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#Sulla Rotta dei Venti
djtubet · 6 months
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North East Ska Jazz Orchestra feat Dj Tubet - Piazza della Libertà
Il 15 Marzo è uscito il nuovo album della North East Ska Jazz Orchestra intitolato Sulla Rotta dei Venti in occasione i suoi dieci anni di storia.
L' album contiene 10 canzoni originali costruite attorno ad una ritmica di forte matrice giamaicana, con melodie contaminate da musiche tradizionali, talvolta etniche, ed elementi pop.
Sono onorato di essere presente in apertura del disco con un parlato in stile Dub Poetry in lingua friulana all'interno del brano "Piazza della Libertà".
Il testo è una fotografia dei movimenti migratori attuali, che hanno come sfondo Trieste, con le loro rotte e i loro approdi.
Testo originale di "Piazza della Libertà"
Dulà ise l'empatie par cui cal è in dificoltât
tes stradis di Triest che e businin vitalitât
indiference cûrs di piere
rote balcaniche penze nere
Dulà ise l'empatie par cui cal è in dificoltât
tes stradis di Triest che e businin d'Istât
indiference cûrs di piere
agonie balcaniche penze nere!
Traduzione italiana di "Piazza della Libertà"
Dov'è l'empatia per chi è in difficoltà
nelle strade di Trieste che gridano vitalità
indifferenza cuori di pietra
rotta balcanica densa nera
Dov'è l'empatia per chi è in difficoltà
nelle strade di Trieste che confabulano d'Estate
indifferenza cuori di pietra
agonia balcanica densa nera!
Credits
Musica: Max Ravanello / Testo: Dj Tubet Solo: Paolo Forte (fisarmonica) Voce: Dj Tubet
Batteria: Alan Liberale - Percussioni: Thierry Bragagna - Basso: Eugenio Dreas - Chitarra: Filippo Ieraci - Tastiera: Stilian Penev - Fisarmonica: Paolo Forte - Violino: Lucy Passante - Ottavino: Stefano Fornasaro - Sax: Clarissa Durizzotto (a), Giovanni Masiero (t), Giorgio Giacobbi (t), Jurica Prodan (b) - Trombe: Flavio Zanuttini, Gabriele Marcon, Francesco Ivone - Tromboni: Max Ravanello, Mirko Cisilino, Marco Kappel
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poesias-things · 3 months
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Il corpo che si invecchia l’emiciclo
lascia solchi nella carne e nel cuore
venti e canti, nel corpo il maestrale.
Sulla terra ancor vagiti nuove vite
a dar manforte allo spazio navigato,
tu che implori fino all’alba, ma sul
letto della sposa ci saranno
fiori e rose.
Solitudine artefice del tempo,
siamo ad attendere fantasmi,
fantasie di lunghi abbracci,
improbabili ritocchi.
Impietose luci all’alba sulla rotta
dei misteri, ora che vibra la mia attesa l’anima assapora la delizia
che già langue e d’intorno fughe
e attese e l’incanto che rimane.
D’improvviso puntualmente la
giornata volge al bello, quanta
smania negli anfratti e il solco
del domani s’allontana dolcemente.
Giuseppe Buro
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seiarteincompresa · 1 year
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Quattro mura.
Un tubo lungo un metro infilato nel naso.
Lo stomaco che brontola per la fame, la testa che gira per la mancanza di cibo.
Come all'età di diciannove anni io sia finita qui, ancora non sono riuscita a capirlo del tutto.
Eppure mi ero ripromessa che la scorsa sarebbe stata l'ultima volta, che non sarei più ritornata in posti del genere, che non sarei più caduta così in basso.
Giornate che scorrono scandite da orari ben precisi, da regole da rispettare, da persone che decidono quello che puoi o non puoi fare.
Persone che diventano dei burattini.
Divisione tra bravi e cattivi, tra giusto e sbagliato.
Giornate passate a contare i giorni che ti mancano per uscire, per raggiungere la tua tanto agognata libertà, sperando che questa volta sia davvero quella buona.
Mani che fungono da calendario, costellate da dolorose bruciature di sigaretta che segnano la fine di un altro noiosissimo giorno.
Alzati, prendi le medicine, mangia, prendi le medicine, mangia, "per scendere a pranzo la stacchi la sacca?", "hai mangiato troppo poco, devi integrare", "è pronta la tisana", "oggi giro medici".
Pianti, urla, silenzio.
Silenzio, rumore di ante che sbattono, di persone che bisbigliano tra di loro, di pugni tirati contro i muri.
Giornate passate in una camera grande venti metri quadri che hai dovuto far diventare il centro del tuo intero mondo, il posto in cui dovrai trascorrere un numero indefinito di giorni.
Ti senti rotta, spezzata.
Senti che dentro di te c'è qualcosa che non va, qualcosa che continua a farti sentire sbagliata.
Vuoto.
Un grandissimo e gigantesco buco nero pronto a risucchiarti, a portarsi di nuovo via i colori, le emozioni, fino a renderti apatica.
Fino a renderti uno stupido omino che obbedisce ai comandi senza nemmeno fiatare.
"Non mangiare, non hai bisogno del cibo, tu sei più forte"-voci che si sovrappongono, pensieri contrastanti che fanno a botte tra di loro per vedere chi sarà il primo ad arrendersi.
Chi vincerà?
Ancora non lo sai.
Ma questa non è una guerra ad armi pari e sei consapevole che quella che sta perdendo sei proprio tu.
Hai perso amici, momenti, occasioni, pranzi fuori, cene dei cento giorni.
Vedi storie di persone che ridono e costruiscono sulla spiaggia castelli di sabbia, mentre tu sei rinchiusa in mezzo a pavimenti che odorano di candeggina e letti impregnati di lacrime e dolore di tutti quelli che ci hanno dormito prima di te.
Ore passate ad aspettare che ti permettano di uscire per prendere almeno una boccata d'aria, per permettere ai deboli raggi del sole di raggiungere la tua pelle pallida e scaldarla almeno un po', sperando che questo riesca a contrastare almeno in parte il freddo gelido che ti senti dentro.
Centinaia di sigarette fumate, decine di mozziconi che giacciono abbandonati per terra e che riempiono la strada come le foglie in autunno.
Nicotina come rimedio per la fame, per fare in modo che passi, che i crampi di dolore che ci facevano camminare piegate in due ci dessero un momento di tregua.
Caffè lunghi rigorosamente amari, bevuti con una lentezza infinita in modo da sentirsi più sazi, decine e decine di litri d'acqua buttati giù per cercare di ingannare i bisogni primitivi del nostro corpo.
Chilometri macinati di nascosto nel buio della tua camera.
Sdraiata sul letto vedi le tue cosce enormi, la pancia che ti sembra stia per esplodere, la voce che non fa altro che urlarti addosso che sei un fallimento.
“Non dovevi mangiarlo, sei solo una grassona.”
“Ora è troppo tardi, hai rovinato tutto.”
“Non potrai più essere perfetta.”
Fiumi di lacrime scorrono dai tuoi occhi, elastici ai polsi usati come armi per punirsi.
La tua mente ti tiene in trappola, il corpo non risponde più ai tuoi comandi.
Il mondo esterno che bussa alla tua porta anche se tu non sei pronta ad aprirli.
Porte che avresti dovuto chiudere e invece tieni aperte e di tanto in tanto guardi ancora cosa succede dallo spioncino.
La malattia diventata ben presto una gabbia d'oro che pian piano sta iniziando a soffocarti.
Una prigione da cui ti sembra impossibile evadere.
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carmenvicinanza · 1 year
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Odilia Romero
https://www.unadonnalgiorno.it/odilia-romero/
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Odilia Romero è un’attivista zapoteca impegnata a rendere visibili le sfide affrontate dalle popolazioni indigene negli Stati Uniti.
È stata la prima donna a coordinare il Fronte Indigeno delle Organizzazioni Binazionali (FIOB), che lavora per difendere e promuovere l’identità e i diritti delle popolazioni native.
I suo lavori sono stati pubblicati su importanti riviste come il Los Angeles Times, il New York Times, Vogue e Democracy Now.
Nata a San Bartolomé Zoogocho, in Messico, nel maggio 1971, aveva dieci anni quando ha raggiunto i genitori emigrati negli Stati Uniti, dopo aver subito un abuso sessuale da parte di un parente. Si è trovata, così piccola, a dover affrontare il difficile viaggio attraverso la rotta che utilizzano i migranti per arrivare nel paese. A scuola aveva trovato notevoli difficoltà, rimanendo indietro coi programmi, perché non parlava nessuna delle due lingue coloniali, l’inglese e lo spagnolo, così come tanta gente che viveva nel suo quartiere e che, per questo, veniva emarginata e discriminata. Dopo l’uccisione, da parte della polizia, di un uomo che non aveva alzato le mani perché non comprendeva ciò che gli era stato intimato, ha iniziato a impegnarsi per aiutare le persone indigene immigrate a comprendere i termini legali e poter garantire loro giustizia.
Organizza laboratori di formazione per contrastare le deportazioni e le violazioni dei diritti umani dovute alla mancanza di interpreti e traduttori negli ospedali, nelle stazioni di polizia e nei tribunali dell’immigrazione negli Stati Uniti.
La sua esperienza le è valsa numerose pubblicazioni accademiche e conferenze in diverse università degli Stati Uniti.
Nel 2016 ha fondato, insieme a sua figlia, Janet Martinez, CIELO Comunidades Indígenas en el Liderazgo, organizzazione no profit che conta attualmente oltre 300 traduttori e traduttrici, che si batte per migliorare le politiche educative necessarie per agevolare la convivenza tra diversità, sviluppare la leadership femminile,  colmare il divario finanziario e per la giustizia linguistica.
L’organizzazione intergenerazionale guidata da donne indigene, combatte il razzismo nei confronti delle popolazioni native portando visibilità e risorse. Crea soluzioni sostanziali alle sfide sociali ed economiche lavorando sulla rivitalizzazione linguistica, creando nuovi spazi di coinvolgimento per le nuove generazioni. Ha organizzato la prima conferenza di letteratura indigena a Los Angeles.
Una stima del 2018 misurava circa venti milioni di persone immigrate dai paesi del Sud e Centro America, tra cui numerosi gruppi provenienti da comunità precolombiane, le cui culture tendono a essere cancellate e raggruppate insieme da pregiudizi e discriminazioni. Con l’insorgere della pandemia da COVID-19, hanno affrontato la difficoltà di comunicazione nel globale disastro sanitario ed economico, trasmettendo messaggi video e audio esplicativi nelle varie lingue, perché c’è una grande maggioranza che non ha avuto accesso alla scuola primaria e non è capace di leggere e comprendere le lingue ufficiali.
