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#luis de las terrenas
heartlandians · 11 months
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A peek into filming an action-packed water stunt for Heartland’s 16th season. Capturing action overtop of water adds a level of complexity to any shot but the team was determined to get the shot!
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moviestarmartini · 3 months
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Yo tengo 3 preguntas muy importantes: 1) numeracion de tu tarjeta de credito por ambos lados, 2) contraseña del banco, 3) contraseña del cajero ( AJJDJD ES BROMA)
1) Tu canción mas escuchada esta semana
2) Que playa (o lugar) me recomiendas visitar en tu pais
3) Tu canción favorita para bailar
💋💋💋💋💋💋💋💋💋💋
mi número de la tarjeta es 5524-7995-si te bajas te la hinco HAHAHAHAHHAAH
1. okupa de wos e insaciable del cuarteto de nos, a las dos le pusieron droga para mi esta semana
2. en general las terrenas, samaná es diez mil veces mejor que punta cana. pc tiene su encanto (hay un lago como el de las películas gringas, los ojos indígenas, playa blanca etc etc) pero terrenas (en especial playa bonita) es mi lugar favorito en la tierra. es como tan tranquilo y perfecto; el sol pica y nadar debajo de las olas es un placer. abajo voy a poner unas fotitos hehe
3. DEPENDE. si suena guatauba de plan b o safaera de bad bunny con las otras 50 gente me desconozco. pero si es música típica, obsesión de aventura (bachata), conteo regresivo de gilberto santa rosa (salsa), yyy el farolito de juan luis guerra 4.40, entre otros ofc
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anyway, fotitos del sitio que mencione hehe
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scenariopubblico · 8 months
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Terrena, agile, spirituale: la danza di Akram Khan
Durante il Catania Contemporanea/Fic Fest organizzato da Scenario Pubblico si innesterà il Fic Dance Workshop, dieci giorni di training e trasmissioni coreografiche focalizzati su creazioni di repertorio.
Durante i primi cinque giorni, dal 3 al 7 maggio, il lavoro sarà condotto da Joy Alpuerto Ritter danzatrice e coreografa, ripetiteur del repertorio di Akram Khan, uno dei coreografi più celebrati di oggi.
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Con un breve attraversamento andremo a scoprire la figura di questo coreografo che, oltre ad arricchire il patrimonio immateriale del Regno Unito, ha segnato la storia della coreografia mondiale.
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Akram Khan nasce a Londra nel 1974 da una famiglia bengalese. Inizia a studiare danza da bambino e all’età di tredici anni viene scelto da Peter Brook per la sua produzione MAHABHARATA (ovvero La grande storia dei discendenti di Bharat ispirata a un importante poema indiano). Continua i suoi studi nell'ambito della danza, collaborando per diversi anni con Anne Teresa De Keersmaeker che lascerà un segno profondo nel suo linguaggio. A partire dagli anni Novanta poi, inizia presentare le proprie coreografie.
Nel 2000 fonda la sua compagina di danza, l’Akram Khan Company, che ha debuttato all’Edinburgh Fringe Festival (annoverato tra i festival più famosi al mondo), con Koosh, in collaborazione con il celebre scultore Anish Kapoor e il musicista Niton Sowhney, entrambi di origine indiana.
Nel corso della sua carriera ha collaborato in qualità di coreografo con tantissimi teatri e compagnie in tutto il mondo. Ricordiamo la sua reinterpretazione del balletto Giselle per l’English National Ballet, in un allestimento in collaborazione con il Sadler’s Wells Theatre e il Manchester International Festival.
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Nel 2019 ha vinto il Laurence Oliver Award per l’eccellenza della danza con il suo balletto Xenos.
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Oggi Khan continua a portare avanti il suo lavoro circuitando nei più importanti teatri e festival tra Occidente e Oriente. Il suo ultimo lavoro, Jungle Book reimagined, è stato presentato in prima nazionale lo scorso settembre al Romaeuropa Festival.
Scrivono di Khan...
Un fluido e inclassificabile genio che accosta la cultura religiosa dell'Oriente del suo imprinting alle dinamiche della fisicità del suo Occidente d'approdo. (Rodolfo Di Giammarco - La Repubblica)
Lui, icona della danza contemporanea, distrugge i confini, disegna ambiguità, lascia che il palcoscenico divenga un flusso di energia che si muove al ritmo della tradizione per incontrare il presente, l’attimo in cui il gesto accade, il violento hic et nunc. (Redazione - Teatro e critica)
Nel gotha dei coreografi più riusciti e prolifici di oggi, Akram Khan abbraccia l’Oriente o l’Occidente in una danza scolpita che emana bellezza e trascendenza. (Giuseppe Distefano - Danza & Danza)
Come sempre, nelle danze di Akram Khan si ritrovano le geometrie alla De Keersmaeker sapientemente miscelate con elementi pop, come la break dance, o i riferimenti alla tradizione indiana, soprattutto nelle disposizioni lineari, come nei bassorilievi nei templi indù che raffigurano le danze delle Apsaras. (Enrico Pastore - Paneacquaculture)
[...] (i danzatori di) Akram Khan sono veri e propri ambasciatori della libertà di movimento attraverso le frontiere perché, come ha notato già diversi anni fa Elisa Vaccarino (E. G. Vaccarino, Danze plurali/L’altrove qui, Macerata, Ephemeria Editrice, 2009), non sintetizzano più soltanto nel loro operato una “fusione multietnica”, bensì incarnano in loro stessi una vera e propria identità “plurima”. (Francesca Magnini – Artribune)
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[Consigli di visione]
Negli ultimi anni, Khan è si è impegnato anche nella divulgazione della danza realizzando documentari come
Can we live with Robots? Prodotto da Swan Films  per Channel 4;
Why do we dance (in cinque episodi intitolati: Storie, Provocazione, Anima e Corpo, Identità, Eros) per Sky, qui il link https://www.nowtv.it/streaming/dance-perche-balliamo/skyarte_b1ee405897c040489d5ab14ba37ea817/skyarte_5ed571baef0a4e7d9ed062cb0ba11026/seasons/1;
Un episodio (il quinto) della serie MOVE che puoi trovare su Netflix.
Nel prossimo attraversamento parleremo di Marco Goecke, altro protagonista del Fic Dance Workshop 2024.
a cura di: Sofia Bordieri
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noticiasdelcibao · 2 years
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Es hora que despeguen los proyectos en Las Terrenas y La Provincia Samaná. Durante muchos años hemos estado esperando este gran momento el cual debe poner en lo más alto a la provincia Samana en cuanto ha capacidad turística. Grandes eventos como seminarios, congresos, conferencias no se realizan en esta demarcación justamente porque no tenemos la capacidad logistica de albergarlos, recientemente estuvimos por el Este y motivamos realizar en nuestra provincia , la pregunta fue donde? Tienen la capacidad? Tienen Salones de conferencias amplios? A todo ello siendo honestos tuvimos que razonar la palabra NO. Sin duda alguna la Burocracia debe ser ágil y el presidente Luis Abinader debe instruir a sus ministros Celeridad en los procesos, pues si los Proyectos Blu Terrenas entre otros despegan serían un gran aliciente económico para toda la zona. Esperamos la tan anhelada BUROCRACIA CERO. Lic. Carlos Manuel Silvestre (en Las Terrenas) https://www.instagram.com/p/CkQZ2vtg0Ij/?igshid=NGJjMDIxMWI=
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fotopadova · 3 years
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Michelina, Madre ciociara: una biografia per immagini
di Maria Carla Cassarini
--- Con una “nota di Gianni Berengo Gardin”, una testimonianza dell’autore, la presentazione di Pippo Pappalardo e la curatela di Daniele Baldassarre è stato pubblicato in 300 esemplari il volume fotografico Michelina Retrosi - Storia di una Madre ciociara (1919-2020) di Antonio Rossi.
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«100 anni sono molti da vivere e da raccontare, ma ancora oggi, Lei con la sua bella faccia ce li fa scorrere con il solito ardore di sempre» (Gianni Berengo Gardin)
La carriera del fotografo Antonio Rossi, nato ad Alatri, in provincia di Frosinone, abbraccia mezzo secolo. Di lui si rammentano oltre a un libro sulla sua città natale in collaborazione con Pier Enrico Ferri, l’organizzazione di vari eventi fotografici, un reportage di Gianni Berengo Gardin, nonché il catalogo della mostra Sette giorni nella città dei Ciclopi. Ora è la volta di un volume monografico; un libro che rivela nello stesso tempo una corrispondenza affettiva di particolare intensità tra un figlio e sua madre. Perché, come recita il titolo, si tratta della storia di una madre che si sviluppa attraverso il “pedinamento” fotografico del figlio - per evocare un concetto più volte ribadito di Cesare Zavattini.
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Storia neorealista, dunque, si potrebbe dire. Ma come rendere sul piano iconografico un rapporto parentale o amicale, così che quel ritratto di donna diventi il ritratto di un’amica, una sorella, una moglie, una madre, senza che titoli o didascalie intervengano a dare spiegazioni? Come raccontare la storia di una madre con la macchina fotografica, in modo tale che ogni scatto diventi il fotogramma di un ipotetico lungometraggio che ne ripercorra la vita: un fotogramma emblematico della sua esistenza? È il problema che Antonio Rossi deve essersi posto dopo che l’amico Arturo Zavattini, considerando le sue stampe fotografiche appena ritirate dal laboratorio, gli aveva consigliato: «Lascia perdere tutte le altre fotografie e concentrati su tua madre, ha un’espressività unica».
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 Tornando a casa al termine di quell’incontro, Antonio Rossi forse andava rimuginando le osservazioni di chi negli anni Cinquanta al seguito di Ernesto de Martino aveva conosciuto e fotografato donne e madri della Lucania, cogliendone nei suoi scatti le fatiche quotidiane per sopravvivere a una miseria che, nel secondo dopoguerra, non aveva ancora conosciuto la “ricostruzione”. Non era il caso di trascurare il parere di un fotografo e operatore cinematografico, che aveva alle spalle una consolidata esperienza trascorsa anche come aiuto di Otello Martelli, fatta inoltre di relazioni con celebri maestri come Paul Strand o, in tempi più recenti, con Gianni Berengo Gardin. I libri delle sue raccolte fotografiche (Arturo Zavattini fotografo in Lucania, Passeggiata napoletana, AZ-Arturo Zavattini fotografo - viaggi e cinema (1950-1960), Zavattini & Zavattini - Cesare nelle fotografie di Arturo) avrebbero tratto alla luce solo una parte del patrimonio nascosto nel suo archivio.
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 Così Antonio si apprestò a seguire l’indicazione dell’amico: «Da quel giorno non ho fatto altro che fotografare mia Madre e se ora ho una vasta documentazione fotografica lo devo soprattutto ad Arturo Zavattini» (Da: A. Rossi, Michelina Retrosi - Storia di una Madre ciociara, tav. IX). Una Madre, si badi, con la lettera maiuscola, come la designa l’autore, quasi a conferirle il carisma della maternità elevandola affettivamente ad assumere il ruolo della Madre terrena per eccellenza, ma senza enfasi di sorta. “Concentrarsi” su quella Madre già anziana, significava ricavare da quel volto non solo le pieghe del suo carattere, ma anche i segni del suo vissuto e la stessa rimembranza di quel vissuto, lasciandola percepire attraverso il raro accenno diun sorriso o, più spesso, un’ombra nello sguardo. Passo dopo passo, aggiungendo ai primi e primissimi piani o ai piani a figura intera elementi indispensabili a lasciar cogliere tratti della personalità di Michelina e del suo lungo percorso di vita.
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Attraverso una successione di immagini come tante tessere di una storia, disposte secondo una scansione temporale che va dal 1977 al 2020, capitoli di un romanzo, come si diceva, dall’impronta neorealista, che potrebbero già per sé costituire una narrazione autonoma, ecco farsi visibile il rapporto esistente tra l’uomo che fotografa e quella donna, avvicinata fino alla persecuzione dall’obiettivo, divenuto l’occhio del figlio. Un occhio che la indaga e la racconta. Così che la vediamo ora alle prese con i lavori rurali, ora intenta alle faccende domestiche, ora assorta nel riandare a un passato con una vena di nostalgia o di rimpianto per chi non c’è più. Come non pensare poi alla foto che ritrae Michelina mentre lavora a maglia tra gli attrezzi e gli utensili della sua vitadi contadina, sullo sfondo di un muro dall’intonaco sbrecciato, e che l’autore ha scelto come immagine di copertina? O mentre si cimenta a pizzicare le corde di un vecchio liuto o prega, china davanti alla reliquia del santo o ancora, seduta sulla soglia della porta con la cesta di vimini in grembo, dietro la cassa della legna e vecchie tavole appoggiate al muro di casa, si perde con lo sguardo buio in una lontananza senza confini? Tutto intorno a lei vive la sua presenza e la descrive. Quasi a seguire la lezione di Paul Strand, che Rossi sembra come avere interiorizzato e fatta propria.
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 Scrive John Berger a proposito di un ritratto di donna messicana eseguita dal grande fotografo americano: «Sulla testa e sulle spalle ha uno scialle di lana e in grembo una vecchia cesta intrecciata. La gonna è rattoppata e il muro dietro di lei è malandato. Nella foto, l’unica superficie intatta è quella del suo viso. Ancora una volta, le superfici che leggiamo con i nostri occhi diventano l’autentica e ruvida trama della sua vita quotidiana; ancora una volta la fotografia è il quadro della sua esistenza» (John Berger, Sul guardare, 1980; trad. di Maria Nadotti, Il Saggiatore, Milano 2017, p. 69). E se gli scatti raccolti in questo volume, non a caso con il titolo La sequenza fotografica, scorressero in modo rapido nel nostro immaginario - giochi che bambini ricchi d’inventiva facevano a scuola per simulare il movimento dei personaggi disegnati su artigianali quaderni di foglietti (prove infantili di cartoni animati) -, ne risulterebbe una sorta di film-documentario.
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Una pellicola la cui protagonista non solo parla di sé al presente, seguita dal mattino alla sera in tutte le sue occupazioni quotidiane, compresi gli svaghi e la cura della persona, ma ci rivela con il suo passato l’apertura a un mondo futuro, mentre al contempo offre uno spiraglio sulle tradizioni di un ambiente rurale nella provincia italiana, quello della cosiddetta Ciociaria a cavallo tra il secolo scorso e il presente. 101 anni di vita, fermati e ricapitolati dalla macchina fotografica per quarantatré anni. Attraverso ogni fotografia si coglie il temperamento di una donna forte e consapevole di sé, un carattere contadino, provato ma non abbattuto dalle intemperie della vita, piuttosto rafforzato e indurito come un campo tartassato dalla grandine e arso dal sole cocente (un’allusione a vecchie battaglie politiche il ritratto di lei con il cappello di carta fabbricato con la prima pagina de «L’Unità», mentre brandisce la pala del forno con aria di riscossa?). Donna e madre rappresentata nella sua inesausta attività tra il podere e la casa, tra il forno e i fornelli, o ad attingere acqua in una rievocazione d’altri tempi. Talvolta una sorta di flashback, che si coglie nella direzione di uno sguardo, riconduce alla sua giovinezza, fissata in un bel ritratto di ragazza; talaltra sono le tradizioni contadine che sopravvivono tra i più anziani a far da contorno alla sua presenza: la cottura del pane, la raccolta dei ceci, la pulitura delle olive, ma anche la benedizione contro il malocchio e la recita del rosario. Intanto vengono avanti i personaggi che hanno arricchito la sua esistenza, condividendone il tracciato, come le sue amiche, o alimentando la sua speranza nella vita che continua e cambia proiettandosi nel futuro, come il nipote dipochi mesi o gli altri già cresciuti, che le fanno compagnia. Si potrebbero percorrere queste immagini a ritroso partendo dal fotomontaggio finale delle due Madri, l’una, quella celeste, quasi ad accogliere l’altra, immersa in un sonno interminabile di preghiera. E allora le memorie di madre e figlio si incrociano in un riandando fatto di sguardi perduti nel passato.
Riflette Pippo Pappalardo, redattore della rivista «Gente di fotografia», nella sua prefazione al libro: «Un filo bianco come i suoi capelli, come una traccia di cucito, collega, intanto, la sequenza fotografica con il ritmo della preghiera, come grani di rosario.
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Tutto appare privo di enfasi, tutto è intriso di umiltà. Eppure questo filo è stato la nobiltà della vecchia madre; un filo lavorato con orgoglio, come sempre sono stati lavorati i suoi giorni vissuti. Giorni vissuti tessendo la trama delle emozioni tra le preghiere e le speranze, oltre le paure, oltre le incertezze. Ora il suo volto è nascosto dai fili prudenziali di una garza. Proprio lei nata ai tempi della “spagnola” - di cui fotograficamente non ha memoria -, non avrà ricordo del Covid-19 perché anche la memoria è collegata al tempo, alla sua materia, alla sua mater». Un libro, dunque, che va al di là di una bella raccolta fotografica per immergersi nel sentiero della memoria e farsi testimonianza di un amore che perdura nel tempo.
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sergio-andres13 · 4 years
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A TE.
El amor puede llegar a ser algo tan difícil de entender y comprender.. pero, cuando se trata de nosotros no es algo que se tenga que entender, se siente, se vive, se lleva dentro. Porque he visto tanto y vivido tanto que estoy seguro que lo nuestro no es nada parecido a lo común, a pesar de que la longitud terrenal y el pasar de las primaveras nos han alejado, siempre has estado en ese cofrecito de amor eterno que nos juramos, presente, palpitante y vivo, como fuego devorando un árbol viejo y seco. Ardiente y vivas. He estado viendo pasar el tiempo de la manera mas preciosa que he comprendido y más cuando se ha tratado de ti, tú que me has dado el tiempo sin medirlo, que me ha dado la luz en la tiniebla y el arcoíris después de la tormenta,  hoy quiero expresarte como eres capaz de llenar de color mis días, aún mejor que el sol, el debe sentir celos de ti, sol de mis días y esperanza de mi vida. Acogedora y cálida presencia que ahuyenta las noches frías y gélidas.
