Tumgik
#calmarsi
ragazzoarcano · 3 months
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“Se ti senti agitato, non fare e non dire niente. Inspira ed espira finché non sei abbastanza calmo. La calma è il fondamento della comprensione e dell'intuizione. La calma è forza.”
— Thich Nhat Hanh
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mostro-rotto · 11 months
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Calmati. Stai ancora imparando, stai ancora cambiando, stai ancora crescendo. Respira, ragazzo. Vacci piano con te stesso. Troverai la tua strada.
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silviaaquilini · 1 year
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lospalatoredinuvole · 7 months
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Non so andarci piano.
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kvara si rende conto che forse la rivalità che sente per davide non è esattamente platonica. enjoy!
Lui non era mai stato un tipo molto aperto, anzi, fin da piccolo era stato un ragazzo di poche parole, che faticava a fare amicizia con gli altri. Impacciato, taciturno, goffo.
Khvicha non aveva molti posti nel mondo da chiamare casa. Certo, c'era la sua terra natale, ma ormai la Georgia si trovava a migliaia di kilometri si distanza da lui. E quella grande e strana città nella quale ora viveva, dove tutti lo trattavano come un dio, dove inneggiavano il suo nome e dove avevano esposto foto, bandiere e murales con la sua faccia e quelle dei suoi compagni, non poteva certo essere considerata davvero casa, o perlomeno non ancora. Si sentiva più come un re nel suo palazzo dorato pieno delle sue chincaglierie: bello, anche divertente viverci, ma gli mancava quel calore, quella familiarità che solo un posto che veramente si considera casa potrebbe dare.
Ma il campo. Il campo da calcio era tutta un'altra storia.
Forse era lì, solo lì, che si sentiva veramente nel luogo dove poteva essere completamente libero. Senza paranoie, senza pensieri. Gli bastava avere un pallone tra i piedi e nient'altro per tornare a respirare con leggerezza. Per tornare a sentirsi di nuovo vivo.
E non c'era momento in cui si sentiva più vivo che durante i big match, quelli contro le altre grandi squadre, quelli che contavano davvero, quelli dove giocano i fuoriclasse che ti spingono a dare il meglio di te per non esserne da meno, che ti fanno sudare ogni centimetro conquistato, ogni pallone, l'adrenalina alle stelle.
Era da poco più di un anno al Napoli, eppure già si era scontrato con alcune delle più grandi squadre europee, contro diversi calciatori che gli avevano dato filo da torcere e che gli avevano regalato la soddisfazione di un vero duello.
Eppure.
Eppure c'era qualcosa di diverso con quel Calabria.
Dal primo momento in cui si erano ritrovati faccia a faccia, con lo sguardo intenso dell'altro completamente concentrato su di lui, Khvicha era stato investito da una scarica di adrenalina diversa dalle altre. Era come se Calabria fosse il suo doppio, anticipava quasi ogni sua mossa, gli era costantemente col fiato sul collo. Khvicha era suo, e non se lo sarebbe fatto scappare per nulla al mondo.
Anche questo primo scontro di stagione non era stato diverso. Khvicha avrebbe mentito se non avesse ammesso di aver aspettato con ansia proprio il momento in cui lui e Calabria si sarebbero di nuovo ritrovati sullo stesso campo.
Alla fine però, questa volta, nessuno dei due aveva davvero vinto. Un pareggio, forse evitabile, forse no, ma comunque un pareggio. La frustrazione gli bruciava dentro. Aveva deluso i loro tifosi, per giunta in casa, e se solo quella palla fosse entrata in porta all'ultimo momento, allora –
«Hey, great match!»
Khvicha si girò verso Calabria. Gli si stava avvicinando ancora col fiatone, ma con un sorriso compiaciuto sulle labbra. Inspiegabilmente, il suo primo, irrazionale pensiero fu che gli mancava vederlo coi suoi vecchi capelli ricci.
Scosse la testa. «Yeah, you've been very good, man» gli rispose, ricambiando il sorriso.
Questa volta Calabria rise di gusto. «You're pretty good yourself!» disse, per poi avvicinarglisi ancora di più, a braccia aperte. E per quanto solitamente lui non fosse il tipo da contatto fisico ravvicinato con persone che conosceva poco, aprì a sua volta le braccia e ricambiò l'abbraccio senza un attimo di esitazione. Poteva giurare di sentire Calabria sorridere mentre gli stringeva un braccio intorno alle spalle, la mano che si alzava ad accarezzargli la testa.
Una calda sensazione che proveniva da qualche parte nella sua pancia gli risalì fino al petto. Cercò di ignorarla, focalizzandosi solo sul calore dell'abbraccio dell'altro. Respirò a fondo l'odore di sudore dell'altro per calmarsi. Sudore, erba falciata, terreno umido: quelli erano gli odori del campo, odori di casa, che non mancavano mai di farlo stare meglio. Calabria sapeva di tutti questi messi insieme, e di un altro odore che non riusciva a classificare ma che doveva essere semplicemente lui. Era un buon odore, pensò.
Quando si separarono – e oddio, quanto tempo era passato? Gli era sembrata passata un'eternità, ma dovevano essere stati solo pochi secondi – Calabria gli stava ancora sorridendo, tutto denti. Khvicha notò che quando sorrideva gli si formavano delle rughe di espressione intorno agli occhi. Perché le trovava adorabili?
Dopo un attimo di quella che per un momento gli era sembrata esitazione – doveva essere un abbaglio, esitazione per cosa? – Calabria si allontanò, salutandolo con una mano. «To the next match!» urlò, prima di raggiungere i suoi compagni.
Khvicha restituì il saluto, anche se ormai non gli stava più prestando attenzione. Al prossimo match, di nuovo. Sarebbero passati mesi prima di riscontrarsi. Non era una novità.
E allora perché il cuore gli si era stretto in petto a sentire quelle parole?
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Khvicha non aveva idea del perché, ma quell'abbraccio era stato ripreso da praticamente tutti gli account sportivi italiani.
Cioè, era solo un abbraccio. Un sacco di avversari si salutano alla fine di una partita, no? Però tutti sembravano voler elevare quel momento a picco massimo della sportività tra due avversari, per qualche strana ragione. Forse era proprio perché la rivalità tra lui e Calabria era ormai nota, e quell'abbraccio a qualcuno poteva essere sembrato strano per quello. Sbuffò. Per certe persone era davvero difficile distinguere la rivalità sul campo dalla vita vera. Lui era esattamente l'opposto, e una rivalità così sentita non poteva portargli altro che avere maggior ammirazione del suo avversario, e quell'abbraccio non ne era stato che la naturale conseguenza. Semplice rispetto reciproco. Nulla di più.
Il fatto che si fosse andato a cercare e salvare tutte le angolazioni possibili in cui i giornalisti avevano scattato quel momento era un altro discorso. Era un bel ricordo da mantenere, ecco tutto.
Fu proprio mentra scollava il feed di Instagram che si accorse che Calabria aveva messo una nuova storia. Toccò l'icona rotonda colorata senza neanche pensarci su e si ritrovò davanti la foto di loro due che si abbracciavano, con la caption Respect.
Di nuovo quella sensazione di calore in fondo allo stomaco. E stava pure sorridendo come un deficiente.
Mise un cuore alla storia e gli mandò un messaggio.
Respect to you too, brother
It was a fun match
Chiuse Instagram e bloccò lo schermo del telefono. Aspettò la bellezza di dieci secondi netti prima di sbloccarlo di nuovo per controllare se ci fosse un messaggio di risposta. Ma che cazzo gli stava prendendo.
Stava per ribloccare il telefonino e andarlo a chiudere a chiave in un cassetto per non toccarlo mai più, quando il suono di una notifica echeggiò per la stanza. Erano due messaggi di Calabria.
Li aprì subito.
It's always fun to play against you! 😉
I wish we could do it more often... ☹
Oh. Quindi anche a Calabria mancava scontrarsi con lui. Sentì il cuore iniziare a battere più forte.
Me too
Si fermò un secondo, poi aggiunse un altro messaggio:
I really like how we fit together on the field
Ecco, l'aveva inviato. Oddio, sperava di non essere andato troppo oltre con quel commento. E se avesse frainteso? Se gli avesse dato fastidio? Se –
Oh you bet we fit well together 😉
Khvicha dovette ripetersi più volte che stavano parlando solo ed esclusivamente dei loro scontri sul campo di calcio. Nient'altro.
Uno scontro sul campo particolarmente allusivo.
Cazzo cazzo cazzo.
Il suono di una nuova notifica gli evitò un crollo mentale imminente riportandolo alla realtà.
How about we see each other for a rematch next time we both have a free day? I could come to Napoli or you could come to Milano
What do you think? 😁
Khvicha rilesse quelle parole.
Cosa ne pensava? Pensava che forse, forse, quello che provava per Calabria non era solo ammirazione da avversario e che forse aveva un principio di infatuamento...
(Ripensò ai suoi occhi azzurri, ai suoi capelli ricci, al suo sorriso che gli arrivava fino agli occhi: forse il forse era un eufemismo)
...e forse questo suo infatuamento era ricambiato.
I would like that very much, Cala
La risposta arrivò dopo qualche istante.
And please, call me Davide 😉
Khvicha sorrise. Forse poteva anche trovarsi a migliaia di kilometri da casa sua, ma chi lo diceva che non se ne poteva costruire una nuova dalle fondamenta?
Thank you, Davide
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monologhidiunamarea · 2 months
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Credo di aver fissato fuori tutta la notte. Ho visto la pioggia improvvisa scendere prepotentemente per poi calmarsi e lasciare spazio alle nuvole e al silenzio. Poi qualche piccola e timida stella , la luna che giocava a nascondino. Poi sono crollata abbracciata al cuscino tra un desiderio e l'altro.
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perpassareiltempo · 1 year
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Il bacio colpisce come la folgore, l'amore passa come un temporale, poi la vita torna a calmarsi come il cielo e ricomincia come prima. Si può ricordare una nuvola?
Guy de Maupassant
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ragazzoarcano · 9 months
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La mente agitata trova problemi in tutto.
La mente calma trova opportunità in tutto.
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arreton · 9 months
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Una personalità evitante la cui ansia riesce a calmarsi col contatto di un corpo caldo.
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sciatu · 1 month
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DENTRO IL TUO BUIO (solo chi ti ama viene a cercarti nel tuo buio)
Sentì il buio diventare denso, viscoso, solido, trasformarsi in un senso di oppressione assassina che aumentava , rubandogli il fiato che sentì gli stava mancando mentre quelle oscure sabbie mobili nell’inghiottire la sua anima, diventavano un enorme peso che schiacciava il suo cuore impedendogli di battere. Annaspò cercando aria fresca ma non riusciva a respirare, mentre il senso di angoscia aumentava diventando quasi solido e tangibile come una lastra di granito tagliente come ossidiana scheggiata che lo stava coprendo, schiacciandolo dentro una buca non più larga del suo respiro. Cercò di calmarsi, per vincere quella colata di opprimente paura che stava coprendo la sua bocca, il suo naso, occludendo ogni via attraverso cui l’aria poteva entrare e la vita continuare, arrivando fino al suo cervello per divorare la sua coscienza, il suo essere, la sua anima. Sentiva il sudore freddo che gli scendeva dalle tempie lasciandogli la sensazione di una gelida e mortale carezza, un gelido sudario che aderiva al suo volto ed alle sue spalle impedendogli di respirare, mentre in lui un male oscuro cresceva a comprimergli ogni organo da cui il suo essere dipendeva, divorando i polmoni che non ricevevano aria, il cuore dentro cui il sangue si stava coagulando,  una horcinus orca impietosa e crudele,  un virus maligno che infettava il suo sangue e divorava ogni suo tessuto, una lebbra al cui tocco ogni parte del suo corpo appassiva morendo e imputridendo. Cercò di aprire gli occhi ma si ricordò che non poteva perché aveva avuto l’incidente ed ora, non vedeva più, non poteva più vedere niente e nessuno, per sempre e capì che era questo il motivo per cui si sentiva chiuso vivo in una bara in cui non poteva neanche muoversi,  anche se avesse potuto urlare, nessuno, l’avrebbe potuto sentire o vedere ed aiutare, nessuno in quell’eterno buio in cui era, si sarebbe occupato del suo dolore. Nessuno. Per sempre. Si alzò di scatto sul letto, ansimando come se l’aria fosse finita e lentamente si mise in piedi  camminando nel suo buio assoluto e fuggendo da quel letto che gli sembrava ormai un sepolcro violato, uno di quei tavoli operatori dove tra l’odore di etere e di disinfettante avevano ricamato il suo corpo con aghi di bestemmie e fili di lacrime. Si avventurò nella camera da letto e poi nel piccolo corridoio e quindi nel salotto, con le mani protese in avanti ad evitare ostacoli che non sapeva, urtando con i piedi oggetti che non riconosceva, spigoli che non aveva ancora memorizzato in quei vani tentativi di vivere malgrado il buio che lo circondava. Muoveva lentamente i piedi, facendoli scivolare sul pavimento freddo, sempre ansimando, sempre con quella sensazione di angoscia profonda che lo opprimeva con gratuita cattiveria , come se la morte fosse li, dietro di lui, a seguirlo ghignando divertita nel vedere quella sua goffa camminata da zombie, nel mettergli tra i piedi ostacoli sconosciuti, paure mai dimenticate e nuovi dolori sottili come vetro scheggiato. Raggiunse la vetrata che dava sul terrazzo e l’ aprì uscendo fuori, verso la notte,  investito dal vento umido del mare, dal suo lungo respiro salato, dal sibilo della sabbia che seguiva le onde nel loro tornare, dall’abbaiare lontano dei cani e dal profumo dei gelsomini appena dischiusi. Arrivò alla ringhiera che delimitava la terrazza e vi si aggrappò sentendo il metallo freddo e la vernice smangiata dal sale. Respirò a pieni polmoni quell’aria fredda che  scendeva nella gola come fosse una ondata marina che tutto travolgeva distruggendo e ricreando. Era una ringhiera piccola per uno grande e grosso come lui. Sarebbe bastato sporgersi e lasciarsi andare nel vuoto e la sua angoscia sarebbe finita per sempre. Nel buio.
