contacto a los obreros de diferentes localidades. Y basta con ese contacto para que las numerosas luchas locales, que en todas partes revisten el mismo carácter, se centralicen en una lucha nacional, en una lucha de clases. Mas toda lucha de clases es una lucha política. Y la unión que los habitantes de las ciudades de la Edad Media, con sus caminos vecinales, tardaron siglos en establecer, los proletarios modernos, con los ferrocarriles, la llevan a cabo en unos pocos años.         Esta organización del proletariado en clase y, por tanto, el partido político, vuelve sin cesar a ser socavada por la competencia entre los propios obreros. Pero resurge, y siempre más fuerte, más firme, más potente. Aprovecha las disensiones intestinas de los burgueses para obligarles a reconocer por la ley algunos intereses de la clase obrera; por ejemplo, la ley de la jornada de diez horas en Inglaterra.         En general, las  colisiones en la vieja sociedad favorecen de diversas maneras el proceso de desarrollo del proletariado. La burguesía vive en lucha permanente: al principio, contra la aristocracia; después contra aquellas fracciones de la misma burguesía, cuyos intereses entran en contradicción con los progresos de la industria, y siempre, en fin, contra la burguesía de todos los demás  países. En todas estas luchas se ve forzada a apelar al proletariado, a reclamar su ayuda y a arrastrarle así al movimiento político. De tal manera, la burguesía proporciona a los proletarios los elementos de su propia educación, es decir, armas contra  ella misma.         Además, como acabamos de ver, el progreso de la industria precipita a las filas del proletariado a capas enteras de la clase dominante, o, al menos, las amenaza en sus condiciones de existencia. También ellas aportan al proletariado elementos de educación.         Finalmente, en los períodos  en que la lucha de clases se acerca a su desenlace, el proceso de desintegración de la clase dominante, de toda la vieja sociedad, adquiere un carácter tan violento y tan agudo, que una pequeña fracción de esa clase reniega de ella y se adhiere a la clase revolucionaria, a la clase en cuyas manos está el porvenir. Y así como antes una parte de la nobleza se pasó a la burguesía, en nuestros días un sector de la burguesía se pasa al proletariado, particularmente ese sector de los ideólogos burgueses que se han elevado hasta la comprensión teórica del conjunto del movimiento histórico.         De todas las clases que hoy se enfrentan con la burguesía, sólo el proletariado es una clase verdaderamente revolucionaria. Las demás clases van degenerando y desaparecen con el desarrollo de la  gran industria; el proletariado, en cambio es un producto más peculiar…         Los estamentos medios —el pequeño industrial, el pequeño comerciante, el artesano, el campesino—, todos ellos luchan contra la burguesía para salvar de la ruina su existencia como tales estamentos medios. No son, pues, revolucionarios sino conservadores. Más todavía, son reaccionarios, ya que pretenden volver atrás las ruedas de la Historia. Son revolucionarios únicamente por cuanto tienen ante sí las perspectivas de su tránsito inminente a la condición de proletarios, defendiendo así no sus intereses presentes sino sus intereses futuros, por cuanto abandonan sus propios puntos de vista para adoptar los del proletariado.         El lumpenproletariado, ese producto pasivo de la putrefacción  de las capas más bajas de la vieja sociedad,  puede a veces ser arrastrado al movimiento por una revolución proletaria; sin embargo, en virtud de todas sus condiciones de vida está más bien dispuesto a venderse a la reacción para servir a sus maniobras.         Las condiciones de existencia de la vieja sociedad están ya abolidas en las condiciones de existencia del proletariado. El proletariado no tiene propiedad; su relación con la mujer y con sus hijos no tienen nada de común con las relaciones familiares burguesas; el trabajo industrial moderno, el moderno yugo del capital, que es el mismo en Inglaterra que en Francia, en Norteamérica que en Alemania, despoja al proletariado de todo carácter nacional. Las leyes, la moral, la religión, son para él meros prejuicios burgueses, detrás de los cuales se ocultan otros tantos intereses de la burguesía.         Todas las clases que en el pasado lograron hacerse dominantes, trataron de consolidar la situación adquirida sometiendo a toda la sociedad a las condiciones de su modo de apropiación. Los proletarios no pueden conquistar las fuerzas productivas sociales, sino aboliendo el propio modo de apropiación de la burguesía en vigor y, por tanto, todo modo de apropiación existente hasta nuestros días. Los proletarios no tienen nada que salvaguardar; tienen que destruir todo lo que hasta ahora ha venido garantizando y asegurando la propiedad privada existente.         Todos los movimientos han sido hasta ahora realizados por minorías o en provecho de minorías. El movimiento proletario es un movimiento propio de la inmensa mayoría en provecho de la inmensa mayoría. El proletariado, capa inferior de la sociedad actual, no puede levantarse, no puede enderezarse, sin hacer saltar toda la superestructura formada por las capas de la sociedad oficial…         Todas las sociedades anteriores, como hemos visto, han descansado entre el antagonismo entre clases opresoras y oprimidas: Pero para poder oprimir a una clase, es preciso asegurarle unas condiciones que le permitan, por lo menos, arrastrar su existencia de esclavitud. El siervo, en pleno régimen de servidumbre, llegó a ser miembro de la Comuna, lo mismo que el pequeñoburgués llegó a elevarse a la categoría de burgués bajo el yugo del absolutismo feudal. El obrero moderno, por el contrario, lejos de elevarse con el progreso de la industria, desciende siempre más y más por debajo de las condiciones de vida de su propia clase. El trabajador cae en la miseria, y el pauperismo crece más rápidamente todavía que la población y la riqueza. Es, pues, evidente, que la burguesía no puede seguir desempeñando el papel de clase dominante de la sociedad ni de imponer a ésta, como ley reguladora, las condiciones de existencia de su clase. No es capaz de dominar, porque no es capaz de asegurar a su esclavo su existencia, ni siquiera dentro del marco de la esclavitud, porque se ve obligada a dejarle decaer hasta el punto de tener que mantenerle en lugar de ser mantenida por él. La sociedad ya no puede vivir bajo su dominación; lo que equivale a decir que la existencia de la burguesía es, en lo sucesivo, incompatible con la de la sociedad.         La condición esencial de la existencia y dominación de la clase burguesa, es la acumulación de riqueza en manos de particulares, la formación y el acrecentamiento del capital. La condición de existencia del capital es el trabajo asalariado. El trabajo asalariado descansa exclusivamente sobre la competencia de los obreros entre sí. El progreso de la industria, del que la burguesía incapaz de oponérsele, es agente involuntario, sustituye el aislamiento de los obreros, resultante de la competencia, por su unión revolucionaria mediante la asociación. Así el desarrollo de la gran industria socava bajo los pies de la burguesía las bases sobre las que ésta produce y se apropia lo producido. La burguesía produce, ante todo, sus propios sepultureros. Su hundimiento y la victoria del proletariado son igualmente inevitables.  (K. Marx y F. Engels: “Manifiesto del Partido Comunista”. Obra publicada en 1850 por “El republicano rojo”. Versión castellana de 1989 Ed. L’eina. Lo entre corchetes y el subrayado nuestros).                                                                                                                                                                                                 GPM.              ¿Qué conclusiones cabe sacar de este manifiesto? Que la propiedad privada sobre los medios de producción y el dinero bancario, han venido siendo históricamente incompatibles con la tan falsamente consagrada “libertad, igualdad y fraternidad” de los seres humanos en el mundo, desde la Revolución francesa hasta nuestros días. Y en efecto:    <<El sistema de la verdadera libertad universal basada en la igualdad [de las relaciones sociales productivas], no sólo tiene a su favor las mayores ventajas, sino también la estricta justicia…Cada ser humano en su relación laboral, es un eslabón indispensable, en la cadena de los efectos, que parte de una idea para culminar, tal vez, en la producción de una pieza de paño, por ejemplo. Por eso, del hecho de que nuestros gustos no sean los mismos para las distintas profesiones, no hay que deducir que el trabajo de uno deba ser retribuido mejor que el de otro. El inventor recibirá siempre, además de su justa retribución en dinero, el tributo de nuestra admiración, que sólo el genio puede obtener de nosotros…Por la naturaleza misma del trabajo y del intercambio, la estricta justicia exige que todos los que intercambian obtengan beneficios no solo mutuos, sino iguales (all exchangers should be not only mutually but they should likewise be equally benefited). No hay más que dos cosas que los seres humanos pueden cambiar entre sí, a saber: el trabajo y los productos del trabajo. Si los cambios se efectuasen según un sistema equitativo, el valor de todos los artículos se determinaría por un coste de producción completo; y valores iguales se cambiarían siempre por valores iguales (If a just sistema of exchanges were acted upon, the value all articles would be determined by the entire cost of production, and equal values should always exchange for equal values). Si, por ejemplo, un sombrerero que invierte una jornada de trabajo en hacer un sombrero y un zapatero que emplea el mismo tiempo en hacer un par de zapatos —suponiendo que la materia que ambos empleen tenga el mismo valor— y cambian estos artículos entre sí, el beneficio obtenido de este cambio es al mismo tiempo mutuo e igual. La ganancia de una de las partes no puede ser una pérdida para la otra, puesto que ambas han suministrado la misma cantidad de trabajo. Pero si el sombrerero recibiese dos pares de calzado por un sombrero, no variando las condiciones arriba supuestas, es evidente que el cambio sería injusto. El sombrerero usurparía al zapatero una jornada de trabajo. (…); y procediendo así en todos sus cambios, recibiría por el trabajo de medio año el producto de todo un año de otra persona (…). Hasta aquí hemos seguido siempre este sistema de cambio eminentemente injusto: los obreros han dado al capitalista el trabajo de todo un año a cambio del valor de medio año (the workmem have given the capitalist the labour of a whole year, in exchange for the value of only half a year). De ahí, y no de una supuesta desigualdad de las fuerzas físicas e intelectuales de los individuos [de condición asalariada], es de donde proviene la desigualdad de riquezas y de poder. La desigualdad de los intercambios, la diferencia de precios en las compras y en las ventas, no puede existir sino a condición de que los capitalistas sigan siendo capitalistas y los obreros, obreros (…) La transacción entre el trabajador y el capitalista es una verdadera farsa: en realidad no es, en miles de casos, otra cosa que un robo descarado, aunque legal. (The whole transaction between the producer and the capitalist is mere farse: it is, in fact, in thousands of instances, no other than a barefaced though legalised robbery). (John Francis Bray: Op. Cit. Pags. 45, 48, 49 y 50. Cita de Marx en “Miseria de la filosofía” Ed. Progreso-Moscú Pp. 61). Versión digitalizada Ver Pp. 26-27. El subrayado y lo entre corchetes nuestros).La consideración del objetivo y de la misión de la sociedad me autoriza a hacer la conclusión de que no sólo deben trabajar todos los hombres y de obtener de este modo la posibilidad de cambiar, sino también que valores iguales deben cambiarse por valores iguales. Además, como el beneficio de uno no debe ser una pérdida para otro, el valor se debe determinar por el gasto en la producción. Ein embargo, hemos visto que, bajo el régimen social vigente, el beneficio del capitalista y del rico, es siempre una pérdida para el obrero, que este resultado es inevitable, que bajo todas las formas de gobierno el pobre queda siempre abandonado enteramente a merced del rico, mientras subsista la desigualdad de los cambio, y que la igualdad de los cambios sólo puede ser asegurada por un régimen social que reconozca la universalidad del trabajo…La igualdad de los cambios hará gradualmente  que la riqueza pase de manos de los capitalistas actuales a manos de la clase obrera (John Francis Bray Op. cit. Pp. 53-55). <<Mientras permanezca en vigor este sistema de desigualdad en los intercambios, los productores [asalariados] seguirán siendo tan pobres, tan ignorantes, estarán tan agobiados por el trabajo como lo están actualmente...Sólo un cambio total de sistema, la introducción de la igualdad del trabajo y de los cambios, puede mejorar este estado de cosas y asegurar a los seres humanos la verdadera igualdad de derechos… A los productores les bastará hacer un esfuerzo —son ellos precisamente quienes deben hacer todos los esfuerzos para su propia salvación— y sus cadenas serán rotas para siempre. Como fin, la igualdad política es un error, y como medio también es un error (As and en, the political equality is there a failure). Con la igualdad de los cambios, el beneficio de uno no puede ser pérdida para otro: porque todo cambio no es más que una simple transferencia de trabajo y de riqueza, no exige ningún sacrificio. Por tanto, bajo un sistema social basado en la igualdad de los cambios, el productor podrá llegar a enriquecerse por medio de sus ahorros; pero su riqueza no será sino el producto acumulado de su propio trabajo. Podrá cambiar su riqueza o donarla a otros; pero si deja de trabajar no podrá seguir siendo rico durante un tiempo más o menos prolongado. Con la igualdad de los cambios, la riqueza pierde el poder actual de renovarse y de reproducirse, por decirlo así, por sí misma: no podrá llenar el vacío creado por el consumo; porque, una vez consumida, la riqueza es perdida para siempre si no es reproducida por el trabajo. Bajo el régimen de cambios iguales no podrá ya existir lo que ahora llamamos beneficios e intereses. Tanto el productor como el distribuidor recibirán igual retribución [equivalente al valor creado por su propio trabajo]. Y el valor de cada artículo creado y puesto a disposición del consumidor, será determinado por la suma total del trabajo invertido por ellos (…). El principio de la igualdad en los cambios debe, pues, conducir por su propia naturaleza, al trabajo universal>> [John Francis Bray: Op. Cit. Pp. 67, 88, 89, 94, 109 y 110. Citado por Marx en “Miseria de la Filosofía” Cap. I Apartado II. Pp. 61 Ed. Progreso. Lo entre corchetes y el subrayado nuestros]. Versión digitalizada ver: Pp. 26. [Últimos dos párrafos ver Pp. 27 y 28. El subrayado y lo entre corchetes nuestros].                                                                                                                                                                                                                   