Caracolito, Venezuela. 
la playa soleada, tu y yo, el mejor acompañante era nuestro amor.
La ducha, Hotel tropical
Sentimos en cuerpo lo que gritaban nuestros corazones.
Limbiate, Italia 
mi cumpleaños, día lluvioso y un amor hecho torta. festejado al lado de personas donde solo importabas tú.
Recuerdos plasmados en mi mente y corazón que trascienden los años, los meses, los días, las horas y los minutos. Aunque nosotros hemos querido alejarnos, la vida y el destino nos coloca en el mismo camino, esto no es coincidencia, el universo conspira a mi favor para tenerte en mi vida y espero que perdure toda la vida. El tenerte lejos de mÍ causa un dolor que ha terminado desde el primer instante en que me dijiste “estoy aquí para ti”. Palabras que me llenaron de felicidad mi corazón.
Mi amor déjame decirte que:
No te quiero por tus tetas, aunque sé que son perfectas, tampoco por tus caderas, sé muy bien que cualquiera se moriría por ellas.
Mucho menos por tus nalgas, que son el lugar cálido para mi fría noche de invierno.
Y no, aunque lo pienses, tampoco te quiero porque seas bonita, mi cariño va más allá de eso.
¿Sabes porque te quiero?
Porque desde el día en que te conocí, me dejaste ver a la chica que llora cuando todos duermen.
A la que es: Insegura, callada, tímida, rota, triste, tierna, sonriente, y feliz.
A la que siempre trata de hacer las cosas bien, a pesar de que fracase en el intento.
A la que no odia a nadie, a pesar de que todos la odien a ella.
A la que pasó de ser la chica desastre, para convertirse en la chica revolución.
Por eso, y por más razones, te quiero, te amo y.. te admiro. 
FELIZ CUMPLEAÑOS MI AMOR. 
“A PESAR DE LA DISTANCIA YO MIRO LA MISMA LUNA QUE TU MIRAS. NO ESTAMOS TAN LEJOS” 
GRACIAS POR SER PARTE DE MI VIDA.
A TE
L'amore può essere qualcosa di così difficile da capire... ma quando si tratta di noi non è qualcosa che deve essere capito, è sentito, è vissuto, è portato dentro. Perché ho visto così tanto e vissuto così tanto che sono sicuro che il nostro non ha niente a che fare con lo normale, nonostante il fatto che la lunghezza terrena e lo scorrere delle sorgenti ci abbiano allontanati, sei sempre stato in quella piccola scatola dell'eterno l'amore che ci giuriamo, presente, palpitante e vivo, come il fuoco che divora un albero vecchio e secco. Ardente e vivo. Ho guardato il tempo passare nel modo più prezioso che ho capito e di più quando si trattava di te, tu che mi hai dato tempo senza misurarlo, che mi hai dato la luce nell'oscurità e l'arcobaleno dopo la tempesta, oggi Voglio esprimerti come riesci a riempire le mie giornate di colore, anche meglio del sole, lui deve sentirsi geloso di te, il sole dei miei giorni e speranza della mia vita. Presenza accogliente e calda che allontana le notti fredde e gelide.
 Caracolito, Venezuela.
 la spiaggia assolata, tu ed io, il miglior compagno era il nostro amore.
 La doccia,Tropical Hotel
 Abbiamo sentito nel corpo ciò che i nostri cuori gridavano.
 Limbiate, Italia
 il mio compleanno, un giorno di pioggia e una torta fatta d'amore. Celebrato accanto a persone in cui solo tu contavi.
Ricordi catturati nella mia mente e nel mio cuore che trascendono anni, mesi, giorni, ore e minuti. Anche se abbiamo voluto scappare, la vita e il destino ci rimettono sulla stessa strada un’altra volta, questa non è una coincidenza, l'universo cospira a mio favore per averti nella mia vita e spero che duri tutta la vita. Averti lontano da ME provoca un dolore che è finito dal primo momento in cui mi hai detto "Sono qui per te". Parole che hanno riempito il mio cuore di felicità.
Amore mío lascia che ti dica che: 
 Non ti amo per le tue tette, anche se so che sono perfette,
 né per i tuoi fianchi, so benissimo che qualcuno morirebbe per loro.
 Tanto meno per le tue chiappe , che sono il luogo caldo della mia fredda notte d'inverno.
 E no, anche se ci pensi, non ti amo perché sei carina,
 il mio amore va oltre. Sai perché ti amo?
 Perché dal giorno in cui ti ho incontrato, mi hai fatto vedere la ragazza che piange quando tutti dormono.
 Chi è: insicura, silenziosa, timida, rotta, triste, tenera, sorridente e felice. 
 Quella che cerca sempre di fare le cose per bene, nonostante che non riesce
 Quella che non odia nessuno, anche se tutti la odiano. 
 Quella che è passato da essere la ragazza del disastro,a la ragazza della rivoluzione.
 Per questo motivo, e per più ragioni, ti voglio bene, ti amo e ... ti ammiro. 
 BUON COMPLEANNO AMORE MIO. 
 “NONOSTANTE LA DISTANZA, GUARDO LA STESSA LUNA CHE GUARDI TU. QUINDI NON SIAMO COSÌ LONTANI " 
 GRAZIE PER ESSERE PARTE DELLA MIA VITA
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ilquadernodelgiallo · 3 years
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Naturalmente si deve accettare come presupposto l'esistenza di dispute tra psicologi cognitivi, filosofi della mente e neuroscienziati su cosa sia la coscienza. Il fatto che la suddetta domanda venga posta almeno dai tempi dell'antica Grecia e dai primi buddhisti indica che la specie umana presuppone, da un certo punto in poi, la propria coscienza, e che la coscienza ha un certo effetto sul nostro modo di vivere. Per Zapffe, l’effetto è «una violazione nell’unità della vita, un paradosso biologico, un abominio, un’assurdità, un’esagerazione di natura disastrosa. È la vita che oltrepassa il suo scopo, e lo fa a pezzi. Una specie è stata armata troppo pesantemente, da uno spirito onnipotente esterno a essa, ma ugualmente minaccioso per il suo benessere. La sua arma è come un gladio senza l’impugnatura o la lama, una spada a doppio taglio che fende qualsiasi cosa; chi la brandisce però deve afferrare la spada e volgere una lama contro di sé.» [Wessel Zapffe, L'ultimo messia] _______________ «Perché» si chiede Zapffe «l’umanità non si è estinta già da tempo nel corso delle grandi epidemie di follia? Perché soltanto un numero discretamente piccolo di persone muore non riuscendo a sostenere lo sforzo del vivere? La coscienza dà loro un carico più difficile da portare?» Questa la risposta di Zapffe: «La maggior parte delle persone impara a salvare se stessa limitando artificiosamente la capacità della coscienza». _______________ Sappiamo di essere vivi e sappiamo che moriremo. Sappiamo anche che soffriremo durante la vita, prima della sofferenza – lenta o veloce – che ci condurrà alla morte. Questa è la conoscenza di cui «gioiamo» in quanto organismi più intelligenti a nascere dal ventre della natura. Stando così le cose, ci sentiamo imbrogliati se per noi non c’è altro che sopravvivere, riprodursi e morire. Vogliamo che ci sia qualcosa oltre a questo, o almeno pensare che ci sia. È questa la tragedia: la coscienza ci costringe alla posizione paradossale di doverci sforzare a vivere inconsapevolmente ciò che siamo, pezzi di carne destinata a corrodersi su ossa che vanno disgregandosi. ________________ Come accennato sopra, Zapffe arriva a due centrali conclusioni riguardo al «problema biologico» dell'umanità. La prima è che la coscienza era andata troppo oltre per essere un attributo tollerabile dalla nostra specie, e minimizzando questo problema siamo costretti a minimizzare la nostra stessa coscienza. Tra i tanti modi in cui questo può essere fatto, Zapffe sceglie di dedicarsi a quattro principali strategie: «1. ISOLAMENTO. Per non vivere precipitando nella trepidazione, isoliamo i fatti terribili dell’essere vivi, relegandoli in un remoto comparto della nostra mente. [...] 2. ANCORAGGIO. Per stabilizzare le nostre vite nelle acque tempestose del caos, cospiriamo per ancorarle in verità metafisiche e istituzionalizzate – Dio, Moralità, Legge naturale, Patria, Famiglia – che ci inebriano facendoci sentire solenni, autentici e al sicuro nei nostri letti. 3. DISTRAZIONE. [...] 4. SUBLIMAZIONE. […] In così tante parole, questi artisti e pensatori confezionano prodotti che offrono una fuga dalla nostra sofferenza, attraverso una sua simulazione artefatta – una tragedia o una distrazione filosofica, per esempio.» _______________ «Nessuno vuole ascoltare quelle ansie che teniamo chiuse dentro di noi. Soffocate l’urgenza di andare in giro a raccontare a tutti le vostre pene e i vostri brutti sogni. Seppellite i vostri morti ma non lasciate tracce. E assicuratevi di continuare a tirare avanti oppure andremo avanti senza di voi» [Zapffe, UM]. Nella sua dissertazione dottorale del 1910, pubblicata postuma con il titolo La persuasione e la rettorica (1913), il ventitreenne Carlo Michelstaedter verificò le tattiche con cui falsifichiamo l’esistenza umana in modo da barattare quello che siamo, o potremmo essere, con una speciosa visione di noi stessi. _______________ Sono i limiti dell’individuo in quanto essere, non l’atto di superarli, a creare l’identità della persona e a preservare in essa l’illusione di essere speciale, non uno scherzo del destino, prodotto di cieche mutazioni. […] La lezione: «Amiamo i nostri limiti, perché senza di essi a nessuno sarebbe permesso essere qualcuno» [Zapffe, UM]. _______________ La seconda delle due conclusioni centrali di Zapffe – che la nostra specie dovrebbe smettere di riprodursi – ci fa venire subito in mente un insieme di personaggi della storia teologica noti come gnostici. _______________ …Philipp Mainländer […] previde un'esistenza non coitale come il più sicuro patto di redenzione per il peccato di essere congregati in questo mondo. Tuttavia la nostra estinzione non sarebbe la conseguenza di un’innaturale castità, ma un fenomeno naturale che si verificherà quando l’uomo si sarà abbastanza evoluto da comprendere che la nostra esistenza è così vana, così senza speranza e insoddisfacente, che non saremo più soggetti a impulsi generatori. Paradossalmente, tale evoluzione verso un disgusto per la vita, verrebbe agevolata dal diffondersi della felicità tra gli uomini. Questa felicità si raggiungerebbe più velocemente seguendo gli insegnamenti evangelici di Mainländer al fine di ottenere la giustizia e la carità universali. Solo realizzando ogni possibile bene ottenibile in vita – così ragionava Mainländer – potremo comprendere quanto poco siano preferibili alla non-esistenza. _______________ Mainländer era certo che la Volontà di morire, che secondo lui sarebbe sgorgata nell’umanità, fosse stata innestata nel nostro spirito da un dio che ha pianificato la propria morte dal principio. L’esistenza era un orrore per lo stesso Dio. Sfortunatamente, Dio era immune agli effetti del tempo. L’unico modo che aveva per liberarsi di Se stesso era attraverso una forma di suicidio divino. Il piano di Dio per suicidarsi non poteva però funzionare fintanto che Egli fosse esistito come entità unica al di fuori dello spazio‑tempo e della materia. Nel tentativo di annullare la Propria unità in modo da potersi dissolvere nel nulla, Si frantumò – come una sorta di Big Bang – nei pezzi dell’universo soggetti al tempo, ovvero tutti gli oggetti e gli organismi che si sono accumulati in giro lungo miliardi di anni. Nella filosofia di Mainländer, «Dio sapeva di poter passare da uno stato di superrealtà al non‑essere soltanto attraverso lo sviluppo di un mondo reale e multiforme». Attraverso questo stratagemma Egli riuscì a escludere Se stesso dall’esistenza. «Dio è morto» scrive Mainländer «e la Sua morte è stata la vita del mondo.» […] Sotto questa luce, il progresso umano non è altro che il sintomo beffardo del fatto che la nostra caduta verso l’estinzione procede di buon passo, poiché più le cose cambiano in meglio, più progrediscono verso una fine certa. _______________ Il bisogno di queste idee nasce dal fatto che l’esistenza è una condizione priva di qualsiasi qualità redentrice. Se così non fosse, nessuno sentirebbe la necessità di idee come la nonesistenza ecumenica, un aldilà felice o il cammino verso la perfezione in questa vita. _______________ Ogni altra creatura del mondo è insensibile al significato. Ma quelli come noi, sul più alto gradino dell’evoluzione, sono saturi di questa brama innaturale, che ogni esauriente enciclopedia filosofica riporta alla voce VITA, SIGNIFICATO DELLA. _______________ Forse potremmo avere una giusta prospettiva sulla nostra scadenza terrena se smettessimo di pensarci come delle entità che mettono in scena una «vita». Questa parola è carica di sfumature di significato a cui non ha alcun diritto. Invece, dovremmo sostituire «esistenza» a «vita» e lasciar perdere quanto bene o male la mettiamo in scena. Nessuno di noi «ha una vita» nel modo narrativo‑biografico in cui intendiamo queste parole. Quello che abbiamo sono un certo numero di anni di esistenza. Non ci verrebbe mai da affermare che un uomo o una donna sono «nel fiore della loro esistenza». Parlare di «esistenza» invece che di «vita» spoglia quest’ultima parola del suo fascino. _______________ In parole povere, non possiamo vivere se non autoingannandoci, mentendo a noi stessi su noi stessi, e anche sull’invincibilità della nostra condizione in questo mondo. […] Isolamento, ancoraggio, distrazione e sublimazione sono tra i sotterfugi che usiamo per impedirci di lasciar dissolvere tutte le illusioni che ci tengono in piedi e in funzione. Senza questo imbroglio cognitivo saremmo messi a nudo per quello che siamo. _______________ A opporsi agli standard assolutisti del pessimismo, per come li abbiamo qui delineati, troviamo i pessimisti «eroici», o piuttosto gli eroici «pessimisti». […] Lo scrittore spagnolo Miguel de Unamuno, nel suo Del sentimento tragico della vita negli uomini e nei popoli (1913), parla della coscienza come di una malattia generata dal conflitto tra razionale e irrazionale. Il razionale viene identificato con le conclusioni a cui giunge la coscienza, principalmente con il fatto che moriremo tutti. L’irrazionale rappresenta tutto ciò che vi è di irrazionale nell’umanità, compreso il desiderio d’immortalità in uno stato fisico o non fisico. La coesistenza del razionale e dell’irrazionale trasforma l’esperienza umana in un groviglio di contraddizioni davanti alle quali possiamo chinare il capo rassegnati, o sfidarle eroicamente, e futilmente. La preferenza di Unamuno andava alla scelta eroica, posta l’implicita condizione che un individuo possedesse il fegato, fisico e psicologico, per affrontare la lotta. _______________ L’unica differenza è nel fatto che Unamuno, Dienstag e Brashear acconsentono volontariamente a una finzione che la gente comune non riconosce, almeno come regola generale, dato che talvolta anche i comuni mortali sono costretti ad ammettere l’esistenza di questa finzione: è solo che non ci si soffermano abbastanza da farne un punto d’orgoglio filosofico per poi complimentarsi con se stessi. Sodale filosofico di Unamuno, Dienstag e Brashear è il filosofo francese Albert Camus. Nel saggio Il mito di Sisifo (1942), Camus vede nello scopo irraggiungibile del personaggio del titolo una scusa per continuare a vivere anziché smettere. Nel suo commento all’orrenda parabola, insiste: «Dobbiamo immaginare Sisifo felice» mentre spinge il suo masso sulla sommità della montagna da cui rotolerà poi giù, infinitamente, per sua disperazione. _______________ L’obiezione che il pessimista debba uccidersi per essere all’altezza dei suoi ideali è spia, crediamo, di un tale crasso intelletto da non meritare risposta. Risposta che non è tutto questo affanno dare, peraltro. Semplicemente perché qualcuno ha raggiunto la conclusione che la quantità di sofferenza nel mondo è tale che sarebbe meglio non essere mai nati, questo non significa che per forza di logica o per sincerità costui debba uccidersi. Significa solo che ha raggiunto la conclusione che la quantità di sofferenza nel mondo è tale che sarebbe meglio non essere mai nati. […] La morte volontaria può apparire come una linea d’azione totalmente negativa, ma non è così semplice. Ogni negazione è adulterata o furtivamente innescata da uno spirito affermativo. _______________ «Per questa palese sproporzione tra la fatica e la sua ricompensa, la Volontà di vivere ci appare, da questo punto di vista, come una follia, se la consideriamo oggettivamente, oppure, intendendola soggettivamente, come un’illusione, che cattura ogni essere vivente e lo porta a esaurire le sue forze, per conseguire un risultato che non ha alcun valore. Se però esaminiamo le cose con più attenzione, troveremo anche qui che essa è piuttosto un impeto cieco, un impulso completamente infondato e immotivato.» [Arthur Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione] _______________ Per gli ottimisti la vita umana non necessita di spiegazioni, non importa quanti dolori si accumulino, perché possono sempre dirsi che le cose andranno meglio. Per i pessimisti non c’è abbastanza felicità – sempre che una cosa simile alla felicità possa essere raggiunta dagli uomini se non attraverso un errato luogo comune – che possa compensarci dei dolori della vita. _______________ In Better Never to Have Been: The Harm of Coming into Existence (2006), Benatar sostiene in modo convincente che, siccome una certa misura di sofferenza è inevitabile per tutti coloro che nascono, mentre l’assenza di felicità non danneggia quelli che potrebbero essere nati ma non lo sono, il piatto della bilancia pende a favore del non mettere al mondo figli. Quindi, chi si riproduce viola ogni sistema morale ed etico concepibile perché è colpevole di infliggere una sofferenza. Per Benatar la quantità di questa sofferenza, che si verifica sempre, non ha importanza. Una volta che la sofferenza è diventata inevitabile con la procreazione di un bel fagottino, è già stato oltrepassato il confine tra un comportamento morale ed etico e un comportamento immorale e non etico. Questa violazione della morale e dell’etica esiste in ogni caso di procreazione, secondo Benatar. _______________ «Le orrende visioni del folle sono tratte dalla materia dei fatti quotidiani.» [William James, Le varie forme dell'esperienza religiosa] _______________ Nella sua conferenza La vita è degna di essere vissuta, James sosteneva che gli esseri umani,  a differenza dei cani, possono immaginare un ordine di esistenza