“Amorre guarda chi ti è venuto a trovare qui in clinica : il signor Calabrò! Te lo ricordi”
“ Si, il capomastro del cantiere. Sono cieco e paralizzato, ma non sono rincretinito”
“Ingegnè come andiamo, per quel po' che si vede tra le fasce ha un bel colorito”
“sono gli anticogulanti non la salute che migliora”
“Amorre, il signor Calabrò ti ha portato i cannoli”
“ingegnè, lo so che non ne può mangiare ma i ragazzi hanno insistito che ci puttassi nu penseru”
“e come stanno?”
“ingegnè la vogliono ringraziare se non era per lei a loro ci avianu già cantatu u deprofundis”
“non è che io sia tanto di più in là…”
“ che dice ingegnè u peggiu è sempri a cu mori e ringraziannu a Madonna, lei jè ancora ca cu nui! Quannu ci fu du bottu, u sangu mi siccoi, e mi dissi “Muriu” quannu u visti da nterra, cu tuttu du sangu e a cammicia strazzata e chi rispirava ancora, mi dissi “ A Madonna i Tindari ni fici u miraculu”
“Orbu e paraliticu, fici menzu miraculu: chi  campu a fari? Farei prima a buttarmi dalla finestra e farla finita”
Senti la mano di Anja che stringeva la sua
“amorre che dici  Sei vivo, ci sono io, e tutti ti vogliono bene, vedi che il signor Calabrò è venuto a trovarti, i ragazzi ti salutano e non ti dimenticano. E poi lo sai, io senza te non ci so stare, ti seguirò dovunque andrai: quello che farai tu … lo farò anch’io”
Ci fù un attimo di silenzio imbarazzato
“Ingegnè ma chi dice, a vita è buttana ma è sempre vita”
“su non pensare queste cose brutte! Signor Calabrò per favore, può stare cinque minuti con lui che vado a parlare con il fisioterapista?”
“Annassi signorina…, cioe signora che sto io con l’ingegnere”
Senti un bacio e i passi di Anja che si allontanavano
“ ingegnè lei non l’avi dire si cosi, chi so mugghieri ci resta mali, e poi idda pari na carusa, na cosa “sciuscia chi bola” ma è na liunissa, na fimmina i ferru, ha statu sempre ca cu lei  jonnu e notti, no lassoi nu minutu secunnu! – e aggiunse parlando lentamente per sottolineare quello che stava dicendo -  Ingegnè, ciu dicu pi quantu rispettu ci pottu, vaddassi chi so mugghieri, chiddu chi dici,… u fa…”
“lo so Calabrò, … lo so”
Con le mani seguì la ringhiera fino a dove finiva attaccandosi al muro della casa. Si spostò di un passo verso l’interno e toccò il dondolo disposto contro un lato della terrazza protetto dal vento dal muro della casa adiacente. Andò a sedersi su quell’instabile sedile continuando a riempire i polmoni di aria della notte per sentirsi ancora all’aperto in un grande spazio, lontano dalla bara in cui si era sentito rinchiuso ed ancora, per quel che importava, vivo.
“Forse devo pregare, perché questi possono essere i miei ultimi istanti. Ma pregare chi? Chi mi ha dato un buon lavoro, una vita sana, Anja e poi mi ha levato tutto, accecandomi, riducendomi come Giobbe, chiuso dentro la balena,  dentro la mia oscura bara? No, è inutile pregare. Devo fare qualche cosa d’altro. Devo pensare ai momenti felici della mia vita, come quando mi sono laureato, o la prima volta che mi hanno dato da seguire un grosso progetto, o quando ho incontrato per la prima volta Anja … ma quello non è stato un momento felice, ma solo un momento, senza importanza, quando sono entrato nel bar del grande albergo dell’est europeo, pieno di business man che sembravano mafiosi e di escort che ti avrebbero tagliato la gola sorridendo e li l’ho incontrata. Ora mi sembra assurdo ma quello era il mio ambiente di trasfertista tecnologico, abituato a posti peggiori, come gli alberghi del Sudamerica o le strade della Nigeria dove vai a pisciare protetto dalla guardia del corpo. Il capo mi aveva sollecitato un email ed ero entrato velocemente nel bar per spedirgliela. Un cameriere alto a allampatu con un riporto di capelli che andavano dall’orecchio sinistro a quello destro venne a prendere l’ordinazione. Poi arrivò Anja, con un enorme pantalone lungo nero, il gilet bordò dei camerieri su una enorme camicia bianca e un papillon nero e storto. Lei magra, e minuta, i capelli biondi raccoltti in una lunga coda, anche se alta non riusciva a riempire la divisa standard dell’albergo. Attraversò la distanza tra il bancone e il mio tavolo lentamente, con il vassoio tenuto con entrambe le mani, osservando preoccupata il bicchiere di acqua tonica che ad ogni suo passo ondeggiava. Con quei suoi vestiti fuori taglia sembrava un clown che imitava un cameriere. L’osservai stupito.
“vadda a chista cà”
Pensai sorpreso dalla sua inesperienza, preoccupato che all’arrivo mi rovesciasse il bicchiere sul computer dove stavo guardando le e-mail. Invece arrivò e con abilità depose il bicchiere sul tavolino dicendo qualcosa nella sua lingua.
“Thanks”
Risposi sollevato.
In quel momento dal mio cellulare partì la suoneria con Maria Callas che, finita la prima quartina di Casta Diva, intonava il crescendo che trasformava l’aria che cantava in un celeste acuto, qualcosa di incredibile che mi fa venire i brividi ogni volta che lo sento. Risposi velocemente perché quell’ acuto dell’immortale, malgrado la sua aerea soavità, squarciò la quiete del bar come una cannonata. Mi dimenticai di lei rispondendo al capo che mi sollecitava impaziente, l’email. Quando finii la discussione me la vidi ancora di fronte che mi osservava rapita
“Era un’opera, vero?”
Chiese perdendo ogni servile formalità
“Era la Casta Diva dalla Norma di Bellini, la conosci?”
Scosse la testa e con gli occhi stupiti da quel soave acuto chiese ancora
“e lei che cantava, chi era?”
“Come chi era – feci sorridendo  – la divina: la Callas!”
Sorrise
“Il mio professore al conservatorio me ne ha parlato, diceva che era brava”
“Non era brava, era sublime - poi mi fermai a pensare – ma parli Italiano?”
Lei sorrise
“Io vado ogni anno in Italia, a Bellaria, per lavoro, faccio  la cameriera negli alberghi o ristoranti”
“Ah, e dov’è Bellaria?”
“Vicino Cesenatico. Conosci?”
“poco, io sono siciliano”
“Ah come Fiorello – sorrise – lui molto bravo”
Aspettò che firmassi il foglio della consumazione e restò a guardarmi. Pensai che volesse la mancia e cercai in tasca
“no, no – mi fece subito e sottovoce aggiunse – posso risentire la sua voce?”
La guardai perché non avevo capito
“La voce della Callas … non l’ho mai sentita prima: è meravigliosa”
“hai whats-up? -  Fece segno di si - Scrivi qua il numero del cellulare e ti mando tutta l’aria.”
Sempre più sorpresa e forse sospettosa esitò un secondo e poi scrisse il suo numero. Le mandai l’aria poi le altre arie più famose della Callas.
Quando sentì il segnale del messaggio del telefonino guardò stupita e indietreggiò ringraziando.
La catalogai tra le tante persone strane che incontravo nelle mie trasferte e tornai alla posta.
Il giorno dopo quando mi sedetti per la colazione era molto presto ed ero l’unico nel ristorante dell’albergo. “Riporto Selvaggio” arrivò che si stava ancora abbottonando il gilet
“Good morning Sir, do you want coffe or the?”
“Coffe please, if possible a cappucino”
“A cappuccino? Little Anja will bring it to you”
Dopo pochi minuti apparve la piccola Anja nella sua clownesca divisa da cameriera
Adagiò sul favolo un cappuccino che sembrava perfetto e sottovoce mi disse
“Questo lo faccio solo io perché nessuno sa usare la macchina italiana del caffè. Ti ho portato una brioche calda, l’ho farcita con la cioccolata che lo chef fa solo per il direttore”
“grazie – risposi soddisfatto – hai sentito la Callas?”
“Tutta la notte! La so a memoria”
“Ah si  allora ti è piaciuta”
“Molto, è perfetta! La musica che mi piace è quella da pianoforte ma lei è troppo brava”
“Ma la musica moderna non ti piace?”
“si tutta, Coldplay, Shakira, ma la musica classica, specie quella da piano mi fa sognare. Mia madre dice che mi piace perché mio padre era musicista”
“suonava in un orchestra?”
“non lo so, non l’ho mai conosciuto, mamma non ne parla mai”
Mentre parlava smanettavo con il telefono. Dal bancone si senti il suo cellulare suonare annunciando nuovi messaggi
Si girò seccata
“a quest’ora chi è che rompe?”
“sono i Notturni di Chopin”
“Chopin?”
Sorrise e corse via saltellando.
La sera, quando rientrai e andai al bar, sul tavolo d’angolo dove mi ero seduto al mattino, c’era un bicchiere colmo di fiori freschi e un biglietto con scritto “reserved” e il mio numero di camera.
Da allora, ogni volta che mi fermavo al bar per lavorare sedendomi al mio tavolo, se alzavo gli occhi dal computer la vedevo con gli auricolari mentre preparava cocktails o caffè e con la testa, con scatti impercettibili, batteva il tempo della musica che ascoltava, tutta concentrata su quanto sentiva senza far caso al vociare della sala.
La sera appena mi sedevo per mangiare qualcosa di veloce, senza che ordinassi, arrivava  con una birra, poi un toast farcito con prosciutto affumicato,  o una omelette e un altro bicchiere grande di birra. Quando il suo collega “Riporto selvaggio” si allontanava, lei si avvicinava e chiedeva chiarimenti sulle parole o sulla trama o l’autore di questa o quell’opera. O mi chiedeva dei teatri come la Scala, il San Carlo o il Bellini. O parlavamo di musicisti di cui conosceva le opere ma non la storia
Confessò una sera che aveva lasciato il  conservatorio dove studiava piano perché doveva mandare i soldi a casa, per cui faceva due o tre lavori. Parlavamo sempre di musica. Per lei era una passione assoluta aggravata dal fatto che non aveva potuto diplomarsi. Per me era una necessità perché non amavo il silenzio, avevo sempre bisogno di rumore intorno a me, per questo lavoravo al bar e non in camera. Quando non c’era rumore, ascoltavo sempre la musica, qualsiasi musica, ma in particolare quella classica perché ero cresciuto con zia Assunta che suonava il piano spiegandomi la  bellezza delle opere e i segreti delle sinfonie Così, dopo ogni sua domanda, finiva sempre che le mandavo questo o quel brano più o meno famoso. Non potevo concepire che qualcuno ignorasse il requiem di Verdi o non potesse ascoltare gli ACDC o addirittura ignorare Brubeck. Fatto sta che per un mese lei era diventata per me una presenza continua e piacevole, a me legata da una complicità di interessi e affinità. A sentirla, a parlare di musica e di arte, mi sentivo a casa. Quando arrivò il momento di tornare realmente a casa mia, non so perché  ma mi dispiaceva lasciarla e la invitai per il giorno dopo a pranzo
“perché”
Chiese stupita
“perché sei stata gentile con me e volevo ringraziarti”
mi guardò seria
“io non sono una di quelle”
Fece indicando con il mento due Escort che stavano intrattenendo i loro clienti al bancone del bar
“io non sono uno di loro”
Risposi indicando i due clienti che biascicavano parole stordite dall’alcool.