GPM.En síntesis: que según el pensamiento de Marx, Engels y John Francis Bray, el hecho de que hoy todavía subsista en el Mundo la propiedad privada de los medios de producción y el dinero bancario en poder de los empresarios industriales, comerciales y de servicios, es una realidad histórica intolerable. Porque tales condiciones no han hecho más que determinar históricamente, que los intercambios desiguales de la relación entre patronos y obreros —que han propiciado el reparto desigual de la riqueza desde los orígenes del capitalismo—, no han hecho más que agudizarse a expensas de la penuria relativa de los asalariados, que no ha dejado de aumentar y en estas estamos ahora mismo, donde se verifica que:1) El 0,6 % de la población adulta del Planeta, dispone del 39,3 % de la riqueza creada en el mundo.2) Más de una tercera parte de esa riqueza, está controlada por una super élite de apenas 29 millones de personas. Justo por debajo de ellos, una segunda división de la élite opulenta mundial representada por 344 millones de personas (el 7,5 % de la población mundial) ostenta otro 43,1 % de la riqueza total del globo terráqueo.3) Sumando ambos valores porcentuales medidos en términos de población y tenencia de riqueza, resulta que el 8,1 % de la población mundial posee el 82,4 % de la riqueza en el Planeta. 4) Si analizamos la pirámide por la parte baja de sí misma, las conclusiones son aún más desoladoras: alrededor de 3.184 millones de personas, el 69,3 % de la población mundial, con una riqueza inferior a los 10.000 dólares, acumula el 3,3 % de la riqueza del Planeta. 5) El dato es aún más preocupante al descubrir que 4.219 millones de personas, el 91,8 % de la población adulta mundial, tan sólo acumula el 17,7 % de la riqueza total. Cfr.: https://www.elblogsalmon.com/economia/una-super-elite-mueve-los-hilos-de-la-economia-mundial.6) 2015 será recordado como el primer año de la serie histórica, en el que la riqueza del 1% de la población mundial alcanzó la mitad del valor del total de activos. En otras palabras: el 1% de la población mundial, aquellos que tienen un patrimonio valorado en 760.000 dólares, poseen tanto dinero —líquido o invertido— como el 99% restante de esa población mundial. Esta enorme brecha entre privilegiados y el resto de la humanidad acorralada en la miseria, lejos de disminuir ha seguido ampliándose desde el inicio de la Gran Recesión, en 2008. Cfr.: http://economia.elpais.com/economia/2015/10/13/actualidad/1444760736_267255.html?rel=mas. Éste ha sido el resultado histórico de la todavía vigente propiedad privada de los empresarios en la sociedad civil de todo el Mundo. ¿Y qué ha sucedido con la llamada democracia representativa en las instituciones estatales? Que a la hora de gobernar, la inmensa mayoría social de los llamados “ciudadanos de a pie” —arrastrados hacia la miseria por la desigualdad de los intercambios en su relación social con sus patronos capitalistas—, tampoco pintan nada. Porque no pueden hacer más que votar en las elecciones periódicas delegando eventualmente el poder en políticos profesionales oportunistas y corruptos que se disputan el gobierno de las distintas naciones, para que en su condición de candidatos presuntamente les representen, cuando en realidad ellos se representan despóticamente a sí mismos en contubernio con sus colegas empresarios, enriqueciéndose mutuamente sin límites a expensas del trabajo ajeno.           Así las cosas, la todavía vigente propiedad privada sobre los medios materiales de producción y el dinero bancario, que inevitablemente ostentan los patronos burgueses y que, a instancias de los políticos profesionales en los distintos países ha derivado en poder político sobre la inmensa mayoría en el mundo de terceras personas dependientes de su trabajo asalariado —por tiempo determinado—, ha sido y sigue siendo el fundamento de la dictadura que la clase social burguesa ejerce sobre el proletariado bajo el capitalismo, tal como lo dejara por primera  vez negro sobre blanco F. Engels:<<Pero hoy [en 1847], cuando merced al desarrollo de la gran industria, en primer lugar se han constituido capitales y fuerzas productivas en proporciones sin precedentes, y existen medios para aumentar en breve plazo hasta el infinito estas fuerzas productivas; cuando, en segundo lugar, estas fuerzas productivas se concentran hoy en manos de un reducido número de burgueses, mientras la gran masa del pueblo se va proletarizando y empobreciendo, con la particularidad de que su situación se hace más cada vez más precaria e insoportable en la medida en que aumenta la riqueza de los burgueses; cuando en tercer lugar, estas poderosas fuerzas productivas, que se multiplican con tanta facilidad hasta rebasar el marco de la propiedad privada y del burgués, provocando continuamente las mayores conmociones del orden social, sólo ahora la supresión de la propiedad privada se ha hecho posible e incluso absolutamente necesaria>>. (F. Engels a fines de octubre y principios de noviembre de 1847 en su obra: “Principios del Comunismo” publicada por Ed. l’eina/1989. Pp. 85). Versión digitalizada ver en apartado XV último párrafo).          Por  lo tanto, si como es cierto y verdad que todo principio activo mueve a la realización de un fin, teniendo en cuenta que la finalidad del capitalismo es la acumulación de ganancia económica explotando trabajo ajeno cada vez más productivo, más allá de lo señalado por F. Engels ocurrió contradictoriamente, que la creciente productividad del trabajo asalariado sólo ha sido posible a instancias de medios materiales técnicos cada vez más eficaces sustitutos de trabajo humano —única fuerza esta última creadora de valor económico—, y dado que tales instrumentos materiales se limitan a trasladar su costo de mercado al producto, en forma de amortización por desgaste. O sea, que no generan ganancia ninguna. Así lo dejó negro sobre blanco K. Marx en sus “Líneas fundamentales de la crítica de la economía”, escrito entre 1857 y 1858:<<Tan pronto como el trabajo [humano ganancial explotado] en forma inmediata [ha ido siendo sustituido por maquinaria] dejando de ser la gran fuente de la riqueza, el tiempo de [ese] trabajo [físico e intelectual de los asalariados] deja y tiene que dejar de ser su medida y, en consecuencia, el valor de cambio [de la riqueza producida] tiene que dejar de ser la medida del valor de uso [trabajo explotado]. El plustrabajo de la masa [asalariada] ha dejado de ser condición para el desarrollo de la riqueza general [en manos de los explotadores], así como también el no-trabajo de los [relativamente pocos capitalistas todavía usufructuarios dirigentes del tinglado explotador], ha dejado de ser condición de las fuerzas generales del cerebro humano [en general]. Con ello se derrumba la producción basada sobre el valor de cambio, el proceso de producción inmediato pierde la forma de [producir miseria relativa en los explotados], y el antagonismo [entre las dos clases sociales universales desaparece]. Aquí entra entonces [a manifestarse] el desarrollo de los individuos [libres e iguales], y por lo tanto la reducción del tiempo de trabajo necesario, no para crear plustrabajo sino para reducirlo en la sociedad a un mínimo, al que corresponde entonces la función artística, etc., de los individuos gracias al tiempo devenido libre y a los instrumentos [supletorios de trabajo vivo] creados para todos>>. (K. Marx: “Líneas fundamentales de la crítica de la economía Política”. En alemán “Grundrisse”. Ed. Grijalbo. Segundo volumen: El proceso de circulación del capital. Tomo II Cap. III Pp. 91. El subrayado y los entre corchetes nuestros. Confrontar esta parte citada del texto traducido por la mencionada Editorial, con la versión digitalizada en las páginas 228 y 229).          Para decirlo en términos más sencillos: la tendencia objetiva del movimiento capitalista ha generado la combinación controvertida entre la propiedad privada y la competencia intercapitalista, teniendo en cuenta que ambos principios activos han ido en dirección inevitable hacia el automatismo científico-técnico sustituto de trabajo humano por máquinas en las distintas ramas de la producción; este es un hecho que históricamente ha venido aproximando el capitalismo hacia el fin de su existencia para siempre.          