superiore al loro, che possa legittimare le peggiori avversità della vita. _______________ Una volta che i meccanismi repressivi sono stati riconosciuti, devono essere cancellati dalla memoria – o nuovi meccanismi devono sostituire i vecchi – affinché si possa continuare a essere protetti dai bozzoli delle nostre vite. […] Anche se talvolta ammettiamo i mezzucci ingannevoli con cui continuiamo a fare quello che facciamo, si tratta solo di un livello ancora superiore di autoinganno e paradosso, e non della dimostrazione del fatto che risiediamo sulla cima di una metarealtà dove siamo davvero reali. […] Troppi di noi devono intorpidire la propria coscienza in modo da essere molto meno coscienti di quanto potrebbero, questa è la tragedia della razza umana, se qualcuno se lo fosse dimenticato. Quelli che non riescono a farlo ne pagheranno le conseguenze. _______________ Infine, molti di coloro che studiano l'autoinganno credono che noi non siamo in grado di autoingannarci, perché non possiamo consapevolmente sapere qualcosa e non saperla allo stesso tempo, poiché questo genererebbe in noi un paradosso. Ma altri studiosi. Hanno cercato di venire a capo di questo supposto paradosso. Un esempio di tale ragionamento è quello di Kent Bach (An Analysis of Self‑Deception, in Philosophy and Phenomenal Research, 1981), che illustra tre metodi per evitare quei pensieri indesiderati che sarebbero comunque accessibili alla coscienza di un individuo: razionalizzazione, evasione e interferenza. Questi sono identici alle strategie di isolamento, ancoraggio e distrazione evidenziate nella vita umana da Zapffe. Ognuno di questi metodi può mantenere il soggetto in uno stato di autoinganno. _______________ [David Livingstone] Smith è infatti uno psicoanalista e questo è chiaro dalla sua affermazione secondo cui la «costante possibilità dell’inganno è una dimensione cruciale di qualsiasi relazione umana, anche nella più centrale di tutti: la relazione con noi stessi». Per mettere in pratica tale inganno l’individuo deve reprimere la coscienza dell’inganno, cosa che non esclude un autoinganno a proposito della coscienza stessa e di cosa ciò svela sulla vita umana. _______________ «Non è l’anima a essere malata, sono le sue difese che cedono o che vengono rigettate essendo – correttamente – percepite come un tradimento del potenziale più elevato dell’ego.» [Zapffe, UM] _______________ In quanto specie ossessionata dalla sopravvivenza, il nostro successo è calcolato in base a quanto abbiamo allungato l’esistenza media, e la riduzione della sofferenza è solo un effetto collaterale di tale scopo. Restare in vita in ogni circostanza è una malattia che ci consuma. ________________ Per certe persone un sistema che comprende un aldilà di beatitudine eterna non è inutile. Potrebbero affermare che questo sistema è necessariamente utile perché gli dà la speranza di cui hanno bisogno per attraversare questa vita. Ma un aldilà di beatitudine eterna non è, e non può essere, necessariamente utile perché qualcuno ha bisogno che sia così. Fa solo parte di un parametro relativo, nulla di più. _______________ Nessun filosofo è mai riuscito a dare una risposta soddisfacente alla domanda: «Perché deve esistere qualcosa piuttosto che il nulla?». A prima vista sembrerebbe una domanda legittima, ma in fondo qualcuno di noi trova inspiegabile, addirittura illogico, che si arrivi a porla. Il quesito è un chiaro sintomo del nostro disagio nei riguardi del Qualcosa. Al contrario, nel Nulla non c’è niente di preoccupante, perché non siamo in grado di prenderlo in esame. […] Il perturbante genera una sensazione di erroneità. Traspira una violazione che allarma l’autorità interiore riguardo a come una certa cosa dovrebbe accadere, esistere o comportarsi. _______________ Un giorno le scarpe sul fondo dell’armadio attraggono la tua attenzione come mai prima. In qualche maniera si sono separate dal tuo mondo, sono apparizioni a cui non sai dare un posto, brandelli di materia senza qualità e significato stabili. Ti senti confuso mentre stai lì a fissarle. Che cosa sono? Qual è la loro natura? Perché deve esistere qualcosa piuttosto che il nulla? Ma prima che la coscienza possa fare altre domande viene azzerata in modo che le calzature tornino a essere, nella loro esistenza, familiari e non più straordinarie. […] La genialità dell’esempio di Jentsch [Ernest Jenstsch, Sulla psicologia del perturbante] sta nel fatto che egli spiega il perturbante non come qualità oggettiva di un qualcosa situato nel mondo esterno, ma come esperienza soggettiva di chi percepisce il mondo esterno. Così va nella vita reale: il perturbante è un effetto della mente, e basta. Eppure, in questo caso, almeno per l’osservatore medio, il perturbante ha un’origine efficace nello stimolo oggettivo, in qualcosa che sembra sprigionare un potere proprio. _______________ Trasformando traversie naturali in soprannaturali troviamo la forza di affermarne e simultaneamente negarne l’orrore, di assaporarle e al contempo patirle. […] Tramite l’orrore soprannaturale possiamo tirare, senza collassare, i fili del nostro stesso destino di marionette naturali, le cui labbra sono dipinte con il nostro stesso sangue. _______________ Coloro che con più veemenza si oppongono alla declinazione pessimista del determinismo sono i seguaci dell’indeterminismo libertario. Sostengono che noi disponiamo del libero arbitrio assoluto e possiamo divenire individui capaci di scegliere di voler fare una certa scelta e non un’altra. Dichiarano che siamo ciò che Michelstaedter negava potessimo diventare: individui incontestabilmente padroni di se stessi, e non il prodotto di un’indeterminabile serie di eventi e condizioni che risultano nella possibilità, per noi, di fare una sola scelta piuttosto che un certo numero di scelte, perché fattori al di là del nostro controllo hanno già badato a chi siamo come individui e a quali scelte, infine, faremo. Nella storia delle elucubrazioni filosofiche le tesi a favore del determinismo sono tradizionalmente le più contestate. Per quale ragione, a parte il fatto che esso trasforma l'immagine umana in immagine di marionetta? Il motivo è che le tesi a favore del determinismo vanno oltre la sacrosanta fede nella responsabilità morale. […] Nella vita di tutti i giorni il determinista duro e puro non è mai esistito, perché nessuno può affrancarsi dalla sensazione di disporre del libero arbitrio. Il massimo che possiamo fare è dedurre che subiamo determinazioni basandoci sull’osservazione della normale legge di causalità tra le cose del mondo e applicandola a noi stessi. Ma non possiamo percepire noi stessi in quanto determinati (un filosofo ha detto, e forse altri hanno pensato, tra sé: «Si può davvero credere al determinismo senza diventare pazzi?»). Il determinismo nel pensiero e nelle azioni non si può distinguere con l’esperienza, ma può essere soltanto dedotto sul piano astratto. Sarebbe impossibile per chiunque dire: «Io non sono altro che una marionetta umana». L’unica eccezione sarebbe un individuo che, vittima di una malattia psicologica, creda di essere controllato da una forza estranea. Se questo individuo dicesse: «Io non sono altro che una marionetta umana», egli verrebbe spedito seduta stante al più vicino ospedale psichiatrico, presumibilmente colto dall’orrore di aver percepito di essere una marionetta umana controllata da una forza estranea che opera al suo esterno o al suo interno o in entrambi. […] Odiare le nostre illusioni o tenercele strette non fa che legarci più saldamente a esse. Chi tiene al proprio mondo non può contrastarle senza vederlo poi crollare. _______________ In mancanza della sensazione di essere o possedere un io, sarebbe inutile discutere se siamo o non siamo liberi, determinati o una via di mezzo. Perché abbiamo un senso dell’io è stato spiegato in vari modi (per una delle spiegazioni possibili si veda il prossimo paragrafo). Possederlo è ciò che mette sul tavolo il dibattito «libero arbitrio contro determinismo». Anzi, è ciò che mette tutto sul tavolo, perlomeno sul tavolo dell’esistenza umana, perché nient’altro che esista ha la sensazione di essere un io che può fare o non fare qualsiasi cosa a piacimento. _______________ Non ci limitiamo a vivere le esperienze: le possediamo. Questo significa essere una persona. […] Ma la logica non può esorcizzare l’«Io», l’ego che ti guarda dallo specchio, così come la logica non può rimuovere l’illusione del libero arbitrio. _______________ Forse l’unico motivo di interesse nei confronti dell’io è questo: qualunque cosa ci faccia pensare di essere ciò che pensiamo di essere dipende dal fatto che possediamo una coscienza, la quale ci dà la sensazione di essere qualcuno, nello specifico un qualcuno umano, qualunque cosa esso sia, perché una definizione di «umano» condivisa e universale non l’abbiamo. Ma conveniamo che, anche se solo in pratica, siamo tutti io reali perché siamo coscienti di noi stessi. E una volta varcate tutte le soglie che qualificano in qualche modo il nostro io – siano essi il nome, la nazionalità, il genere o il numero di scarpe – eccoci sulla soglia della coscienza, genitrice di tutti gli orrori. E la nostra esistenza è tutta qui. _______________ Nel saggio The Shadow of a Puppet Dance: Metzinger, Ligotti and the Illusion of Selfhood (in Collapse, vol. IV, maggio 2008), James Trafford riassume così il paradosso di Metzinger: «L’oggetto “uomo” consiste di densissimi strati di simulazione, profilattico necessario alla quale, se si vuole tenere a bada il terrore concomitante con la distruzione delle nostre intuizioni a proposito di noi stessi e della nostra condizione nel mondo, è il realismo ingenuo: “La soggettività conscia è il caso in cui il singolo organismo ha imparato a soggiogare se stesso”». La frase che chiude Being No One di Metzinger si può considerare un’estensione del paradosso di Zapffe, per effetto del quale reprimiamo dalla coscienza tutto ciò che nella vita è sconvolgente e orribile. Per Metzinger questa repressione prende la forma del già citato realismo ingenuo, che maschera quella che in assoluto è la più sconvolgente e orribile rivelazione per un essere umano: che non siamo ciò che pensiamo di essere. A mitigare la vertigine di fronte a una così deplorevole illuminazione, Metzinger conferma che è «praticamente impossibile» per noi giungere alla consapevolezza della nostra irrealtà, per via delle manette della percezione umana che abbiamo dentro e che tengono la mente imprigionata nel sogno. _______________ «Un modo – tra un’infinità di modi – di guardare all’evoluzione biologica sul nostro pianeta è considerarla il processo che ha creato un oceano in continua espansione di sofferenza e confusione dove prima non c’era. Poiché a crescere senza sosta non è soltanto il numero dei soggetti consci individuali ma anche la dimensionalità dei loro spazi‑stati fenomenici, questo oceano aumenta anche in profondità. A mio giudizio è una robusta tesi contro la creazione dell’intelligenza artificiale: non dovremmo aumentare questo terribile caos senza prima aver capito a fondo che cosa sta davvero succedendo qui.» [Metzinger, BNO] _______________ Appare improbabile che uno possa mai vedere se stesso com’è nei termini di Metzinger. Vedrebbe l’orrore, allora, e saprebbe di saperlo: gli sarebbe impossibile credere che non è nient’altro che una marionetta umana. E adesso? Risposta: adesso diventi pazzo. […] Adesso sappiamo di essere paradossi perturbanti. Sappiamo che la natura ha sconfinato nel soprannaturale fabbricando una creatura che non può e non dovrebbe esistere secondo le leggi naturali, e invece esiste. Lo sprezzo di Metzinger per il volgare materialismo sembra basarsi sulla convinzione ottimista che la futura tecnologia della coscienza ci porterà in luoghi dove la «forma biologica della coscienza, nel grado di evoluzione a cui è giunta sul nostro pianeta» non ci ha condotti. […] Metzinger deve avere fede nel fatto che quando il resto dell’umanità avrà capito come funziona, giocheremo – in tutta sincerità e senza fingere – in un mondo nel quale, di giorno in giorno, in ogni modo, le cose andranno sempre meglio. Ma ci vorrà del tempo, e parecchio. _______________ Il significato che la nostra vita sembra avere è opera di un sistema emotivo di costituzione relativamente robusta. Mentre la coscienza ci dà l’impressione di essere persone, la nostra psicofisiologia è responsabile del renderci personalità convinte che al gioco dell’esistenza valga la pena di partecipare. Possiamo avere ricordi unici e distinti da quelli di chiunque altro, ma senza le emozioni giuste a rivitalizzarli essi hanno lo stesso valore dei file digitali nella memoria di un computer, frammenti sconnessi di dati che non si uniscono mai in un individuo confezionato su misura per il quale le cose sembrano avere un senso. Puoi concettualizzare che la tua vita abbia un significato, ma se quel significato non lo percepisci allora la concettualizzazione non ha senso e tu non sei nessuno. […] Una brutta depressione invece fa evaporare le emozioni e ti riduce a guscio di persona abbandonata in un panorama brullo. Le emozioni sono il sostrato dell’illusione di essere un qualcuno tra altri qualcuno, oltre che della sostanza che vediamo nel mondo, o crediamo di vedere. _______________ Senza emozioni cariche di significato a tenere il cervello sulla strada maestra, perderesti l’equilibrio e cadresti in un abisso di lucidità. E per un essere cosciente la lucidità è un cocktail senza ingredienti, un intruglio cristallino che lascia i postumi di una sbronza di realtà. Nella perfetta coscienza non c’è che il perfetto nulla, conclusione perfettamente dolorosa per chi cerca di dare un senso alla sua vita. _______________ Questa è la grande lezione che impara il depresso: niente al mondo è intrinsecamente irresistibile. Qualunque cosa ci sia davvero «là» non ha il potere di proiettarsi come esperienza affettiva. È tutta una faccenda vacua dal prestigio unicamente chimico. Niente è buono o cattivo, desiderabile o indesiderabile o chissà cos’altro, tranne ciò che è reso tale dai laboratori interiori che producono le emozioni di cui ci nutriamo. E nutrirsi di emozioni è vivere in maniera arbitraria, inaccurata: attribuire un significato a ciò che non ne è provvisto. E però, che altro modo c’è di vivere? Senza lo sferragliante e inarrestabile macchinario delle emozioni tutto andrebbe in stallo. Non ci sarebbe nulla da fare, nessun luogo dove andare, niente da essere, nessuno da conoscere. Le alternative sono chiare: vivere nel falso, da pedine degli affetti, o vivere nei fatti come depressi o individui a cui è noto ciò che è noto al depresso. _______________ Il motivo: a intimidirci è la depressione, non la follia; a impaurirci è la demoralizzazione, non la follia; a mettere in pericolo la nostra cultura della speranza è la disillusione della mente, non la sua alienazione. _______________ Nonostante sia Schopenhauer che Nietzsche parlino a un pubblico di soli atei, sul piano delle pubbliche relazioni l’errore del primo è il non concedere all’umano alcun prestigio speciale nel mondo delle cose organiche o inorganiche, o di non agganciare alcun significato alla nostra esistenza. Al contrario di Schopenhauer, Nietzsche non soltanto prende le letture religiose della vita tanto sul serio da poterle criticarle in lungo e in largo, ma ha la caparbietà di rimpiazzarle con valori che tendono a un fine e a un senso ultimo, che persino i non credenti bramano come cani: un progetto in cui l’individuo possa perdere (o trovare) se stesso. La chiave della popolarità di Nietzsche tra gli amoralisti atei è il misticismo materialista, un trucchetto mentale che tramuta l’insensatezza del mondo in qualcosa di significativo, e rimodella sotto i nostri occhi la sorte a guisa di libertà. ________________ «In certi casi una persona può sviluppare un’ossessione per la gioia distruttiva, rimuovere del tutto l’apparato artificiale della propria vita e cominciare a farne piazza pulita con orrore ed entusiasmo. L’orrore deriva dallo smarrimento di tutti i valori che gli davano riparo; l’entusiasmo dalla sua ormai spietata identificazione e armonia con il segreto più profondo della nostra natura – l’instabilità biologica, la costante predisposizione a una fine tragica». [Zapffe, UM] In quanto negazione della vita, il pessimismo ha perso un grande portabandiera quando Nietzsche ha cominciato a gioire di ciò che dovrebbe far rabbrividire, una posizione psichica che di per sé è la più paradossale di tutte. __________ Come chi crede nel libero arbitrio libertario, i transumanisti credono che noi possiamo fare noi stessi. Ma è impossibile. Noi siamo stati fatti, lo testimonia l’evoluzione. Non ci siamo tirati fuori da soli dalla poltiglia primordiale. E tutto ciò che abbiamo fatto da che siamo una specie è una conseguenza dell’essere stati fatti. Non importa cosa facciamo: sarà ciò per cui siamo stati fatti e nient’altro. […] Ma non è che l’essere postumani sia un’idea del tardo XX secolo. Nella sua ricerca del «bene» o, come minimo, del meglio, essa ricapitola le nostre più antiche fantasie. […] Per definizione, i transumanisti sono insoddisfatti da ciò che siamo in quanto specie. Naturalmente credono che essere vivi vada bene – anzi, lo credono a tal punto che non sopportano l’idea di non essere vivi e hanno architettato strategie per restare vivi per sempre. Il loro problema è che vorrebbero rendere l’essere vivi qualcosa vada enormemente meglio di ora. E il potere del pensiero positivo non basta a portarli dove vogliono andare. Sono oltre tutto questo, o vorrebbero esserlo. Sono anche oltre la fede in Dio o in un aldilà di eterna beatitudine. […] I transumanisti hanno rimpiazzato l’alternativa alla disperazione del credente con la propria. Partono dal presupposto che trarremo un beneficio enorme dall’autotrasformazione in postumani, ma l’approdo del loro programma rimane sconosciuto. Esso potrebbe inaugurare un nuovo e dinamico capitolo nella storia della nostra razza, così come annunciare la nostra