Hanno fornito un supporto capillare alle persone senza documenti che avevano perso il lavoro e che avevano enormi difficoltà di accesso ai soccorsi e creato un fondo di solidarietà che è riuscito a raccogliere oltre due milioni di dollari.
Ha redatto una mappatura delle minoranze linguistiche indigene, consultabile al Los Angeles County Museum of Art e creato la National Indigenous Interpreters Conference, unica in tutti gli Stati Uniti a offrire uno spazio per la conservazione della lingua indigena.
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enkeynetwork · 2 years
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mediterraneosud · 3 years
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Nel tempo e nello spazio hai attraversato verdi valli dove scorreva latte e miele.....hai attraversato burroni ripidi e scoscesi dove hai messo a dura prova le tue fibre muscolari. 
Hai navigato su Mari placidi con il favore dei venti....
Nel tempo e nello spazio hai incontrato sul tuo cammino caverne buie Hai incontrato cattedrali di Luce....dove il Sole Splendeva e non c'erano zone d ombre di ragnatele....E ora sei ancora qui.....non più con i occhi spenti non più con la voce rotta dal pianto....ma con occhi rilucenti...e  con il sorriso sulla tua bocca.....ma chi ti conosce sa come è pesante il tuo cuore
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vefa321 · 4 years
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Una domenica dal sapore straniero...
Si chiama vento del deserto ha l'aridità delle dune, la sinuosità del movimento. Parla la lingua dei tuareg, degli uomini blu.
È storia e geografia, un viaggio tra i continenti, una porta lasciata aperta in un posto lontano.
È un messaggio in una bottiglia rotta sballottata  come una rosa dei venti.
È un uccello che si è perso a migrare in contro vento.
Lo scirocco è uno scrittore senza penna e calamaio, disegna con la polvere I segni della storia, cancella sulla spiaggia della vita, gli amori in brutta copia, lascia ombre sulle cose come un velo di nostalgia.
È forse un pittore che non usa troppi colori, solo quelli della terra dall'ocra al terra di Siena.
È anche un giardiniere che semina il vento, spargendo i pollini sul mondo come un vestito di lino stropicciato.
Ma il vento non sa delle frontiere, dei divieti, delle barriere, è ribelle, spavaldo e sempre giovane, irruente come un adolescente che sbraita la sua voglia di libertà.
Il vento caldo che porta con la sabbia che conta lo scorrere del tempo.
Che veste l'alba di rosso come spoglia i tramonti, scompiglia i pensieri come spettina il cielo, prende gli attimi e gli rende sfuggenti...
@vefa321
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uds · 5 years
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ho finito di leggere il libro del professor alessandro barbero su waterloo.
non sono mai stato un appassionato di battaglie e guerre (anzi, a dire il vero credo di aver visto al massimo un paio di film di guerra in vita mia), per cui fino a un paio di settimane fa non avevo idea di come si svolgesse una battaglia napoleonica. ecco cosa ho imparato. nel caso siate esperti dell'argomento, perdonatemi la sintesi e gli errori.
queste sono le componenti umane principali di una battaglia napoleonica: c'è la fanteria pesante, che avanza compatta in campo aperto, divisa in battaglioni; quando è sotto attacco si compatta a formare un quadrato, in modo da fronteggiare il nemico da ogni lato. c'è la fanteria leggera, che la precede in ordine sparso, avanzando più nascosta che può, composta da tiratori scelti. c'è la cavalleria, che carica i battaglioni con sciabole e carabine corte. e c'è l'artiglieria, che tira cannonate e granate.
lo scopo codificato della battaglia è logorare e provocare talmente tanti danni ai battaglioni avversari da mandarli in rotta. ci sono manuali su manuali di manovre da fare, ordini, istruzioni da imparare.
per cui se uno è un fante di quelli in battaglione compatto, e il suo battaglione compatto viene impiegato:
-se avanza e si trova davanti il battaglione compatto nemico, rischia di morire per il fuoco dei nemici;
-se avanza e si trova sulla linea dei tiratori nascosti nemici, rischia di morire per colpa di un cecchino mimetizzato in mezzo al grano;
-se avanza e le cannonate nemiche partono, rischia di morire preso in pieno dall'artiglieria (ripeto, l'avanzata è in campo aperto, per cui le cannonate rimbalzano un po' ovunque senza ostacoli);
-se c'è una carica della cavalleria e il quadrato non si forma in tempo, rischia di morire a sciabolate. se si forma in tempo rischia comunque di morire per un colpo di carabina;
-se il battaglione va in rotta, sciabolate della cavalleria che insegue i fuggiaschi;
-se la gente muore attorno a lui deve coprire i buchi lasciati dai morti, il che significa battaglione meno numeroso e meno capace di difendersi, aumentando tutti i rischi di cui sopra;
-se a uno esplodono i nervi e prova a indietreggiare o scappare, gli ufficiali a cavallo a colpi di lato piatto della sciabola lo rimandano dentro il battaglione, a continuare a rischiare quanto sopra;
-se uno è un ufficiale di questi battaglioni è a cavallo, quindi non protetto, e questo fa di lui il bersaglio più facile da abbattere. più ufficiali sono colpiti meno gente c'è a dare ordini, più facile è che vada tutto a puttane;
-se c'è parecchio casino gli incidenti da fuoco amico (specie in caso di alleanze in cui eserciti diversi e nemici hanno divise simili) sono normalissimi.
il tutto senza considerare le condizioni meteo, le malattie, la fame, la fatica affrontate per arrivare nel campo di battaglia. in cui questa gente si va incontro per la maggior parte del tempo esposta a tutto.
una singola battaglia napoleonica poteva portarsi via anche un venti per cento dell'esercito schierato.
e questo era normale, accettato e soprattutto codificato da gentiluomini. è quest'ultima cosa che mi manda ai matti. tutta sta serie di regole condivise e rituali.
non è che voglia dire molto con questo post, in realtà. non è che razionalmente scopra ora che la guerra è una merda, e lo era quella napoleonica come lo era quella medievale come lo è stata quella di trincea come lo è quella coi droni. grazie a sta cippa. non sono così ingenuo. è che trovarsi a leggere certe cose, scritte in modo magistrale e con un'attenzione e una empatia ammirevole verso i coinvolti (ma da barbero non mi aspettavo di meno), fa un altro effetto. ti rendi conto di cose a cui non hai mai prestato attenzione.
forse è solo che è sempre una botta scoprire quanto siamo bravi, come specie, a essere organizzati nei massacri di poveri cristi. e quanto culo abbiamo a essere nati in questa parte di mondo e in questo momento storico.
ps il prossimo libro che leggerò, sempre dello stesso autore, parla di caporetto. per dire che poi uno se le cerca.
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olstansoul · 4 years
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Sacrifice, Chapter 9
PAIRING: Wanda Maximoff & James Bucky Barnes
"Quindi quello che hai perso è solo uno dei millemila libri che hai letto?"
"Beh si...non è come un grande classico, tipo il ritratto di Dorian Gray, ma si può considerare come un vero e proprio bestseller"
"Sento puzza della professoressa Potts"disse lui e lei rise.
"Guarda che non è colpa sua, da quando sono piccola leggo molto. Ho iniziato con le avventure dei Dei Norreni, Thor, Odino e quella roba cosi e poi man mano sono passata ai grandi classici...non sono mica mio fratello"
"Lui è più grande?"
"No, è più piccolo ed è completamente immerso con la testa nei videogiochi"
Erano passati solo venti minuti da quando la campanella di fine lezioni era suonata e tutti gli studenti erano usciti per poter tornare a casa. Wanda e James stavano percorrendo insieme il percorso per tornare a casa e stavano ammazzando il tempo conoscendosi di più, cosa che lei stava apprezzando. Era la sua occasione per conoscerlo meglio.
"Come ti capisco, anche se la mia non è immersa completamente con la testa nei videogiochi"
"Hai una sorellina?"chiese lei con un leggero entusiamo.
"Si...e a volte giocare con lei e i suoi mille accessori di Barbie può essere una distrazione"
"Almeno hai il vantaggio che lei ti chiede di giocare con te, se chiedo a mio fratello di giocare mi liquida subito"
"Si, hai ragione, ho il vantaggio che me lo chiede ma dopo mi ritrovo la stanza piena di  vestiti e scarpe rosa. Ed io, purtroppo, sono costretto a riportargliele indietro...vuole che il loro armadio sia perfetto"
"Beata lei, mi ricordo che quando ci giocavo io non avevo la minima idea di dove andavano a finire, le portavo da una parte all'altra della casa e spesso perdevo pezzi durante il tragitto. Poi vedendo che non riuscivo a tenerle perfette, mia madre iniziò a comprarmi quelle di pezza,che ora saranno piene di polvere su quella mensola"
"Una ragazza dai gusti molto semplici"disse lui.
"Si, non sono mai stata una tipa appariscente, suonavo la chitarra ma facevo anche danza però le cose sono cambiate..."
"E cosa è successo?"chiese lui.
E a quella domanda lei rimase interdetta. Non poteva certamente dirgli tutto, ora che si stavano conoscendo e poi cosa sarebbe successo se gliel'avrebbe detto? Ci avrebbe creduto? Sarebbe rimasto scioccato? L'avrebbe aiutata? Che cosa avrebbe pensato di lei? Non sapeva cosa fare, certamente quello che gli stava per dire era solo una piccola barriera che divideva la finzione da quella che era la realtà vera e propria. E cosa sarebbe successo se quella barriera si fosse rotta?
"Beh...quando hai i due pali più importanti della tua vita, ovvero i tuoi genitori, che non si amano più e ovvio che poi, di conseguenza, non riesci più a fare nulla e...ti cadono le braccia, non sai quello che devi fare e ti senti morire"
"Mi dispiace, non volevo procurarti un tuffo doloroso nel passato..."
"Tranquillo, ormai crescendo impari a farci l'abitudine e non riesci neanche più a coglierne la differenza"disse lei facendo un respiro profondo e allargando le braccia ma un mucchio di fogli cadde sul marciapiede.
La stessa scena di questa mattina con Natasha si stava ripetendo, in quello stesso istante però c'era James che non perse un secondo a raccoglierli tutti. Lei provo ad abbassarsi ma il dolore alla schiena la fermò.
"Non ho fatto nessun tipo di sforzo che potesse permettermi di avere un mal di schiena del genere,quindi per favore che ne dici se te ne vai e mi lasci in pace?"chiese lei, nella sua mente, rivolgendosi al suo caro e unico amico tumore.