Y el caso es que hoy día, esa tendencia ya casi roza una realidad actual que no permanece a la espera de ningún futuro próximo. Porque la creciente automatización mecánica de la producción como resultado de la competencia intercapitalista, determina que la ganancia creciente de la burguesía a expensas del trabajo humano, remita con tendencia inevitable a desaparecer. Y es que la sustitución de puestos de trabajo asalariado por maquinaria, no solo se reduce hasta dejar sin sentido la ganancia capitalista explotando trabajo ajeno. Porque siembra la exclusión social profunda entre los sectores mayoritarios de la sociedad, de tal modo marginados de la producción, cada vez más más numerosos. Un fenómeno este que así, de haber sido una excepción durante las precedentes recesiones económicas mundiales periódicas, ha pasado cada vez más imperiosamente a ser una norma que disuelve la explotación de trabajo asalariado:<<Se han inventado máquinas que permiten a un asalariado producir tanto hilo como el que podrían haber producido 250, o incluso 300 hace 70 años, y a un hombre y 1 niño estampar tanto tejido como el que podrían haber estampado antes 100 hombres y 100 niños. Los 150.000 trabajadores en las fábricas de hilar “producen” tanto hilo como el que habían podido producir 40 millones con el huso de un solo hilo>> Gaskell: “Artisans and Machinery”. London, 1836 Pp. 314. Citado por Marx en: “Líneas fundamentales de la crítica de la economía política”. En alemán “Grundrisse”. Segundo volumen. Ed. Grijalbo Pp. 227. Versión digitalizada Pp. 228 y 229).          Esta realidad explica, por un lado, que la potencial productividad de la maquinaria deje sin sentido la explotación de trabajo ajeno poniendo en evidencia la creciente defraudación al fisco que practican las grandes y medianas empresas capitalistas, y que según OXFAM sea en las familias asalariadas sobre quienes recaiga el 84% de la contribución al erario público, frente al 13% que aporta el sector empresarial. Lo cual da cuenta del desigual reparto de la riqueza en el mundo con una “recaudación impositiva insuficiente, y un sistema tributario regresivo en su diseño e injusto a la hora de frenar las fugas de dinero de los capitalistas hacia paraísos fiscales”. Un proceso que más o menos se verifica a escala planetaria. Así las cosas, en el segundo trimestre de 2018 la deuda pública en España ha crecido en 2.333 millones de euros y se sitúa literalmente en un billón ciento sesenta y dos mil novecientos cuarenta y seis millones de Euros: 1.162.946.000.000€. Esta cifra supone que la deuda pública en ese país alcanzó el 98,8% del PIB [producto interior bruto], mientras que en el trimestre anterior fue de 98,3. Pero no es éste el único Estado nacional endeudado, porque puede consultarse el listado completo de los países cuya deuda se incrementa (confrontar en: Deuda Pública). Y para conocer toda la información económica de España ver en Economía de España. También en ¿Fin de ciclo? La economía española empieza a mostrar signos de agotamiento. Lo mismo sucede con la elegante clientela que frecuenta el casino de Montecarlo, multimillonarios empresariales de Saint James en Paris o Connecticut en los EE.UU. El botín que custodian para ellos los paraísos fiscales se ha cifrado en 11,54 billones de dólares, el 80% del PIB norteamericano.           El actual gobierno español en acuerdo con la formación política “Podemos”, ha decidido desde el próximo año subir el Salario Mínimo Interprofesional (SMI) hasta los 900 Euros en 14 pagas. Un incremento de más del 22% desde la cifra de 735 Euros que fue acordada para 2018. Concretamente, el “Instituto de Estudios Económicos” (IEE) ha dejado claro que esta subida, "ralentizará la creación de empleo a tiempo completo, fomentará la contratación temporal y la economía sumergida, elevando el paro estructural de los jóvenes y de los trabajadores menos cualificados":       <<Subiendo el salario mínimo no se consigue mejorar la calidad del empleo, sino simplemente mantener en el paro a muchos trabajadores que podrían encontrarlo en ausencia de dicha medida, explica dicho Instituto en un comunicado. Hasta ahora, España estaba en la segunda división europea del salario mínimo. Según los cálculos de Eurostat, que mide los salarios mínimos prorrateados en 12 pagas, el nuevo SMI español superará los 1.166 euros y nos pondría en el mismo grupo que Reino Unido, Irlanda, Francia, los Países Bajos, Alemania, Bélgica y Luxemburgo. Por primera vez, el salario mínimo de España superará al de Estados Unidos, que tiene un SMI de 7,25 dólares la hora y que, según Eurostat, supone para una jornada completa el equivalente a 1.011 euros/mes en 12 pagas. Otros países como Dinamarca, Suecia, Austria, Italia, Finlandia o Chipre no tienen sueldos mínimos fijados por ley>>. (Cfr.: https://www.elespanol.com/economia/empresas/20181011/respuestas-nuevo-salario-minimo-euros/344716322_0.html).            Otro tanto sostienen los bancos. Por ejemplo, el Banco de España:       <<El Banco estatal de España advierte de que el ritmo de creación de empleo se desacelerará en 2019 con más fuerza debido a la subida del salario mínimo anunciada por el Gobierno de Pedro Sánchez. No obstante, los efectos sobre el mercado de trabajo se verán compensados por un ligero repunte observado últimamente en la actividad, que está siendo un poco más dinámica de lo esperado, y por el impulso que proporcionan la reciente caída del precio del petróleo y un tipo de cambio del euro algo más depreciado. De tal modo que la previsión de crecimiento de la economía para 2019 se deja igual: en el 2,2%, según las últimas proyecciones del organismo publicadas este viernes.       "En comparación con las anteriores proyecciones de septiembre, la tasa de desempleo proyectada para finales de 2020, del 12,9%, es casi un punto porcentual más alta", concluye el documento elaborado por el servicio de estudios de la entidad. Y añade que la subida del salario mínimo desempeña "una contribución relevante a la hora de explicar la revisión a la baja del crecimiento del empleo".       El organismo de ese banco a cargo Pablo Hernández de Cos, sostiene que el incremento del salario mínimo anunciado afectará de forma directa a un 6,2% de los trabajadores en activo, "una proporción considerable dada la importante cuantía" de la subida, fijada en el 22,3%. "Sin embargo, según las estimaciones realizadas, el impacto de la medida sobre la remuneración de los asalariados, en su conjunto, será prácticamente nulo, ya que, en términos porcentuales, los efectos al alza sobre el salario medio se verán compensados aproximadamente por una pérdida de empleo de similar magnitud", afirma el documento. Es decir, en euros la masa salarial ganará lo mismo pero la distribución será distinta: los salarios bajos conseguirán más a costa de los que no obtendrán un trabajo.       En su comparecencia ante el Congreso a principios de noviembre, el gobernador Hernández de Cos aseguró que se dejaría de crear un 0,8% del empleo, esto es, unos 150.000 puestos de trabajo menos. "El incremento del salario mínimo en cuantías reducidas tiene poco efecto. Pero tenemos pocas experiencias de subidas altas. Ninguna de un 22%. Y este impacto limitado se derivaba de que el colectivo afectado era pequeño. Los efectos podrían incluso no ser lineales. No vayamos a lograr lo contrario de lo que pretendíamos y reduzcamos el empleo de aquellos a los que se quería ayudar, los jóvenes", declaró. La Autoridad Fiscal ha cifrado la pérdida de empleo en unos 40.000 en el primer año y unos 20.000 en el segundo. La Comisión Europea calcula unos 70.000 ocupados menos en dos años. Y el BBVA esgrime que unos 80.000 podrían perder el trabajo o ver reducido su número de horas>>. https://elpais.com/economia/2018/12/14/actualidad/1544784015_367023.html          De todo este embrollo cabe concluir que:       <<La pauperización [del proletariado] es el punto conclusivo necesario del desarrollo al cual tiende inevitablemente la acumulación capitalista, de cuyo curso no puede ser apartada por ninguna reacción sindical por poderosa que esta sea. Aquí se encuentra fijado el límite objetivo de la acción sindical. A