fine. Comunque sia, il balzo che profetizzano sarà anticipato da congegni di ogni genere e in qualche modo coinvolgerà l’intelligenza artificiale, la nanotecnologia, l’ingegneria genetica e altre declinazioni dell’alta tecnologia. Saranno, questi, gli strumenti della Nuova Genesi, il Logos del domani. […] Il transumanesimo incapsula un errore diffuso e longevo tra i portabandiera della scienza: in un mondo che va verso l’ignoto, non ci è dato neanche di iniziare i lavori della nostra Torre di Babele; mettiamoci pure tutto l’impeto e la fretta che possiamo, ma non cambierà niente. Andare verso l’ignoto non è una malattia curabile; se il problema fosse l’andarci alla velocità più alta possibile, forse potremmo risolverlo, anche se probabilmente no. E che differenza farebbe rallentare la progressione verso l’ignoto? […] Ma una possibilità che i transumanisti non hanno preso in considerazione è che l’essere ideale posto al termine dell’evoluzione possa dedurre che il migliore dei mondi possibili è inutile, o persino maligno, e che la miglior strada da imboccare sia l’autoestinzione del nostro futuro io. […] Questo mondo è pieno di gente che non smette di rivolgersi alla scienza chiedendole che la salvi da qualcosa. Altrettanta gente, forse anche di più, preferisce chiedere la salvezza ai vecchi e rispettabili sistemi di credenze, con le loro derivazioni settarie. [...] Crede in qualsiasi cosa comprovi la sua importanza come persone, tribù, comunità, e in particolar modo come specie che resisterà in questo mondo e forse in un aldilà che sarà pure incerto nella sua realtà e poco chiaro nella sua struttura, ma che sazia nella gente la brama di valori non di questa Terra: il deprimente, insignificante posto che la sua coscienza è costretta ogni giorno a schivare. _______________ La prima Nobile Verità [del buddismo] è l’equiparazione tra la vita del comune mortale e il dukkha (che significa pressappoco «sofferenza» ma a conti fatti indica qualunque condizione di pena vi possa venire in mente). La seconda è che a questo mondo bramare qualunque cosa – la salute fisica o mentale, la longevità, la felicità, persino l’eliminazione della brama stessa – è l’origine di ogni sofferenza. Queste due Nobili Verità stanno in cima a una religione che, quanto a disposizioni da seguire per la salvezza, non ha paragoni. Tali disposizioni cominciano con la terza Nobile Verità: che esiste un modo per cessare di soffrire; e continuano con la quarta Nobile Verità: che per liberarsi dai ceppi della sofferenza occorre seguire il Nobile Ottuplice Sentiero, una lista di cose da fare e cose da non fare molto simile al Decalogo dell’Antico Testamento, ma non altrettanto accomodante né espressa in parole altrettanto semplici. […] Eppure buddhismo e pessimismo non si possono districare l’uno dall’altro. Si somigliano troppo per non notarne le affinità. I buddhisti sostengono di non essere pessimisti ma realisti. Lo stesso dicono i pessimisti. _______________ Tutte le religioni devono avere eccezioni, altrimenti imploderebbero sotto il peso delle loro stesse dottrine. _______________ Ma qui sta il vero inghippo: se vuoi diventare illuminato non lo diventerai mai, perché nel buddhismo volere una cosa è esattamente ciò che ti impedisce di ottenere la cosa che vuoi. Detta meno tortuosamente, se vuoi porre fine alla tua sofferenza, non lo porrai mai. È il «paradosso del volere» o «paradosso del desiderio» e i buddhisti sono già pronti a fornire spiegazioni razionali e irrazionali del perché questo paradosso non è un paradosso. […] Non c’è niente di più futile che cercare consciamente, in qualcosa, la salvezza. Ma la coscienza fa sembrare che non sia così. La coscienza fa sembrare che 1) c’è qualcosa da fare; 2) c’è un posto dove andare; 3) c’è qualcosa che si può essere; 4) c’è qualcosa da sapere. […] Il «paradosso del volere» buddhista si può assimilare a un correlativo del paradosso di Zapffe (il paradosso degli esseri consci che cercano di rinunciare alla coscienza delle possibilità palesemente tristi della loro vita). La differenza tra il paradosso del buddhismo e il paradosso di Zapffe è che quest’ultimo non è disponibile a farsi risolvere, spiegare o negare, né razionalmente né irrazionalmente. ________________ Al mercato della salvezza, almeno a prima vista, l’illuminazione sembra l’offerta più conveniente di sempre. Piuttosto che dibatterti in un mondo che non vale il vuoto su cui è scritto, puoi impegnarti a ottenere una visione finale di cosa è e cosa non è. In termini generali, l’illuminazione è la correzione della coscienza e la costituzione di uno stato d’essere in cui l’illusione torbida viene spazzata via e soltanto un diamante di comprensione risplende. È il deserto supremo… se soltanto lo si potesse avere, se avesse una realtà al di fuori dello scalpiccio di locuzioni critiche che vi fanno riferimento. _______________ Come aveva scritto Zapffe molto prima che U.G. [Krishnamurti] cominciasse a fustigare ogni credenza del mondo, qualsiasi attività mentale andata oltre i programmi basilari del nostro animalismo non ha portato che alla sofferenza. («Nell’animale, la sofferenza è confinata in se stessa; nell’uomo apre squarci sulla paura del mondo e sulla disperazione per la vita».) _______________ Ma allora perché continuare a vivere? Naturalmente nessuno lo domandò in maniera così diretta a U.G. Ma la sua risposta giunse: non c’è alcun «tu» che vive, soltanto un corpo la cui unica occupazione è essere vivo e obbedire alla biologia. Ogni volta che qualcuno gli chiedeva come si diventava come lui, U.G. rispondeva che per loro era impossibile anche soltanto desiderare di diventare come lui, perché a spingerli verso l’obiettivo era l’interesse personale, e fintanto che avessero creduto in un io interessato a cancellare se stesso, quell’io si sarebbe mantenuto vivo e non avrebbe voluto la morte dell’ego. _______________ Come cerca di spiegare Segal parlando di sé: «L’esperienza del vivere senza un’identità personale, senza esperire un qualcuno, un “Io” o un “me”, è straordinariamente difficile da descrivere, ma assolutamente originale. È davvero un’altra cosa rispetto a una giornata storta, all’avere l’influenza o al sentirsi turbati, arrabbiati o in estasi. Quando l’io personale sparisce, dentro non c’è più nessuno che si possa localizzare e identificare con te. Il corpo è un semplice contorno, privo di tutto ciò di cui fino a poco prima si era sentito così pieno. La mente, il corpo e le emozioni non si riferivano più a nessuno: non c’era nessuno che pensava, nessuno che provasse sensazioni, nessuno che percepiva. La mente, il corpo e le emozioni continuavano a funzionare indenni, però; all’apparenza non avevano bisogno di un “Io” per continuare come sempre.» [Suzanne Segal, Collision with the Infinite: A life beyond the personal self (1996)] _______________ Gli ego‑morti tornerebbero al punto di partenza della specie: sopravvivere, riprodursi, morire. La consuetudine della natura si ristabilirebbe in tutta la sua insensatezza marionettesca. Ma sebbene si possa considerare il modello perfetto di esistenza umana, di liberazione da noi stessi, l’ego‑morte resta un compromesso con l’essere, una concessione all’errore madornale della creazione. _______________ «Lo scopo della vita umana è stato rivelato. La vastità ha creato questi circuiti umani per avere un’esperienza di se stessa fuori da se stessa che in loro assenza non avrebbe potuto avere» [Segal, CWTI]. Vivendo nella vastità come lei, nulla era inutile per Segal, perché tutto serviva allo scopo della vastità. Ed era una bella sensazione, superata la paura iniziale di essere uno strumento della vastità anziché una persona. _______________ «Trovai che per gli uomini della mia cerchia vi sono quattro vie d’uscita dalla terribile situazione in cui tutti ci troviamo. La prima via è quella dell’ignoranza. Essa consiste in ciò, nel non sapere, nel non comprendere che la vita è male e nonsenso. [,…] La seconda via è quella dell’epicureismo. Essa consiste in ciò: pur conoscendo la situazione disperata della vita, nel profittare per il momento dei beni che ci sono, nel non guardare né il drago né i topi, ma nel leccare il miele nel miglior modo possibile, specialmente se sul cespuglio ce n’è molto. […] La terza via è quella della forza e dell’energia. Essa consiste in ciò, nel distruggere la vita, dopo aver compreso che la vita è un male e un nonsenso. […] La quarta via è quella della debolezza. Essa consiste in ciò, nel continuare a trascinare la vita, pur comprendendone il male e l’insensatezza, e sapendo in anticipo che non ne può risultare nulla. » [Lev Tolstoj, La confessione (1882)] _______________ Il piano qui è cambiare la cornice nella speranza di creare l’illusione che la propria vita abbia un qualche valore. È un piano ateo, non dichiaratamente ma lo è. I teisti non hanno bisogno di cornici per affibbiare alla loro vita un significato, perché credono di poter identificare una cornice assoluta nel Potere Superiore anche se, in fondo, non ci credono. […] La fede in un assoluto o, in alternativa, la fede in una cornice di significato non teistica rischia di zoppicare senza preavviso. Crollata la cornice, ci tocca affidarci alle nostre risorse e cercarne un’altra. Nessuna di queste cornici garantisce protezione costante al nostro benessere mentale né assistenza mentre cerchiamo di dare un senso alla vita. Passare di cornice in cornice può darci un po’ di sollievo e di senso, almeno per qualche tempo, ma rimane sempre quell’ultima cornice, da cui non ci libereremo mai perché è un luogo di prigionia che attende di riempirsi di dolore e infine, in qualche forma, di morte. _______________ Nella sua opera più nota, Il rifiuto della morte (1973) Ernest Becker scrive: «A mio parere, chi ipotizza che conoscendo in pieno la propria condizione l’uomo impazzirebbe ha ragione, letteralmente ragione». Zapffe concludeva che riusciamo a non perdere la testa «limitando artificialmente il contenuto della coscienza». Becker trae la sua identica conclusione così: «[L’uomo] si va letteralmente a cacciare in uno stato di cieca indifferenza grazie a giochi sociali, trucchi psicologici, preoccupazioni personali così lontane dalla realtà della sua situazione che sono forme di pazzia, ma pur sempre pazzia». _______________ Nelle sue ricerche e studi clinici, la TMT [Terror Management Theory] indica la radice del comportamento umano nella tanatofobia, la paura di morire che determina l’intero panorama della vita. Per placare l’ansia di morte abbiamo quindi inventato un mondo che, con l’inganno, ci convince di poter continuare a esistere – anche solo simbolicamente – anche dopo la distruzione del corpo. […] All’immortalità personale siamo disposti a preferire la sopravvivenza di persone e istituzioni che consideriamo nostre estensioni: le nostre famiglie, i nostri eroi, le nostre religioni, le nostre nazioni. […] Neanche a dirlo, però, i nostri teorici della gestione del terrore indicano una scappatoia ottimista quando dicono che «le migliori visioni del mondo sono quelle che apprezzano la tolleranza del diverso, quelle flessibili e aperte alle modifiche, che aprono percorsi verso l’autostima in cui la prospettiva di nuocere al prossimo è ridotta al minimo». (Handbook of Experimental Existential Psychology, a cura di Jeff Greenberg et al.) _______________ Come specie condividiamo la preferenza per la differenza piuttosto che per l’unità. (Vive la différence! Vive la guerre!) Nessuno ci ha progettati per essere così: è soltanto il modo in cui siamo approdati, tentoni, all’incubo dell’essere. La vita fa preda della vita, come dicono Schopenhauer e la storia naturale. Il corpo di un organismo è il pasto di un altro. _______________ Uno dei grandi svantaggi della coscienza – della coscienza in quanto genitrice di tutti gli orrori – è senza dubbio che essa esacerba le sofferenze necessarie e ne crea di superflue, come la paura della morte. Sprovvisti di quel che serve a togliersi la vita (domandatelo a Gloria Beatty), coloro che soffrono pene intollerabili imparano a nascondere i propri patimenti, necessari e superflui, perché il mondo non batte il ritmo del dolore ma della felicità, poco importa se sincera o indossata come una maschera a coprire il più cupo abbattimento. ______________ «Verrà il giorno» ci diciamo «in cui disferemo questo mondo dove siamo sballottati tra lunghi tormenti e brevi gioie, e vivremo nel piacere tutti i giorni.» La fede nella possibilità di piaceri durevoli, elevati, è una ciancia ingannevole ma adattiva. Sembra che la natura non ci abbia fatti per stare troppo bene troppo a lungo, cosa che non gioverebbe alla sopravvivenza della specie, ma soltanto per stare bene quel tanto che basta a non farci lamentare che non stiamo bene tutto il tempo. […] Forse il messaggio ti sarà chiaro, allora: se non stai abbastanza bene abbastanza a lungo, meglio che tu finga di stare bene e che addirittura pensi come se stessi bene. […] Hai due scelte: comincia a pensare come Dio e la società vogliono che pensi, o sii abbandonato da tutti. _______________ Nell’Ultimo messia Zapffe ipotizza che con il passare delle generazioni diverranno più licenziose le maniere in cui l’umanità nasconde a se stessa la disillusione: più stupido e fittizio il suo isolamento dalle realtà dell’esistenza; più rimbecillenti e rozze le distrazioni da ciò che sbalordisce e terrorizza; più maldestro e scriteriato l’ancoraggio all’irrealtà; più grette, autoironiche e distanti dalla vita le sue sublimazioni nell’arte. Questi sviluppi non renderanno il nostro essere più paradossale di così, ma potrebbero rendere le manifestazioni della nostra natura paradossale meno efficaci e più aberranti. _______________ Che porre fine a tutta la sofferenza umana e animale piuttosto che farla continuare sarebbe una tragedia ancora più grande è un’opinione spacciata per fatto. Ammesso che «con questa fine qualcosa andrebbe perso» rimane da stabilire se quel «qualcosa» sarebbe meglio perderlo o conservarlo. _______________ Nel saggio Happiness Is for the Pigs: Philosophy versus Psychotherapy (in Journal of Existentialism, 1967), Herman Tønnessen cita la domanda in un’altra forma: «Che senso ha?». Poi spiega il contesto e il significato della domanda: «[…] Pertanto, più umana di qualsiasi altra brama umana è la ricerca di una visione totale della funzione – o disfunzione – dell’Uomo nell’Universo, il posto e l’importanza che egli potrebbe avere nel disegno cosmico più ampio possibile. In altre parole è il tentativo di rispondere o perlomeno di articolare qualsiasi domanda sia implicita nel gemito morente della disperazione ontologica: che senso ha? Ciò rischia di rivelarsi biologicamente dannoso o addirittura fatale per l’Uomo. L’onestà intellettuale e le grandi pretese spirituali di ordine e significato rischiano di condurre l’Uomo alla più profonda antipatia per la vita e rendere necessario, come sceglie di definirlo un esistenzialista: «un no a questo scatenato, banale, grottesco e disgustoso carnevale nel cimitero del mondo». La frase che chiude questo estratto da Tønnessen viene da Sul tragico di Zapffe. _______________ «A rendere tragica la razza umana non è il suo essere vittima della natura, ma l’esserne conscia. Far parte del regno animale alle condizioni poste da questa Terra va benissimo, ma appena scopri la tua schiavitù, il dolore, la rabbia, la fatica comincia la tragedia. Non possiamo tornare alla natura perché non possiamo cambiare il nostro posto in essa. Il nostro rifugio è nella stupidità… non c’è moralità, né sapere né speranza; c’è soltanto la coscienza di noi stessi a mandarci avanti in un mondo che… è sempre e soltanto apparenza vana e fluttuante.» [Joseph Conrad, lettera a R.B. Cunninghame Graham (1898)] _______________ Nessun’altra forma di vita sa di essere viva, né sa di dover morire. È una maledizione tutta nostra. Senza questo malocchio non ci saremmo mai allontanati così tanto dalla natura: a tal punto e tanto a lungo che diventa un sollievo ammettere ciò che abbiamo provato con tutti noi stessi a ammettere, cioè che da quel momento siamo stati stranieri nel mondo naturale.
Thomas Ligotti, La cospirazione contro la razza umana
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senig-fandom · 5 years
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Hoy les quiero presentar a una agencia que, probablemente nunca supiste de ella o que sabias pero nunca te llamo la atención.
Hoy les presento a la Agencia Espacial Mexicana, conocida con dos nombres AEM y AEXA.
Ella es como lo explica la pagina oficial del gobierno como una ´´ organismo público descentralizado del Gobierno Federal y sectorizada en la Secretaría de Comunicaciones y Transportes.´´ el cual se dedica a  ´´Utilizar la ciencia y la tecnología espacial para atender las necesidades de la población mexicana y generar empleos de alto valor agregado, impulsando la innovación y el desarrollo del sector espacial; contribuyendo a la competitividad y al posicionamiento de México en la comunidad internacional, en el uso pacífico, eficaz y responsable del espacio.´´ 
El Programa Nacional de Actividades Espaciales consta de cinco Ejes Rectores que dan la pauta a una serie de estrategias y líneas de acción para dar cumplimiento a lo que estipula la Ley. A su vez estos Ejes Rectores le dan nombre a las cinco Coordinaciones Generales que forman nuestra estructura: * Formación de Capital Humano en el Campo Espacial * Investigación Científica y Desarrollo Tecnológico Espacial * Desarrollo Industrial, Comercial y Competitividad en el Sector Espacial * Asuntos Internacionales, Normatividad y Seguridad en la Materia Espacial * Financiamiento y Gestión de la Información en Materia Espacial
Toda la información aquí :https://www.gob.mx/aem
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Fue fundada en su totalidad el 31 de julio de 2010 como cualquier otra organización, crecía dependiendo de los esfuerzos que la gente le otorgaba y crecía mediante el paso del tiempo, hasta que por fin se de su fundación.