"Scusami, ero...ero distratta"
"Tranquilla, va tutto bene...credo che ne usufruirò molto spesso"disse lui riferendosi agli schemi lavorati della professoressa di storia che Wanda aveva preparato.
"Vuoi che ti ricambi il favore? Non ti basta pensare di aiutare il signor Lang con chissà quale idea malsana?"
"No, no ma ci studierei volentieri...e poi gli sto dando solo una mano"
"Chissà come...beh, io dovrei essere arrivata"disse lei indicando una casa sulla destra.
"Oh, si...ehm, ci vediamo in giro?"chiese lui e lei annuì.
Iniziarono a prendere due strade diverse, lei verso il portico di casa sua e lui proseguendo dritto verso casa. Ma in quello stesso istante c'era qualcosa che Wanda non aveva ancora fatto. Prima ancora di mettere la chiave nella toppa e girarla, si voltò e vide il castano proseguire il suo cammino e presa da una felicità improvvisa scese di nuovo le scale e si trovò di nuovo sul marciapiede.
"James..."lo chiamò e lui si girò subito percorrendo quella poca distanza che lo divideva da lei.
"Hai ancora bisogno di qualcosa?"
"Oh! Ma che carino!"pensò lei ma subito tornò con i pensieri su quello che gli voleva dire.
"Io...io volevo solo dirti grazie...per questa mattina intendo"disse lei e gli occhi di James si spalancarono.
"Si, lo so forse...non sono una tipa a cui escono facilmente dalla bocca parole di questo tipo ma stavolta è perché lo sento davvero"disse lei abbassando la testa.
"Non c'è di che Wanda...mi sono davvero preoccupato per te"
"Ti ringrazio, sul serio..."disse lei alzando definitivamente lo sguardo dalle scarpe.
"Per quanto riguarda le tue ripetizioni? Ecco non ci siamo visti da giovedì scorso..."
"Oh, beh...questa settimana ho alcuni impegni e non credo che.."
"Potresti darmi il tuo numero di telefono, cosicché puoi informarmi e dirmi quando sei libera..."le propose lui.
Non aspettò risposta da parte della castana che subito James tirò da fuori la tasca destra del suo jeans il suo cellulare.
"Tieni..."
"Beh, se proprio dobbiamo fare le cose per bene..."disse lei iniziando a prendere il suo cellulare nella sua tracolla.
Se li scambiarono ed entrambi segnarono il loro numero sul telefono dell'altro.
"Mi scrivi tu?"
"Si, ti farò sapere io..."
E ognuno prese la sua strada, Wanda salì una seconda volta le scale del portico e infilò le chiavi nella toppa entrando finalmente in casa dove regnava un buon profumo di pasta.
"Ehi...sei tornata, non ti avevo sentito"disse sua madre appena la vide apparire sulla soglia della cucina.
"Non ho bussato, mi sono portata dietro le chiavi"
"Come è andata la giornata? Tutto okay?"
Si sedette e provò a pensarci su. Certo non era iniziata col piede sbagliato, perché se fosse stato così sarebbe stata sicuramente colpa del signor Stark. Ma oltre a quello che era successo durante l'intervallo tutto era andato per il meglio.
"Bene, oserei dire quasi benissimo..."disse lei addentando una fetta di pane messa nel cesto in mezzo alla tavola.
"Addirittura benissimo? Cosa ti succede?"
"Nulla, perché?"
"Sembri felice..."
"Colpa di Barnes"disse lei nella sua testa ma provò a zittire i suoi pensieri.
"Ho solo incontrato una nuova amica"disse lei riferendosi alla bionda Natasha.
"Davvero? E chi sarebbe?"
"Natasha Romanoff, una mia alunna" disse la voce di Clint alle loro spalle ed entrambe si girarono.
"Da come ne parli, sembra davvero una persona carina"
"Lo è..."disse lei sorridendo mentre stava masticando con la bocca chiusa.
"Ho assegnato loro un lavoro sull'età Vittoriana, spero che farete un bel lavoro"
A quella affermazione lei sorrise, non avrebbe mai pensato di trovare una persona come Natasha che dal primo momento si prende cura di te. E questo la rendeva molto felice.
Dall'altra parte della città...
Prese le chiavi per poter aprire la porta, una volta chiusa alle sue spalle notò che dentro casa non c'era nessuno. Si diresse nella cucina, cercando qualcosa da mettere sotto i denti, aprendo il frigo per quasi quattro volte ma nulla faceva al caso suo.
"Grazie mamma che vieni incontro alle mie esigenze di cuoco perfetto"disse lui ad alta voce.
Ma chi lo conosceva, sapeva benissimo che non era per niente un cuoco perfetto. Si arrese e fece il giro della penisola prendendo dalla dispensa la busta di panini del giorno prima. Si fece un panino veloce che mangiò seduto sullo sgabello, sua madre non voleva che le briciole si spargessero per tutta la casa sennò avrebbe dovuto pulire e sarebbe stata solo una fatica in più, oltre alla sua ordinaria fatica da infermiera. Una volta finito si lavò le mani mettendo tutto ciò che aveva usato, al solito posto. Fu quando chiuse il cassetto che si accorse che la porta di casa fu sbattuta e da lontano vide la figura robusta di suo padre.
La stessa persona che non vedeva da giorni, ma stavolta era accompagnato da un'altra persona. Doveva essere una ragazza, poco più bassa di lui, non riusciva a raggiungerlo neanche con le scarpe alte che aveva, con i capelli biondi legati in una coda alta. Si mosse lentamente, posando il canovaccio sulla penisola e uscendo dalla porta che dava sulla cucina. La porta del ufficio di suo padre era socchiusa e vide, dal piccolo spazio rimanente che la ragazza bionda era seduta sulle sue gambe.
Non reagì come se fosse impazzito da un momento all'altro. Piuttosto si allontanò dalla porta e da quella scena con una faccia schifata e con un leggero ghigno ironico sulle sue labbra.
"Me lo sarei dovuto aspettare..."disse lui sottovoce prendendo lo zaino da sopra il divano e salendo le scale.
Aprì la porta di camera sua, la chiuse alle sue spalle e si buttò sul letto dove da lì non si sarebbe alzato fino all'ora di cena.
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app-teatrodipisa · 4 years
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IL LIBRO LIBeRO — Irene Bendinelli
Salpammo all'alba.
Eravamo uno sparuto gruppo di curiosi spiriti all'avventura, fermamente intenti a emulare le leggendarie imprese del multiforme eroe Ulisse. Il cielo sopra di noi conservava ancora il respiro lento delle ultime luci stellate della notte, mentre stralci dorati di un nuovo giorno si preparavano a indicarci la rotta.
Eravamo privilegiati spettatori di uno scenario mai visto prima: maestoso, bellissimo, come tante rose tee da poco sbocciate in una meraviglia di colori! Il nostro giardino fiorito era lievitato, sollevato da schiumose onde del Mare-Oceano-Mari.
Cavalcammo, come intrepidi indiani nelle vaste praterie americane, verso spazi aperti, immensi, nell'infinità delle acque salate. Nessuno ci avrebbe potuti fermare! Eravamo più forti di mille eroi della mitologia greca, più coraggiosi di tutti i soldati del mondo riuniti in battaglia e più liberi di centomila palloncini sospesi nell'aere.
Il vento a favore ci guidava come un caro padre che prende il figlio per mano e lo conduce verso i sentieri della sua vita futura. Sostenuti dalla forza di Eolo, ci sentivamo padroni dell'universo, dei mari, delle terre, dell'aria e della miriade di stelle lassù.
Continuava a navigare fiera e sicura la nostra imbarcazione in legno, con tre gonfie vele bianche issate: erano tre morbide nuvole di ovatta, calate sulla linea dell'orizzonte. Intanto gli spruzzi d'acqua e sale ci rinfrescavano, permettevano di farci sentire sui volti tutta la carica esplosiva dell'estate e sancivano l'unione tra noi marinai e le creature marine. Ci sentivamo anche noi come dei pesciolini.
– Esploratori seguaci di Nemo, sgargiante bandiera a strisce bianche e arancioni, all'arrembaggio! Il tesoro dell'isola è già nostro!
Niccolò era completamente assorto in quell'avvincente lettura, che non si era distratto neanche da suoni e suonetti provenienti dal telefono mobile. A capofitto tra quelle pagine sfogliate con vivo interesse, aveva la possibilità di diventare un ottimo marinaio a bordo del vascello Poseidone.
– Agli ordini, capitano! - rispose la ciurma al completo, mentre il Mare-Oceano-Mari riempiva l'anima.
La direzione era quella giusta, puntando ancora per diverse miglia a Nord. La freschezza di quell'acqua salata, sempre più chiara e limpida, ci rinfrescava anche i pensieri, che viaggiavano leggeri leggeri, sorretti da quelle tre gonfie vele bianche.
Da marinaio semplice avevo ancora tanto da imparare, ma la passione e la curiosità non mi mancavano certamente, così controllare la nave, svolgere la regolare manutenzione e talvolta provvedere alla distribuzione del cibo nella cambusa erano attività che non mi spaventavano minimamente. In tutto questo, non perdevo mai di vista il nostro saggio ed esperto capitano Hogart, pronto a guidarci nell'impresa e a risolvere qualsiasi genere di situazione: gli imprevisti, per lui, erano semplicemente nodi di velluto da sciogliere grazie a piccole mani dalle dita elastiche.
Niccolò interruppe la lettura e si osservò le mani. Anche le sue, come quelle descritte nel romanzo, erano mani piccole, con dita peraltro elastiche, proprio perché lui era ancora un bambino. Sarebbe voluto entrare in quella storia, Niccolò, far parte di quella ciurma, aiutare il capitano Hogart a sciogliere i nodi degli imprevisti e dimostrare agli altri marinai, a se stesso, ma soprattutto ad alcuni suoi compagni di classe che aveva coraggio da vendere, anche se a scuola appariva spesso introverso. Le sue, erano ancora mani misurate per impugnare le penne e le matite, morbide per proteggere un cucciolo di gatto e delicate per assemblare in mille diverse costruzioni i mattoncini Lego. Sarebbero diventate capaci, però, non troppo tardi, di ammainare le vele, manovrare il timone, sfidare la forza dei venti e utilizzare tutti gli attrezzi del mestiere marinaresco.
Il sole, intanto, si preparava a troneggiare nel centro della volta celeste. Splendido splendente si sarebbe fatto alto, una palla infuocata, luccicando ininterrottamente sulle creste lievi di quella meraviglia che era il Mare-Oceano-Mari. E l'acqua si sarebbe ancor di più riscaldata e la vita a bordo del vascello Poseidone si sarebbe illusa di stare pigramente in vacanza.