partir de un cierto punto de la acumulación, el plusvalor disponible no resulta suficiente para proseguir la acumulación con salarios fijos. O el nivel de los salarios es deprimido por debajo del nivel anteriormente existente, o la acumulación se estanca, es decir sobreviene el derrumbe del mecanismo capitalista. De esta manera el desarrollo conduce a desplegar y agudizar las contradicciones internas entre el capital y el trabajo, a un punto tal que la solución sólo puede ser encontrada a través de la lucha entre estos dos momentos […]. El desarrollo de las fuerzas productivas del trabajo [FT], no solo se manifiesta a través de la puesta en función de una masa cada vez mayor de medios técnicos de producción [MP] en desmedro de la fuerza humana de trabajo (FT) empleada. O sea, no sólo por el relativo mayor incremento de los medios materiales técnicos de producción (MP), incorporando cada vez más innovaciones tecnológicas, sino que también lo hace por la menguante participación de la fuerza de trabajo FT en este desarrollo. Resulta decisivo, por tanto, que junto con el crecimiento de MP [medios de producción cada vez más eficaces], también sea reproducida en su totalidad  FT [valor del capital variable o salarios], es decir, que el salario real crezca en la misma medida en que aumenta la productividad del trabajo contratado. Sin embargo, en el mismo momento en que dentro de la relación capital constante/capital variable fracasa la valorización del capital total invertido en virtud de que la inversión en capital constante “cc” aumenta cada vez más que el capital variable “cv” o salario del trabajo humano empleado, porque al hacer esto impide la reproducción de la FT casi en su totalidad. Si en virtud de ello la fuerza productiva más importante, la fuerza de trabajo humana, se ve excluida de los frutos de la civilización en constante desarrollo, entonces simultáneamente se demuestra que nos acercamos cada vez más a aquella situación que fuera vislumbrada por Marx y Engels en el “Manifiesto comunista”: “La burguesía ya no es capaz de dominar, porque no es capaz de asegurar a su esclavo la existencia, ni siquiera en el marco de la esclavitud”. También este es, a su vez, el motivo por el cual los esclavos asalariados se tienen que revelar necesariamente contra el sistema de la esclavitud asalariada. […]. Puesto que si el desarrollo [técnico de la maquinaria sustituye cada vez más trabajo vivo] y tiende a la miseria del proletariado, toda lucha [sindical] por mejorar la situación de la clase obrera, se revela en última instancia como inútil […].       Precisamente por eso es que toda la investigación de Marx sobre el proceso de reproducción [capitalista], desemboca en la lucha de clases. En una carta enviada a Engels el 30 de abril de 1868, donde sintetiza el curso seguido por su pensamiento en los tomos II y III de “El Capital”, afirma que: “Finalmente, como aquellos tres réditos: salarios, renta del suelo y ganancia constituyen las fuentes de las tres clases, o sea los terratenientes, los capitalistas [industriales, comerciantes y bancarios] más los obreros asalariados, tenemos como final la lucha de clases, resolviéndose allí el movimiento y la disolución de toda esta basura”>>. (Henryk Grossmann: “La ley de la acumulación y del derrumbe del sistema capitalista”. Ed. Siglo XXI/1979 Pp. 386-388. Lo entre corchetes nuestro. No hay versión digitalizada).            Eh aquí descrita la etapa postrera y terminal del capitalismo que Marx previó entonces para un futuro, y por la que ahora mismo el sistema muestra estar pasando en todo el mundo, según lo que se ve sin lugar a dudas. Y para confirmarlo, cómo no, aquí está redivivo, faltaría más, nuestro querido y admirado Stephen Hawking, a quien nosotros hemos rendido tributo con motivo de su muerte en julio del ya pasado año:  
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paoloxl · 5 years
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Movida. E' più forte di me. Movida. Non mi so controllare. Movida. Basta poco e ci ricasco io… E' più forte di me." Così recitava una canzone del 2004 degli ATPC, gruppo rap torinese, celebrando un'epoca spensierata e piena di speranze della città, ma di cui già iniziava ad intuirsi la crisi.
Sono passati quindici anni e molta acqua del Po è passata sotto i ponti tra la Gran Madre e Corso Vittorio. Quindici anni fa in quelle acque, da metà primavera ad inizio autunno, si riflettevano le luci dei Murazzi che si riempivano di vita tra locali più o meno alternativi e sottoculture diverse che si incrociavano. I giovani torinesi appesi tra la sperimentazione della precarietà e la visione di un futuro fuori dalla fabbrica dove erano stati tumulati i padri si affollavano ad ascoltare musica, discutere e fare esperienze nuove. Oggi, dal 2012, le arcate dei Murazzi sono deserte se non per qualche presidio di resistenza che continua a tenere accesa la luce.
Nel frattempo il termine Movida ha assunto altri significati nella percezione comune. Il fenomeno della movida è diventato un pomo della discordia in una città che invecchia e si spopola, ma al contempo si riempie di giovani fuori sede con le loro esigenze. Per altri, i soliti noti, ha significato un bel po' di quattrini.
Tutto sommato si può dire che la movida è una delle fabbriche che hanno progressivamente sostituito la vocazione industriale di Torino e che hanno permesso di continuare a fare profitti ai padroni della città o a quei pochi che hanno intuito dove stava girando il vento giusto in tempo. Certo non l'unica fabbrica e non quella più redditizia, ma una tra le altre. Una industria, quella del divertimento, che impiega migliaia di giovani sottopagati e precari, ma su questo ci torneremo più avanti.
Per adesso ci concentriamo su un paio di domande centrali per comprendere cosa è successo: come si è generata questa fabbrica? Come è stato recuperato il bisogno di socialità che migliaia di giovani spaesati dal futuro esprimevano?
Per quanto la narrazione dei giornali e delle tv voglia indicare la movida come un fenomeno "fuori controllo" la verità è che specifici investimenti, piani urbanistici, facilitazioni nella vendita delle licenze, tentativi di "normalizzazione" e dispositivi di controllo e disciplinamento hanno permesso, anzi sponsorizzato, l'attecchire di questa fabbrica in contesti territoriali circoscritti e scelti ad hoc.
Il processo di una movida spontanea, dal basso si è consumato ormai molti anni fa, con il recupero delle esperienze alternative che avevano fatto gridare alla "Torino nuova Berlino", ma rispunta ogni tanto in esperienze di autorganizzazione subito represse e attaccate dai giornali come fu il caso del Botellon in Piazza Valdo Fusi.
Dunque come si è sviluppato questo processo di messa a valore della movida?
Il primo tentativo di convogliare i bisogni giovanili di aggregazione e socialità in un territorio specifico è proprio quello che ha coinvolto i Murazzi tra la fine degli anni '70 e l'inizio degli anni '80. Le arcate prima di questo progetto erano le rimesse, per lo più abbandonate, delle barche dei pescatori. L'amministrazione comunale intuisce le potenzialità di quel luogo sotto il profilo economico e di recupero delle rivendicazioni giovanili di quegli anni che volevano rompere con la visione padronale di Agnelli della città che è ben riassunta in queste sue parole: "Torino ricorda le antiche città di guarnigione, i doveri stanno prima dei diritti, il cattolicesimo conserva venature gianseniste, l’aria è fredda e la gente si sveglia presto e va a letto presto, l’antifascismo è una cosa seria, il lavoro anche e anche il profitto." Una città dove non c'era spazio per il divertimento e la socialità, ma che doveva essere impostata sul sacrificio, sulla sobrietà e sull'austerità… ma solo per gli operai, che dovevano tornare a casa presto per svegliarsi al mattino e fare il turno, mentre l'Avvocato magari faceva ancora bisboccia.