Las actividades del gobierno mexicano en actividades espaciales iniciaron en 1957, cuando Walter Cross Buchanan, secretario de Comunicaciones y Transportes (1955-1964), y Manuel Sandoval Vallarta promovieron el diseño y construcción de cohetes para monitorear la alta atmósfera, ya que desde 1949 se había formado un grupo de técnicos en cohetería, gracias a los adelantos en el desarrollo de la aviación, además de contar con el apoyo de académicos del Instituto Politécnico Nacional.​ Para 1960 se estableció la estación terrena de Guaymas, Sonora.
En el mismo sentido, el presidente Adolfo López Mateos emitió un decreto en el Diario Oficial de la Federación del 31 de agosto de 1962 que creó la Comisión Nacional del Espacio Exterior (CONEE), adscrita a la Secretaría de Comunicaciones y Transportes con el fin de fomentar la investigación, explotación y utilización pacífica del espacio exterior; Comisión que continuó con los trabajos de cohetería, telecomunicaciones y estudios atmosféricos en el país.
Ante la falta de un órgano oficial del desarrollo espacial en México, los esfuerzos en esta materia se aislaron. Por ejemplo, se desarrollaron y calificaron experimientos en ciencias de materiales para ser efectuados en el transbordador espacial de la Administración Nacional de Aeronáutica y del Espacio (NASA) de los Estados Unidos, desarrollados en la década de 1980 por un grupo de investigadores e ingenieros de la UNAM.
La industria de las telecomunicaciones impulsó la creación de una red satelital para su sector, la cual se concretó con la puesta en órbita de los satélites Morelos durante 1985 por la NASA, lo que impulsó a que instituciones como el CICESE desarrollara trabajos en tecnología telefónica, VSAT y comunicación móvil en banda L. Los trabajos con la NASA permitió que el doctor Rodolfo Neri Vela participara en una misión de los transbordadores espaciales y se convirtiera en el primer astronauta mexicano.
En 2005 los ingenieros Fernando de la Peña Llaca y José Luis García García elaboran una primera iniciativa para la creación de una Agencia Espacial Mexicana, la cual se presentó a la Cámara de Diputados. Éste trabajo derivó en un documento cuyo objetivo medular era "abrir empresas contratistas" capaces de vender sus servicios en otros países. Éste proyecto establecía a la Agencia Espacial Mexicana como un ente autofinanciable.
Una vez concluidos los cuatro foros de consulta, la SCT conformó el Grupo Relator de la Política Espacial de México, el cual estuvo a cargo de la redacción de las Líneas Generales de la Política Espacial de México​ que fueron presentadas en el Foro de Conclusiones de la Agencia Espacial Mexicana por el Presidente de la Junta de Gobierno de la AEM, Dionisio Pérez-Jácome.
El Grupo Relator de la Política Espacial de México fue coordinado por la Secretaria Técnica de la Agencia Espacial Mexicana (AEM). Para la redacción del documento maestro de las Líneas Generales de la política espacial de México se tomaron como base los foros para la creación de la Agencia Espacial Mexicana, así como el análisis de diversos documentos de Política Espacial de algunos países que cuentan con Agencia Espacial, entre ellos: Estados Unidos, Rusia, China, Japón, Reino Unido, Brasil, Canadá, India y la Unión Europea.
El documento final de las Líneas Generales de la Política Espacial de México tuvo un largo proceso de revisión, discusión y análisis, que finalmente fue aprobado de manera unánime por todos los miembros de la Junta de Gobierno de la Agencia Espacial Mexicana.
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Su diseño esta basado en la diosa cortada  Coyolxauhqui, hermana de Huitzilopochtli,quien fue la que corto sus cuatro extremidades y la cabeza.
Los colores están basados en el logotipo puesto en su rostro, mientras que su traje trae el nombre original.
Es alegre, es chaparrita, ama el espacio y tiene una amistad toxica con la NASA.
Parecerá un androide o un robot, pero Centro siempre diseña con humanos, ella esta viva y siente cosas, como el fracaso y la auto superación, ademas de que con la amistad que tiene con la NASA no es de las mas sanas, pues el suele llevarse los mejores créditos que deberían ser de ella, lastimosamente ella es muy sumisa y se deja ante las actitudes manipuladoras de la NASA. Al no tener tantos amigos con los que hablar de lo que a ella le gusta, ve a NASA como su único amigo y no quiere perderle.
Tiene un robot volador llamado como ella AEM, quien es el que la vigila, y tiene un rayo que utiliza para espantar a los corruptos.
Es una agencia casi olvidada, por el echo de que la mayoría de los ciudadanos prefieren ir a la NASA que con ella, por los términos económicos que ella no les puede dar.
No tiene muchos amigos, puesto que ella casi nunca se le ve, ya que suele intentar construir cosas para ser reconocida. En la actualidad tuvieron el  lanzamiento del Nanosatélite mexicano AztechSat-1.
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Eso es todo, espero y les guste ^w^
(Y EL QUE ESTA EN LA CABEZA DE AEXA ES MÉXICO SUR, SUR LE GUSTA EL ESPACIO)
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ilfalcoperegrinus · 4 years
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III DOMENICA DI PASQUA
anno A (2020)
At 2,14.22-33; 1Pt 1,17-21; Lc 24,13-35
https://predicatelosuitetti.files.wordpress.com/2020/04/iii-domenica-di-pasqua-anno-a-2020.mp3
Ed ecco, in quello stesso giorno, (il primo della settimana) due dei discepoli erano in cammino per un villaggio di nome Èmmaus, distante circa undici chilometri da Gerusalemme, e conversavano tra loro di tutto quello che era accaduto. Mentre conversavano e discutevano insieme, Gesù in persona si avvicinò e camminava con loro. Ma i loro occhi erano impediti a riconoscerlo. Ed egli disse loro: «Che cosa sono questi discorsi che state facendo tra voi lungo il cammino?». Si fermarono, col volto triste; uno di loro, di nome Clèopa, gli rispose: «Solo tu sei forestiero a Gerusalemme! Non sai ciò che vi è accaduto in questi giorni?». Domandò loro: «Che cosa?». Gli risposero: «Ciò che riguarda Gesù, il Nazareno, che fu profeta potente in opere e in parole, davanti a Dio e a tutto il popolo; come i capi dei sacerdoti e le nostre autorità lo hanno consegnato per farlo condannare a morte e lo hanno crocifisso. Noi speravamo che egli fosse colui che avrebbe liberato Israele; con tutto ciò, sono passati tre giorni da quando queste cose sono accadute. Ma alcune donne, delle nostre, ci hanno sconvolti; si sono recate al mattino alla tomba e, non avendo trovato il suo corpo, sono venute a dirci di aver avuto anche una visione di angeli, i quali affermano che egli è vivo. Alcuni dei nostri sono andati alla tomba e hanno trovato come avevano detto le donne, ma lui non l’hanno visto». Disse loro: «Stolti e lenti di cuore a credere in tutto ciò che hanno detto i profeti! Non bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?». E, cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui. Quando furono vicini al villaggio dove erano diretti, egli fece come se dovesse andare più lontano. Ma essi insistettero: «Resta con noi, perché si fa sera e il giorno è ormai al tramonto». Egli entrò per rimanere con loro. Quando fu a tavola con loro, prese il pane, recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero. Ma egli sparì dalla loro vista. Ed essi dissero l’un l’altro: «Non ardeva forse in noi il nostro cuore mentre egli conversava con noi lungo la via, quando ci spiegava le Scritture?». Partirono senza indugio e fecero ritorno a Gerusalemme, dove trovarono riuniti gli Undici e gli altri che erano con loro, i quali dicevano: «Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone!». Ed essi narravano ciò che era accaduto lungo la via e come l’avevano riconosciuto nello spezzare il pane.
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  Nello stesso grande giorno (Lc 24,13), il giorno fatto dal Signore (Sal 118,24), il giorno in cui tutto è cambiato, due discepoli di Gesù si allontanano da Gerusalemme, mentre parlano tra loro di quel che lì è accaduto. Mentre camminano, il Maestro si affianca a loro ma non è riconosciuto. Così accade al nostro discutere, al nostro conversare quando siamo tutti concentrati a dire la nostra su un evento, su qualcosa che è avvenuto e sta segnando la nostra vita. Come in questi tempi di pandemia, dove ci accorgiamo che qualcosa farà cambiare irrimediabilmente il nostro futuro, perché ha già cambiato il presente. Gesù cammina anche oggi con noi, al nostro fianco, riesci a riconoscerlo? O ti sembra andare ancora in incognito?
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Il ciclo di Emmaus, dipinti su tavola di J.M. Pirot, in arte Arcabas, chiesa della Resurrezione a Torre de’ Roveri (Bergamo), 1993-94
Parte da Lui la domanda: che cosa sono questi discorsi che state facendo tra voi? (Lc 24,17a) La domanda invita a penetrare nel nostro discorrere, non è semplicemente una richiesta di informazioni. E l’evangelista annota significativamente: si fermarono col volto triste (Lc 24,17b). Se è fondamentale fermarsi, come siamo stati costretti a fare quando ne va della nostra vita terrena, ancor più fondamentale è fermarsi per considerare attentamente cosa ci vuol dire la vita. È inevitabile. Come per i discepoli di Emmaus, ci troviamo anche noi difronte a un bivio. O si prende la strada che conduce alla vera vita, o si prende la strada che ti porta alla tristezza dell’ennesima delusione della vita. Cleopa è sorpreso dallo scoprire che il pellegrino non ne sappia niente (Lc 24,18). Se già gli sembrava un estraneo, adesso lo è ancora di più. Così ci sembra talvolta Dio di fronte alle notizie sconfortanti di questi mesi, così lo sentiamo a volte forse anche a casa. Dio lontano da noi. Dio che non può comprendere la nostra condizione.
Cleopa parte con il suo racconto e manifesta con 2 verbi precisi dove lui e il suo compagno si sono arenati. Noi speravamo (Lc 24,21) e ci hanno sconvolti (Lc 24,22). La speranza oramai appartiene al passato, la speranza non c’è più, la speranza era poggiata su qualcuno che non ha corrisposto alle attese. Eppure delle donne hanno portato loro una notizia inaudita, quella della tomba vuota con tanto di visione angelica che afferma l’incredibile: Gesù è vivo. Pure una delegazione di discepoli si è mossa, ma non hanno visto il Signore vivo, come la mettiamo? (Lc 24,24) Dunque 2 discepoli tristi perché sconvolti e senza speranza. Che ne dite? Non assomigliamo tanto a questi 2 fratelli di fronte a quanto ci sta accadendo? Forse che io in questi giorni al telefono non sto ascoltando tanti animi sconvolti, nelle cui parole ogni tanto affiora uno status border line tra un inizio di disperazione e un desiderio di credere?
Sciocchi e tardi di cuore nel credere alla parola dei profeti! Non bisognava che Cristo sopportasse queste sofferenze per entrare nella sua gloria? (Lc 24,25) Siamo alla svolta del vangelo. Ricevere queste parole, anche come cristiani, è una bella botta sui denti. Come mi accadde anni fa, quando mi trovai a un bivio fondamentale della mia vita, soffrendo in totale solitudine, senza alcun conforto umano. Era notte, avevo appena chiuso le comunicazioni, mi buttai sul letto chiedendomi ancora, per l’ennesima volta, cosa ci facessi lì dove ero. Ma proprio mentre stavo per addormentarmi con quella pena, avvertii con chiarezza queste parole di Gesù uscire da qualche buco della mia anima che nemmeno conoscevo. Il vero problema dell’uomo moderno e post-moderno è sempre quello: la sofferenza. Abbiamo preteso cancellare la sofferenza e la morte non solo dalla nostra vita, ma anche dal nostro lessico. Invece, nel lessico di Dio, la sofferenza ha uno spazio fondamentale e decifrante. È un segreto che si schiude solo a chi è disponibile a fare il percorso dei due di Emmaus.
Questa volta è Gesù a parlare. Magari lo facessimo parlare di più alla nostra vita! Invece, persino davanti a un virus che ha messo in scacco tutto il pianeta, c’è una umanità che parla in continuazione, perché importante è parlare, non ascoltare. La natura ci suggerisce di fare silenzio, ma a fatica lo reggiamo. La natura ci suggerisce di rallentare, ma noi non vediamo l’ora di riprendere a far correre l’economia, il nostro “modus vivendi” di prima con il suo benessere. Di cosa parla Gesù? Se lo si vuol veramente sapere, allora dobbiamo ritornare ad osservare attentamente la sua vita nei vangeli, il suo modo di parlare, di vivere e di morire, il suo spiegarci le Scritture. Se glielo permettiamo, ci ri-innamoreremo della vera vita, che non è questione di evitarci a tutti i costi sofferenze e imprevisti. Il segreto per noi cristiani è sempre quello: farlo parlare al nostro cuore, in tempo di abbondanza o di penuria, in tempo di serenità o di oscurità, in tempo di certezze o di incertezze.
I due discepoli hanno fatto proprio così, lasciando per strada le loro discussioni. Che ne dici di lasciare anche noi tante discussioni lanciate qua e là per i social? Che ne dici di dare più tempo al silenzio, grembo della parola di Dio e di ogni autentica parola umana? Se si prova a fare come loro, lungo il cammino che ci attende avverrà che diremo anche noi al Signore: resta con noi (Lc 24,29). E Lui non ci negherà di rimanere con noi, di essere per noi Presenza che rassicura. E lo farà prima di tutto proprio in quegli stessi gesti che fece con i suoi primi discepoli, quelli che ripetiamo insieme in ogni eucarestia (Lc 24,30). Lì, nella riscoperta di cosa sia celebrare l’Eucarestia, rivedremo con i nostri occhi e sapremo chi è il Signore Gesù e chi siamo noi per Lui. Lì, se Dio ci concederà questa grazia, sentiremo nuovamente ardere il nostro cuore nel petto, dopo aver accolto nuovamente la sua Parola. E’ quanto auguro sinceramente a tutti noi, quando ci sarà di nuovo permesso di celebrare insieme la nostra fede nella S.Messa.  
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EN LA ENCRUCIJADA CON JESUS
  En el mismo gran día (Lc 24, 13), el día hecho por el Señor (Sal 118:24), el día en el cual todo ha cambiado, dos discípulos de Jesús se alejan de Jerusalén, mientras se hablan entre ellos de lo que sucedió allí. Mientras caminan, el Maestro se acerca a ellos, pero no es reconocido. Así pasa en nuestro discutir, en nuestro conversar cuando todos estamos enfocados en decir lo que pienso sobre un evento, sobre algo que ha sucedido y está marcando nuestras vidas. Como en estos tiempos de pandemia, donde nos damos cuenta de que algo cambiará nuestro futuro irreparablemente, porque ya ha cambiado el presente. Jesús también camina con nosotros hoy, a nuestro lado, ¿puedes reconocerlo? ¿O te parece ir de incógnito aún?
Nace de Él la pregunta: ¿qué son estos discursos que están haciendo entre ustedes? (Lc 24.17a) La pregunta nos invita a penetrar en nuestro discurrir, no es simplemente un pedido de información. Y el evangelista señala significativamente: se detuvieron con sus rostros tristes (Lc 24.17b). Si es esencial parar, como hemos sido obligados a hacerlo cuando toca nuestra vida terrena, es aún más fundamental detenernos para considerar cuidadosamente lo que la vida quiere decirnos. Es inevitable. Como para los discípulos de Emaús, nosotros también estamos en una encrucijada. O se toma el camino que conduce a la verdadera vida, o se toma el camino que te lleva a la tristeza de otra decepción de la vida.  Cleofás se sorprende al descubrir que el peregrino no sabe nada de ello (Lc 24.18).   Si ya le parecía un extraño, ahora es aún más. Así nos parece a veces Dios frente a las angustiosas noticias de estos meses, así lo sentimos a veces tal vez incluso en casa. Dios lejos de nosotros. Dios que no puede entender nuestra condición.
Cleofás comienza con su historia y se manifiesta con 2 verbos precisos donde él y su compañero se han arenado. Nosotros esperábamos (Lc 24.21) y nos asombraron (Lc 24.22). La esperanza ahora pertenece al pasado, la esperanza ya no está allí, la esperanza estaba sobre alguien que no correspondió a las expectativas. Sin embargo, las mujeres les han traído noticias inauditas, la de la tumba vacía con una visión angelical que afirma lo increíble: Jesús está vivo. Una delegación de discípulos también se ha movido, pero no han visto al Señor vivo, ¿cómo lo decimos? (Lc 24.24) Así que 2 discípulos tristes porque están molestos y desesperanzados. ¿Qué les parece eso? ¿No nos parecemos tanto a estos dos hermanos frente a lo que nos está pasando? ¿Es posible que yo en estos días estoy escuchando por teléfono a tantas almas angustiadas, en cuyas palabras surge un estado border line entre un comienzo de la desesperación y el deseo de creer?
¡Oh insensatos, y tardos de corazón para creer todo lo que los profetas han dicho! ¿No era necesario que el Cristo padeciera estas cosas, y que entrara en su gloria? (Lc 24.25). Estamos en el punto del Evangelio. Recibir estas palabras, incluso como cristianos, es un buen golpe en los dientes. Como me sucedió hace años, cuando me encontré en una encrucijada fundamental en mi vida, sufriendo en total soledad, sin ningún consuelo humano. Era noche, acababa de cerrar mis comunicaciones, me arrojé a la cama preguntándome de nuevo, por enésima vez, qué estaba haciendo allí donde estaba. Pero justo cuando estaba a punto de dormirme con ese dolor, claramente sentí estas palabras de Jesús saliendo de algún agujero de mi alma que ni siquiera conocía. El verdadero problema del hombre moderno y posmoderno es siempre eso: el sufrimiento. Hemos exigido borrar el sufrimiento y la muerte no sólo de nuestras vidas, sino también de nuestro léxico. En cambio, en el léxico de Dios, el sufrimiento tiene un espacio fundamental y descifrador. Es un secreto que sólo se abre a aquellos que están disponibles para hacer el camino de los dos de Emaús.