Sorrise
“Ci penso”
Rispose e tornò al bancone a servire dei clienti. Tornò dieci minuti dopo dicendo solo
“Domani all’ora di pranzo al “Vecchio Re”. Quando arrivi entra e chiedi di Anja”
Fui contento. Era tanto che non uscivo con una donna, mi sembrava quasi di avere un’avventura e la cosa mi rese allegro. Il ristorante non era lontano dall’albergo, il taxi fu li in cinque minuti. Entrai in quella che sembrava una vecchia scenografica trattoria, con teste di cinghiale appese ai muri di mattoni rossi, circondate da foto in bianco e nero di attori e celebrità che non conoscevo. Tutti i tavoli in legno rustico erano pieni e c’era un vociare intenso e diffuso. Mi passò accanto un cameriere con i baffoni alla Ceccobeppe, lo fermai e gli chiesi
“Anja?”
Lui mi guardò
“Italian?”
Feci cenno di si. Lui mi prese e mi portò in fondo alla grande sala, vicino alle cucine, dove c’era un piccolo tavolo apparecchiato per una persona. Guardai l’austroungarico con delusione
“No, no, Anja…”
Ma lui mi spinse a sedermi
“Anja, Anja”
Ripeté seccato e se ne andò
“Ma vaffanculo”
Pensai incazzato e d’improvviso apparve Anja, vestita come le cameriere dell’October fest.
“Ciao”
mi disse sorridendo
“Ma, … non mangi con me?”
“Quasi, questo è il mio secondo lavoro. – e per scusarsi fece un sorriso bellissimo - Cosa ti porto?”
“Fai tu”
Risposi deluso.
Il pranzo fu però eccezionale, con salumi e insaccati di ogni animale che abitava nella foresta, un gulasch di carne di cervo e involtini di verza ripieni di carne, il tutto innaffiato da boccali di birra che appena svuotavo riapparivano pieni con la schiuma che traboccava gioiosa. Infine uno strudel accompagnato da un vino cotto dolce e ricco di zenzero, chiodi di garofano e cannella. Ero beato e felice a causa del tasso alcolico e del vociare allegro del ristorante, con Anja che andava e veniva fermandosi a volte per chiedermi se quello che mi aveva portato mi piaceva. Ero concentrato su un contorno misterioso quando d’improvviso scese il silenzio. Sentii un pianoforte suonare. Riconobbi subito le note introduttive dell’aria e infine una voce che iniziava a cantare. Mi alzai e vidi Anja, seduta al pianoforte che stava cantando Casta Diva, non troppo bene a dir la verità, ma con grande passione. Nella trattoria austroungarica scese quel silenzio che nasce quando un evento merita una attenzione assoluta. Mi sentii felice. Anja stava cantando per me, storpiando qualche parola e su un pianoforte che aveva visto tempi migliori, ma era per me che stava amorevolmente rovinando un’aria sublime. Quando finì fui il primo a battere le mani e a gridare “Brava” seguito subito da tutta la massa di festosi alcoolisti che riempivano quella trattoria per turisti e che non avevano neanche capito che la musica era finita. Lei iniziò una canzone locale e subito gli avventori si unirono a lei seguendo intonati il pianoforte battendo i boccali di birra sui tavoli. Ceccobeppe arrivò sedendosi di fronte a me,  mise sul tavolo una bottiglia di grappa con due bicchieri che riempì fino al bordo. Urto col suo bicchiere il mio e lo svuotò d’un fiato, seguito subito da me
“Anja … - incominciò a dire come se volesse fare un discorso – Anja … - ripetè guardando il soffitto come se cercasse le parole giuste per un qualcosa di importante – Anja … - aggiunse severo e duro come se fosse arrivato al punto esitando ad andare avanti  per paura di offendere – Anja …”
concluse con gli occhi umidi e riempiendo di nuovo i bicchieri svuotò il suo come il primo e se ne andò asciugandosi le gote. Lo osservai preoccupato e seguii il suo esempio con un altro bicchierino. Allora non capii cosa volesse dirmi. Lo capii più tardi, per tutto quello che poi successe. Comunque, ero felice, con le orecchie che mi ronzavano e il pantalone sbottonato per lasciar crescere la pancia piena di cibo, ma ero felice. Anche Anja era felice perché aveva avuto modo di suonare che per lei era il modo di entrare nel suo paradiso ed era rilassata e sorrideva come mai faceva quando era sotto lo sguardo severo di “riporto selvaggio”. Forse per le birre, o la grappa di pere o di prugne, forse per il vociare festoso di quella trattoria dei Carpazi, la trovavo bellissima. Quando il locale incominciò a svuotarsi venne a sedersi con me
“Allora domani parti”
“Si il progetto è finito e ritorno a casa”
“poi torni?”
“no, non credo”
“Sarà contenta la tua fidanzata”
“non lo so. È da quando si è sposata che non la vedo”
“si è sposata?”
“si, era stanca di vedermi due mesi l’anno, cosi si è sposata con un altro. E tu ce l’hai il fidanzato?”
“si lo avevo, ma ora non so dov’è. È un mese che non lo vedo. Lui abita in un’altra città e io devo andare sempre dalla mamma”
“Bhe, sei così bella che qualcuno troverai che ti vuole bene”
“non lo so, i ragazzi della mia età mi sembrano molto bambini”
Guardò l’orologio
“è tardi devo tornare in albergo per il turno serale”
Ci alzammo per tornare in albergo e Anja mi disse di aspettarla che mi avrebbe accompagnato. Si cambiò ed uscì sottobraccio con me. Disse che l’albergo era dall’altra parte del parco e che bastava attraversarlo per arrivare. Pensai che dopo tutto quel cibo e quell’alcool, due passi mi avrebbero fatto bene. Il parco era enorme con alberi secolari e collinette ed era tutto coperto di neve tanto che sembrava il bosco incantato di qualche favola del nord. Mi chiese se mi fosse piaciuto il pranzo e ammisi che era stato abbastanza decente, come la sua interpretazione e incominciai a fare foto al paesaggio
“la neve l’ho vista poche volte, per me questo paesaggio è bellissimo”
Mi giustificai. Le chiesi di fare un selfie e infine di farle una foto con dietro un enorme albero bianco. Per meglio inquadrarla feci pochi passi indietro, ma sotto la neve doveva esserci un cordolo; lo urtai mentre indietreggiavo e caddi sprofondando con la schiena nella neve. Nel cadere urtai un albero e la neve dei rami mi crollò addosso seppellendomi. La sentii ridere e mi misi a ridere anche io. Si avvicino e mi prese le mani per sollevarmi, ma mentre stava tirando, il piede su cui stava facendo forza, le scivolò sulla neve e mi cadde addosso lanciando un grido. Ci siamo messi a ridere. L’osservai che rideva con gli occhi felici, le gote rosse e il volto quasi attaccato al mio. Le sue labbra sottili erano a pochi centimetri dalle mie, i suoi occhi azzurri puri come acquamarina e che racchiudevano tutti i cieli del nord, erano immersi nei miei oscuri occhi africani bruciati dal sole e neri come la lava.  Allora feci quello che se non avessi bevuto, se non fosse stato solo per così tanto tempo, non avrei mai fatto. Forse. Non lo so. Comunque, per concludere, la baciai.
Lei rimase sorpresa, ma non si staccò. Resto lì attaccata, con le sue labbra fredde alle mie e rispondendo al saluto della mia lingua da cui non aveva fretta di staccarsi.Ecco questo fu un momento felice. Il secondo da quando l’avevo incontrata”
Respirò sereno l’aria piena di salsedine. L’angoscia non era vinta, ma si stava spegnendo.
“Quando lei si staccò i nostri occhi si fissarono quasi incerti su cosa era successo, su cosa voleva dire quel bacio improvviso e su cosa bisognava fare dopo. Incominciò a muoversi e si staccò alzandosi. Anch’io, un po' più goffamente  la imitai e mi alzai di fronte a lei scuotendo la neve che era rimasta attaccata al giubbotto. Mi aiutò, poi mi prese sottobraccio e riprendemmo a camminare.
Dopo pochi passi, preso dai sensi di colpa, le dissi
“Scusa per prima … forse ho bevuto troppo”
“no, no ti preoccupare, non è successo niente”
La frase mi gelò e mi intristii, ma non volli toccare l’argomento, era diventata silenziosa e anche se si era stretta al mio braccio, la sentivo lontana, chiusa nei suoi pensieri. Aveva quasi metà dei miei anni e ne dimostrava ancora di meno, avrei potuto veramente essere suo padre e una persona matura come me, non dovrebbe andare in giro a baciare donne che vivevano i sentimenti senza quel mio distaccato cinismo che ne smussava gli spigoli taglienti. Inoltre il giorno dopo sarei partito senza rivederla più: che senso aveva mettere di mezzo i sentimenti, approfittare di lei come un vecchio porco? L’avventura in trasferta, non era cosa che mi interessasse, ne avevo avute, ma con donne della mia età, con una morale elastica, opportunistica e non con donne che nell’anima avevano ancora quella innocenza che dentro di me si era inaridita. Mi seccava averla quasi molestata con uno stupido e incontrollato gesto. Mi ricordai lo sguardo severo di Ceccobeppe che forse voleva dirmi prprio questo, di non far del male alla piccola Anja. Mi dissi che forse, se la nostra amicizia fosse finita sarebbe stato meglio. Dopo tutto, l’amore non era mai stato un mio obbiettivo primario e più invecchiavo vedendo amici e conoscenti, innamoratissimi dieci o venti anni prima che ora crudelmente e dolorosamente divorziavano o che continuavano a vivere da sposati semplicemente e freddamente indifferenti l’uno all’altro, nel vedere tutto questo avevo raggiunto la convinzione che l’amore fosse semplicemente inutile. Mi spiegai quel bacio con l’effetto dell’alcool che aveva bloccato i miei freni inibitori. Nulla di più. Per cui tornammo a parlare dei nostri soliti argomenti di conforto, quelli che sapevamo affrontare senza bisogno di impegnarci più di tanto: la malattia della madre di lei, la musica, la prossima partenza. Arrivati in albergo dissi che ero stanco e che salivo in camera a riposare, lei corse a cambiarsi per l’inizio del suo turno al bar.
Si, ero stanco, ma in verità mi vergognavo di quello che era successo o forse mi spaventavo perché avevo fatto qualcosa che neanche avevo pensato e che il mio io cosciente neanche aveva immaginato. Mi preoccupava pensare cos’altro avrei potuto fare nell’averla vicina. Dormii un’oretta per smaltire l’alcool, mi svegliai pensando di scendere al bar, ma non lo feci quasi volessi evitare di incontrarla e con lei di incontrare la mia peccaminosa lussuria o un opportunità che richiedeva troppo impegno. Troppa sincerità. Incominciai a fare la valigia e a concentrarmi sul prossimo ritorno. Erano quasi le undici, l’ora in cui il bar chiudeva. L’avrei rivista domani a colazione mi dissi. Un ciao veloce e via. Mi sarei lasciato alle spalle la figuraccia da vecchio porco che salta addosso alla ventenne. Mi sentivo un Orco, uno di quei bavosi, mostruosi e lascivi vecchi che insidiavano le ragazze palpeggiando e sbavando. Misi al telefonino un po' di musica. Visto l’umore in discesa scelsi il requiem di Mozart e tornai a rivedere il rapporto finale del progetto.
Qualcuno bussò. Andai ad aprire con in mente un paragrafo da cambiare. Quando aprii c’era Ania che indossava la sua clownesca divisa da cameriera.
“Posso entrare?”
Ma non aspettò la risposta e scivolo dalla fessura della porta dentro il piccolo corridoio della stanza, ma quando vide la  stanza con il grande letto nel mezzo, non proseguì oltre e si fermò con la schiena contro la parete del corridoio come un animale braccato. Senti la musica
“Cosa stai ascoltando?”
“Mozart, il requiem”
“non mi piace, mi fa venire i brividi – si fermo qualche secondo - Volevo salutarti, domani è lunedì, sono di riposo e vado a casa a trovare mia madre”
“Hai saputo come sta?”