Uno stormo di gabbiani, saziato dall'abbondanza di pesci, decollò veloce dalla superficie azzurra screziata di bianco ai chiari riflessi sconfinati del cielo, diretto verso una mèta ben precisa, per vivere una nuova stagione in un'altra terra.
Un'isola accogliente stava aspettando anche i nostri marinai.
Si delineò di lato alla loro vista un curvilineo profilo di un timido scoglio, col capo di poco alzato e ricoperto da una rigogliosa vegetazione. Mentre la distanza dal veliero all'isola si riduceva, mentre si annullava la presenza di uomini e animali nei paraggi, ardeva il desiderio di approdarvi, la frenesia di corrervi a piedi nudi e di scoprirne il fatidico tesoro. Pirati e galeotti si erano sfidati, su altri mari e in altre epoche, per appropriarsi di gemme e monete in quantità; temerari cercatori d'oro si erano spinti per secoli oltre quelle acque, per nobilitare ogni volta di più le loro imprese; sognatori di altri tempi – e forse anche di questi – erano cresciuti con il sale della fantasia e la speranzosa convinzione di far rotta all'isola di Utopia.
Poche erano le carte nautiche che segnalavano la presenza di quell'isola, a differenza di molte che la ignoravano completamente, indicando al suo posto una qualsiasi corrente acquatica. Ma poiché il mistero si infittisce se un'antica pergamena polverosa viene scovata per caso in una rimessa, trovano invece il loro senso la curiosa esplorazione, l'audace avventura e l'entusiasmo della partenza.
Il capitano Hogart, da vero capitano, fu il primo a scendere dall'imbarcazione, per assicurarsi che su quella terra, emersa dai fondali marini, non si nascondessero insidie. Soltanto pappagalli dai grandi becchi gialli e dalle ampie piume variopinte, appesi sulle legnose fronde di contorte mangrovie, intonarono un acuto saluto di benvenuto.
“Ci siamo!” pensò Niccolò. “Vediamo ora cosa succede.”
I marinai, con la gioia che sarebbe esplosa nei loro petti se non fosse stata contenuta dalle divise a righe bianche e blu, seguirono fedelmente il loro capitano. Parevano una fila ordinata di formiche in processione, caute e silenziose, ma ancor più attente e curiose, alla ricerca di cibo, di briciole di pane. L'ultimo della ciurma, col viso florido e raggiante per la fierezza del compito assegnatogli, issò sulla sponda orientale della riva l'alta bandiera del Poseidone: un tridente grigio rivolto in su, sostenuto dalla possente mano destra del dio Nettuno, protettore di tutti i mari e della loro piccola compagnia.
– Ricordate il richiamo dell'eroe Ulisse ai suoi compagni di viaggio! Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza! – rimbombò così potentemente la voce di Hogart, da far volare via in un istante tutti i pappagalli che li avevano accolti.
“La conoscenza, la conoscenza!” pensai.
Da tre mesi della mia vita mi trovavo a bordo di una nave, che già consideravo come una seconda casa, io che da piccolo non volevo più uscire dalla vasca durante il bagnetto e che giocavo a ore sulle pozzanghere come fossero laghi da attraversare. Avevo imparato tanto finora: ogni uscita in mare aperto era una sfida con me stesso e con la natura, ogni gesto da compiere un esempio di solidarietà verso gli altri, ogni nubifragio una prova da superare per crescere, ogni porto raggiunto una sicurezza da custodire con affetto.
Mentre tali pensieri mi rimbalzavano nella mente, i miei piedi marciavano allineati a quelli degli altri marinai alla scoperta di quell'isola. L'aria era talmente intrisa di un silenzio paradisiaco, che si riuscivano a percepire i respiri affannati e i battiti accelerati dei nostri cuori.
Li avvertiva anche Niccolò quei respiri e quei battiti, che filtravano da quei luoghi fantastici alla cameretta reale del bambino, grazie alle pagine ingiallite di quel romanzo, appartenuto da generazioni alla sua famiglia.
L'isola, con una superficie grande quanto mille uomini in cerchio, odorava di essenze rare, di dolci profumi fruttati e di fresche fragranze floreali. Il lungo viaggio assolato sul Mare-Oceano-Mari trovava il suo meritato riposo all'ombra di nodose mangrovie, di maestose palme verdeggianti e di piante dai fiori tropicali mai visti prima, che infondevano pace e serenità.
Quell'isola era tutta per loro, per quei prodi marinai!
La costa orientale era contornata da un'innumerevole varietà di conchiglie, alghe, ricci e legnetti, adagiati su basse dune sabbiose, mentre la zona a Ovest era battuta da forti venti impetuosi, che si infrangevano su dure e ripide falesie, come se due stagioni naturali si contendessero il controllo di quella dispersa roccaforte.
Nel mezzo stavano loro, i coraggiosi marinai, in equilibrio tra estate e inverno, tra caldo e freddo, nel protetto spazio centrale dove terra, roccia, fiori e frutti convivevano in armonia. Non c'erano tracce di tesori, di bauli, di gemme e di ori, ai quali la ciurma non pensava già più, felice com'era di starsene lì tranquilla e beata. Nel cuore di quell'isola svanivano i rancori e le paure, le ansie e i  problemi, sostituiti dalla calma quiete delle anime, dalle perfette solitudini ritrovate e dall' intramontabile desiderio di libertà mai sopito. Altre isole avrebbero raggiunto, altre avventure avrebbero vissuto, altre storie avrebbero raccontato, ma quella era l'isola alla quale non avrebbero più rinunciato, l'isola del Poseidone, dove ognuno si sentiva libero. Come vento libero.
Niccolò sentì entrare, dalla finestra aperta della camera, un soffio d'aria fresca. Era l'imbrunire di una sera alla fine di aprile, era la briosa brezza di quell'isola, sostenuta e tramandata dall'eco esplosivo della letteratura che aveva trasformato le pagine del libro in onde di libertà, amata libertà.
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spettriedemoni · 5 years
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Che senso ha?
Proviamo a fare un po’ di chiarezza anche per gli asini raglianti e ignoranti
Che senso ha per il comandate della #SeaWatch3 aspettare 13 giorni e poi violare "la legge" invece di dirigersi su un altro porto? Il senso c'è. Esistono leggi internazionali che la obbligano a dirigersi verso il porto sicuro più vicino e chiedere l'autorizzazione ad attraccare. Esclusi porti come la Libia e la Tunisia che i bollettini dichiarano non sicuri (possiamo discutere della veridicità di ciò, ma è un altro argomento), il più vicino* è Lampedusa. Il comandante arriva a Lampedusa, chiede autorizzazione e non le viene concessa. Se decidesse di andare in un altro porto violerebbe le leggi internazionali sulla navigazione. Se a bordo muore qualcuno durante il tragitto lei sarebbe accusata di omicidio colposo. Viceversa avvicinarsi al porto pur senza autorizzazione formale non viola alcuna legge. Esiste un decreto, che non è una legge, è emesso dal potere esecutivo invece che dal potere legislativo per motivi di urgenza. I decreti hanno validità limitata e possono essere facilmente impugnati. Quello che ha deciso di fare, per chi conosce il codice della navigazione, appare senza ombra di dubbio la scelta più ovvia e quella che porta a meno conseguenze legali e penali.
(*) faccio una piccola considerazione, in qualità di comandante, sulla "vicinanza" dei porti. Leggo tanta gente che su google maps traccia delle linee e dichiara l'incompetenza di comandanti con anni di esperienza alle spalle. Tracciare una "linea" su google maps senza sapere cosa sia una ortodromia, una lossodromia, un avviso ai naviganti, un portolano, le correnti, i venti, ecc è abbastanza ridicolo. Il porto "più vicino" è quello raggiungibile con rotta più breve (non necessariamente quella geometricamente più corta) e che rispetta i vincoli meteomarini in vigore nelle sei ore successive. Capirai che non è una cosa né banale, né ovvia.
Fulvio Romano su Facebook
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intotheclash · 6 years
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Gang - Chi ha ucciso Ilaria Alpi
Dove la terra non è di nessuno là dove il cielo è sepolto dal fumo in mezzo alle fiamme cercò il mistero Ilaria divise il falso dal vero Là sulla strada lontana da casa Ilaria fu colta dal suo destino in mezzo alle fiamme l'hanno lasciata le presero il cuore e il suo taccuino
Chi ha ucciso Ilaria Alpi? Chi ha ucciso Ilaria? Chi ha ucciso Ilaria Alpi? Chi ha ucciso Ilaria?
La verità è partigiana la verità si nutre di pianto tempo verrà per dividere il grano dai topi dividerlo tenerlo lontano tempo sarà di svelare il mistero dividere il falso, il falso dal vero
Dieci di aprile notte dei fuochi traffico d'armi in mezzo alla baia le armi le porta la nave fantasma dal porto a Livorno diretta in Somalia
Su quella rotta Ilaria si mise la notte che il mare rubò i quattro venti sul Moby Prince in mezzo alle fiamme un'altra strage degli innocenti
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scienza-magia · 2 years
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Calcolavano il moto dei pianeti già nel primo secolo a.c.
Il Meccanismo di Antikythera, recuperato dai resti di un naufragio avvenuto nel primo secolo avanti Cristo. Sono ottantadue frammenti in bronzo conservati al Museo archeologico di Atene. Ricoperti di iscrizioni in greco antico, all’interno contengono ruote dentate e ingranaggi. Insieme formano il Meccanismo di Antikythera, un antico strumento astronomico che permetteva di calcolare la posizione del Sole, della Luna e dei cinque pianeti conosciuti all’epoca. A più di un secolo dalla sua scoperta, molti aspetti dell’antico calcolatore sono ancora irrisolti
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Il frammento principale del Meccanismo di Antikythera. Crediti: Wikimedia Commons Dal 23 maggio al 15 giugno 2022 è stata completata la seconda spedizione di archeologia subacquea nei pressi di Antikythera, una piccola isola fra Creta e il Peloponneso, dove più di duemila anni fa affondò una nave commerciale. La spedizione fa parte di un programma quinquennale, che si concluderà nel 2025. La ricerca è condotta dalla Scuola svizzera di archeologia in Grecia e l’obiettivo principale è comprendere in modo più chiaro quali fossero le caratteristiche della nave affondata, il suo carico e la sua rotta. Il relitto di Antikythera è stato scoperto per caso da un gruppo di pescatori di spugne nel 1900. Dalle acque, sono stati recuperati oggetti in vetro, statue in marmo e bronzo, anfore e un misterioso oggetto in bronzo, che prende il nome di Meccanismo di Antikythera. Il Meccanismo di Antikythera era uno strumento astronomico che permetteva di predire il moto della Luna, le eclissi e la posizione del Sole e dei cinque pianeti conosciuti all’epoca, cioè Mercurio, Venere, Marte, Giove e Saturno. Attualmente, si pensa che sia stato costruito fra il terzo e il primo secolo avanti Cristo. Lo strumento era dotato di un sofisticato sistema di ingranaggi e ruote dentate e veniva azionato a mano.  Il Meccanismo, probabilmente, era contenuto in una cornice in legno e complessivamente era lungo trenta centimetri, largo venti centimetri e spesso dieci centimetri. Oggi, rimangono solo ottantadue frammenti di dimensioni diverse, che corrispondono a circa un terzo dello strumento. Quelli più grandi sono indicati con le lettere da A e G, mentre i più piccoli con i numeri da 1 a 75. I frammenti sono conservati al Museo archeologico nazionale di Atene e da più di un secolo sono oggetti di studi.