Esta vez es Jesús quien habla. ¡Ojalá pudiéramos hacerle hablar más a nuestras vidas! En cambio, incluso ante un virus que ha puesto en jaque a todo el planeta, hay una humanidad que habla todo el tiempo, porque es importante hablar, no escuchar.  La naturaleza nos sugiere que permanezcamos en silencio, pero difícilmente podemos sostenerla. La naturaleza sugiere que nos desaceleremos, pero no vemos la hora que la economía vuelva a la normalidad, nuestro modus vivendi primero con su bienestar. ¿De qué está hablando Jesús? Si realmente queremos saberlo, entonces debemos volver a observar cuidadosamente su vida en los Evangelios, su forma de hablar, de vivir y morir, de explicarnos las Escrituras. Si se lo permitimos, nos volveremos a enamorar de la verdadera vida, que no es cuestión de evitarnos a toda costa sufrimiento e imprevistos. El secreto para nosotros los cristianos es siempre eso: hacerlo hablar a nuestros corazones, en tiempos de abundancia o escasez, en tiempos de serenidad o de oscuridad, en tiempos de certezas o incertidumbres.
Los dos discípulos hicieron justo eso, dejando sus discusiones en la calle. ¿Qué dicen si dejamos también nosotros tantas discusiones lanzadas aquí y allá por las redes sociales? ¿Qué dices de dar más tiempo al silencio, el seno de la palabra de Dios y de toda auténtica palabra humana? Si tratamos de hacer como ellos, por el camino que nos espera sucederá que también nosotros le diremos al Señor: quédate con nosotros (Lc 24, 29). Y Él no nos negará de quedarse con nosotros, para ser para nosotros Presencia que tranquiliza. Y lo hará en primer lugar precisamente en esos mismos gestos que hizo con sus primeros discípulos, los que repetimos juntos en toda Eucaristía (Lc 24, 30). Allí, al redescubrir lo que es celebrar la Eucaristía, veremos con nuestros propios ojos y sabremos quién es el Señor Jesús y quiénes somos nosotros para Él. Allí, si Dios nos concederá esta gracia, sentiremos nuevamente arder nuestro corazón en el pecho, después de haber acogido nuevamente su Palabra. Esto es lo que sinceramente deseo a todos nosotros, cuando se nos permitirá una vez más celebrar juntos nuestra fe en la Santa Misa.
AL BIVIO CON GESÙ, un commento al vangelo della 3a domenica di Pasqua, disponibile anche in file-audio e in lingua spagnola, entrando nella sezione "Commenti al vangelo" del menu principale III DOMENICA DI PASQUA anno A (2020) At 2,14.22-33; 1Pt 1,17-21; Lc 24,13-35 Ed ecco, in quello stesso giorno, (il primo della settimana) due dei discepoli erano in cammino per un villaggio di nome Èmmaus, distante circa undici chilometri da Gerusalemme, e conversavano tra loro di tutto quello che era accaduto.
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heartlandians · 2 years
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Behind the scenes of Heartland - Season 16. Photo by: Luis de Las Terrenas
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gojorgeworld · 5 years
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LA VIRGEN
“CORREDENTORA”
Es sabido que la Virgen María, junto a la Cruz, no sólo ha participado en forma eminente en el misterio redentor – corredención – sino que ha compartido, místicamente, la misma muerte de su Hijo. Así reza una oración litúrgica dirigida a la Virgen Madre: “Dichosa tú que, sin morir, mereciste la corona del martirio junto a la Cruz de tu Hijo" .En el misterio de la asunción, la Virgen María se convierte en el "icono escatológico de la iglesia peregrina", es decir: Al ser entronizada en cuerpo y alma en la gloria, todos nosotros estamos incluidos en este triunfo anticipado. Ella es actualmente todo lo que la Iglesia peregrina aspira a ser en un futuro. Es verdad que nuestra pascua o paso a la vida eterna tiene dos etapas: la muerte física y la resurrección al fin de los tiempos. Sin embargo, lo esencial es nuestra entrada en la gloria después de nuestra muerte. En efecto, en este mundo el alma necesita de las imágenes sensibles aportadas por el cuerpo para entender y gozar, pero en el cielo no conoceremos por imágenes sino que Dios mismo será a la vez la imagen, el objeto de la visión y el gozo beatíficos. Por lo tanto, la resurrección de los cuerpos al fin de los tiempos no aportará un cambio o progreso esencial a nuestra gloria sino sólo accidental. El alma que goza de la visión beatífica tiene ya una gloria perfecta y completa, ya que la raíz misma de la sensibilidad permanece en ella. Veamos, nuestra propia muerte como una participación viva, actual y fecunda en el misterio pascual de Cristo. Al detenernos, en el misterio que inmediatamente precedió a su Asunción, su pascua personal, decimos que con ocasión de la definición dogmática de la Asunción en cuerpo y alma al cielo de nuestra Madre (1º de noviembre de 1950) se multiplicó el interés de los fieles y de los teólogos por el modo puntual y concreto en que tuvo lugar esta Asunción. En otras palabras: la Virgen María fue asunta al cielo en forma directa e inmediata, sin pasar por la muerte física; o por el contrario, murió como cualquier otro cristiano y luego resucitó y fue asunta al cielo. La cuestión de la muerte (o inmortalidad) de la Virgen no es un tema menor: morir o no morir, ésa es la cuestión. Lo primero que nos interesa saber en este punto es qué dice la Iglesia. El tema fue especialmente estudiado por el Siervo de Dios Pío XII y sus asesores en la preparación de la definición dogmática de la Asunción de María. El resultado de estos estudios es curioso: a pesar de que hay una fuerte tradición sobre la muerte de la Virgen, el Papa de la Asunción decidió dejar este tema al margen de la definición dogmática. Así se expresa en la Bula Munificentissimus Deus: "… La Santísima Virgen María, terminado el curso de su vida terrena, fue asunta al cielo en cuerpo y alma…".Es bien sabido que el sabio Papa quiso expresamente dejar la cuestión de la muerte de la Virgen en el mismo estado en que se encontraba el día de la definición dogmática de la Asunción. Nadie, hoy por hoy, puede afirmar tajantemente en nombre de la Iglesia que la Virgen murió (o no murió).En cuanto al Concilio Vaticano II, son muy pocos los que han hecho notar que también ha querido dejar al margen el problema del fin de la vida terrena de la Virgen. Sabemos que había dos fuertes corrientes en este Concilio: la corriente llamada "cristotípica" y la "eclesiotípica". Los primeros querían que el tema de la Virgen María ocupara un documento aparte, y los segundos que se incluyera en la Constitución sobre la Iglesia. Entre los primeros, los de la corriente "cristotípica", sobresalía un grupo importante de teólogos españoles que no sólo presentaron un proyecto de Constitución mariana independiente, sino que incluían la muerte de la Virgen expresamente "en semejanza a la muerte de Cristo”. Los Padres conciliares, después de arduas y difíciles sesiones, optaron por un camino intermedio entre las dos corrientes: no habría una Constitución Mariana independiente, pero el tema de la Virgen ocuparía todo un capítulo aparte en la Constitución sobre la Iglesia (Lumen Gentium, cap. 8).He aquí una concesión a los "eclesiotípicos". Pero el gran Papa Pablo VI en discurso memorable del 21 de noviembre de 1964, con ocasión de la promulgación de la Constitución Lumen Gentium, proclamaba solemnemente a la Virgen María como "Madre de la Iglesia", título cuidadosamente evitado por los eclesiotípicos, que consideraban a la Virgen como un miembro más de la Iglesia, de ningún modo su Madre. Así se expresaba el llorado Papa: “Para gloria de la Santísima Virgen y para consuelo nuestro, proclamamos a María Santísima Madre de la Iglesia, es decir, Madre de todo el pueblo cristiano, tanto de los fieles como de los pastores, que la llaman Madre amantísima; y decretamos que, desde ahora en adelante, con este nombre suavísimo, todo el pueblo cristiano honre todavía más a la Madre de Dios y le dirija sus oraciones”. Hoy nos parece absolutamente normal honrar a la Virgen como Madre de la Iglesia, pero esta "definición" del Papa del Concilio costó sangre, sudor y lágrimas, tanto al Papa como a los Padres conciliares. Ha sido una ocasión más en la cual el gran Papa nos dejó un ejemplo no sólo de cómo amar y servir a la Iglesia sino también de cómo sufrir por ella. En cuanto a la muerte de la Virgen, tampoco la tocó esta vez el Concilio. Dejó todo en el lugar que estaba en el momento de la Definición dogmática de la Asunción. Sin duda: el tema es importante, tanto para la Virgen como para sus amantes, pero el hecho es que no nos ha sido revelado el modo de la Asunción. Es verdad que la tradición sobre la muerte de la Virgen es muy antigua, pero cuando el estudioso del tema se sumerge en los códices originales se encuentra con una sorpresa: ningún documento oficial de la Iglesia primitiva habla del fin de la vida terrena de la Virgen. Ni los Evangelios ni los primeros Padres nos dejaron un testimonio directo y creíble sobre la muerte de la Virgen. Es más, un Santo Padre de la Iglesia primitiva, San Epifanio de Salamina, se ocupó expresamente del tema, y llegó a la siguiente conclusión: "Si murió o no murió, no lo sabemos, no nos ha sido legado". Este testimonio de Epifanio es particularmente valioso, porque es uno de los mejores conocedores de la tradición jerosolimitana, incluso llegó a ser Obispo de esta ciudad. Hoy, siglos después, la doctrina es la misma. Desde el siglo II se venera una "tumba de la Virgen" en Jerusalén (hoy custodiada por los musulmanes), pero el origen de esta tradición es enteramente apócrifo, sin ninguna autoridad eclesiástica. Por otra parte, se venera otra tumba de la Virgen en Éfeso, fruto de revelaciones privadas, sin fundamento documental alguno. Son muchos los santos predicadores que han hablado de la muerte de la Virgen, pero con la intención de ponerla como ejemplo de muerte cristiana, no porque se hayan detenido a examinar el tema. Entre ellos son dignos de mención grandes santos marianos como San Bernardo, san Alfonso María de Ligorio, San Luis María Grignon de Montfort, San Francisco de Sales, entre otros. El argumento de la Tradición no es, pues, concluyente en ningún sentido. No debe extrañarnos que una cuestión tan importante para nosotros no nos haya sido revelada. Tampoco se nos ha revelado si son muchos o pocos los que se salvan: El Evangelio da margen para varias sentencias opuestas entre sí. Ni siquiera se nos han revelado aspectos muy importantes de la vida de Jesús, que a todos nos interesaría saber. Una razón que los "mortalistas" suelen esgrimir en apoyo de la muerte de la Virgen, es la conformidad y semejanza con la muerte de Cristo. Dije antes que existe una perfecta y completa conformidad entre la muerte física de Cristo, como Redentor, y la muerte mística de la Virgen (junto a la Cruz), como socia del Redentor o corredentora. Es la espada de dolor que predijo el anciano Simeón. Urgir este paralelismo hasta los detalles físicos es un paralogismo no justificado. En efecto, todos los mortalistas afirman sin vacilar que la presunta muerte física de la Virgen fue en un acto de amor, no una muerte afrentosa, dolorosa, martirial. Como dice la oración litúrgica que citamos, la Virgen se asemejó a su Hijo junto a la cruz, con-muriendo místicamente con Él y corredimiéndonos "junto a Él y bajo Él" (la expresión es de Pablo VI).Por otra parte, precisamente desde el punto de vista físico, la muerte de Cristo no puede compararse con la (presunta) de la Virgen. Aunque el alma es espiritual y, por lo tanto, inmortal, su unión sustancial al cuerpo es real y vital: sin el alma, nuestra carne pierde su individualidad y ya no es un cuerpo sino un cadáver (Caro Data Vermibus: alimento de los gusanos).El alma no pierde su individualidad porque, como dijimos más arriba, la raíz de la sensibilidad permanece en ella. La capacidad de conocer y amar no sólo permanece intacta sino que se potencia y transfigura al ser actuada por la luz de la gloria (lumen Gloriae) y no estar condicionada por las limitaciones de la carne. En cuanto a Cristo muerto, debe hablarse propiamente de "cuerpo" de Cristo, no de cadáver, porque sigue perfecta y completamente individuado por la Divinidad, ya que la Unión Hipostática es inalterable, tanto con el Cuerpo como con el Alma de Cristo. Santo Tomás dice que tanto el Cuerpo muerto de Cristo como su Alma en estado de separación son igualmente adorables, precisamente por estar unidos a la divinidad. Los mortalistas afirman  que el "cuerpo" de la Virgen permaneció incorrupto antes de su Asunción. Pero he aquí que el cadáver no es precisamente un cuerpo sino un conglomerado informe de elementos físico- químicos. En este sentido, la muerte en sí misma es una corrupción, aunque no haya putrefacción. Pasemos ahora revista a los argumentos de los "inmortalistas", es decir, de aquellos que sostienen que la Virgen fue asunta al cielo en forma directa e inmediata, sin pasar por la muerte. Vamos a seguir en este punto a un gran maestro de la mariología contemporánea: el P. Gabriel María Roschini, O.S.M., fundador y primer presidente de la Pontificia Academia Mariana Internacional, y primer consultor del Papa Pío XII en la preparación de la proclamación del dogma de la Asunción. Tenemos todos los marianos, una gran deuda de gratitud con este Padre de la mariología moderna, muerto santamente el 8 de septiembre de 1977, fiesta del cumpleaños de la Virgen. Contrariamente a los mortalistas, lo primero que afirman los inmortalistas es que la doctrina sobre la muerte (o no muerte) de la Virgen es un tema de libre discusión en la Iglesia y, por lo tanto, cualquier cristiano fiel puede optar por una u otra posición sin que su fidelidad a la Iglesia se vea afectada. De este modo se tranquiliza la conciencia de unos y otros. Ya vimos que un grupo de mortalistas españoles intentó "colar" el tema de la muerte de la Virgen en el Concilio. Sin duda que el mismo Papa podría manifestar su opinión personal, pero sin presionar a los fieles en ningún sentido. Es necesario reconocer que la tradición mortalista no tiene ningún fundamento documental. Es más, muchos mortalistas antiguos – Santo Tomás incluido – fundamentaban la muerte de la Virgen en el pecado original, que realmente es la causa fontal de la muerte física. Pero después de la definición del dogma de la Inmaculada Concepción por San Pío IX (Bula Ineffabilis Deus, 1854) este argumento perdió toda su fuerza. Es verdad que Cristo, sin tener pecado original, sufrió y murió, pero no fue una muerte consecuencia del pecado sino en orden a nuestra Redención. Ya vimos que la Virgen también murió (místicamente) junto a la Cruz en orden a nuestra corredención. Ahora bien, consumada la Redención en la cruz (y la corredención al pie de la cruz), la muerte de la Virgen, sin pecado original, carece de causa eficiente y suficiente. En efecto, la Virgen al pie de la Cruz llegó a la última consumación de su misión en la tierra. Todo lo ocurrido después es consecuencia de esto, sobre todo la madrugada de Pentecostés. La Iglesia nació del costado de Cristo muerto en la Cruz. Pentecostés fue la manifestación gloriosa de este nacimiento. La vida de la Virgen después del Calvario es uno de los misterios más profundos y sublimes que a todos sus amantes nos gustaría conocer. Cumplida su misión de corredimirnos junto y bajo su Hijo, exenta del pecado original y colmada de gracia desde su Concepción, su vida oculta junto a San Juan debe haber sido una adoración, acción de gracias e intercesión incesantes por toda la Iglesia naciente. Es verdad que no tenemos datos concretos sobre el fin de su vida terrena, inmediatamente antes de su Asunción, pero lo espontáneo, natural y necesario desde el punto de vista teológico es su pascua (paso) directo a la gloria. Son los mortalistas los que deben aducir razones para justificar la presunta muerte de la Virgen, ya que al carecer de pecado original no tendría ninguna causa natural o racional. Podemos, pues, pensar sana, lúcida y piadosamente que la Virgen "consumado el curso de su vida terrena, fue asunta al cielo en cuerpo y alma" sin pasar por la muerte. Claro, sin herir ni descalificar a los muchos que piensan de otra manera. San Agustín decía así: "En lo cierto: unanimidad; en lo dudoso: libertad; en todo: caridad”. Termino recordando la antigua máxima: "Nuestros muertos gozan de buena salud", incluso los que deben pasar un tiempo en el Purgatorio purificándose, ya están salvados y pueden beneficiarse con el consuelo de nuestras oraciones y sacrificios. Como quería san Pío X, asumamos desde ahora nuestra propia muerte, ofreciéndola libre y espontáneamente por la vida del Cuerpo Místico. Ahora que estamos lúcidos hagamos un acto de generoso desprendimiento y aceptemos no sólo nuestra propia muerte, sino también todos los detalles y circunstancias físicas, psíquicas y espirituales que la acompañen. Vivamos intensa y apasionadamente nuestra vida terrena, pero en función de la vida eterna que esperamos y nos espera. Encomendemos nuestros muertos a la misericordia divina, para que ellos nos encomienden a nosotros una vez glorificados. Por último los dejo con el Apóstol: "Hermanos" Ambicionad los carismas mejores. Y aún os voy a mostrar un camino mejor. Ya podría yo hablar las lenguas de los hombres y de los ángeles; si no tengo amor, no soy más que un metal que resuena o unos platillos que aturden. Ya podría tener yo el don de predicción y conocer todos los secretos y todo el saber; podría tener fe como para mover montañas; si no tengo amor, no soy nada. Podría repartir en limosnas todo lo que tengo y aun dejarme quemar vivo; si no tengo amor, de nada me sirve. El amor es comprensivo, el amor es servicial y no tiene envidia; el amor no presume ni se engríe; no es mal educado ni egoísta; no se irrita, no lleva cuentas del mal; no se alegra de la injusticia, sino que goza con la verdad. Disculpa sin límites, cree sin límites, espera sin límites, aguanta sin límites. El amor no pasa jamás. ¿El don de predicar?, se acabará. ¿El don de lenguas?, enmudecerá. ¿El saber?, se acabará. Porque inmaduro es nuestro saber e inmaduro nuestro predicar; pero cuando venga la madurez, lo inmaduro se acabará. Cuando yo era niño, hablaba como un niño, sentía como un niño, razonaba como un niño. Cuando me hice hombre, acabé con las cosas de niño. Ahora vemos como en un espejo de adivinar; entonces veremos cara a cara. Mi conocer es por ahora inmaduro, entonces podré conocer como Dios me conoce. En una palabra: quedan la fe, la esperanza, el amor: estas tres. La más grande es el amor.