I murazzi, dunque, vengono designati come il luogo dove sperimentare un processo che tenga insieme il tentativo di recupero dei bisogni giovanili e la messa a valore di un'area della città sostanzialmente abbandonata. Gli strumenti che vengono scelti per mettere in moto questo processo sono principalmente tre: la concessione di licenze per l'apertura dei locali, la creazione di un servizio di navigazione sul fiume Po e l'istituzione di una ronda notturna di polizia operante fino all'alba.
Questi tre strumenti sembrano abbastanza elementari, ma pongono le basi per lo sviluppo di una vera e propria governance della movida. In primo luogo la concessione delle licenze come facilitazione dell'impresa capitalistica con questo genere di vocazione. In secondo luogo la predisposizione del territorio con la fornitura di nuove attrattive, di trasporti più facili, di infrastrutture e servizi (salati) per convogliare gli utenti e gestirne la permanenza. Infine la forza di polizia come strumento di controllo e disciplinamento dei comportamenti e in certi casi di vera e propria repressione.
Vedremo questi tre elementi ripresentarsi e affinarsi nelle altre zone predisposte negli anni alla movida, ma la differenza profonda è che mentre i murazzi erano tutto sommato una zona abbandonata e in disuso, in una posizione centrale della città, affianco al salotto buono, nel caso di San Salvario, del Quadrilatero e di Vanchiglia la vicenda assume nuove sfaccettature. Queste zone sono state tutte quartieri proletari ed operai dentro al centro o a pochi passi da esso, delle anomalie. Zone con delle potenzialità di rendita molto alte per le loro posizioni strategiche, ma occupate da settori popolari con un basso reddito e altre priorità. L'uso combinato della movida per mettere a valore questi territori e espellere i loro abitanti tradizionali è stata una scelta strategica delle amministrazioni che si sono susseguite e che oggi vediamo in azione anche con i 5 stelle su numeri più grandi e in maniera più cruenta a Porta Palazzo.
Molto spesso accompagnata da una campagna giornalistica martellante sul degrado e la necessità di un recupero, la riqualificazione di queste zone è stata accolta in maniera contraddittoria dalla popolazione che le abitava tra una effettiva necessità di delle migliori condizioni di esistenza e l'intravedere un'opportunità economica. Giusto per capirsi citiamo un pezzo di Repubblica del 2017 che celebra i vent'anni della riqualificazione al quadrilatero con queste parole: "Oggi e domani si celebrano i vent’anni di quella intuizione che cambiò pelle non solo ad un angolo di Torino, rifugio per prostitute e tossici, ma diede una patina nuova alla città. Lo slogan dei festeggiamenti è “Come è bello avere vent’anni”. "Un esempio di collaborazione pubblico-privata - dice il presidente di Confesercenti Giancarlo Banchieri - vent’anni dopo possiamo dire che quella scommessa è stata vinta e che il Quadrilatero costituisce un esempio di movida sostenibile e di buone pratiche che, con gli opportuni adeguamenti, potrebbero essere applicate in altre zone".
Al quadrilatero il rilancio iniziò con la cessione di 40 licenze gratuite per aprire locali, una vera e propria liberalizzazione ante-litteram. Oggi le strade del quartiere sono per lo più deserte durante il giorno e spesso anche nelle serate intra-settimanali per poi vedere qualche passaggio in più nel weekend, ma con una affluenza che neanche lontanamente ricorda i bei tempi. Il quartiere è stato spopolato e valorizzato, ma la valorizzazione in questo gioco non dura mai in eterno e la movida cambia gusti e mode, sceglie altre zone, abbandona quelle precedenti lasciando spesso simulacri vuoti e ristoranti e locali oziosi. Questo genere di messa a valore è vorace e consuma in breve tempo i territori lasciando ben poco dopo il suo passaggio. Persino i valori delle case che in un primo momento salgono vertiginosamente, consigliando ai residenti di spostarsi altrove per affittare le vecchie abitazioni, successivamente crollano a causa degli effetti non graditi della fabbrica divertimento: il rumore, il traffico, la percezione di insicurezza ecc… ecc… come ad esempio si può notare a San Salvario dove i cartelli affittasi e vendesi affollano i portoni di molti palazzi, via via scolorendosi.
Man mano che la movida viene sperimentata e si fa sistema le esperienze di questo tipo aumentano e gli strumenti si raffinano. Vanchiglia in questo senso è paradigmatica: la mutazione del quartiere è stata pensata dall'inizio alla fine. Qui la potenzialità è quella di avere una zona sostanzialmente vergine a pochi passi dalla sede universitaria di Palazzo Nuovo: il quartiere è una vera e propria zona di confine tra il centro e zone più residenziali. Oltre a ciò è un luogo con un suo fascino per le storie che qui sono nate e i personaggi che hanno percorso le sue strade. Dunque è il luogo perfetto per dar vita a un Campus urbano in maniera da, in un colpo solo, mettere a valore il territorio e il consumo degli studenti universitari che in Vanchiglia passano ormai la gran parte del loro tempo. La trasformazione è impressionante: in pochi mesi dalla nascita del Campus Luigi Einaudi bar storici, piccole botteghe, negozietti lasciano il posto a locali pettinati, ristoranti, atelier artistici con qualche presidio di resistenza che dà un tocco di autenticità alla situazione.
Le licenze anche qui vengono quasi regalate e la promozione del quartiere passa anche attraverso una serie di feste in strada ed eventi. Vanchiglia nel giro di pochissimi anni cambia completamente volto.
Il processo parte molto prima però, già nel 2002 si parla di trasformare l'ex Italgas in corso Regina Margherita in una residenza universitaria. Questa area sarebbe stata riqualificata per utilizzarla come villaggio olimpico per ospitare una parte dei giornalisti nel 2006 e poi sarebbe diventata un collegio universitario all'interno del futuro campus. La residenza ancora non è stata costruita, ma nel frattempo atterra nella zona l'astronave Campus che viene inaugurata nel 2012. Nell'estate del 2015 poi sono partiti i bandi per trasformare l'area degli ex gasometri (simbolo del quartiere) nel collegio che sarebbe costruito e gestito in una combinazione pubblico-privato e che dovrebbe ospitare 500 studenti. Come leggiamo in un altro articolo di Repubblica: "L'area dei gazometri diventerà residenza e avrà anche una parte di servizi per gli studenti, come palestre e aree di ristoro. Ma non è previsto in questa trasformazione l'inserimento di centri commerciali. In Comune spiegano che le piastre commerciali verranno comunque realizzate a poca distanza: nel medio periodo dovrebbe infatti partire la ristrutturazione dello scalo Vanchiglia, parte della variante urbanistica 200, legata alla nuova linea 2 della metropolitana." Dunque un'ulteriore riqualificazione di una parte di territorio che si dovrebbe combinare con un'altra zona destinata alla movida come leggiamo ancora nello stesso articolo:
"Quando il progetto di intervento sull'area Italigas sarà completato, la vocazione universitaria dovrebbe trasformare tutta la zona oltre la Dora in una nuova meta per la movida torinese. Un fenomeno che è già in parte iniziato dopo l'entrata in funzione del Centro Einaudi. L'obiettivo è di distribuire sulla carta geografica della città una decina di nuove residenze universitarie in grado di trasformare gli atenei torinesi in un vero e proprio motore di sviluppo economico." Chiara la dinamica, no?
Ma di chi sono le responsabilità di queste scelte?
Sicuramente, come abbiamo visto è determinante il ruolo dell'amministrazione pubblica, ma non solo. A giocare un ruolo centrale sono le banche come Intesa San Paolo, vere e proprie registe della trasformazione urbana e della valorizzazione, i consorzi di commercianti e imprenditori e nel caso di Vanchiglia, naturalmente, l'università.