“Non molto bene. Mia zia voleva dare più soldi ai dottori ma non li hanno voluti perché non possono fare niente. Solo non farla soffrire”
“ho capito … portale i miei saluti”
“Si lo farò – sorrise – mi chiede sempre del mio amico italiano”
Il suo sorriso mi diede coraggio.
“Ecco Ania, … oggi forse ho approfittato della tua amicizia e ho fatto qualcosa che non dovevo: scusami”
Pensò qualche secondo
“Ah, il bacio … non ci pensare”
Sorrisi divertito
“vuoi dire che non so baciare, che neanche lo hai sentito?”
Sorrise anche lei.
“Era un bacio, niente di più …. E poi … - alzò gli occhi a fissare i miei – a me è piaciuto …tanto”
La guardai.
La musica lentamente introdusse il coro di Lacrimosa.
Lacrimosa dies illa - Lacrimoso giorno di lacrime
Le era piaciuto. Non era offesa o incavolata. Dopotutto poteva salutarmi sulla porta, ma era entrata. Mi avvicinai e la guardai negli occhi come se vi cercassi qualcosa. Sorrise con negli occhi la purezza e la grazia di una Madonna di Raffaello. Perché gli occhi delle donne sanno dire più cose di quanto le loro parole  dicono?  perché la loro luce ci fa dimenticare chi siamo e incendia ogni nostro desiderio? Lacrimoso giorno, è vero, quello in cui non avrei più rivisto il piccolo cielo dei suoi occhi azzurri. Meravigliosamente azzurri. Lacrimoso giorno in cui avrei maledetto la mia responsabile esitazione, vivendo un assenza che avrebbe avuto il gusto del veleno.
Qua resurget ex favilla - Quando risorgerà dal fuoco
La luce fioca del corridoio definiva i suoi tratti slavi perfetti, l’ovale dolce circondato dal biondo dei suoi capelli, il suo collo sottile e lungo, il corpo nascosto nella sua extralarge divisa. Nella penombra le sue labbra sembravano più grandi, forse più dolcì. Le era piaciuto, era giusto darle allora quello che aveva apprezzato. Lentamente le mie labbra si avvicinarono alle sue e le afferrarono, rapaci. La sua lingua corse in loro soccorso, la mia la fermò a rapire il piacere che emanava intenso e puro come la luce di un rubino. Era far risorgere quel desiderio che le nostre labbra confessavano, era rinascere dal gelido fuoco dei nostri quotidiani silenzi, dal nostro consumarci nei doveri forzati e tornare liberi sulle nostre labbra, sulle porte delle nostre anime, perché così potessero vivere.
Judicandus homo reus - L’uomo reo per essere giudicato
Non era peccato, quel semplice bacio. Non si poteva giudicare come cattivo e odioso, un atto d’amore. Perché era l’amore corrisposto che trasformava un vecchio molestatore in un desiderato amante. E a lei era piaciuto quel piccolo seme d’amore che le avevo donato. Il seme era germogliato dentro di lei e ora lei era venuta a donarmene il frutto. Allora, non era più peccato sbottonarle il gilet e farlo cadere come una foglia morta sulla vecchia moquette della stanza. Non era peccato levarle quell’inutile papillon e sbottonare, uno ad uno, i bottoni di quella inelegante candida camicia. La sua bocca mi confermava che no, non era peccato, le sue spalle nude ripetevano che non poteva essere peccato, se colpa avevo, era di non aver capito prima di quel momento, che lei era la redenzione di ogni mia solitudine, che io ero la casa dei suoi sogni. È questo un peccato? scoprire che chi fino a pochi secondi prima era solo una presenza amica, ora invece è il lievito della nostra via? No, in amore non vi è peccato. E’ nel nostro egoismo, il seme di ogni peccato e noi due in quel momento non eravamo egoisti, volevamo donarci tutti noi stessi regalarci ogni nostro desiderio.
Lacrimosa dies illa - Lacrimoso giorno di lacrime
Non poteva essere quello un giorno infelice, né un ora triste o un minuto disperato, lei era la purezza che salvava, la bellezza che giustificava, l’amore che nutriva, il sesso che distruggeva e ricreava. Lei era il tempo che avevo lasciato, io ero il tempo che lei ancora non aveva conosciuto. Come potevamo essere estranei se avevamo lo stesso desiderio? Come potevamo essere peccatori se il nostro peccato era desiderare, io la sua splendida primavera, lei il mio saggio autunno: era peccato desiderare ognuno di noi due, la gioia dell’altro?
Qua resurget ex favilla / Judicandus homo reus
Di quale giudizio dovevo spaventarmi, se non del suo, se non quello di non essere l’amante che lei voleva, così lentamente scesi tra la spalla e il collo a baciarla scivolando da un estremo all’altro e liberai il suo piccolo reggiseno, scaldando le sue piccole coppe con le mie enormi mani, facendo violenza ai suoi capezzoli, cosa che la fece sobbalzare e chiudere gli occhi, lasciandole fuggire un sospiro intenso. Da dove nasce il piacere? Dalla mia lingua che scivola sulla sua pelle? dall’immaginarsi la liquida rossa lingua che lascia una scia umida sulla bianca pelle? o dalla pelle che sente quella morbida, lunga, calda, intensa carezza? Dov’è il sesso? in quello che facciamo? in quello che proviamo nel fare o in quello che immaginiamo di fare? Il sesso era il piacere che lei provava, era quello che io sentivo nel far scivolare le mie mani di uomo sul suo corpo di ragazza, nel liberarlo da quei pantaloni inutili per liberare il suo piacere accarezzando quelle sue forme che sembrava ancora quello di una adolescente, un fiore dal virginale profumo, appena aperto alla vita.
Huic ergo parce Deus /Pie Jesu, Jesu Domine -Ma tu risparmialo Dio, pietoso Signore Gesù
Si perdonami, pensai. Perdono chiedevano le mie labbra che scendevano dalle sue coppe minute, sul suo ventre delicato, fermandosi ad omaggiare ogni sua delicata parte. Perdona le mani di questo peccatore che violavano con cosciente voglia i suoi indumenti più intimi lasciandola nuda e indifesa di fronte al desiderio divoratore, mentre mi  inginocchiavo in sua lasciva adorazione
Dona eis requiem /Dona eis requiem /Amen - Dona ad essi la pace/Dona ad essi la pace/Amen
Si donaci la pace, quella che spegne i desideri ormai sazi, quella che cancella le tentazioni vissute, nutrici con i nostri corpi, pensavo sul finire del brano, mentre la mia bocca raggiungeva la sua porta della vita, e le donava la mia amorevole ammirazione, la dolce, delicata laida carezza della mia passione. Al tocco delle mia lingua lei reagì lanciando un altro lungo respiro come a trattenere il fiato e con lui l’estasi, le sue braccia si irrigidirono, i suoi pugni si strinsero, la sua testa si piegò all’indietro e i suoi occhi si chiusero come se il calore e la luce di un sole immenso stesse esplodendo nel suo grembo. Risalii lentamente, lungo quella via della redenzione che era il suo corpo, raggiunsi le sue labbra, rividi i suoi occhi. Le sue labbra strinsero le mie, le sue braccia mi imprigionarono, il suo corpo mi reclamava. Dopo la mia breve overture, voleva iniziare il primo atto della nostra opera carnale, voleva nutrire con me tutte le nuove voglie che le avevo mostrato. Cosi quella notte diventammo cenere, consumati meglio dire travolti da un fuoco che non avevamo mai realmente conosciuto, di cui fino a quel momento ignoravamo la vera forza e l’assoluto domino”
Respirò di nuovo profondamente. Sentì un motorino passare scoppiettando per strada, sentì i primi fischi di richiamo dei merli, il fruscio degli oleandri smossi dal vento. Intorno a lui c’era la vita e non più il nulla, il vuoto. Era uscito per il momento dal suo buio.
“Da li in poi fu tutto un casino come se tutta la mia vita tranquilla e ripetitiva, fosse d’improvviso destinata a scomparire. La notte Anja la passò con me e il mattino dopo si alzò presto per prendere il treno. Mi alzai anch’io e pensando di fare un bel gesto presi un regalo che avevo comprato per mia madre.
“Tieni – le dissi quando usci dalla doccia immersa in un enorme accappatoio ed io ero sulla porta del bagno tutto orgoglioso del bel gesto che stavo per fare – ti ho preso un ricordo”
Lo guardò seria e lo prese tra le mani
“Grazie – diede un occhiata superficiale alla scatola e me la restituì – ma non voglio ricordi”
La guardai stupito
“Ma come … perché?”
“Perché i ricordi fanno solo male e poi mia madre a vederlo penserebbe che ho fatto cose strane per meritarlo, mi darebbe della Puttana, quello che tutti le hanno detto per anni per l’unica notte d’amore avuta con mio padre: non lo voglio”
Stavo per ribattere ma mi fermai. Anja non faceva nulla di getto, ma quel regalo lo aveva immediatamente rifiutato. C’era qualcosa che non mi aveva detto. L’abbracciai e lei subito si strinse a me, appoggiando la testa sul mio collo
“Cosa c’è che non va, cosa devo sapere che non so?”
Restò qualche secondo in silenzio.
“La vita che non si vive, non esiste. Io con tè in queste settimane sono stata felice perché tu conosci tutti i miei sogni e me ne hai dati altri. Con te sono come nata di nuovo, e se stanotte sono stata qui è perché volevo tutto di te come per fermare il tempo. Ma non si può fermare il sole che nasce, ora diventerai ricordo e non ti vivrò più. Questo mi fa paura perché tu sai tante cose e tante me le insegni, perché mi rispetti, mi ascolti come un padre e mi ami come un ragazzo. Non voglio solo ricordare e ricordando, invecchiare sola come mia madre. Voglio a te, ma tu devi andare e io devo restare per mamma e so che non ti rivedrò più.”
Non mi sono mai piaciute quelle situazioni emotive che ti annebbiano la ragione. Mi chiesi chi era Anja per me e mi risposi che era l’unica donna che avevo baciato nella neve, perché lei era come la neve: pura, candida e ricopriva, riscaldava, puliva ogni pensiero che avevo come fa la neve col bosco.
“Questo regalo era solo un modo per chiederti di non dimenticarmi perché neanch’io voglio perderti – la staccai da me e vedendo gli occhi pieni di lacrime glieli asciugai – non siamo Madam Butterfly e Pinkerton. Tu non sei Cho Cho San, sei la mia piccola Anja: se tu lo vuoi, io non ti lascio da sola. Ora non abbiamo scelta, non possiamo fare diversamente. Appena arrivo ti mando un biglietto aereo e appena puoi vieni da me. Cambierò lavoro e resterò a casa con te e riavremo tutta la vita che non abbiamo vissuto”
Lei sorrise
“è una bella favola quella che mi dici”
“è la realtà, quello che ti offro”
“Non hai sposato la tua fidanzata che ti aspettava da anni e vuoi portare via la piccola Ania che hai incontrato da pochi giorni?”
“certo – la guardai sorridendo – questo perché la piccola Anja è carina, sempre allegra, responsabile, disponibile, perché l’amore è una scommessa e se vuoi vincere molto devi puntare tutto quello che hai, e tu è questo quello che hai fatto questa notte ed io è questo quello che voglio fare domani, perché dopo di te, non avrò più tempo per amare qualcuno”
Vidi le sue pupille muoversi impercettibilmente per osservare tutto il mio volto cercando la verità
“giusto”
Concluse alla fine, sorrise e si aggrappò a me per baciarmi con quella intensità e passione che di notte aveva imparato. Lei mi credette perché voleva illudersi che ero sincero. Io ero sincero perché volevo illudermi che quello che dicevo fosse vero. Anche se nessuno di noi due aveva usato la parola amore, era quello il senso di quel nostro volerci illudere. Perché è questo l’amore, una concreta illusione. Ero sempre stato un viaggiatore egoista. Avevo tenuto per me tutte le bellezze e le meraviglie che avevo visto e che cambiandomi ( perché la bellezza trasforma sempre a chi si rivela) mi avevano reso estraneo a chi avevo lasciato a casa. Ora nei miei viaggi avevo finalmente trovato la perfezione, l’armonia e la portavo via con me e, proprio per poterla farla mia, non potevo non rinunciare, non potevo non rischiare, non provare e dichiarare sul tavolo verde della vita il mio unico e ultimo All In.