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Gli ottantadue frammenti che compongono il Meccanismo di Antikythera. Crediti: Antikythera Mechanism Research Project Si sono dedicati allo studio del Meccanismo di Antikythera studiosi e studiose provenienti da ambiti diversi, dall’archeologia all’orologeria, dalla storia dell’astronomia alla fisica dei raggi X. Grazie ai risultati raggiunti nel corso degli anni si è capito che il Meccanismo combinava i cicli astronomici babilonesi, con la matematica dell’Accademia di Platone e con le teorie astronomiche dell’antica Grecia. Tuttavia, molti aspetti rimangono ancora irrisolti. Negli anni Settanta è stata effettuata la prima radiografia del Meccanismo: per la prima volta si riesce a guardare dentro i frammenti. Furono così individuati i resti di ingranaggi e ruote dentate. Successivamente, analisi più approfondite hanno permesso individuare le iscrizioni sulla superficie e maggiori dettagli all’interno dei frammenti. Il Meccanismo di Antikythera, infatti, è coperto di iscrizioni: complessivamente si stima che ci siano circa 15mila caratteri. Le prime iscrizioni che si riuscirono a leggere a inizio Novecento fecero capire che quei misteriosi frammenti in bronzo erano legati al moto dei corpi celesti. Nel 2005, grazie alla tomografia computerizzata a raggi X sono stati individuati più di duemila caratteri. Successivamente, nel 2016, fra le iscrizioni nella parte anteriore del Meccanismo, sono stati individuati due numeri legati ai cicli sinodici di Venere e Saturno, cioè legati al tempo necessario affinché un pianeta occupi la stessa posizione nel cielo rispetto al Sole per un osservatore sulla Terra. I cicli sinodici erano alla base delle previsioni sulla posizione dei pianeti nell’astronomia babilonese. Nello specifico, sono stati studiati i frammenti G, 26, 29 e altri più piccoli con la tomografia computerizzata a raggi X. Le iscrizioni frontali descrivono i cicli sinodici dei pianeti e ogni pianeta ha una parte dedicata. Il Meccanismo ha alcune caratteristiche tecniche abbastanza avanzate. Ad esempio, conteneva un sistema di ingranaggi tale da generare un moto rotatorio, dati due moti rotatori iniziali, con velocità pari alla differenza di due moti. Inoltre, è dotato di un sistema di due ruote sovrapposte che ruotano attorno a due assi diversi, che prende il nome di “pin-and-slot”. In questo complicato sistema di ingranaggi, il numero di denti delle ruote dentate non poteva essere casuale, ma dettato dalla meccanizzazione dei moti dei pianeti.
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Ricostruzione del Meccanismo di Antikythera proposta dal gruppo di ricerca sul Meccanismo di Antikythera della University College London. Crediti: Ucl Il primo modello funzionante del Meccanismo di Antikythera è stato proposto dal fisico e storico della scienza Derek De Solla Price ed è stato poi costruito da Robert Deroski intorno agli anni Settanta. Questo modello non era corretto, ma è stato una base fondamentale per gli studi successivi. Nel 2021, il gruppo di ricerca sul Meccanismo di Antikythera dello University College London (Ucl) ha proposto un nuovo modello che soddisfa tutte le evidenze che si hanno a disposizione sul Meccanismo. Il prossimo obiettivo del gruppo è ricostruire con tecniche antiche lo strumento seguendo il nuovo modello per dimostrarne la validità. Il gruppo dello Ucl ha usato un processo matematico sviluppato da Parmenide per spiegare i cicli di Venere e Saturno e per derivare anche i cicli degli altri pianeti su cui non si hanno informazioni a disposizione dai frammenti. Il processo di Parmenide, infatti, è un processo iterativo che permette di approssimare un numero reale con un intervallo compreso fra due numeri razionali. Ad esempio, per Venere, nell’astronomia babilonese la stima più rozza prevedeva 5 cicli sinodici in 8 anni e quella più accurata prevedeva 720 cicli in 1151 anni. Quest’ultima stima non era meccanizzabile, poiché 1151 è un numero primo e realizzare una ruota con 1151 denti non era certo un’impresa facile. L’ipotesi del gruppo è che sia stato usato proprio il processo di Parmenide per trovare un compromesso fra la stima più rozza e quella meccanizzabile più accurata. Se per capire come funzionava il Meccanismo serve sapere quali erano le conoscenze scientifiche su cui si basava, è anche vero che capirne il funzionamento aiuta a scoprire quale fosse l’idea di cosmo diffusa all’epoca in cui è stato costruito. Nonostante i risultati raggiunti nel corso degli anni, molti aspetti del Meccanismo di Antikythera rimangono un mistero. Ad esempio, non sappiamo con precisione quando sia stato costruito e da chi sia stato realizzato. Guarda il video su MediaInaf Tv: Read the full article
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Cristoforo Colombo: Breve dissertazione sull’uomo, il suo tempo ed il mito
Chi è stato Cristoforo Colombo? Qual è stato il suo ruolo nella scoperta europea e nella successiva invasione del continente che oggi chiamiamo Americhe?
Queste alcune delle domande che hanno spinto la realizzazione della seguente breve relazione, che si propone di ripercorrere i tratti salienti della vicenda del navigatore genovese, senza mai perdere di vista l’ambito più generale in cui questa prese le mosse, nonché tenendo sempre da conto che nella persona di Colombo “Storia” e “storie” dimostrano la loro inscindibilità, e che spirito critico e metodo rigoroso sono essenziali nell’indagine storica.
Il contesto
Cristoforo Colombo nacque a Genova nell’autunno del 1451. La città ligure era all’epoca uno dei principali poli commerciali del Mediterraneo e dopo la pace di Lodi del 1454 poté godere della relativa stabilità nella Penisola per dedicarsi più proficuamente ai suoi traffici marittimi. A questi partecipò lo stesso Colombo, viaggiando prima con suo padre e poi con altre grandi compagnie mercantili genovesi, cominciando così ad acquisire le prime competenze in materia di navigazione.
Se però l’Italia stava conoscendo un quarantennio di sostanziale pace, lo stesso non poteva dirsi per l’area del Mediterraneo orientale. Nella prima metà del XV secolo l’Impero Ottomano era penetrato nei Balcani e due soli anni dopo la nascita di Colombo, nel 1453, aveva conquistato Costantinopoli, decretando la fine dell’Impero Romano d’Oriente. Per Genova ciò significò la perdita definitiva di un accesso più agevole alle sue tratte d’elezione, cioè quelle che dall’Asia transitavano per il Mar Nero, mentre per l’Europa cristiana in generale costituì un ulteriore sprono a un fenomeno che già aveva preso avvio all’inizio del secolo: la ricerca di una nuova via per i mercati asiatici.
Sotto Enrico il Navigatore, infatti, il regno del Portogallo aveva intrapreso una campagna di esplorazione e costruzione di basi lungo le coste dell’Africa atlantica conquistando Ceuta nel 1415, occupando Madera, le Azzorre e Capo Verde fra il 1420 e il 1456 e arrivando nel 1487 a raggiungere l’estremità meridionale del continente con la spedizione di Bartolomeu Dias. L’idea di evitare di trattare con il mondo islamico per ottenere le merci asiatiche si accompagnava peraltro ad un’attiva lotta contro quest’ultimo che proprio nella penisola iberica aveva conosciuto il fronte più intenso con le diverse fasi della cosiddetta Reconquista. Accanto al Portogallo, dunque, avvantaggiato per posizione geografica nell’esplorazione oceanica, venne a trovarsi il regno di Castiglia, che anche prima della conquista di Grenada nel 1492 aveva cominciato a interessarsi ad una espansione marittima.
Questo interesse castigliano per l’Atlantico, frustrato dal dinamismo portoghese e dalla efficace resistenza degli arabi in Marocco, riuscì però a trovare sbocco in un altrettanto inappagato progetto: quello di Cristoforo Colombo di attraversare l’Oceano verso ovest per raggiungere l’Asia. Colombo si era infatti stabilito in Portogallo nel decennio precedente e lì aveva potuto apprendere le tecniche della navigazione oceanica e proporre la sua idea alla corte di Giovanni II, che si era però rifiutato di appoggiare l’impresa. Di altro avviso si dimostrò la regina di Castiglia, Isabella. Dopo il Trattato di Alcáçovas del 1479 con il Portogallo, infatti, alla Castiglia era stato proibito l’accesso all’Atlantico a sud delle Canarie; conseguentemente, le era stato reso impossibile raggiungere l’Asia viaggiando verso est, lasciando quindi aperta solo la via ad ovest, mai tentata prima e da molti ritenuta impercorribile. Fu così che, nel 1492, Colombo poté intraprendere quella traversata che tanto lo rese celebre e che ebbe un influsso decisivo sulla storia mondiale.
 Il progetto di Colombo
L’idea di Colombo di attraversare il Mar Oceano per raggiungere l’Asia maturò quindi in un contesto di grandi trasformazioni degli orizzonti geografici, culturali e tecnologici. La cartografia in particolare aveva fatto importanti progressi e la realizzazione di mappe più dettagliate aveva reso più concreto ciò che era a lungo vissuto soprattutto nella sola immaginazione degli studiosi. È proprio da questo ambito di studi che prese forma il pilastro dell’intero progetto del navigatore genovese, ovvero l’idea, errata, del fiorentino Paolo dal Pozzo Toscanelli secondo cui la distanza fra l’attuale Giappone e l’Europa lungo il Mar Oceano sarebbe stata molto minore di quanto fino ad allora ritenuto. Ad oggi sappiamo che i suoi calcoli erano sbagliati, per cui la distanza considerata era circa un terzo di quella reale, ma anche all’epoca non mancarono gli scettici.