DR. JORGE BERNABÉ LOBO ARAGÓN
#Tucuman #Argentina
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Il matrimonio santo di Gianna e Pietro Molla
Gianna Emanuela Molla racconta come la santità della mamma, sia fiorita in un matrimonio vissuto come "via per il Paradiso" e, ancor prima, in un intreccio di vite familiari intrise di amore per il Signore, sempre messo al primo posto. Se oggi famiglia e matrimonio sono sempre più vessati dallo spirito del mondo, la Chiesa coi suoi santi profetizza una via di luce e di speranza.
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di Costanza Signorelli (20-10-2019)
Molti conoscono Santa Gianna Beretta Molla per via di quello straordinario gesto d’amore che permise alla sua ultima figlia di venire al mondo, a prezzo della sua stessa vita. Meno noto invece è il fatto che, questo sacrificio, fu come il sigillo su una vita tutta santa, ma soprattutto su un matrimonio veramente santo. È la stessa figlia, Gianna Emanuela Molla che non esita a definire i suoi come due «Santi Genitori», essendo intimamente convinta che l’amato papà fosse «il degnissimo sposo di una Santa sposa».
Così facendo ella non vuol certo anticipare un giudizio che la Chiesa non ha espresso, ma semplicemente vuole riferire il pensiero che la mamma stessa, quando in vita, aveva più volte manifestato. È perciò sotto questa particolare luce di santità matrimoniale che oggi vogliamo conoscere e amare la vita di questa “Santa della famiglia”, nella cui proclamazione la Chiesa ha mostrato, ancora una volta, la sua natura profetica. In quale momento storico, infatti, la famiglia è stata più vessata e umiliata che in quello odierno? E quale testimonianza oggi è più provvidenziale di quella che presenta la quotidianità del matrimonio come un’autentica via di santità?
FAMIGLIA: CULLA DI SANTITÀ
Nata a Magenta, in provincia di Milano, il 4 ottobre 1922, Festa di San Francesco d’Assisi, Gianna, insieme al dono della vita, riceve dal Signore due genitori profondamente cristiani, Maria De Micheli e Alberto Beretta, entrambi terziari francescani. Battezzata come Giovanna Francesca, è la decima di tredici figli, cinque dei quali muoiono in tenera età, e tre si consacrano a Dio.
Già da questi primi dati si comprende come il contesto familiare di provenienza è intriso di religiosità. In una lettera del 22 aprile 1955 al fidanzato Pietro, Gianna parlerà così di mamma e papà: «I miei santi genitori: tanto retti e sapienti, di quella sapienza che è riflesso del loro animo buono, giusto e timorato di Dio!». Si capisce perciò che la prima autentica esperienza di Chiesa fu per la Santa la sua stessa famiglia e la sua più esperta catechista fu proprio la mamma: lei la introdusse alla conoscenza e all’amore per il Signore, posto come unico centro di tutta la vita, dentro e fuori casa.
La piccola Gianna accoglie da subito e con piena adesione il dono della fede: «A soli cinque anni e mezzo - racconta Gianna Emanuela - riceve per la prima volta la Santa Comunione e da quel momento, insieme alla mamma, partecipa tutte le mattine alla Santa Messa per prendere quello che da subito considera "il cibo indispensabile di ogni giorno"». Così, la fervida amicizia con il Signore, che la Gianna bambina respira in famiglia, cresce in un amore profondo e personale insieme alla Gianna donna e poi medico. Intanto, nasce in lei l’urgenza di conoscere la sua personale chiamata nel piano d’amore di Dio…
VOCAZIONE ALLA FELICITÀ
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«Dal seguire bene la nostra vocazione dipende la nostra felicità terrena ed eterna». È con tale profondità di coscienza, ma con altrettanta serenità d’animo, che Gianna continua a pregare e far pregare con fervore per la sua vocazione. «La mamma - racconta Gianna Emanuela - si preoccupava di conoscere la volontà di Dio su di lei per poterLo servire al meglio. Ma non ha avuto fretta, ha continuato a pregare sino a che non è stata sicura della vocazione alla quale il Signore la stava chiamando».
In questa fase di scelta vocazionale, come del resto in tutta la vita, la preghiera fu per Gianna più che fondamentale: «Ha sempre pregato moltissimo - continua la figlia - dando esempio alle sue giovani dell’Azione Cattolica. Diceva loro: “Ricordiamoci che l’apostolato si fa soprattutto e prima di tutto in ginocchio”. Recitava quotidianamente il Santo Rosario perché, come aveva imparato da piccola in famiglia, “senza l’aiuto della Madonna in Paradiso non si va”». Inizialmente, proprio per questo suo amore, che mette sempre Dio al primo posto, si consolida in Gianna il desiderio di raggiungere il fratello padre Alberto, medico missionario Cappuccino in Brasile, per aiutarlo come medico e dedicarsi totalmente alla vocazione missionaria. Ma la strada che il Signore ha preparato per la giovane donna non è questa: Gianna non ha la salute per sopportare il caldo equatoriale di quelle terre. «Questo significa che il Signore da te vuole altro», le ripete il suo direttore spirituale che la incoraggia a formare una famiglia santa, imitando l’esempio dei suoi genitori.
«Così sentendosi chiamata dal Signore alla vocazione del matrimonio, la mamma l’ha abbracciata con tutta la gioia e con tutto l’entusiasmo». E cosa fa dunque la giovane santa, ancor priva di un fidanzato? «Nel giugno 1954, a quasi 32 anni di età, la mamma si reca a Lourdes per pregare la Madonna affinché le facesse incontrare colui che sarebbe dovuto essere il suo sposo, quello che il Signore le aveva preparato fin dall’eternità».
UN INCONTRO VOLUTO DALL’ALTO
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In questo intreccio di santità, che si tramanda di famiglia in famiglia, come un tesoro prezioso, si innesta perfettamente la figura dell’ingegner Pietro Molla, ovvero colui che la Provvidenza suggerirà a Gianna come marito.
Nato l’1 luglio del 1912 a Mesero, paese vicino a Magenta, anche Pietro Molla, per parte sua, riceve in dono due genitori profondamente cristiani, è il quarto di otto figli. «Quando incontrò la mia mamma - continua Gianna Emanuela - della quale aveva 10 anni in più, il papà era un uomo di grande fede e dalle straordinarie virtù. Ma soprattutto, proprio come lei, aveva posto il Signore al centro della sua vita sin dalla sua giovinezza. Posso dire che papà, da un lato, aveva una grande dedizione al lavoro e, dall’altro, si sentiva chiamato dal Signore alla vocazione del matrimonio, desiderando profondamente avere una sua famiglia. Proprio per questo si recava ogni giorno nella "sua" piccola chiesetta di Ponte Nuovo (Magenta) per chiedere alla Madonna del Buon Consiglio che gli facesse incontrare “una mamma santa per i suoi figli”!».
«Il Signore stava davvero chiamando i miei genitori alla vocazione del matrimonio come loro pensavano: la Vergine Maria, infatti, ascoltò le loro preghiere, e così, nonostante i due già si conoscessero già da cinque anni, fu grazie alla Madonna che finalmente i loro bellissimi cuori e anime si incontrarono!». Da questo momento inizia il fidanzamento come “un tempo di grazia”, vissuto nella grande gioia e gratitudine verso il Signore e la Vergine Maria, e nell'instancabile preghiera di affidamento per la nuova famiglia nascente.
IL SANTO MATRIMONIO
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Gianna Beretta e l’ingegnere Pietro Molla si uniscono in matrimonio il 24 settembre 1955, nella Basilica di San Martino a Magenta (Milano). Ma cosa significa per i due innamorati celebrare il Sacramento del matrimonio e formare una famiglia? Ecco cosa scrive Gianna al suo “Pedrin d’or”, dieci giorni prima delle nozze: «Pietro mio carissimo, grazie di tutto. Vorrei poterti dire tutto ciò che sento e ho nel cuore, ma non sono capace. E tu che ormai bene conosci i miei sentimenti, sappimi leggere ugualmente. Pietro carissimo, sono certa che mi renderai sempre felice come lo sono ora e che il Signore esaudirà le tue preghiere, perché chieste da un cuore che lo ha sempre amato e servito santamente. Pietro, quanto ho da imparare da te! Mi sei proprio di esempio e ti ringrazio. Così, con l’aiuto e la benedizione di Dio, faremo di tutto perché la nostra nuova famiglia abbia ad essere un piccolo cenacolo ove Gesù regni sopra tutti i nostri affetti, desideri e azioni. Pietro mio, mancano pochi giorni e mi sento tanto commossa ad accostarmi a ricevere il Sacramento dell’Amore: diventiamo collaboratori di Dio nella creazione, possiamo così dare a Lui dei figli che Lo amino e Lo servano. Pietro, sarò capace di essere la sposa e la mamma che tu hai sempre desiderato? Lo voglio proprio perché tu lo meriti e perché ti voglio tanto bene. Ti bacio e ti abbraccio con tutto l’affetto, tua Gianna». E altrettanto Pietro le scriverà prima del grande giorno: «Gianna carissima, … con la certezza che Iddio ci volesse uniti, tu ed io abbiamo intrapreso la nostra nuova vita. In questi mesi è stato tutto un crescendo di comprensione e di affetto. Ora, la nostra comprensione è perfetta, perché ci è di luce il Cielo e di guida la Legge Divina... Ora, il nostro affetto è pieno perché siamo un cuore ed un’anima sola, un sentimento ed un affetto solo, perché il nostro amore sa attendere, forte e puro, la benedizione del Cielo (…)».
La figlia Gianna Emanuela racconta così la Santa unione tra i suoi genitori: «Leggendo e trascrivendo per mesi le lettere di papà alla mamma per la loro pubblicazione, ho capito che il loro amore poteva essere così grande, così profondo e così vero perché il Signore e la Mamma Celeste erano veramente sempre presenti e facevano parte integrante di questo loro amore, come di tutta la loro vita. Ci sono aspetti che mi illuminano e mi commuovono profondamente: la loro profonda fede e illimitata fiducia nella Divina Provvidenza, la loro profonda umiltà, il loro immenso amore reciproco - che li rendeva più sereni e più forti -, il loro incommensurabile amore per noi figli, la loro grande stima reciproca, la loro continua comunicazione e supporto vicendevole, le loro intense e costanti preghiere per ringraziare il Signore e la Vergine Maria, il loro amore e la loro carità verso il prossimo. Hanno veramente vissuto il Sacramento del Matrimonio come vocazione e via verso la santità».
E sarà esattamente in questo terreno fertile e fecondo di santità che in soli sei anni e mezzo di matrimonio, Gianna e Pietro accoglieranno sei figli: due raggiungeranno il Cielo ancora in grembo, Mariolina alla tenera età di sei anni, dua anni dopo la morte di Gianna, mentre l’ultima sarà la grazia che permetterà a entrambi di sugellare, seppur in forme molto diverse, la loro comune vocazione: dare la vita per amore.
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La Primavera è un dipinto a tempera su tavola (203 x 314 cm) di Sandro Botticelli, databile tra il 1478 e il 1482 circa. Realizzata per la villa medicea di Castello, l'opera d'arte è conservata nella Galleria degli Uffizi a Firenze.
Si tratta del capolavoro dell'artista, nonché di una delle opere più famose del Rinascimento italiano. Vanto della Galleria, si accostava anticamente con l'altrettanto celebre Nascita di Venere, con cui condivide la provenienza storica, il formato e alcuni riferimenti filosofici. Lo straordinario fascino che tuttora esercita sul pubblico è legato anche all'aura di mistero che circonda l'opera, il cui significato più profondo non è ancora stato completamente svelato.
In un ombroso boschetto, che forma una sorta di semi-cupola di aranci colmi di frutti e arbusti sullo sfondo di un cielo azzurrino, sono disposti nove personaggi, in una composizione bilanciata ritmicamente e fondamentalmente simmetrica attorno al perno centrale della donna col drappo rosso e verde sulla veste setosa. Il suolo è composto da un verde prato, disseminato da un'infinita varietà di specie vegetali e un ricchissimo campionario di fiori: nontiscordardimé, iris, fiordaliso, ranuncolo, papavero, margherita, viola, gelsomino, ecc.
I personaggi e l'iconografia generale vennero identificati nel 1888 da Adolph Gaspary, basandosi sulle indicazioni di Vasari, e, fondamentalmente, non sono più stati messi in discussione. Cinque anni dopo Aby Warburg articolò infatti la descrizione che venne sostanzialmente accettata da tutta la critica, sebbene sfugga tuttora il senso complessivo della scena.
L'opera è, secondo una teoria ampiamente condivisa, ambientata in un boschetto di aranci (il giardino delle Esperidi) e va letta da destra verso sinistra, forse perché la collocazione dell'opera imponeva una visione preferenziale da destra. Zefiro, vento di sud ovest e di primavera che piega gli alberi, rapisce per amore la ninfa Clori (in greco Clorìs) e la mette incinta; da questo atto ella rinasce trasformata in Flora, la personificazione della stessa primavera rappresentata come una donna dallo splendido abito fiorito che sparge a terra le infiorescenze che tiene in grembo. A questa trasformazione allude anche il filo di fiori che già inizia a uscire dalla bocca di Clori durante il suo rapimento. Al centro campeggia Venere, inquadrata da una cornice simmetrica di arbusti, che sorveglia e dirige gli eventi, quale simbolo neoplatonico dell'amore più elevato. Sopra di lei vola il figlio Cupido, mentre a sinistra si trovano le sue tre tradizionali compagne vestite di veli leggerissimi, le Grazie, occupate in un'armoniosa danza in cui muovono ritmicamente le braccia e intrecciano le dita. Chiude il gruppo a sinistra un disinteressato Mercurio, coi tipici calzari alati, che col caduceo scaccia le nubi per preservare un'eterna primavera.
INTERPRETAZIONE FILOSOFICA
Ernst Gombrich, nel 1945, e, dopo di lui, negli anni cinquanta Wind e negli anni sessanta Panofsky, lessero la Primavera addirittura come il manifesto del sodalizio filosofico ed artistico dell'Accademia di Careggi. Vi si narrerebbe come l'amore, nei suoi diversi gradi, arrivi a staccare l'uomo dal mondo terreno per volgerlo a quello spirituale.
La scena si svolgerebbe nel giardino sacro di Venere, che la mitologia colloca nell'isola di Cipro, come rivelano gli attributi tipici della dea sullo sfondo (per es. il cespuglio di mirto alle sue spalle) e la presenza di Cupido e Mercurio a sinistra in funzione di guardiano del bosco, che infatti tiene in mano un caduceo per scacciare le nubi della pioggia (anche se egli viene insolitamente raffigurato in una posizione che lo rende estraneo al resto della scena). Le Tre Grazie rappresentavano tradizionalmente le liberalità, ma la parte più interessante del dipinto è quella costituita dal gruppo di personaggi sulla destra, con Zefiro, la ninfa Cloris e la dea Flora, divinità della fioritura e della giovinezza, protettrice della fertilità. Zefiro e Clori rappresenterebbero la forza dell'amore sensuale e irrazionale, che però è fonte di vita (Flora) e, tramite la mediazione di Venere ed Eros, si trasforma in qualcosa di più perfetto (le Grazie), per poi spiccare il volo verso le sfere celesti guidato da Mercurio.
Oltre alle teorie di Marsilio Ficino e la poetica del Poliziano, Botticelli s'ispirò anche alla letteratura classica (Ovidio e Lucrezio), soprattutto per quanto riguarda la metamorfosi di Cloris in Flora; tuttavia, il centro focale della composizione è Venere, che secondo l'ideologia neoplatonica sarebbe la rappresentazione figurata del suo mondo secondo il seguente schema:
Venere = Humanitas, ovvero le attività spirituali dell'uomo
Tre Grazie = fase operativa dell'Humanitas'
Mercurio = la Ragione, che guida le azioni dell'uomo allontanando le nubi della passione e dell'intemperanza
Zefiro-Cloris-Flora = la Primavera, simbolo della natura non tanto intesa come stagione dell'anno quanto forza universale ciclica e dal potere rigenerativo.
Per Erwin Panofsky ed altri storici dell'arte, e non solo, la Venere della Primavera sarebbe la Venere celeste, vestita, simbolo dell'amore spirituale che spinge l'uomo verso l'ascesi mistica, mentre la Nascita raffigurerebbe la Venere terrena, nuda, simbolo dell'istintualità e della passione che ricacciano gli individui verso il basso.