Dopo circa venti giorni, sua madre mori e lei venne a vivere da me. I miei genitori dopo averla pensata una arrivista furba che era venuta a farsi mantenere dal solito benestante maturo e coglione (mio padre: ma chi minchia studiasti a fari si appena vidi a prima sciacquina chi ti mustra u picciuni ta potti a casa? Ma sticchiu, nun n’avivi vistu mai? Mia madre: ma u corredu l’avi o veni ca sciutta sciutta a fassi sebbiri?), scoprirono chi era al suo arrivo.
“Ecco Anja questa sono mamma e papà”
“Ciao sono felice di conoscervi”
“Bongionnu signurina,bongionnu”
“Oh che piaceri signorina Anja, trasissi, trasissi”
“ signora, per favore chiamami Anja, posso chiamarti mamma? se no non riesco a parlarle”
“Oh che dice … che dici Anja cetto che può chiamarmi mamma”
“ho perso da poco mamma e ancora non ho superato la sua assenza, penso sempre a lei se la chiamo mamma mi sento meglio”
“Oh cori mei chissà quanto hai sofferto. Ecco vedi, mi sono emozionata – fece prendendo il fazzoletto e asciugandosi il naso - veni, veni, qua in salotto siediti qui accanto a me dimmi, sei stanca, vuoi mangiare?”
“io non mangio molto”
“si vidi cori mei, si sicca sicca: u saccu vacanti non sta rittu”
“Ma quello è un pianoforte?”
“Si è della sant’anima di mia sorella Assunta, lei suonava il piano benissimo, se fosse nata al noddi sarebbe stata una grande artista”
“è uno Stauffcacosu…. Na macca tedesca imputtanti. Per accordarlo l’anno scorso ci spinnii 2000 euri”
“posso suonarlo?”
“Lo sai suonare? o che bello prego prego”
Mia madre si sedette vicino al pianoforte come faceva quando suonava zia Assunta e mio padre si accomodò sulla sua poltrona come un re sul suo trono sodisfatto che i soldi spesi fossero stati utili. Anja aprì il pianoforte, accarezzò i tasti, si voltò a guardarmi felice poi, guardò lo spartito rimasto al suo posto da quando zia Assunta era venuta a mancare e incominciò a suonare Chiaro di Luna. Ricordo tutta la scena come se fosse ancora qui di fronte a me. La luce che entra dalla vetrata e illumina mia madre e mio padre mentre Ania suona. Mia madre seduta  sulla punta della sedia che osserva Anja e si commuove forse pensando alla zia, forse risentendo le parole di Anja che la voleva chiamare mamma. Mio padre che segue ad occhi chiusi battendo con la mano il tempo sul bracciolo e che poi si volta verso di me e puntando il dito indice destro sulla sua gota destra, lo fa girare a dirmi in silenzio l’apprezzamento per Anja. Questa la terza volta che Anja mi ha fatto felice.
Io cambiai lavoro e incominciai a lavorare nella ditta locale di un mio amico che si occupava di bonifiche. Fu così che avvenne l’incidente. C’era un serbatoio interrato. Il capomastro, Calabrò, voleva andare avanti e rimuoverlo con la ruspa. Io feci andare tutti via, perché un serbatoio di cui non sapevamo nulla poteva essere una bomba, ed infatti, mentre controllavo che tutti fossero al sicuro, esplose e i pezzi di metallo mi colpirono alla nuca, tagliando ogni collegamento tra i miei occhi e il cervello. Caddi nel buio e ci resterò per tutta la mia vita. Non avrei più visto il mare, il cielo, i volti dei miei genitori, il cambiare delle stagioni, albe e tramonti, le emozioni di chi mi parla, gli occhi ed il sorriso di Anja. Nulla. Il buio, un buio ignoto, ostile, dominante, segna ogni secondo del giorno, ogni mio respiro. Tutto mi è sconosciuto, e anche seduto in una stanza, resto disorientato, perso nel cercare messaggi che non so tradurre in informazioni utili. Resto prigioniero del buio, incapace di avere riferimenti certi, di essere parte della vita che non posso vivere e che quindi, come diceva Anja, non può esistere.”
Rimase con la mente vuota, stanco di ricordare per sentirsi vivo e di pensare ad Anja per attaccarsi alla vita.
“Amorre, amorre, ma che fai qui? Non ti ho trovato a letto e mi sono spaventata”
“non riuscivo a dormire, ho avuto una crisi di ansia e dovevo respirare un po' di aria fresca”
“Ma sei freddo, gelido, ti verrà polmonite, vieni dentro”
“No, sto bene qui, lasciami qui in pace”
La sentì ciabattare allontanandosi e pensò che si fosse arrabbiata ed era tornato a letto.
Sentì invece che tornava e che un manto caldo lo copriva
“Ho preso coperta, così stiamo caldi”
Senti che gliela sistemava coprendolo per bene, poi anche lei si sedette accanto a lui coprendosi con la stessa coperta. Senti che lo abbracciava e il calore del suo corpo che lo scaldava.
“Stiamo qui amorre è ancora tutto buio”
“vai a dormire, è inutile che stai qui a morire di freddo”
“io sono nata al freddo, poi qui ci sei tu, e io sto bene.
Lo abbraccio più forte.
“qui c’è calduccio, con te”
E appoggiò la testa sulla sua spalla
Per quasi mezzo minuto sentì solo il cigolio del dondolo
“Ti sei sentito male?”
“Si come sempre, mi sentivo soffocare come se fossi stato chiuso in una bara”
“Perché non mi hai chiamato? Ti avrei aiutato”
“E che puoi fare tu? mi puoi ridare la vista?”
“No, ma potevo fare carezze e tu ti calmavi”
“Le carezze non bastano! Non capisci che mi sento come morto, che non so se ho gli occhi aperti o chiusi, che impazzisco al pensiero che sono immerso nel buio e che non so dove andare, come muovermi, che non vedrò più nulla di quello che era la mia vita? Che non potrò più lavorare, vedere i volti di chi amo, i colori delle stagioni, sono in una prigione che incomincia dentro di me e finisce dove finisce l’universo.”
Si fermò perché capì che stava alzando la voce in modo isterico. Continuò a voce più bassa
“Lasciami stare, non puoi capire. Volevo fare per te tante cose, occuparmi di tutto quello che ti avrebbe fatto felice, fatti vedere le spiagge più belle i teatri, le città i posti dove tu saresti rimasta a bocca aperta, e invece, anche per andare in bagno ho bisogno che qualcuno mi accompagni, che qualcuno mi vesta come si fa con i bambini. Volevo renderti felice, curare i miei genitori, avere finalmente una casa per sempre, dove fare le cose che mi piacciono. Invece niente, sono un handicappato che ha bisogno di tutto e di tutti”
“Amorre ma io sono ancora qui, le città, i teatri, i posti meravigliosi, sono ancora intorno a noi. Vita non è finita, sei sempre quello che ha costruito ponti, strade, palazzi, quello che mi ha rubato alla neve e mi ha donato sole: tu sei handicappato solo se ti senti così. Devi iniziare a fare i primi passi, a reagire come ti ha detto  psicologa”
“Bona chidda! Ma chi minchia mi rappresenta chidda. Devo reagire…. Ma che ne sa lei. Che ne sa della bara nera in cui sono. Venisse lei dentro il mio buio e allora capirebbe”
ora era veramente incazzato, avrebbe dato fuoco a tutto il mondo, rotto tutto quello che circondava perché sentiva che nessuno poteva sapere cosa provava.
“Amorre calmati, non serve niente incazzarsi. Dai andiamo dentro, c’è l’umido del mare che ti fa male e ti fa sentire dolore nelle ossa”
Si alzò e lo fece alzare tirandogli le braccia. Gli sistemò la coperta sulle spalle e l’aiutò ad attraversare il terrazzo. La segui docilmente perché era stanco e alla fine aveva ragione lei a dire che non sarebbe servito a niente. Lo aiutò a sdraiarsi  su letto e lo coprì con le coperte. Si voltò verso il comodino cosi che lei  non lo vedesse, non voleva che lei gli parlasse o dicesse. Voleva solo silenzio.
“ahi”
“che c’è?”
“ho urtato con il piede”
“stai attenta, non vedi dove vai?”
“No è buio”
“accenditi la luce, almeno tu che vedi non farti male”
Non la sentì accendere la luce   ma senti il fruscio dei suoi vestiti
“ che fai?”
“ niente amorre  niente”
La sentì che si sedeva sul letto e che si copriva con le coperte. Poi il letto si scosse perché lei si muoveva e si avvicino a lui, gli si strinse contro, la sua mano entro sotto il suo pigiama salendo verso il suo petto e poi scendendo verso la sua pancia.
“Che fai? – la mano scese ancora insinuandosi tra le sue gambe – amore lascia stare, non ne voglia … non è il caso”
Ma la mano continuò accarezzando le sue intimità mentre sentì le sue labbra sul collo, salire con la lingua e raggiungere il lobo dell’orecchio e succhiarlo e poi la punta della lingua giocare dentro il suo orecchio.
“Amore … dai … finiscila”
 e con la mano la toccò sentendo che era nuda. Si girò sulla schiena per fermarla, ma lei ne approfittò per salire su di lui ed immergere la sua lingua tra le sue labbra. Con la mano cercò di spostare il suo volto, ma senti qualcosa di strano. Tocco con l’altra mano e capi che Anja si era coperta gli occhi con le garze oculari, diventando così temporaneamente cieca, come lo era lui.
“Amore che hai fatto?”
“Anja vuole entrare nel buio del suo amorre, … lo vuole liberare dal nulla -Rispose ridendo con un filo di voce e con le mani esplorò il suo volto - fammi entrare amorre, …  Anja, vuole scendere nel tuo cuore ”
E lo baciò con forza, poi seduta su di lui gli levò il pigiama e i pantaloni, si sdraio su di lui perché sentisse tutto il suo caldo corpo e incominciò a baciargli ogni parte che le sue labbra toccavano. Sentì il calore di lei che si muoveva sinuoso, serpeggiando su di lui e il suo corpo reagì come se lei gli avesse versato dentro del fuoco.
“Amorre, mi senti, sono qui, nel tuo buio, … come quando eravamo sulla neve, …. vieni amorre dalla piccola Anja – fece sottovoce sfregando la punta del suo seno sul suo petto – vieni mio re, l’amore non ha un colore, … come  piacere, o gioia, …. siamo noi che li pensiamo colorati come vuole nostra fantasia, …. ma loro sono neri, … oscuri, … come silenzio, … come desiderio, … vieni amorre, Anja è qui … nel tuo regno nero, …. ha bisogno di te, …. ha freddo, … dai  calore alla piccola Anja”
Accompagnava le sue parole da piccoli baci, piccoli morsi sul suo corpo mentre sentiva le sue mani sfiorare, stringere, tornare ad accarezzare, vogliose, sfacciate. I suoi capelli scivolavano sulla sua pelle solleticandolo, lasciando dentro di lui una scia come di stelle.
“Vieni amorre, Anja … è qui nei tuoi silenzi, … prendi i suoi occhi, … vedi sua luce, … perché sei tu la sua luce, … il suo re, …. sei respiro di piccola Anja, …. vieni amorre, questo buio è enorme, … ma Anja lo sa: tuo amore è più grande, … il tuo amore è immenso, … Ania lo sa mio re, … perché l’amore chiama amore … e l’amore di Anja  è come l’amore del suo re  …”
Senti scivolare i suoi capelli vicino al suo pube, ondeggiare come alghe nel mare mosse dalla corrente, sentì le sue labbra, la sua lingua e volle abbracciarla stringersela, tenerla stretta a se, diventare una unica cosa con quell’oscurità che lo stava adorando desiderandolo. Allora, la prese per le ascelle e la sollevo sdraiandola sopra il suo corpo.
Lei lo abbracciò e continuò a baciarlo sussurrando con voce cantilenante
“È come dentro neve, … siamo solo noi due, … piccola Anja e il suo vecchio re solo che adesso  neve è nera, … come l’amorre, … come gioia, … come voglia di Anja e del suo dolce re …”
Si girò e la depose sul letto e incominciò a baciarla dal collo, scendendo lentamente, si fermò sull’inizio del seno e scivolò verso le ascelle, alzò il suo braccio e sentì il suo odore di donna. Quell’odore gli penetro nel cervello come una lama di piacere e desiderio. Leccò quell’odore e ne senti il sapore salato, scese lungo il fianco e risalì verso il seno.