Colombo non era però, per l’appunto, fra questi, ed anzi sposò a tal punto le posizioni del Toscanelli da scommettere sulla praticabilità di una rotta che, partendo dalle coste iberiche, avrebbe raggiunto il pressoché mitico “Cipango”, descritto da Marco Polo sulla base di informazioni raccolte in Cina. La forza di questa convinzione è testimoniata anche dal fatto che, pur di fronte all’evidenza degli errori di calcolo del Toscanelli, verificati già col viaggio del ’92, Colombo finì i suoi giorni convinto di essere comunque giunto in prossimità dell’Asia. Da questa certezza, condivisa da molti almeno fino all’esplorazione delle coste settentrionali da parte di Vespucci e al ritorno di Pigafetta dalla spedizione circumglobale di Magellano, deriva l’utilizzo del termine Indias per riferirsi al nuovo continente, che ebbe lunga fortuna prima di essere soppiantato da quello di “America” anche nell’uso comune.
Prima del 1492, però, a vigere era lo scetticismo verso le idee di Toscanelli, seppur per l’altrettanto errata idea che la distanza oggetto di discussione fosse molto più grande di quella effettiva. La spedizione proposta da Colombo appariva dunque, agli occhi di molti, totalmente impraticabile. Non deve sorprendere, quindi, se il re di Portogallo Giovanni II declinò le richieste di Colombo di supportare il suo progetto; di fronte all’incertezza di un piano basato sull’azzardo, la corona portoghese preferì puntare sul consolidamento di una direttrice più sicura e da più tempo inaugurata, cioè quella verso sud-est lungo le coste africane. Come detto nel paragrafo precedente, però, quell’azzardo costituiva l’unico modo con cui la Castiglia poteva pensare di raggiungere l’Asia. Nonostante, quindi, l’avversione di una parte del mondo degli studiosi e grazie, però, anche a una cordata di banchieri italiani che decisero di finanziare il progetto insieme alla corona, venne trovato un accordo fra Colombo e Isabella di Castiglia che, formalizzato nelle Capitulaciones de Santa Fe nell’aprile del 1492, diede il via ai preparativi per la spedizione.
Con le Capitulaciones, peraltro, il navigatore genovese non otteneva solo un semplice appoggio finanziario, bensì tutta una serie di privilegi: dal semplice diritto a reclamare per sé una percentuale sulle merci che sarebbero state inviate dalle terre eventualmente conquistate, all’ottenimento del titolo di viceré delle suddette terre, nonché di quello di ammiraglio del Mar Oceano, passando per il monopolio sui futuri viaggi lungo la rotta da lui inaugurata. Colombo sarebbe così diventato, anche se solo per delega, il de facto padrone delle “islas y tierras firmes” che avrebbe scoperto. Nei fatti, però, le cose non sarebbero andate esattamente come pianificato.
 Il primo viaggio e il Contatto (1492-1493)
Forte di quanto stabilito nelle Capitulaciones, Colombo partì dal porto di Palos il 3 agosto del 1492. La piccola flotta era composta di tre sole navi, due caravelle e una caracca, le famose Niña, Pinta e Santa Maria. Erano tutti e tre tipi di legni ideati o modificati dai portoghesi nei decenni precedenti proprio al fine della navigazione oceanica, soprattutto per quanto riguardava le caravelle. Dopo una tappa di spostamento verso le Canarie al fine di sfruttare al meglio i venti alisei, la spedizione riprese la navigazione in settembre e solo dopo più di un mese, il 12 ottobre, raggiunse finalmente la terraferma; il viaggio si era rivelato molto più lungo del previsto e non erano mancate le tensioni a bordo delle imbarcazioni, ma per fortuna di Colombo non si verificarono ammutinamenti.
La terra raggiunta era quella delle attuali Bahamas, e l’isola quella di Guanhani, ribattezzata da Colombo in San Salvador. Fu così che, oltre al primo contatto con il nuovo continente, comunque scambiato per un arcipelago asiatico, avvenne anche il primo contatto con le popolazioni indigene; i Taino. Diffusa in larga parte degli attuali Caraibi, quella dei Taino era una civiltà molto diversa non solo da quella europea, ma anche da quella azteca o inca: organizzati principalmente in tribù, privi di “città” e di reti infrastrutturali, quantomeno se pensate in termini europei, l’impressione che questi popoli fecero alla spedizione colombiana fu quella che si trascinò nei secoli successivi, ovvero quella di trovarsi di fronte a cosiddetti “selvaggi”. Come tali, perciò, i Taino vennero fin da subito trattati. Piuttosto che essere riconosciuti come soggetti alla pari, essi vennero considerati come l’oggetto di una serie di azioni fondamentali, esseri plasmabili da: civilizzare, ovvero cristianizzare; sfruttare come forza lavoro, o comunque come fonte d’approvvigionamento delle risorse locali tramite tributi. Durante il primo viaggio i rapporti fra Colombo e i suoi con gli indigeni furono comunque sostanzialmente pacifici e, con l’aiuto di alcuni di essi, usati come interpreti e guide, poté esplorare la regione, venendo a raggiungere le attuali Cuba e Hispaniola, dove vennero lasciati alcuni membri della spedizione prima di ripartire alla volta della Spagna.
Nonostante le scoperte effettuate, però, il ritorno in Europa fu denso di incertezze; l’oro tanto agognato era stato trovato solo in scarse quantità, e soprattutto in forme già lavorate dagli indigeni, mentre delle spezie asiatiche non v’era alcuna traccia. Nonostante ciò, quanto trasportato alla corte di Castiglia fu sufficiente a convincere i reali a sostenere un secondo viaggio. Colombo avrebbe così potuto continuare le sue esplorazioni, avendo dimostrato che il Mar Oceano non era quella massa d’acqua impercorribile che gli contestavano e aprendo la strada alla rotta occidentale verso quelle che, pur a torto, si pensava fossero le indie.
 Apogeo e declino (1493-1504)
Il ritorno di Colombo e la sua descrizione delle nuove terre scoperte fu da subito un fatto importantissimo e carico di conseguenze su ampia scala. Innanzitutto, Spagna e Portogallo avrebbero dovuto ridefinire quegli accordi sulla spartizione del mondo extra-cristiano in zone di influenza inaugurati dal Trattato di Alcáçovas del 1479. Nel 1493, infatti, Papa Alessandro VI stabilì una nuova linea di demarcazione, posta a 100 leghe ad ovest delle isole di Cabo Verde: i territori non cristiani ad est di questa linea avrebbero potuto essere rivendicati dal Portogallo, mentre quelli ad occidente dalla corona spagnola. Il rifiuto portoghese di accettare tale divisione portò però, nell’anno successivo, a un trattato discusso direttamente fra Spagna e Portogallo e solo più tardi ratificato da un altro papa, Giulio II; il Trattato di Tordesillas. In base all’accordo, la linea sarebbe stata posta non più a sole 100 leghe dalle coste capoverdiane, bensì a 370. Questa decisione si sarebbe rivelata fortunata per i portoghesi, poiché parte della costa dell’attuale Brasile, all’epoca non ancora scoperta, sarebbe rientrata nella loro sfera d’influenza, permettendone la colonizzazione a partire dall’approdo di Cabral nel 1500.
Per quanto riguarda più direttamente Colombo, invece, il ritorno ad Hispaniola nel 1493 segnò l’apice della sua carriera, ma anche l’inizio altrettanto rapido del suo declino. Il tentativo durato tre anni di creare una colonia stabile, di trovare più oro e di proseguire l’esplorazione della regione si scontrò con le avversità climatiche ed i primi conflitti con gli indigeni, che si ribellarono a quella che, in sostanza, era una condizione di lavoro forzato. Ma non fu solo il conflitto con gli indigeni a generare problemi al Viceré; i malumori generatisi nell’aristocrazia spagnola per la gestione dei nuovi territori da parte di Colombo aumentarono infatti col tempo.
Nonostante le difficoltà, il navigatore genovese riuscì a tornare in Castiglia nel 1496 e a ripartire dopo circa due anni, nel maggio del 1498. Questa volta, però, il dissenso della nobiltà spagnola sfociò in aperta ribellione e, nel 1500, Colombo fu arrestato e condotto in Spagna, dove fu privato del titolo di viceré e del monopolio sui viaggi verso le nuove terre, ma anche liberato dalla prigionia grazie ai suoi legami con la corona. Riacquisita la libertà, Colombo riuscì ad ottenere il permesso per un quarto, ed ultimo, viaggio fra il 1502 e il 1504, che lo portò ad esplorare la costa orientale dell’America centrale.
 Colombo raccontato
Il 20 maggio 1506, all’età di 55 anni, Cristoforo Colombo morì. A non spegnersi, però, furono i contenziosi che in vita aveva aperto per vedere ripristinati i diritti a lui accordati nelle Capitulaciones del 1492, di cui si sentiva ingiustamente privato. Se, infatti, Cristoforo era uscito, almeno di persona, di scena, così non lo era il suo cognome; anche la sua famiglia era infatti entrata a far parte della nobiltà castigliana, come “Colón”, e avrebbe dimostrato di non voler rinunciare ai privilegi inizialmente accordatigli. In particolare, fu il figlio Diego a riuscire a ricoprire nuovamente, seppur in maniera non continuativa e con poteri limitati rispetto a quelli paterni, i ruoli di viceré delle Indie e di ammiraglio del Mar Oceano fra il 1509 e il 1526.
Fu così che l’immagine di Cristoforo Colombo, che come ogni uomo di potere già in vita aveva dovuto costruirsi e difendere dagli attacchi degli avversari e, quando ancora era un semplice avventuriero, dei critici, subì un processo tutt’oggi in atto di trasformazione strumentale. Colombo fu un conquistatore sanguinario o uno scopritore di spirito umanista? Fu un despota o un governatore giusto ed equilibrato? Fu un genio incompreso o un semplice folle ad azzardarsi a intraprendere la rotta verso ovest?
È difficile rispondere a tali domande, perché fin dal XVI secolo si assistette a una proliferazione di fonti che pretendevano di restituire la “vera” storia di Colombo. Da una parte i suoi detrattori, dall’altra i suoi sostenitori e in particolar modo la sua famiglia. Chi ha detto la verità? A chi dare ascolto, tenendo considerato che sostanzialmente entrambe le parti avevano dei cavalli nella corsa all’eredità, in senso più o meno figurato, del navigatore genovese? Attribuire o meno la scoperta di un determinato territorio a Colombo, per esempio, poteva stabilire chi avrebbe dovuto governarlo. Ancora; riconoscere la veridicità delle accuse di violenza che gli erano state rivolte al tempo del governatorato su Hispaniola avrebbe fatto pendere o meno i piatti della bilancia a favore dei Colón nella pretesa di riottenere il titolo di viceré. In questo modo, Colombo diventò, a seconda di chi ne parlava, un essere abietto o un “servo di Dio”, mentre posizioni più sfumate, ma non per questo necessariamente più vicine alla realtà dei fatti, hanno avuto meno risalto nel dibattito.