Numerose sono le proposte di lettura per le Grazie. Il loro movimento di alzare e abbassare le braccia ricorda filosoficamente il principio base dell'amore (da Seneca), la Liberalità, in cui ciò che si dà viene restituito. Esse possono rappresentare anche tre aspetti dell'amore, descritti da Marsilio Ficino: da sinistra, la Voluttà (Voluptas), dalla capigliatura ribelle, la Castità (Castitas), dallo sguardo malinconico e dall'atteggiamento introverso, e la Bellezza (Pulchritudo), con al collo una collana che sostiene un'elegante prezioso pendente e dal velo sottile che le copre i capelli, verso la quale sembra stare per scoccare la freccia Cupido. Secondo Esiodo le tre fanciulle divine sono invece Aglaia, lo Splendore, Eufrosine, la Gioia e Talia, la Prosperità. Latinizzate divennero Viriditas, Splendor e Laetitia Uberrima ovvero l'Adolescenza, lo Splendore e la Gioia Piena, o Letizia Fecondissima (Marsilio Ficino nel "de amore").
Claudia Villa (italianista contemporanea) è portata a considerare che i fiori, secondo una tradizione che ha origine in Duns Scoto, costituiscono l'ornamento del discorso e identifica il personaggio centrale nella Filologia, per cui riferisce la scena alle Nozze di Mercurio e Filologia rovesciando anche le identità dei personaggi che stanno alla nostra destra. Così la figura dalla veste fiorita è da vedersi come la Retorica, la figura che sembra entrare impetuosamente nella scena come Flora generatrice di poesia e di bel dire, mentre il personaggio alato, che sembra sospingere più che attrarre a sé la fanciulla, sarebbe un genio ispiratore.
In tale contesto interpretativo diventa difficile giustificare i colori freddi con cui è rappresentato il personaggio, a meno che l'autore non volesse affidare a questa scelta la smaterializzazione e il carattere spirituale dell'ispirazione poetica. Può risultare invece più comprensibile il disinteresse alla scena che sembra mostrare Mercurio, dio dei Mercanti.
STILE
Nell'opera sono leggibili alcune caratteristiche stilistiche tipiche dell'arte di Botticelli: innanzitutto l'innegabile ricerca di bellezza ideale e armonia, emblematiche dell'umanesimo, che si attua nel ricorso in via preferenziale al disegno e alla linea di contorno (derivato dall'esempio di Filippo Lippi). Ciò genera pose sinuose e sciolte, gesti calibrati, profili idealmente perfetti. La scena idilliaca viene così ad essere dominata da ritmi ed equilibri formali sapientemente calibrati, che iniziano dal ratto e si esauriscono nel gesto di Mercurio. L'ondeggiamento armonico delle figure, che garantisce l'unità della rappresentazione, è stato definito "musicale".
In ogni caso l'attenzione al disegno non si risolve mai in effetti puramente decorativi, ma mantiene un riguardo verso la volumetria e la resa veritiera dei vari materiali, soprattutto nelle leggerissime vesti.
L'attenzione dell'artista è tutta focalizzata sulla descrizione dei personaggi, e in secondo luogo delle specie vegetali, che appaiono accuratamente studiate, forse dal vero, sull'esempio di Leonardo da Vinci che in quell'epoca era già artista affermato. Minore cura è riservata, come al solito in Botticelli, allo sfondo, con gli alberi e gli arbusti che creano una quinta scura e compatta. Il verde usato, come accade in altre opere dell'epoca, doveva originariamente essere più brillante, ma col tempo si è ossidato arrivando a tonalità più scure.
Le figure spiccano con nitidezza sullo sfondo scuro, con una spazialità semplificata, sostanzialmente piatta o comunque poco accennata, come negli arazzi. Non si tratta di un richiamo verso l'ormai lontana fantasia del mondo gotico, come una certa critica artistica ha sostenuto, ma piuttosto dimostra l'allora nascente crisi degli ideali prospettici e razionali del primo Quattrocento, che ebbe il suo culmine in epoca savonaroliana (1492-1498) ed ebbe radicali sviluppi nell'arte del XVI secolo, verso un più libero inserimento delle figure nello spazio.
TECNICA
La tecnica usata nel dipinto è estremamente accurata, a partire dalla sistemazione delle assi di notevoli dimensioni che, unite tra loro, formano il supporto. Su di esse Botticelli stese una preparazione diversificata a seconda delle zone: beige chiaro dove vennero dipinte le figure e nera per la vegetazione. Su di essa il pittore stese poi la colorazione a tempera in strati successivi, arrivando a effetti di grande leggerezza.
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IL CILIEGIO E IL CARTONE
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Una lettera nella lettera: è quella che una Grandissima Persona ha ricevuto da una donna, angosciata dalle sofferenze del suo uomo, che ha voluto raccontare in versi quella che è stata la drammatica e allo stesso tempo tenera esperienza da lui vissuta in un letto d'ospedale.
La Grandissima Persona è Mariano de Mattia, e per chi legge questo blog non ha bisogno di presentazioni. Mariano, a Brescia dove risiede, da mesi porta avanti le sue battaglie di iniziative volte a sostenere l'assurdità di norme e regole che danneggiano i giovani, in particolare i bambini; ma non manca di dare spazio alle sofferenze delle persone comuni, presenziando spesso a dibattiti, incontri e riunioni volti a costruire una società migliore e soprattutto fatta di medici onesti e che operano secondo il principio del "giuramento di Ippocrate".
La lettera-poesia ha per titolo:
"Il ciliegio e il cartone"
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Riceviamo una lettera di quelle che non si vorrebbero mai leggere, e decidiamo di pubblicarla integralmente sia nella scelta del titolo che dell'immagine, nel rispetto di chi il dolore l'ha vissuto.
Una frase, alla fine, ci ha colpito: «... Mi costa moltissimo imprimere in minuscole stampatelli e corsivi tutto questo Dolore e questa Fiducia, ma sono testimone, e non posso tacere».
E questa testimonianza farebbe pensare a tempi di guerra, che tempi non sono, ma ne tingono la vicenda per tanti aspetti soprattutto quando qualcuno si arroga, anche con gesti discriminatori, di decidere le modalità in cui una persona deve lasciare la vita terrena. Nella sua solitudine e ammanettato a un letto, per le conseguenze di un ricatto sociale. E nel 2022!
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Abbatti il muro tra chi si ama
Chiuderei in uno Scrigno dentro me questa Storia, ma in quanto Testimone, non posso tacere.
Mi costa tanto aprirmi, ma sento di dover portare la consapevolezza di queste tenebre, perché solo così potrà giungere Luce di Cielo.
Succede in Veneto a 70 km dalla città di un Santo, nel Marzo 2022. Mia madre in ospedale l'ha trovato nudo, con i polsi e le caviglie legati al letto, la supplicava di liberarlo.
Dopo che si era strappato dal collo, dal corpo, quasi tutti gli aghi, tubi, era stato immobilizzato. I medici erano restii ad aumentare il dosaggio di anestetici. Ecco Cos'era successo!
Neanche 1 settimana dopo il terzo vaccino 21/02/2022, lo Zio non era più in grado di lavorare, era stato gravemente male, febbre, sintomi da covid e covid positivo, giorni di vomito, crampi al basso addome. Dopo il ricovero in ospedale (10/03/2022), cioè quando ancora era tutto intero e cosciente, non era stato permesso di fargli visita. A detta dei medici la situazione era incognita, un’operazione sarebbe stata l’unica opportunità per indagare sui motivi dei forti dolori all’addome.
A seguito dell’intervento, che aveva comportato a sorpresa l’asportazione di un tratto di intestino, la "versione" alle criticità sulla salute dello Zio era stata pressappoco di perforazione intestinale. Nessuna menzione neanche ad IPOTESI di correlazione con i tre vaccini.
La visita allo Zio, con i nuovi presupposti di rischio di morte, era stata poi autorizzata. Mia madre, che gli è sorella, attonita nel trovarlo bloccato mani e piedi, nello scoprire che cercava di scappare e strapparsi dalla carne i supporti medici, era riuscita ad accordare che la zia potesse passare la notte a lui vicino e questa soluzione aveva permesso, che con la Donna della sua Vita, lo Zio si sentisse abbastanza al sicuro da rimanere libero, nelle gambe e nella mano del braccio senza flebo.
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Ma già prima che buio giungesse, le sentinelle sanitarie, che in altre guerre, sotto altri regimi, qualcuno dice fossero persuase ad essere più sensibili, condiscendenti ed amorose coi malati, in questi di tempi, di metà Marzo 2022, di fine emergenza covid, d’accoglienza internazionale, avevano sentenziato che, siccome la moglie ospite non ha fatto alcun vaccino, non sarebbe potuta restare in ospedale con lui, nulla importava più che per entrare si fosse dovuta sottoporre a tampone, e la macchinetta inizialmente desse semaforo verde, Che senza punture lei non si fosse ammalata, mentre lui aveva avuto febbre e covid, e brividi e vaccino.
Nulla importava che senza di lei, lo zio dovesse restare nel letto d'ospedale bloccato persino nei piedi.
Così, questo Uomo davvero umile e meraviglioso, che aveva un nome di Re, ma da tutti sempre soprannominato Angelo, è stato lasciato di nuovo solo, di nuovo immobilizzato in sola compagnia dell'impulso di scappare. Durante la notte seguente, in quello stato di semisedazione, a 4 giorni dall'operazione, era stato trovato dai sanitari, seppur legato, con le sacche di drenaggio, catetere e flebo strappati via.
Lo Zio, per questioni di scanner e lasciapassare non più verde, non ha più incontrato in vita la sua Donna amata, l’unica che riusciva in quella degenza surreale a dargli dignità di essere Umano, che sarebbe riuscita a non renderla degenza surreale e terminale. Che paradosso, Angelo per l'autorizzazione a lavorare era l'unico in famiglia ad avere dovuto fare (su coercizione) il pass quello più completo, quello 3 su tre!
Nei giorni seguenti non era quasi più stato possibile fargli visita, neanche a mia mamma, anche per lei i tamponi negativi non davano più il verde, anche lei fuori regola, perché non in possesso di tutte le attestazioni di puntura. Eppure, in due brevi, fuggenti momenti di disobbedienza dei guardiani, con uno strappo alla norma, la Caposala, siccome almeno 1 vaccino mia madre l'aveva fatto, smanettando sullo Scanner di greenpass, poté mettere il verde, permetterle di rivedere ancora qualche istante lo Zio, ammanettato mani e piedi.
Mia madre poté così avere la grazia di accarezzare suo fratello, asciugargli gli occhi, e la disgrazia atroce di fotografare i lividi di stringhe e percosse causate dal suo continuo tirare gli arti allacciati ed urtare, nonostante legato, in solitudine e disperazione, nelle sbarre di quella bassa gabbietta con materasso che era diventata il suo letto.
Guardo il soffitto, resto in silenzio, anche se ammetto vorrei gridare, e mi chiedo quanto si può dilatare il tempo in una Notte, se sei solo, se uno squarcio ricucito in pancia pulsa, se la libertà ti è stata annientata, insieme alla ragione, quando la dignità di essere umano non te la senti più dentro, perché i lacci che hai addosso, colla rabbia, gli aghi, le sonde, ti schiacciano fino a farti sentire solo l'oppressione dell'impotenza.
Non era possibile alla Zia, mai Geneticamente Modificata, di stargli vicino per calmarlo, liberarlo, così, alle tante richieste disperate di aumentare almeno il dosaggio di sedazione, il medico ha ritenuto opportuno attendere che l'effetto dell'anestesia diminuisse ulteriormente, per far subìre allo Zio, stavolta in piena presa di dolore ad appena 4 giorni dal taglio dell’intestino, anche una TAC con risonanza magnetica, tortura a sua detta inevitabile per verificare la possibilità di tenere il degente addormentato.
Lo Zio, inquieto perché solo, è stato addormentato, ancora legato, ma senza essere anche intubato, con quell'anestesia totale, è deceduto per soffocamento. Se un Uomo è morto solo, messo in croce, ma senza una Madonna ai suoi piedi, nel Marzo 2022, è responsabilità delle persone obbedienti alle regole, le regole di quella Macchina che legge il pass e in certi casi anche il Destino, e che, colorata di rosso, ha segnato di lutto una Famiglia, e chissà forse altre ancora, senza che nessuno sappia. Ci sono parti splendenti di questa storia, di notti insonni, che a funerale avvenuto mi rimangono. Dopo la morte dello zio, nel tentativo, cercavo telefonicamente un alloggio, per tornare a quei luoghi dell'infanzia, per raggiungere mia madre già lei ospite dalla zia. Ma io (che accetto solo punture di zanzara) ricevevo dagli albergatori e gestori di hotel solo negazioni, “no, mi dispiace” o interruzioni di chiamata. E poi, proprio quando ero disperata, la voce di un signore garbato, e una risposta: “Vediamo se posso fare qualcosa per lei”.
E grazie a lui, un'altra chiamata, un'altra Donna tanto gentile, e ancora una risposta: “Vediamo se posso fare qualcosa per lei”, e così un'altra chiamata, la conferma di riservazione per un appartamento da vacanze in pacchetti di settimane o mesi, prenotato esclusivamente per me, ed esclusivamente per una notte, nonostante la stagione ancora rigorosamente chiusa.
Tutto questo senza che mi fosse per legge dovuto, ma per gesto solidale, per un dono da cuore a cuore.
Ed in seguito un segreto sussurrato da mia madre, di quando la quasi totalità degli operatori sanitari, dirigente compreso, avevano parole di diniego, alcuni addirittura di saccenza e soddisfatta discriminazione. Sembrava quasi vi fosse un sottile piacere nel negare la possibilità di un incontro. Una miscela di ignoranza e potere eretta a muro tra chi si ama. Di Quando mia madre e mia zia supplicavano invano che lui potesse essere trasferito in un altro ospedale, di quando chiedevano che potesse essere concessa la presenza, accanto al letto, di sua moglie. Una Signora del Team dagli abiti bianchi, aveva gli occhi illuminati di lacrime.
Penso siano questi i segni che ancora in mezzo a queste tenebre, ci sono scintille di Luce,
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di chi l’Anima l’ha tenuta attaccata a sé, insieme al sentimento.
Mi costa moltissimo imprimere in minuscole stampatelli e corsivi tutto questo Dolore e questa Fiducia, ma sono testimone, e non posso tacere.
Per questo chiedo C'è qualcosa ancora che posso fare, per il prossimo Uomo legato al letto d'ospedale?
Margherita Marafante
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noticiassamana · 3 years
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Senador Pedro Catrian entrega reacciones alimentecias a Clubes de Madres en Las Terrenas.
El senador entrego este lunes una pequeña contribución de raciones alimenticia a la Federación de Clubes de Madres de Las Terrenas, la cual esta compuesta por 23 clubes.
El senador, explico, que este presente, es muestra que el presidente, Luis Abinader, la tiene presente. Y que el como senador, esta comprometido a seguir trabajando y entendiendo peticiones de la mujeres de Las Terrenas, siempre que lo soliciten.
Cabe destacar, él senador Catrian, ha estado recorriendo distintas comunidades de esta provincia, entregando raciones de alimentos a las madres de escasos recursos, por motivo de celebrarse mañana el Día Internacional de la Mujer.
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hipertexto · 3 years
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Algunos sonetos
MARQUÉS DE SANTILLANA:
Amor, debdo e voluntad buena
doler me fazen de vuestra dolor, 
e non poco me pena vuestra pena
e me tormenta la vuestra langor.
Çierto bien siento que non fue terrena
aquella flamma nin la su furor 
que vos inflamma e vos encadena, 
ínfima cárcel, mas çeleste amor.
Pues, ¿qué diré? Remedio es olvidar;
mas ánimo gentil atarde olvida, 
e yo conosco ser bueno apartar.
Pero desseo consume la vida; 
assí dirá, sirviendo, esperar 
ser qualque alivio de la tal ferida.
Soneto V (Garcilaso de Vega):
Escrito esté en mi alma vuestro gesto
y cuanto yo escribir de vos deseo: 
vos sola lo escribistes; yo lo leo, 
tan solo que aun de vos me guardo en esto.
En esto estoy y estaré siempre puesto,
que aunque no cabe en mí cuanto en vos veo, 
de tanto bien lo que no entiendo creo,
tomando ya la fe por presupuesto.
Yo no nascí sino para quereros; 
mi alma os ha cortado a su medida; 
por hábito del alma misma os quiero;
cuanto tengo confieso yo deberos; 
por nos nací, por vos tengo la vida, 
por vos he de morir y por vos muero.
Soneto 7 (Diego Hurtado de Mendoza)
Tiempo vi yo que Amor puso un deseo 
honesto en un honesto corazón; 
tiempo vi yo, que ahora no lo veo, 
que era gloria y no pena mi pasión;
Tiempo vi yo que por una ocasión
diera angustia y congoja y, si venía,
señora, en tu presencia, la razón 
me faltaba y mi lengua enmudecía
Más que quisiera he visto, pues Amor
quiere que llore el bien y sufra el daño
más por razón que no por accidente.
Crece mi mal y crece en lo peor, 
en arrepentimiento y desengaño, 
pena del bien pasado y mal presente.
Soneto del mesmo (Fernando de Herrera)
El oro crespo el aura desparzido, 
y el resplandor de bella luz hermoso,
el semblante suaue y amoroso 
 tierno rostro, aunque descolorido;
la dulce risa a quien estoy rendido, 
la blanca mano, el trato generoso, 
la graçia, la cordura y el reposo, 
y el excelso ualor esclareçido
pudieron quebrantarme la dureza, 
y entregarme al Amor con nueuo engaño,
y ser causa y efecto de mi muerte.
Mas defender que ame la belleza
que me dio tanto bien, aunque a mi daño,
ni uso podréis, ni Amor pondrá en mi muerte
Soneto 72 (Luis de Góngora)
Varia imaginación que, en mil intentos, 
a pesar gastas de tu triste dueño 
la dulce munición del blando sueño, 
alimentando vanos pensamientos,
pues los espíritus atentos 
sólo a representarme el grave ceño 
del rostro dulcemente zahereño 
(gloriosa suspensión de mis tormentos),
el sueño (autor de representaciones), 
en su teatro, sobre el viento armado,
sombras suele vestir de bulto bello.
Síguele; mostraráte el rostro amado, 
y engañarán un ratos tus pasiones 
dos bienes, que serán dormir y vello.
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