“Si amorre, mangia  piccola Anja …   piccola Anja vuole stare nel tuo buio … saziala amorre … ha sete di te … ha bisogno della gioia che le davi … senza di te Anja morirebbe … vieni mio vecchio re … Anja ti cerca nel tuo buio …  tu sei già sceso nel buio di Anja e l’hai portata via con te …  ora vieni, Anja è nel tuo buio, …. vieni ad abbracciare sua luce … vieni a riprendere tua vita”
 La lingua senti un punto a metà del seno e si ricordò che lì Anja aveva un piccolo neo e lo baciò come se avesse ritrovato un vecchio amico, una stella polare con cui potersi orientare e tornò a scivolare verso la punta del seno e lo solleticò, lo leccò, gli giro intorno lasciando che i denti l’afferrassero, tirandola, sentendola  lamentarsi con un filo di voce
“Amorre hai trovato Anja …  il buio ha dato tanta voglia ad Anja e al suo re, … vieni amorre…  sazia voglia della piccola Anja, e qui nel tuo buio, vieni … amorre …”
Ma lui continuò a scendere, sentendo la morbidezza del ventre, la profondità dell’ombelico, l’inizio dei fili ispidi del suo pube. Ne cercò l’odore, la delicatezza, l’estensione, tirando quel piccolo cespuglio che ricordava biondo, baciandolo, leccandolo mordendolo e poi tornò da lei, dalla sua bocca che si lamentava di piacere. Di voglia, di desiderio.  Quando senti che lui era sopra di lei lo abbracciò e lo bacio e lo strinse ancora più forte, allora lui oltrepassò la porta della vita e scivolò dentro di lei che lo strinse a se, incrociando le sue gambe con le sue, quasi fosse edera che si aggrappa al tronco di una quercia per nutrirsi della sua forza. Ebbe come la percezione che una parte del buio in cui era fosse Anja, e che quel buio che odiava, in realtà conteneva tutta la sua vita, tutta quella che lo circondava, e che bastava abbracciare una parte di quel buio per ritrovarsi tra le braccia Anja, o nel suo amato mare o sulle colline che c’erano alle spalle della sua casa. Allora strinse anche lui quella parte di buio che era il suo amore, e lo bacio con calma, respirando il suo respiro, facendo scoprire alle sue labbra le labbra di Anja, le gote, il collo delicato, gli occhi coperti dalla garza con cui Ania era venuta a cercarlo nell’inferno del suo assordante e violento nulla. Sentì che la mezza anima che lui portava, voleva uscire e cercò di distaccarsi, ma le mani di lei scivolarono sulla sua schiena e lo spinsero ancora più dentro
“ resta … amorre … resta  … Anja …  vuole”
Disse con un sussurro stordito dal piacere. Lei chiedeva la sua mezza anima, la voleva nel suo scrigno delle anime, voleva che trovasse l’altra mezza anima che lei conservava, così che le due mezze anime diventassero un’anima intera, una vita. Restò li, abbracciato, legato, immerso in lei, finché i loro respiri si calmarono. Si girò restando con la faccia verso l’alto, confuso da tutto quello che era successo. Lei si girò dandogli le spalle e si strinse contro di lui.
“Abbraccia Anja amorre, …    piccola Anja … ha sonno”
Disse con una voce appena percettibile. Lui si girò e l’abbraccio, lei strinse il suo braccio che la circondava e si accoccolò contro di lui. Sollevo una mano e toccò i suoi occhi, c’erano ancora le bende oculari. Era ancora nel suo buio.
Appoggiò la testa contro i suoi capelli e presto la senti respirare regolarmente. Respirò il suo profumo e si rilassò al suo calore.
“Anja è un pezzo del mio buio che tocco e che sento vivo. Ormai tutto il mio mondo è  questo buio. Lei, il cielo, i monti sono tutti dentro a questo mio nulla. Questo buio è il mio nuovo mare. Devo organizzarmi. Capire. Orientarmi. Scoprirne ogni angolo per poter vivere, per prendermi cura di Anja, dei miei vecchi … e, se venisse, anche di Anima Nuova … devo prendermi cura di loro, devo pensarci, non posso lasciare Anja a occuparsi di tutti. Devo incominciare a gestire le cose importanti. Ora mi alzo, mi lavo, mi faccio il caffè e vado dal barbiere. La strada me la ricordo, sono due traverse da qui. O sono tre? Chiamo mio padre e mi faccio accompagnare, così gli parlo .. gli chiedo di mamma, … e se ha potato gli olivi. Gli olivi devono essere curati se no soffrono … come noi uomini, dobbiamo liberarci dalle speranza morte che portiamo in noi per averne di più forti e dare frutto …. Gli chiedo del suo amico che vende la vigna …. E un buon affare … dovremmo pensarci. La vigna richiede impegno, ma una vita senza impegno, … è morte … Poi Anja deve tornare al conservatorio, è il suo desiderio più grande. Deve realizzarlo e ha bisogno di me per sostenerla, per starle vicino. Si mi alzo … dopo … quando Anja si sveglia …. Ora no, la disturberei … faccio il caffè … so dove è la caffettiera … aspetto … quando si sveglia …”
Si accorse che sognava perché improvvisamente vide le colline tutte dorate ed il mare quieto e azzurro com’è al tramonto.
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tma-traduzioni · 2 months
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TMAGP004 - Prendendo Note
[Episodio precedente] [Indice TMAGP]
[Il decrepito computer dell’O.I.A.R. si accende e inizia a registrare]
[Sentiamo il rumore di tastiere, e Sam che canticchia tra sé e sé]
[Qualcuno si avvicina a passi pesanti]
ALICE
(sussurrando) Ma che cavolo, Sam.
SAM
Cosa?
ALICE
Non azzardarti a dirmi ‘Cosa?’. Sono stata io a inventare ‘Cosa?’.
SAM
(A voce più bassa) Ch– Io… in tutta sincerità, non so di che cosa stai parlando!
ALICE
Ho appena ricevuto un avviso di sicurezza. 
SAM
Su di me?
ALICE
Qualcuno stava provando ad accedere a dei file riservati. E io scommetto che sei tu.
SAM
Perché mai dovrebbero arrivare a te questi avvisi?
ALICE
Non dovrebbero! Ma dovresti essere strafelice che questo sistema non funziona come dovrebbe. Se Colin lo venisse a sapere avrebbe un attacco isterico!
SAM
Già, beh, grazie, allora?
ALICE
A quanto pare hai fatto una ricerca per i file con i termini…(sposta dei fogli)“Magnus” e “Protocollo”? 
SAM
(Sorpreso) È per questo? Cioè, sì, okay, ho trovato un caso che citava l’Istituto Magnus e poi l’ho cercato e ho trovato alcuni file nel sistema che dicevano di applicare, (voce teatralmente severa) “Il Protocollo.” Perché dovrebbe essere riservato?
ALICE
Perché lavoriamo per il governo, e il governo ama i segreti, cretino!
SAM
Va bene! Sì, ho capito…
[Pausa]
ALICE
(meno arrabbiata) Senti, Sam. Non so cosa sia “Il Protocollo”, ma un paio di quelli della vecchia guardia lo ha nominato nel corso degli anni. Da come ne parlavano… è roba seria! Non vuoi nemmeno farti beccare vicino a quel genere di cose, men che meno a cercarla direttamente.
SAM
Beh, cioè, non è come se stessi -
ALICE
Non puoi andare a ficcanasare in questo genere di cose. Non se vuoi tenerti il posto… o la testa.
SAM
(leggermente divertito) Okay, okay! Ho capito. Considerami spaventato a dovere.
ALICE
Sono seria. Non voglio che tu finisca nei guai, chiaro?
SAM
(ha capito) Voglio dire… quanto nei guai?
ALICE
So solo che era coinvolta la Starkwall.
SAM
Starkwall? …Aspetta, Starkwall? Come la Starkwall  del “Massacro di Piazza San Pedro!”
ALICE
La milizia privata, sì.
[Passi che si avvicinano in lontananza]
SAM
(urla-sussurrando) Pensavo fosse un “noioso lavoro d’ufficio”!?
ALICE
(urla-sussurrando) Lo era finché tu non ti sei messo a ficcanasare!
[Passi, Gwen si siede vicino a loro]
[Sam si schiarisce la gola]
[Pausa piena d’imbarazzo]
GWEN
Almeno potreste far finta che non stavate parlando di me.
ALICE
Oh, cavolo, ci hai beccati! Stavo solo dicendo a Sam quanto è importante che si concentri sul suo lavoro, altrimenti rimarrà intrappolato qui per sempre come te. 
GWEN
Ma certo. Beh, abbassate la voce. Qui c’è gente che sta cercando di lavorare per davvero. Nel nostro posto di lavoro. Che ci paga.
SAM
Sì, ricevuto.
[Gwen fa un doppio clic al suo computer]
NUOVA VOCE DEL COMPUTER 
Mio caro nipote -
ALICE
(ad alta voce sopra l’audio) Hey! Augustus! È una vita che non lo sentivo!
VOCE DEL COMPUTER (AUGUSTUS)
Se stai leggendo queste parole allora io me ne sarò già andato, e non potrò offrirti alcuna garanzia sulla -
SAM
(Sopra l’audio) Allora, questa è, tipo, una voce rara?
[Gwen preme spazio, irritata]
[La voce si ferma]
ALICE
Tipo. Di solito sono solo Chester o Norris. Augustus è come un avvenimento speciale.
GWEN
Uno, non hanno dei nomi. Smettila di dargli dei nomi. Due, mi lasciate per favore continuare a lavorare.
SAM
Mi dispiace.
ALICE
A me no.
[Gwen fa un respiro per calmarsi, poi pigia di nuovo spazio]
VOCE DEL COMPUTER (AUGUSTUS)
Mio caro nipote, [ndt: nipote di zio]
Se stai leggendo queste parole allora io me ne sarò già andato, e non potrò offrirti alcuna garanzia sulla loro veridicità. Dovreai semplicemente confidare nella loro autenticità e contenuto.
Tieni per te ciò che leggerai, e mantieni il segreto, per tutta la tua vita.
Devo sperare che la misera eredità che posso offrirti evochi un minimo di quell’affetto familiare che negli anni passati non mi sono curato di mostrare.
[La voce di Augustus si fa immediatamente umana; sembra un raffinato signore di una certa età]
Nipote, a te lascio il mio violino, uno strumento di altissima fattura.
Confesso di aver un tempo contemplato l’idea di distruggerlo, o di gettarlo tra le fiamme, ma certe volte sono stato definito bramoso, e forse tale accusa ha del fondamento, poiché adesso io non riesco a farlo.
Nell’ultimo paio di settimane qui è caduta molta pioggia, che si è rivelata stranamente affine alla mia vena sentimentale, ed ha portato con sé un pizzico di nostalgia per quell’estate uggiosa che hai trascorso da me.
Mi fa piacere pensare che potrei aver lasciato su di te una qualche impronta di me stesso nel periodo passato insieme, e forse in questo modo cerco di continuare a possedere il mio prezioso violino.
Non ho mai raccontato ad anima viva di come sono entrato in possesso di questo violino, ma devo confidarti la verità che cela, poiché questo, e la sua storia, adesso sono tuoi.
Ero un giovanotto, più giovane di te ormai, quando venni convocato a dare prova del mio talento di fronte all’Orchestra Reale di Corte del Palatinato.
Anche se devo confessare che il pensiero di abbandonare le comodità materiali di Alnwick Abbey mi intimoriva, in verità, ebbi poca voce in capitolo, e il privilegio di tale invito mi era ben evidente.
Il mio maestro di violino, un certo (sprezzante) “Oliver Bardwell”, covava la convinzione che tale onore fosse puramente frutto del suo talento di insegnante, piuttosto che il risultato delle mie capacità e dei miei sforzi. 
Bardwell, un uomo eccezionalmente seccante, godeva nel ricordarmi che, sebbene mio padre fosse un Lord, il disdicevole contesto della mia nascita faceva sì che io non potessi fare affidamento sul suo titolo per garantirmi un futuro.
Durante quei momenti di crudeltà da parte di Bardwell, confesso che nella mia immaginazione contemplavo con piacere le macabre o grottesche sorti che potevano capitargli durante il viaggio, puramente per caso… oppure per mano mia.
Ciò nonostante, fu sia con apprensione che gioia nel cuore che osservai Alnwick Abbey farsi sempre più piccola. Il mio itinerario era diretto a Mannheim, una destinazione dove sentivo con una certezza tipica della gioventù che il mio talento sarebbe stato finalmente riconosciuto.
Per quel che riguarda il mio intoccabile padre, con la sua incrollabile certezza della sua celestiale importanza, anche lui scomparve all'orizzonte, circondato dai miei inutili fratellastri, che aspettavano con impazienza la loro eredità.
Naturalmente, fu il signor Bardwell a farsi carico del ruolo di accompagnatore per il mio viaggio attraverso il continente, senza dubbio coltivano i suoi sogni di innalzarsi grazie ai miei imminenti successi. 