La movida come fabbrica e i suoi lavoratori
Il quartiere Vanchiglia incrocia qualche parallela e qualche perpendicolare delimitata da fiumi e da grandi corsi urbani che, facendo da collante tra alcuni poli universitari, ha subito nel tempo una profonda trasformazione, caratterizzandosi come una costellazione di bar, locali, ristoranti, air bnb. Il pullulare di formule attrattive per uno specifico target di soggetti ha determinato le modalità di vivere il quartiere e le relazioni al suo interno secondo precise direttrici. Il consumo, non solo in termini di cosa si compra ma anche in termini di tempi e di spazi, è la forma principale di sfruttamento, da un lato del territorio stesso e dall’altro di coloro che lo vivono. I giovani studenti e studentesse, i giovani e le giovani lavoratrici, che frequentano questo luogo non solo vi consumano, ma vengono consumati nel momento stesso in cui il loro lavoro, condizione sine qua non per poter sopravvivere tra affitti, tasse universitarie, libri, socialità, fa gola al profitto di molti. A titolo di esempio, qualche mese fa fu reso noto il caso di un locale, il Bouyabes, in cui il cuoco non veniva pagato per ciò che gli spettava. Durante alcune serate un gruppo di solidali si è riunito per occupare lo spazio antistante il locale per denunciarne la situazione di sfruttamento. Sicuramente non è questo l’unico caso.
In un contesto di sovraffollamento di locali che hanno un’offerta sostanzialmente simile e una domanda che rientra in un target specifico chi ci vuole guadagnare deve pur tirare la coperta, che già è abbastanza corta. Come ottenere profitto dunque in un contesto in cui la concorrenza è spietata e la richiesta rimane molto alta? Soprassedendo sulle condizioni dei lavoratori e delle lavoratrici. Facendo qualche chiacchiera durante l’iniziativa in solidarietà al cuoco del Bouyabes, sentendo i racconti dei compagni di corso o di colleghi di lavoro (perché di lavori se ne hanno almeno due o tre), diventa immediato notare come le esperienze simili si moltiplicano : contratti in nero, mal pagati, orari inumani, straordinari non pagati, flessibilità obbligata e, non da ultimi, maltrattamenti, molestie, obbligo di ringraziare perchè si occupa un posto di lavoro. Le condizioni di vivibilità e accettabilità diventano clausola non scritta nei contratti, quando ci sono, portando con sé il peso della ricattabilità e dell’impossibilità di rifiuto. Al contempo, quando si ha la fortuna di trovare un posto in cui si possa lavorare in un contesto sereno e “sicuro” non si ha la garanzia che possa durare per un tempo utile.
Insomma, una catena di profitti che per non incepparsi utilizza il tempo, i corpi, la disponibilità e l’impossibilità di scelta di tutti e tutte coloro che hanno bisogno di lavorare per poter vivere, facendo leva su un tessuto sociale logorato e disgregato che si tiene insieme sulle dinamiche di consumo, di sfruttamento e di precarietà.
Territorio, utenti e socialità asservita al consumo
Qual’è la trasformazione territoriale provocata dalla dimensione della movida? Su che territorio impianta la sua estrazione di valore?
Al di là della composizione assai variegata, di persone che vivono questo fenomeno di socialità del consumo, un ruolo importante lo gioca il territorio su cui si impianta questo tipo di fenomeno, inteso come rapporto fra elementi architettonici e spaziali e relazioni sociali preesistenti. Il Quartiere di Vanchiglia è un quadrante cittadino ed un quartiere tutto sommato limitato come dimensioni, caratterizzato dalle classiche vie perpendicolari alla torinese, condomini di metà - fine 800, non molto alti, anch’essi caratterizzati dal torinesissimmo sistema a ballatoi su cui poi si sviluppano gli appartamenti. Il quartiere ospita un mercato in piazza Santa Giulia che insieme a Largo Montebello rappresentano i due maggiori spazi aperti del quartiere. Fino a qualche anno fa, all'incirca fino al 2010-2012, la composizione sociale del quartiere era popolare tipica dei quartieri adiacenti il centro cittadino. Semplificando, si può definire di ceto medio-basso e proletaria, con però la quasi assenza in termini numerici significativi di quello che classicamente può essere ascritta alla parte più bassa del proletariato metropolitano spesso ai confini del sottoproletariato. La mancanza di agglomerati significativi di case popolari in Vanchiglia è abbastanza emblematica in questo senso.
È sempre stata presente una componente di studenti fuori sede abbastanza numerosa ma minore rispetto a quella attuale. Anche se questa è sicuramente un’analisi superficiale, serve a capire quali sono stati i cambiamenti negli ultimi 8 anni.
La costruzione del Campus Luigi Einaudi e il masterplan che lo ha accompagnato hanno cambiato le carte i tavola. È aumentata la presenza di studenti agevolata dai prezzi inizialmente bassi degli affitti, aumentati a dismisura negli ultimi due anni, questo meccanismo è stato frutto di un disegno preordinato da Intesa San Paolo, Comune e dinamiche immobiliari private, fra cui quella di numerosi piccoli e medi allocatori che hanno sfruttato l’onda di profitti crescenti.
Questo meccanismo ha scatenato un progressivo aumento della popolazione di studenti, e mescolato alla liberalizzazione delle licenze per l’apertura dei locali ha innescato, insieme ai fattori trattati sopra, uno stravolgimento delle attività commerciali del quartiere e dello spazio comune. L’estensione dei parcheggi a pagamento e un certo intervento sull’arredo urbano hanno facilitato questo meccanismo. All’oggi però va specificato come questo sia ancora un processo in divenire e lungi dall’essere compiuto, e vive ancora molte contraddizioni e stratificazioni sociali fra chi abita il quartiere. Non va dimenticata infatti l’alta percentuale di mono-proprietari che storicamente abitano in zona e che non hanno materialmente la possibilità o la volontà di cambiare casa.
Tutto sommato, si riscontra una presenza di attivismo di quartiere e attenzione alla vivibilità abbastanza sostanziale e capace di interagire con queste dinamiche, non soltanto in funzione delle periodiche attenzioni mediatiche. Il problema della crescita della frequentazione notturna del vanchigliese ha creato una massa di utenti della movida che non interagiscono in maniera organica con il tessuto sociale del territorio e di fatto ne logorano gli equilibri. Una specifica va fatta per i giovani, studenti e non, che vivono entrambi i lati della vita del quartiere.
Il fatto che non ci sia in generale interazione fra la dimensione di utenza della movida e la vita sociale del quartiere, esasperano quelle dinamiche di isolamento sociale e individualismo che già di per sé caratterizzano i rapporti sociali di questa società.
La socialità notturna inasprisce la dinamica di delega al consumo dell’interazione sociale, creando solitudine e rapporti umani tendenzialmente deboli poiché mediati dalla possibilità di avere del denaro o delle capacità da consumare per ottenerli.
Tutto ciò avviene a fronte di un bisogno umano inestinguibile e irriducibile di socializzare, che soprattutto nei giovani rappresenta di per sé una possibilità di alterità e di antagonismo al sistema capitalista. Il rifiuto di estinguere i propri rapporti alla dimensione produttiva e lavorativa (che sia lavoro salariato o studio), è un terreno di contesa e di possibilità per il capitale collettivo nella sua spinta a rendere totale la messa a profitto di ogni aspetto della vita delle persone. Proprio l’origine di questi comportamenti rappresenta un’ambivalenza, che potenzialmente può cambiare di segno.