“Cristoforo Colombo” finì quindi per diventare più il simbolo di qualcosa, che il nome di qualcuno. In Spagna, per ridimensionare le pretese dei Colón-Colombo e per stabilire un maggior controllo della corona sulle Indias, Cristoforo passò dall’esserne il “primo scopritore” ad “uno degli scopritori”, servo leale dei reyes católicos. Quando la Spagna, a partire da Carlo V, diventò una, se non la più grande delle potenze europee, la propaganda dei suoi avversari fece buon uso della leyenda negra, e le storie sulle violenze ai danni degli indigeni di Colombo furono accostate a quanto raccontato da Bartolomé de Las Casas.
Quando, però, nacquero gli Stati Uniti d’America, le cose cambiarono di nuovo. Il neonato stato, nella ricerca di simboli esterni alla tradizione anglosassone e quindi alla madrepatria con cui aveva appena concluso una guerra d’indipendenza, trovò nel navigatore genovese un emblema della costruzione di un mondo nuovo, o meglio di un Nuovo Mondo, dando il nome di Columbia al distretto in cui venne a sorgere Washington, la capitale statunitense. Ed è sempre negli USA che venne a rafforzarsi il mito positivo di Colombo, come testimonia la World’s Columbian Exposition dedicatagli nel 1893, ovvero all’incirca nel 400° anniversario dallo sbarco a Guanhani. In questo contesto già favorevole alla figura del genovese, quindi, gli emigrati italiani colsero fin dal XIX sec. l’occasione per fare della sua figura un ponte identitario fra la Penisola e l’America, prodigandosi per l’erezione di statue celebrative e per l’istituzione, prima a livello locale e poi federale, di feste a ricordo dell’impresa colombiana, culminanti nella ormai famoso, nonché problematico, Columbus Day, il 12 ottobre.
Soprattutto durante la seconda metà del ‘900, infatti, si sono fatte sempre più forti e rilevanti le voci di chi, nel contesto della lotta per i diritti degli afroamericani e delle popolazioni precolombiane o loro discendenti, la rinnovata attenzione sulla brutalità con cui avvenne la colonizzazione delle Americhe da parte degli europei trovò ancora una volta in Colombo un simbolo contro cui scagliarsi. Grazie a queste suggestioni, però, si è anche reso possibile sottrarre la figura di Cristoforo Colombo ad una visione che è stata decisamente celebrativa e probabilmente poco storica per lunghissimo tempo. Nuove indagini e nuove sensibilità si sono quindi fatte carico, e continuano tutt’ora, di riscoprire la storia di un personaggio di cui molti pensano di sapere tutto, ma della cui persona forse sappiamo ancora poco o niente.
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entheosedizioni · 4 years
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Il mare nella letteratura
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Con l’arrivo dell’estate, il popolo vacanziero si divide generalmente in due macro-gruppi: gli amanti del mare e gli amanti della montagna. C’è anche chi predilige il lago, la collina oppure la città, così come chi, subendo il fascino degli orizzonti aperti, non preclude comunque l’apprezzare di svettanti cime più o meno innevate. Eppure... Il fascino del mare Eppure, c’è una malia indefinita che avvolge epoche, uomini e stagioni, un perenne richiamo verso l’assenza di confini (nel senso figurato, sia chiaro: che mondo sarebbe il mondo senza la cortina di ferro, il muro di Berlino, il muro di Trump, i porti chiusi. Aah, i porti chiusi – ossimoro lapalissiano di altissimo livello). Che questa attrazione nasca da un ancestrale amore per le divine decisioni del secondo giorno, da un’altrettanta antica reminiscenza evolutiva dal mondo dei pesci o, più semplicemente, da un dolce cullare amniotico, non saprei. Quello che so è che il mare diffonde un magnetismo potentissimo e tanto affascinante, oggi contrastato forse solo da un altro potente elemento: il tempo. O la mancanza di esso. Il tempo è un elemento fondamentale per potersi lasciare ammaliare dal mare, che ha bisogno di essere a lungo respirato, ascoltato, vissuto. Quello che poi dà in cambio è senza prezzo. “Ogni volta che mi ritrovo sulla bocca una smorfia amara; ogni volta che nell’animo ho un novembre umido e stillante; quando mi sorprendo a sostare senza volerlo davanti ai magazzini di casse da morto, o ad accodarmi a tutti i funerali che incontro; e soprattutto quando l’ipocondrio riesce a dominarmi tanto, che solo un principio morale può impedirmi di uscire deciso per strada e mettermi metodicamente a gettare in terra il cappello alla gente, allora mi rendo conto che è tempo di mettermi in mare al più presto: questo è il mio surrogato della pistola e della pallottola.” Herman Melville – Moby Dick
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Il mare nella letteratura Molte sono le opere letterarie che hanno come personaggio principale il mare. Sì, perché il mare parla, agisce, ama o si ribella. Infatti è molto più attivo di certi personaggi (reali o immaginari) che a tutti noi è capitato di incontrare. Amico, nemico, amorevole amante, vecchio saggio, distruttore e creatore, distruttivo e creativo, oracolo o domanda, il mare è questo e altro ancora. Il mare psicologo Non potevamo iniziare l’incursione nel mondo della letteratura che parla di mare se non con il sopra citato Moby Dick, un classico stupefacente su cui si potrebbe ribattere ricordando che, magari, il personaggio principale è quello del titolo (per chi non lo conosce, a breve un riassunto del romanzo – sto ancora cercando di finirlo, so già che morirà. Ops). Invece non sono d’accordo con tale rimostranza: Moby Dick è un libro che ha semplicemente il mare dentro. Un mare che contiene anche balene, Achab vari e più o meno problematici, baleniere, ramponieri e altra gente allegra, un mare che lega continenti e che fa sembrare piccolo il mondo. Ma per Ismaele, la voce narrante della storia, il mare è soprattutto un imbattibile psicologo, forse addirittura psichiatra: risolve il suo male di vivere. Non senza farsi pagare, però : “Considerateli tutti e due, il mare e la terra, e non scoprite una strana analogia con qualche cosa in voi stessi? Perché come questo oceano spaventoso circonda la terra verdeggiante, così nell’anima dell’uomo c’è un insulare Tahiti, piena di pace e di gioia, ma circondata da tutti gli orrori di questa semisconosciuta vita. Vi protegga Iddio! Non vi spingete al largo da quell’isola; potreste non tornare più.” Herman Melville – Moby Dick Il mare stregone La storia a cui mi riferisco è La linea d’ombra di Joseph Conrad. Anche se in questo caso la memoria rimanda immediatamente a Cuore di Tenebra, titolo molto più famoso dello stesso autore – un mare epico fa anche qui protagonista nel riflettere le contraddizioni dei personaggi –, eppure è di quest’altro racconto che vi vorrei parlare. La linea d’ombra è una storia breve e semplice, intrisa da misticismo al contempo. Misticismo che l’autore nega completamente, ma io sono un semplice lettore, parlo dunque di quello che capisco. Un giovane capitano prende servizio su una nave pronta a salpare da qualche esotico porto, peccato che non riesca a farlo davvero. Come incatenata sull’acqua, per due settimane la nave resta prigioniera in uno specchio di mare, un mare immobile, privo di qualsiasi energia. Che si tratti di paure che bloccano la nostra crescita, di paradigmi mentali che ci legano al nostro porto sicuro o che sia soltanto un mare non sfiorato da venti, La linea d’ombra è il perfetto esempio di come poter soffocare in mare aperto. Il mare destino Nel lungo racconto di Hemingway, Il vecchio e il mare, troviamo il mare come casa, come destino di vita. La storia è conosciuta: il vecchio pescatore non prende neanche un pesce, ma continua a uscire in mare. La storia della vita, praticamente: nonostante i fallimenti, si continua a vivere. Non c’è altro orizzonte che il mare, non c’è altra vita che la vita. Da queste parti, s’intende, per il resto sono comunque speculazioni. Il mare mistero Un classico della letteratura d’avventura, Ventimila leghe sotto i mari di Jules Vernes, non può che parlare di mare, però da un altro punto di vista. Infatti siamo negli abissi della coscienza: scopriamo foreste misteriose, creature mai viste, la perduta Atlantide addirittura. Un mondo fatto da tanti mondi, esattamente come l’animo umano. E, visto che siamo in tema di umano, si sa: l’esplorazione dell’io dopo un po’ stufa, meglio evadere quindi e tornare più prosaicamente a terra. Ah, non vi spaventate, questa è solo una chiave di lettura (presumibilmente sbagliata), la storia è davvero una bellissima avventura di mistero sotto marino. Il mare viaggio Ulisse non è un personaggio che mi sia particolarmente simpatico: in pratica è la quintessenza di “esco a prendere le sigarette” e torna vent’anni dopo. Stiamo parlando dell’Odissea di Omero, a cui però non faccio una colpa. Lo capisco: voleva creare un personaggio senza macchia, un coraggioso eroe che solca i mari alla ricerca di non ho compreso bene cosa. Non è colpa sua se Ulisse non si mostra all’altezza: d’altronde da uno che esce di casa per tornare dopo vent’anni non si può aspettare troppo. Infatti gira ubriaco in compagnia di cani e porci, frequenta bordelli (pardon, sirene) e non perde occasione di fare a botte con ciclopi a caso. Insomma: il classico marinaio poco raccomandabile che anche di navigazione capisce poco, visto quanto ci mette per trovare la rotta di casa. Torna vecchio e stanco e per poco non finisce disconosciuto dalla propria famiglia. Per capire che, forse, la famiglia era l’unica cosa che contasse davvero. Il mare scuola Torniamo sempre lì: il mare come metafora della vita, come insegnante di vita. Rudyard Kipling ne parla in Capitani coraggiosi, bellissimo romanzo di formazione in cui un giovane ragazzo che ha tutto dalla vita ne impara il valore. E cosa c’è di meglio che farlo cadere in mare e salvarlo da una barca di rudi pescatori per insegnarli tutto questo? Il faticoso lavoro, la bellezza dei rapporti umani, il valore delle piccole gioie: queste le lezioni imparate dal ragazzo, lezioni delle quali non ci farebbe male un ripasso.