Feci poca attenzione agli sproloqui o alla sua ambizione, trascorrendo quelle settimane di viaggio a raffinare i movimenti delle dita sul collo consumato del mio adorato Rogeri, almeno per quanto la carrozza traballante lo permettesse.
Purtroppo, con il lungo andare del viaggio, le perfette buone maniere e la patina di raffinatezza di Bardwell si erosero poco a poco, e quando la calura estiva lasciò il posto al fresco dell’autunno, i suoi modi si inasprirono non poco, una metamorfosi spronata da ogni sobbalzo e scossone della vecchia carrozza.
Presto, un'inquietudine febbrile si posò su di lui come un velo di tulle, e i suoi occhi, un tempo acuti, si annebbiarono con un luccichio frenetico, quasi maniacale.
Guardavo con crescente preoccupazione mentre le ombre danzavano sulle pareti dei suoi pensieri, la loro forma e natura a me celate salvo per quanto riuscivo a cogliere del suo borbottio a malapena percepibile all’udito. In alcuni momenti sembrava quasi che stessi ascoltando della musica lontana, anche se il mio strumento sedeva silenzioso accanto a me.
Ho accennato alle macabre fantasie che occasionalmente occupavano la mia giovane mente, ma devi credermi, nipote, quando dico che non ho avuto alcun ruolo nella sua morte. Non so che cosa sia stato alla fine a causare l’episodio frenetico che lo colpì quella notte. Aveva dormito poco nella settimana precedente, e l’affaticamento dei suoi nervi era evidente.
Fu quando sbagliai la posizione delle dita di quello che sarebbe dovuto essere un semplice esercizio, un errore che attribuisco agli sballottamenti della carrozza, che balzò in piedi. Dalla sua bocca uscivano fiotti di parole, prive di coerenza, una sinfonia di follia diretta da un invisibile maestro nella sua immaginazione.
Era come se degli spettri si agitassero proprio dietro la sua vista e gli avessero afferrato le mani, muovendole liberamente mentre il signor Bardwell cercava la salvezza, da quei fantasmi che perseguitavano i suoi sogni ad occhi aperti. 
Spesso mi chiedo se avessi potuto fare qualcosa per salvargli la vita. Ma ero giovane e terrorizzato, e sono rimasto a guardare in muto sbalordimento.
Mentre la tempesta nella sua mente si avvicinava a un crescendo, Bardwell afferrò la maniglia della porta della carrozza, l’aprì all’improvviso, e, senza esitazione, si gettò di testa nelle tenebre della notte.
Il cocchiere, accortosi immediatamente di quanto era successo, arrestò di colpo la carrozza, e affrontammo il cupo spettacolo che si trovava di fronte a noi.
Una roccia, macchiata con i disgustosi resti della mente disturbata del mio maestro e dei frammenti del suo cranio fratturato, faceva macabramente da lapide, svettando sopra il corpo senza vita dell’odioso signor Bardwell.
Nella mia ingenuità mi girai verso il cocchiere per chiedergli cosa avremmo dovuto fare. Purtroppo, mi accorsi subito di quale sospetto si era impossessato di lui.
Aveva assistito alle numerose e accese discussioni tra me e il signor Bardwell, e quando mi avvicinai, divenne evidente che non vedeva un giovane terrorizzato e smarrito, ma un violento assassino.
Una paura animale si impossessò dell’uomo, e agì d’impulso. Non parlerò di quanto avvenne dopo, ma basti dire che mi ritrovai da solo, a vagare nella notte.
Per quanto tempo camminai in quel bosco, non saprei dirlo. Ero come intorpidito, e l’oscurità avvolgeva ogni cosa.
Non so se definirlo una fortuna o una sventura, quel capriccio del destino che mi salvò, ma dopo un po’ di tempo vidi tra gli alberi il tremolio di un fuoco e una figura, accovacciata lì vicino per scaldarsi.
Un gentiluomo dai modi sorprendente raffinati, a quanto pareva, sedeva lì, creando una distinta sagoma contro la luce del fuoco.
“Spreekt u Engels?” chiesi in un Olandese tentennante, i distaccati insegnamenti del signor Bardwell mi avevano lasciato ancora ignorante del Tedesco.
“Ah, un altro Britannico,” fu la sua calorosa risposta, accompagnata da una risata cordiale.
“Dal tuo aspetto sembri affamato,” continuò, e mi offrì dei rozzi bocconcini di carne allo spiedo, quasi carbonizzati dalle fiamme.
Ormai privo di cautela, e con un'acuta consepevolezza del mio stomaco vuoto, accettai la carne bruciata senza cerimonie.
Seduto accanto al fuoco, mi chiese con tatto come avessi fatto a finire lì, e mi ritrovai a raccontargli, più sinceramente di quanto volessi, la vera storia, senza abbellimenti, di non solo la notte appena trascorsa, ma della mia vita fino a quel momento.
Ascoltò il mio racconto con attenzione, il suo sguardo non vacillò nemmeno una volta e sembrava gentile. Poi sospirò.
“Oh, sembrerebbe che la sorte ti abbia abbandonato,” disse tra sé e sé, la sua espressione imperscrutabile e il suo tono stranamente cospiratorio.
“Davvero, a mio avviso serve proprio un colpo di fortuna.”
Mi dissi d’accordo, e il sorriso che gli attraversò il volto, come se il mio parere avesse sancito un qualche patto tra di noi, fu davvero strano.
Lo sconosciuto portò una mano dietro il ceppo su cui sedeva e prese un sacco dalla forma insolita. Riuscii a vedere, al suo interno, una varietà di oggetti, che andavano da coltelli malconci a porcellane sbeccate a gioielli bellissimi, piccole figure di avorio e anche un assortimento di dadi per il gioco d’azzardo.
“La fortuna può assumere una miriade di forme,” proclamò lui, in un modo caloroso ed invitante, “e oggi assume la forma di un semplice viaggiatore che ti offre la sua merce. Avevi detto che suoni il violino, se non erro?”
[Una breve sequenza di note si intreccia con le parole che seguono]
Affondò la mano nella sua curiosa sacca, e dopo aver cercato per un momento o due, tirò fuori uno strumento la cui altissima qualità era talmente evidente che la fatalità della sua apparizione sembrò quasi ultraterrena.
Posò un archetto sulle corde, e con un unico fluido movimento, eseguì una riecheggiante nota doppia che risuonò con un tono soddisfacente.
Non disse una parola mentre lo esaminavo, non gli attribuì una storia, nessun famoso artigiano o mastro liutaio.
Il collo, un esempio di perfetta simmetria, conduceva l’occhio dalla ricca sfumatura di cremisi della parte superiore della cassa armonica che lasciava spazio al mogano naturale scendendo verso il basso.
“Ah, è questo il volto della fortuna oggi?” chiese lui, osservando mentre le mie dita percorrevano la lunghezza delle corde.
In quel momento un urlo di dolore irruppe dalla mia gola, un urlo che che sorprese anche me, quando mi resi conto che mi ero tagliato il polpastrello sulle corde.
Il mercante si limitò a sorridere, guardandomi come uno potrebbe guardare un bambino che ha toccato una pentola sul fuoco.
“Non ho niente da offrire in cambio,” confessai, non ero abituato a trovarmi senza mezzi, e feci per restituirgli il violino.
“Allora non consideriamolo un acquisto, ma un dono, da un vero amico.” Le sue parole erano piene di calore, eppure avevano una connotazione che sembrava sfuggire alla mia comprensione.
Prima che potessi fare altre domande, quest’uomo, il cui nome non avevo mai pensato di chiedere, fece un gesto verso il sentiero e, iniziando già a gettare della terra sul fuoco, mi rassicurò che la mia destinazione si trovava a poche ore di camminata.
Come stordito allora lasciai il mio compagno, e presto divenne evidente che aveva detto il vero, e che questa sventura era avvenuta a meno di un giorno dalla fine del mio viaggio.
E così in fine giunsi alla Scuola di Manheim, quella culla di virtuosi che avrebbero onorato i palchi più importanti di tutta Europa, attratto dalle sue promesse. I luminari che aveva formato, nomi illustri come Grua, Stamitz, Richter, e Fraänzl, rendevano la possibilità di essere ammesso alla scuola, e ai loro ranghi, ammaliante.
Non si parlò di come ero arrivato, né di quanto mi fosse successo durante il viaggio, e dopo qualche giorno venni condotto in una sala meravigliosa, dove sedeva il gruppo che mi avrebbe valutato. Un tremore di apprensione mi percorse il corpo quando mi ritrovai di fronte alla giuria silenziosa, e fu con una nuova sensazione di insicurezza che impugnai il mio nuovo strumento. 
Il suo collo, più sottile di quello del precedente, era strano nella mia presa, e quando iniziai le mie dita tentennano cercando di far presa sulle corde.
Tentai la prima delle esecuzioni che avevo provato e riprovato, ma suonavo in maniera poco elegante e approssimativa, evocando solo qualche sussurro sprezzante, e un borbottio di derisione dal mio pubblico.
Sentii un’ondata di indignazione e paura, causata dalla consapevolezza che io, il peccato di mio padre, che aveva commesso cose orribili per raggiungere quella sala, non sarei mai potuto tornare a casa in disgrazia.
Eseguii una ‘jete,’ una prepotente richiesta musicale della loro attenzione, una dichiarazione che dovevo essere visto e sentito.
Una raffica veloce e perfetta di undici note, dopo la quale non rimase nessun mormorio, nessun sussurro. Avevo la loro più totale attenzione.
In quell’istante di silenzio, un lancinante dolore si propagò dal mio anulare sinistro.
Quando aprii gli occhi, vidi del sangue gocciolare sul collo del violino da dove sarebbe dovuta essere la mia pelle, in quanto lo strato più superficiale del polpastrello ciondolava, strappato e a malapena ancora appeso come pergamena strappata.
Il dolore e il panico esplosero, ma non avevo altre opzioni se non suonare, e suonare le melodie più ambiziose che la mia mente potesse richiamare.
All’inizio lentamente, in quanto sentivo le corde correre lungo la mia carne insanguinata, poi accelerando velocemente, crescendo misti a diminuendo, una danza di ordini e sottomissione eseguita sulle corde.
Doppie note, pizzicato con la mano sinistra, e staccati strazianti si alternarono in una rapida successione, ogni nota evocava qualcosa di profondo e primordiale. Potevo vedere lo sbalordimento sui volti del mio pubblico, e qualcosa non dissimile dal terrore, e quando infine risuonarono le ultime note, si poteva sentire il respiro che la sala aveva trattenuto.
Fui, ovviamente, accettato, e il mio talento venne riconosciuto come singolare.
Eppure un sospetto si insinuò in me. Mi resi conto che i ruoli di ‘musicista’ e ‘strumento’ non fossero così ben definiti con questo affamato violino. Era una creatura con i propri bisogni e i propri scopi.
I bisogni erano abbastanza semplici. Sangue. Carne. Non in quantità eccessive, all’inizio. Sella pelle grattata via e tagliata e che cantava per il dolore. E le ricompense erano grandi, in quanto con ogni esibizione, la sofferenza si mescolava alla melodia, e le mie dita sanguinanti inumidivano quelle corde. 
Anche il mio pubblico mostrò un notevole appetito per la mia arte, e mentre progredivo lungo il percorso scolastico la mia reputazione iniziò a crescere.
Ero richiesto, osannato, celebrato. E per tutto il tempo, sanguinavo. Quelli che mi ascoltavano si erano mai veramente accorti del mio sacrificio?
Vedevano la lenta trasformazione delle mie dita, mentre ogni sonata estraeva il suo prezzo? Gli applausi mi seguivano mentre ogni lunga nota era accompagnata dal mio sangue vitale, e dal mio dolore.
Eppure continuai a suonare per loro. Come avrei potuto fare altrimenti?
Ero fiero, un uomo indipendente, le mie più grandi ambizioni realizzate. Eppure, mentre venivo ricoperto di ammirazione, non fui mai elevato oltre i confini delle mie origini. Il raffinato mondo dei miei nobili patroni mi era inaccessibile.
Ricevetti una discreto patrimonio, un po’ di fama accompagnava il mio nome, ma non mi fu mai concesso di sfuggire del tutto alla condizione della mia nascita.
Fu solo allora, nelle profondità del mio dolore e della mia amarezza, che scoprii una verità nascosta. Una verità che adesso ti consegno, assieme al violino.
Il sangue per le sue corde non deve necessariamente essere tuo.