Ritmi produttivi alti, affitti esosi e accesso sempre più difficile ai consumi, portano ad una socialità (che spesso viene definita come tipica della movida), che viene percepita da chi la vive come dovuta e nel concentrare migliaia di ragazzi e ragazze insieme, è difficilmente governabile solo attraverso l’uso delle forze dell’ordine (i fatti di Piazza Santa Giulia del 2016 lo simboleggiano abbastanza chiaramente), ma necessita di meccanismi di cooptazione molto più raffinati che non sempre sono possibili nei piani di ristrutturazione cittadini.
Nota sull'impatto territoriale dello spaccio
Una breve nota va fatta sul cosiddetto spaccio, che rappresenta una delle tante sfaccettature del meccanismo di messa a profitto che abbiamo provato a descrivere poco sopra. La prima importante differenza è la particolarità e varietà di prodotto che viene commerciato, sembrerà banale ma questa crea dinamiche uniche nel loro genere. È difficile qui affrontare la tematica del consumo di “droghe” e delle sue ambivalenze e contraddizioni e ci soffermeremo brevemente invece sull’impatto territoriale e sociale che questo tipo di narco-industria genera in questo particolare angolo della nostra città.
Premettiamo necessariamente che rifiutiamo qualsiasi interpretazione semplicistica e moralista del problema dei consumi, sia in senso proibizionista che antiproibizionista, e che siamo abbastanza coscienti dei danni provocati da questo tipo di approcci nel corso dei decenni passati.
In Vanchiglia, lo spaccio è cresciuto insieme alle dinamiche speculative immobiliari e di modificazione del territorio dall’alto. Lo spaccio è sempre stato presente in quartiere sia nei fasti della motorcity che nella sua fase di decadenza degli anni 80 e 90; tanto sull’uso padronale dell’eroina è stato scritto, detto e documentato, ma all’oggi crediamo di trovarci davanti ad un fenomeno per certi versi differente.
Il volume di spaccio è cresciuto gradualmente a partire dal 2012, è ha coinvolto principalmente piazza Santa Giulia e le vie adiacenti, inizialmente preponderante era la vendita di erba, hashish, cocaina; ora si estende a crack e ed eroina. Inutile negare che fra la grande presenza di giovani e l’aumento di spaccio ci sia una correlazione, ma non è la sola. Infatti le dinamiche di fornitura e lotta per l’egemonia nel controllo delle “piazze” spaccio in città fra le “mafie” della droga al dettaglio, come quella nigeriana, ne hanno favorito l’organizzazione e la crescita. Negli ultimi anni si sono visti progressivamente diminuire i piccoli spacciatori “indipendenti”, e sono aumentati i veri e propri salariati dello spaccio.
Se il grosso traffico è gestito dalle ‘ndrine calabresi, la gerarchia di quest’industria si diversifica ai vari livelli, ed è ingenuo pensare che con essi non interagiscano in vario modo le istituzioni cittadine, compresa la Questura. L’intensificarsi di retate ad uso e consumo giornalistico di questi mesi, la dice abbastanza lunga.
Il grosso impatto sul territorio di questo odioso raket, va ben aldilà delle percezioni di insicurezza di madamine e ultras del decoro urbano, e ha effetto concreto sulla vita sociale del quartiere. La tendenza di chi pratica questi affari è quella di controllare il territorio per poter massimizzare i profitti e l’irrompere nella scena di crack ed eroina peggiora la situazione. Questo aspetto, al di là delle narrazioni dei media, è abbastanza in marginale e in nuce, ma non è detto che rimanga sempre così. Ovviamente la percezione del fenomeno varia da il tipo di composizione che abita il quartiere e ci sembra che venga percepito da chi vive il solo aspetto della movida, perlopiù come un servizio clienti.
Come in altre situazioni analoghe lo spaccio si lega alla dimensione della movida e assume un carattere predatorio, gli esempi di San Salvario a Torino o di San Lorenzo a Roma sono abbastanza simili, anche se in Vanchiglia non sono dinamiche consolidate.
Questa vera e propria industria viene usata dalle istituzioni per aumentare il controllo poliziesco e disciplinare quegli aspetti della socialità che rappresentano un anomalia o che banalmente mostrano un’indisponibilità a piegarsi al solo consumo. Non vengono colpiti i fornitori di materia prima che spesso sono collusi con le forze dell’ordine e parti dello Stato, ma vengono colpiti occasionalmente i reparti bassi della forza lavoro impiegata, per poi stringere il controllo su di un territorio storicamente riottoso al sopportare una manifesta militarizzazione.
In questo senso l’industria dello spaccio aiuta il meccanismo di trasformazione del territorio ed è parte integrante dei piani istituzionali, anche se da essi venduto come effetto collaterale da controllare. Al saldo finale fa parte di un meccanismo di disciplinamento dei giovani che attraversano la socialità notturna, fa il gioco di palazzinari e banche. Inoltre il fatto che gran parte dei lavoratori impiegati nella vendita al dettaglio siano di origine africana o nord africana, aiuta a costruire retoriche razziste capaci di aumentare la coltre di fumo che occulta i veri responsabili e chi trae profitto dalla movida.
Vivendo il quartiere tutti i giorni crediamo, e da sempre ci siamo battuti per questo, che vada eliminata la presenza di spacciatori dagli spazi autogestiti, e nelle nostre possibilità anche dal quartiere dialogando e interagendo con chi in zona riconosce il pericolo di un attacco alle proprie condizioni di vita materiali, fuori da retoriche razziste e fasciste e al contempo battendoci contro la militarizzazione del quartiere anche a costo di denunce e arresti, perché crediamo che palazzinari e imprenditori della droga abbiano molto più in comune di quanto di solito non si pensi.
Ipotesi per orientarsi
Se, come crediamo, il punto di vista dal quale guardare al “fenomeno della movida” sia evidenziarne le dinamiche da fabbrica predatoria, diffusa su un territorio e che coinvolge numerosi soggetti, è fondamentale capire come lottare in questo campo. Certo è che il processo di trasformazione di Vanchiglia è ormai avviato ma questo non significa che dovremmo accettarne le conseguenze o apprestarci a raccogliere i cocci quando la tempesta sarà passata lasciando il quartiere che viviamo spolpato fino all’osso. Combattere in una fabbrica sociale come quella della movida vuol dire necessariamente frapporsi con la tendenza alla mercificazione della socialità e del territorio, vuol dire richiedere più diritti sul lavoro, consapevoli di non essere singoli dipendenti di un locale, ma parte di una forza lavoro che complessivamente produce su un territorio determinato, vuol dire trovare delle alleanze tra chi subisce gli effetti di questo processo facendo delle specifiche ricadute una forza comune da ribaltare verso l’alto, vuol dire mettere in discussione la valorizzazione come unica possibilità di trovare spazio in un’ottica meramente individualistica.
Significa cercare una prospettiva comune tanto tra gli abitanti del quartiere che affrontano l'invasività e il peggioramento delle condizioni di vita, quanto tra i giovani che si consumano consumando, al fine di rifiutare l’espropriazione di risorse, di ricchezza, di tempo che implica un costo sociale troppo alto per la socializzazione oggi.
Non si tratta tanto, né semplicemente di chiedere una regolamentazione della movida, quanto di pretendere che il quartiere e le forme di relazione che in esso si riproducono non siano un’impresa di profitti per pochi che rapina tutti gli altri. Oggi questo può avvenire solo individuando chiaramente chi sono i responsabili della situazione e chi ci guadagna a discapito di tutti gli altri.
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