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Classici e non solo Il mare è presente in tantissimi altri romanzi anche più moderni, prova tangibile del suo fascino davvero senza tempo. Da Baricco a Fabio Genovesi, passando per i mari nordici di Björn Larsson e Jón Kalman Stefánsson (per citarne solo alcuni), arriviamo a La scia delle balene di Francisco Coloane oppure a Banana Yoshimoto con Il coperchio del mare. C’è un mare di libri da leggere, così come c’è un mare da scoprire in ognuno di noi. Conclusioni “Oltre tutte le montagne che chiudevano i miei orizzonti non vedevo altro che mare.”
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  Annabelle Lee   Nella stessa serie: Il tè nella letteratura Le melanzane in letteratura L’amicizia nella letteratura Read the full article
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numerozero71 · 4 years
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Pezzi di storia:
Cosa ha sbagliato Napoleone a Waterloo
Nella sua ultima battaglia, combattuta esattamente duecento anni fa, Napoleone fece diversi errori: scelse male i suoi collaboratori,
La sera del 18 giugno 1815 l’imperatore Napoleone Bonaparte non sapeva di aver appena combattuto la sua ultima battaglia. Poco dopo il tramonto si stava allontanando dal villaggio di Waterloo, in Belgio, circondato da soldati francesi in fuga. Aveva 46 anni e quel giorno era stato sconfitto per la sesta volta nella sua carriera. Aveva combattuto sessanta battaglia da quando vent’anni prima il governo francese lo aveva nominato generale e quella sera pensava che presto ne avrebbe combattuta una sessantunesima. Ma quando arrivò a Parigi il parlamento lo obbligò ad abdicare e lo costrinse a fuggire dal paese. Nel suo lungo esilio su un’isola sperduta nell’Oceano Atlantico, Napoleone rimuginò amaramente nelle sue memorie sugli errori che gli avevano portato via una vittoria a cui era stato così vicino e che nessuno avrebbe ritenuto possibile.
A marzo, tre mesi prima della battaglia, Napoleone era di fatto un prigioniero, esiliato sull’Isola d’Elba dopo la sconfitta che aveva subito nella battaglia di Lipsia. A giugno era fuggito dall’esilio, si era ripreso il trono di Francia togliendolo a re Luigi XVIII e aveva messo in piedi un nuovo esercito. Il suo rapido e spettacolare ritorno aveva lasciato stupefatta l’intera Europa, ma la sua situazione era comunque disperata. Le potenze eruopee riunite al Congresso di Vienna si accordarono per sconfiggerlo una volta per tutte e misero insieme un esercito di circa un milione e mezzo di soldati. La Francia, indebolita da due decenni di guerre quasi ininterrotte, poteva schierarne meno di mezzo milione. Napoleone decise di attaccare. Manovrando con abilità, sorprese due delle armate alleate prima potessero concentrarsi e il 16 giugno sconfisse a Ligny, in Belgio, l’esercito prussiano. Il giorno dopo, il 17, si accampò vicino a Waterloo, pronto ad attaccare l’esercito inglese rimasto isolato. Quella sera Napoleone commentò con i suoi marescialli: «Abbiamo novanta possibilità su cento di vincere». La battaglia del giorno dopo avrebbe probabilmente deciso le sorti della guerra: se anche gli inglesi fossero stati sconfitti la grande alleanza si sarebbe rotta e la Francia avrebbe potuto negoziare la pace con molti dei suoi nemici. Napoleone sembrava a un passo dalla più inaspettata delle sue vittorie.
Tutto sulla carta sembrava essere andato secondo i piani, ma in realtà Napoleone aveva già commesso parecchi errori. Il più grave era stato quello di scegliere male i suoi collaboratori. Napoleone aveva una spiccata “sensibilità” nei confronti di amici e parenti – nel corso della sua carriera ne sistemò una decina sui troni di mezza Europa. Come “numero due” per la campagna scelse il maresciallo Michel Ney detto il “Prode tra i prodi”. Ney era coraggioso e irruente, ma non brillava per intelligenza: lo stesso Napoleone aveva definito la sua comprensione della strategia militare «pari a quella dell’ultimo dei tamburini» (i tamburini all’epoca erano in genere ragazzini di 15 anni). Ma Ney era anche il più importante tra i generali che il re di Francia aveva inviato a fermare Napoleone dopo il suo ritorno dall’esilio all’Elba. Invece di arrestarlo, Ney si era dichiarato fedele al suo vecchio imperatore e aveva disertato il re: un gesto di cui Napoleone si ricordò quando assegnò i comandi per la campagna.
Come c’era da aspettarsi, il “Prode tra i prodi” combinò parecchi pasticci. La sera del 15 giugno non riuscì a conquistare un importante nodo stradale e il giorno dopo, mentre Napoleone sconfiggeva i prussiani a Ligny, non gli fece arrivare i rinforzi che gli avrebbero permesso di ottenere una vittoria decisiva. Napoleone ci mise anche del suo. Proprio lui che un tempo aveva dichiarato «posso perdere una battaglia, ma non perderò mai un minuto», in quei giorni fu colto da una strana letargia. Ad esempio, a Ligny si attardò un paio d’ore sul campo di battaglia meditando ad alta voce sugli orrori della guerra invece di ordinare subito un rapido inseguimento dei prussiani sconfitti. Due giorni dopo a Waterloo, davanti all’esercito inglese, decise di rimandare l’inizio dello scontro perché il terreno era umido a causa delle piogge della notte precedente e avrebbe limitato l’efficacia dei suoi cannoni.
Quando a mezzogiorno l’artiglieria francese cominciò finalmente ad aprire il fuoco, la situazione a Waterloo era questa: il campo di battaglia era lungo circa cinque chilometri e l’esercito inglese, formato da 68 mila soldati in gran parte tedeschi, belgi e olandesi, era schierato sulla cresta di una collina. I 73 mila soldati di Napoleone si trovavano dall’altro lato di un piccolo avvallamento a circa un chilometro di distanza. Il primo goffo attacco guidato da Ney, a cui Napoleone aveva malauguratamente affidato la direzione di gran parte della battaglia, cominciò alle 13 e i soldati francesi furono respinti in disordine dopo una sparatoria durata un’ora. Intorno alle 16, mentre la fanteria francese cercava di riordinarsi dopo la ritirata, Ney combinò un altro guaio. In cima alla collina vide dei movimenti che gli sembravano una ritirata e ordinò immediatamente alla cavalleria di caricare. Diecimila uomini e cavalli avanzarono su per il pendio nel corso di una dozzina di attacchi che furono tutti respinti. Gli inglesi non si stavano affatto ritirando: quello che aveva visto Ney era soltanto lo spostamento dei feriti nelle retrovie.
Napoleone intanto aveva un altro problema. I prussiani battuti due giorni prima erano comparsi in forze sul suo fianco: il generale più famoso al mondo per le sue manovre di aggiramento era stato a sua volta aggirato. La colpa era nuovamente dello stesso Napoleone che due giorni prima aveva perso tempo a ordinare l’inseguimento dei prussiani e aveva messo a capo delle truppe incaricate di tenerli lontano dal campo di battaglia un generale inesperto – per di più dandogli ordini molto confusi. Intorno alle 17 la linea francese aveva assunto la forma di una L con la gamba lunga rivolta agli inglesi e quella corta formata da truppe raccolte in tutta fretta per fermare i prussiani. Nel frattempo Ney, dopo aver capito che la sola cavalleria non avrebbe concluso niente, cominciò a mandare in cima alla collina occupata dagli inglesi (gamba lunga della L) un po’ di cannoni e quei fanti che si erano ripresi dal fallito attacco di un paio di ore prima. In questo modo riuscì a conquistare una fattoria strategica da cui i suoi uomini misero in serio pericolo il centro dello schieramento nemico.
La battaglia era arrivata al momento culminante. Alle 18 Ney chiese urgentemente rinforzi per completare la vittoria, ma Napoleone gli rispose in malomodo e concentrò le sue attenzioni e i rinforzi di cui disponeva sui prussiani alla sua destra (cioè la gamba corta della L). Alle 19, quando la situazione si fu stabilizzata, tornò a dedicarsi a Ney e decise di inviargli in aiuto l’ultima formazione che gli restava, il suo corpo migliore e al quale era più affezionato: la Vecchia Guardia, il corpo scelto formato dai suoi veterani più anziani.
L’attacco della Vecchia Guardia
Quell’ora di ritardo, però, era stata fatale. Mentre le lunghe file dei veterani con gli alti colbacchi di pelo d’orso avanzavano su per la collina al suono dei tamburi, gli inglesi rafforzarono il centro con tutte le truppe che avevano. Quando la testa della colonna francese arrivò in cima alla collina, gli inglesi la stavano aspettando su tre lati, sdraiati nell’erba alta. A un comando dei loro ufficiali si alzarono di colpo e scaricarono sui francesi una serie di raffiche di fucile a volte a soltanto venti metri di distanza. La Guardia tentò di resistere, ma senza successo. Dopo pochi minuti i migliori uomini dell’esercito di Napoleone fuggirono dalla collina. «La Garde recule!», “la guardia si ritira!”, fu il grido che si diffuse immediatamente in tutto l’esercito francese. L’imbattibile Vecchia Guardia era stata messa in fuga e la battaglia era persa. Al calare della notte quasi un terzo dell’esercito francese era morto, ferito, prigioniero o disperso. Gli altri si erano tramutati in una massa disordinata in cerca di salvezza.
Waterloo fu una brutta battaglia combattuta al termine di una campagna brillante, una delle migliori di Napoleone secondo lo storico militare David G. Chandler. Nel sue memorie Napoleone attribuì le colpe della sconfitta a Ney e al comandante incaricato di inseguire i prussiani, ma il suo livore nascondeva il fatto che era lui stesso a meritare gran parte del biasimo. Era stato lui a scegliere i subordinati che non erano riusciti a portare a termine i suoi piani ed era sempre lui che si era lasciato accecare dal suo incredibile successo. A maggio era un prigioniero, a metà giugno era di nuovo imperatore, aveva radunato una nuova armata, sconfitto un esercito nemico ed era pronto a sconfiggerne un altro. Sentiva di essere infallibile e così perse ore preziose nei momenti più importanti della campagna e affrontò lo scontro con la noncuranza di chi sa di aver la vittoria in tasca. L’epitaffio alla mancanza di fantasia con cui uno dei più grandi generali della storia combatté la sua ultima battaglia spetta probabilmente al duca di Wellington, comandante dell’esercito inglese, che riassunse così la giornata di Waterloo: i francesi, disse, «sono venuti su alla vecchia maniera e noi alla vecchia maniera li abbiamo ributtati di sotto».
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