Non fu il semplice altruismo a portarmi ad accettare posizioni di tutoraggio in quelle trafficate città in cui offrivo i miei servigi, dando un’educazione musicale ai poveri e ai facilmente dimenticati, senza chiedere niente in cambio. Niente tranne che per uno studente ogni tanto, di cui nessuno avrebbe sentito la mancanza.
Forse per questo sbiancherai, e mi condannerai come un mostro. Ma scoprirai che nutrire questo strumento, adesso tuo, è di vitale importanza. Solo una volta l’ho suonato senza pagare il suo prezzo: avvolgendo le dita in spesse bende affinché le sue corde affilate mi tagliassero.
Avevo pensato che avrei suonato in maniera smorta, che alla mia performance sarebbe mancata l’ispirazione. Eppure la musica che venne dal mio strumento quel giorno fu in qualche modo più bella di quanto non fosse mai stata. Era vivace, pulsante, portava con sé uno spirito di movimento, un irresistibile bisogno di danzare. Guardai verso il mio pubblico, un piccolo gruppo di borghesi Austriaci minori, e vidi nei loro occhi uno sguardo strano e familiare. Uno che non vedevo da molti, molti anni. Non da quella notte nella carrozza con lo sventurato signor Bardwell.
Poi si scagliarono gli uni contro gli altri, una danza di denti e unghie, strappando e tirando. Guardavo mentre un uomo che soffriva di gotta vestito di seta smeraldo succhiava gli occhi dalla testa del figlio e li schiacciava nella bocca come ciliegie mature. Una riservata giovane donna ornata d’oro strappò le gote del suo promesso mentre cantava seguendo la musica che non riuscivo a smettere di suonare. Fu solo quando un candelabro venne ribaltato e la stanza fu avvolta dalle fiamme che riuscii finalmente a interrompere la mia esibizione, e a fuggire.
Forse tu darai prova di maggiore forza di volontà, e riuscirai a distruggere questa cosa affamata fatta di legno e intestini di gatto.
Ma io non posso farlo. E non intendo farlo. Poiché la mia musica, ah, la mia divina musica, è davvero un balsamo per le ferite mai rimarginate della mia esistenza.
Nelle sue celestiali melodie ho trovato conforto, un rifugio tessuto da fili eterei.
E forse lo troverai anche te.
Nutri il mio violino, nipote, poiché io gli ho dato tutto ciò che possiedo e ancor di più.
[Sam hai i brividi]
[Gwen continua a scrivere mentre parlano]
ALICE
Il caro nonno Augustus racconta sempre delle storie così carine.
SAM
Perché mai qualcosa del XVIII secolo dovrebbe finire nella lista di Freddy?
ALICE
(con un ghigno) Ti avevo detto che Gwen era rimasta indietro.
GWEN
(Irritata) Qualcuno ha probabilmente digitalizzato un vecchio reperto storico ed è finito nel motore di ricerca.
ALICE
E fu così che venne risolto il mistero della Lettera Alquanto Vecchia. Cavolo, ho i brividi.
GWEN
Forse se lavorassi per davvero ti scalderesti.
[Sam ridacchia]
ALICE
(a Sam) Sì, potresti ritrovarti un reperto storico per errore. Non perderei tempo a catalogarlo o a valutarlo.
GWEN
Mentre io consiglierei al nostro nuovo collega di ricordare che viene pagato proprio per fare questo. Tra l’altro, serve comunque per il tuo punteggio.
ALICE
E a te serve davvero quel punteggio, no, Gwen?
GWEN
Serve a tutti.
ALICE
Non a me!
[Alice pigia un bottone e il suo pc si spegne]
Ho finito. Sam?
[Alice prende le sue cose]
SAM
Più o meno…
ALICE
Allora vi invito gentilmente a togliervi dalle scatole ed andare a casa a riflettere su quanto sia importante concentrarsi sul proprio lavoro.
SAM
Sì. …sì.
[Anche lui prende le sue cose]
Vieni, Gwen?
GWEN
Non ancora.
ALICE
(allonanandosi) Proprio come avevo detto. A presto, Gwendoline cara, adios.
SAM
(la segue, silenzioso) A domani.
GWEN
(continua a lavorare) Hmmmm.
[I passi di Sam ed Alice svaniscono mentre escono]
[Silenzio, tranne per Gwen che scrive]
[Un Ding! Improvviso, come la notifica di un’email]
GWEN
Hmmmm?
[Fa un doppio clic]
[Inizia una registrazione, la qualità dell’audio è pessima]
KLAUS
(video, supplicando) Ti prego. Ti prego, non devi farlo!
LENA PIÙ GIOVANE
(video) Sappiamo entrambi che devo.
GWEN
(Riconoscendola) Lena?
KLAUS
(video) Po-Potrei sparire di nuovo! Non lo saprebbero mai!
GWEN
Ma che diavolo?
[Il computer si spegne]
[Traduzione di: Victoria]
[Episodio successivo]
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haven-collins · 3 months
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La tragedia prende atto sulla scena da lei stessa preparata. Strabuzza gli occhi e la mano destra perde la presa sul catalizzatore lasciandolo cadere a terra. Immobile in quella realizzazione nel visualizzare quel Patronus Incorporeo che le si para davanti e che si dissiperà velocemente non appena la bacchetta perderà il contatto con la mano. Silenzio. Per fortuna. O almeno, la calma prima della tempesta. La mano si chiude a pugno a mezz’aria, il respiro accelera, lo sguardo vitreo puntato sul nulla. « Io. » scandisce con il respiro ormai diventato affanno. « Lo. » trova la forza di aggiungere. « AMMAZZO. » urla letteralmente fregandosene del resto.
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E poi. E poi il ghignetto stronzo scompare alla reazione di Haven, che non sembra aver bisogno del suo contributo per essere più miserabile di così in quel momento. Nemmeno troppo piano il labbro perde la sua inclinazione all’insù, e lo sguardo si fa solo spaesato. Quasi un attimo sconcertato al vederla buttarsi rovinosamente a terra. Non è difficile alla fine, mettendoci un po’ di quel sale in zucca che sembra non avere mai, capire che cosa è appena capitato. Qualcosa, o meglio qualcuno, al giudicare dalle minacce di morte contro terzi, le ha appena rovinato il ricordo felice che le serviva per evocare il patronus. IL ricordo per eccellenza. Quello di cui va la felicità di una persona e la sua sopravvivenza, in casi estremi. E ha fatto PUFF per colpa di qualcuno? …Ottimo, non legare il proprio ricordo a una persona, è probabilmente l’annotazione che si fa in quel momento, anche se da fuori si può solo vedere che comincia a guardarsi intorno, come alla ricerca dell’aiuto di qualcuno.
«OHI, OHI.» dopo che si è lasciato minacciare per un po’. La mano che si alza, callosa e rovinata, ad ancorarsi intorno alla mano più sottile della ragazza, proprio quella con cui lo sta puntando. La presa salda, non dolorosa, sempre che lei non si ritragga prima. «ok. Lo so che me lo insegnerai.» cosa gli ha insegnato sua madre? A non dire MAI ad una donna agitata che deve calmarsi. E’ incredibilmente controproducente. «Non conta, 1 su 3 maghi fa cilecca almeno una volta nella vita.» stringendo appena appena la presa, quasi in modo rassicurante, racimolando un mezzo sorriso sghembo. «…beviamo qualcosa, continuiamo dopo?» ..la butta lì, forse per compassione, forse perché è la scusa migliore per porre fine ad una giornata di studi e andare ad ubriacare.
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io-e-la-mia-mente · 4 months
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CORDA .. Oggetto utilissimo nella vita di tutti i giorni , noto fin dai tempi più antichi per la sua versatile utilità , che andava dal semplice uso domestico a quello più cruento , come ad esempio le impiccagioni ... non ho certo intenzione di soffermarmi sul suo uso più basso e discutibile , anche se l'argomento certo è interessante , ma bensì su cosa possa significare , per una schiava , la corda , in tutte le sue sfumature .. Essendo ( io ) una schiava , ovviamente parlerò più di quello che sento e provo in prima persona , tralasciando , anche per mancanza di tempo e voglia , quello che la letteratura , in campo BDSM , scrive a riguardo .. Indi per cui, bando alle mie solite ciance , iniziamo con le danze .. Diciamo che non ho mai avuto modo di approfondire l'argomento corde visto che non ho mai avuto molta esperienza a riguardo .. quando le vedevo "indossate" dalle modelle o dalle normalissime donne , in comuni video , mi chiedevo cosa mai potessero sentire , se erano scomode ( certe legature sono veramente impensabili ) , se facevano male , se provavano piacere e così via .. Oggi , posso dire di aver soddisfatto le mie curiosità , in prima persona , sottoscrivendo che la parte migliore di tutto , è la preparazione del "cotechino" ( che sarei io ) e il post legatura .. Sentire le mani del Padrone che lavorano a stretto contatto con la tua pelle , vedere il Suo sguardo serio , mentre crea i nodi , cercando di non farti sentire dolore inutile , osservare come i Suoi movimenti intorno al mio corpo , ora Suo , siano una meravigliosa danza ... E poi , perchè c'è sempre un poi , sentire a fior di pelle i brividi ogni volta che vengo sfiorata , sapere che alla fine del Suo certosino lavoro , qualcos'altro inizia .. L'attesa del dopo , essere fisicamente impossibilitata nei movimenti , da Lui , attentamente scelti , perchè la corda non è mai messa a caso, ogni nodo ha un suo scopo , sono gocce di godimento che mi vengono regalate dal Padrone .. Desiderare di muovermi , per allontanarmi da quel tremendo oggetto nelle Sue mani ( paletta? cucchiaio ? frusta ? ) , e non poterlo fare pechè una corda mi blocca , e , allo stesso tempo voler restare ferma , per godere di quello che sta per accadere , è essere un controsenso vivente , lo so bene , ma cosa posso farci se questo mix mi eccitata da impazzire ? cosa posso fare se inizio a gocciolare piacere alla sola vista del Padrone che si avvicina con malevole intenzioni mentre non posso muovermi ? E poi, vuoi mettere la sensazione che si prova quando , una volta slegata , riesci solo ad abbandonarti tra le Sue braccia e , anche lì , a godere del Suo calore e del Suo amore , sentire il Suo respiro calmarsi insieme al tuo , e , insieme , ingozzarsi di quelle intense e bellissime emozioni
schiava-di-ING
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Magari si potrebbero incontrare, ma quel magari funziona se quei due lo sperano… e non si illudono. Ed il mare potrebbe divenire azzurro e le onde calmarsi...
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#cit.
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lalupa-bianca · 1 year
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"Gli attacchi di panico, o attacchi d'ansia... alcuni dicono siano la stessa cosa, altri dicono siano cose diverse... va beh qual è il problema, qualsiasi cosa pensiate o abbiate studiato e quindi vi sentite fighi perché voi siete preparati, voi siete il salvatore, voi siete luce in quel momento... voi, voi, voi... solo voi... smettetela! Che cazzo ne sapete voi! Cosa cazzo ne sapete di come ci si sente, dell'avere paura ad andare in giro, ovunque, perché potrebbero venire da un momento all'altro; dell'ansia che tutto in un colpo arriva e boh il tuo cervello si frigge e va in cortocircuito e non puoi spegnere e riaccendere come un cavolo di computer; dell'imbarazzo che si prova quando sei in quel casino perché non sai cosa pensano gli altri, dell'impressione che stai dando di te, senti quello che gli fa pena "ooo povera" , senti quello che non sa cosa fare "cavolo come si fa, fammi vedere su internet cosa dicono", senti il saputello che sa tutto lui "via, via andate via ci penso io" e magari non sai neanche chi cazzo è! Non è facile da affrontare, ma si impara, ci si fa l'abitudine, bisogna farlo! Per poter andare avanti. Una cosa che ho imparato è contare solo su se stessi! Solo noi possiamo sapere come stiamo, cosa ci capita, quanto durerà e come ci sentiremo dopo. Non contare mai sull'aiuto di qualcuno! Quando starai male e quella persona non ci sarà andrai ancora più nel panico, non appoggiarti a nessuno per questo, respiri profondi e calmanti, sii tu stesso a consolarti, accarezzati le tempie e le mani, aiuta a calmarsi, mantieni la schiena dritta e testa alta per far arrivare pensieri positivi e darti forza, ma piangi se devi, urla se stai esplodendo dentro! Quando sarà passato riposati, fai qualcosa di rilassante e dormi per liberare la mente e dare il tempo al corpo di ristabilirsi. Non pensarci troppo, poi, a ciò che ti è capitato, sorridi e vai avanti..."
-LaLupaBianca(5/4/2023)
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