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Razionalità pericolose
Anche se l’atteso, nuovo test nucleare nordcoreano non vi è stato, Pyongyang non ha mancato di flettere i muscoli, facendo sfilare i suoi nuovi missili a raggio intermedio nella parata che celebrava i 105 anni dalla nascita del suo fondatore, Kim Il-sung (nonno dell’attuale leader Kim Jong-un) e rilanciando proclami bellicosi contro gli Stati Uniti e l’amministrazione Trump.
Muscoli contro muscoli; follia contro follia. È questa la rappresentazione che le due parti, e molti osservatori, sembrano voler offrire di un’escalation che pare avvicinarsi giorno dopo giorno a un punto di non ritorno. Posto che i muscoli non sono ovviamente gli stessi, visto il monumentale gap di potenza tra Stati Uniti e Corea del Nord, proviamo a comprendere le ragioni che ispirano l’azione di Pyongyang e Washington, le risorse di cui le due parti dispongono e le implicazioni di questa nuova crisi.
Per farlo è utile partire da una premessa tanto banale quanto spesso negletta: che sia Trump sia Kim Jong-un siano in realtà attori pienamente razionali, mossi da logiche e scopi precisi, correlati alle capacità di cui essi dispongono (che poi siano in grado di controllare l’escalation in corso è questione altra che, ovviamente, non può non preoccupare). Nel caso della Corea del Nord, tre sembrano essere gli obiettivi essenziali. Il primo è quello di sviluppare e consolidare un arsenale nucleare che, per quanto limitato, la doti di una capacità deterrente minima capace d’inibire qualsiasi azione statunitense (o sud-coreana). A dispetto dei bellicosi proclami – che sono anzi funzionali ad accentuare questa funzione di deterrenza – nelle intenzioni il nucleare coreano serve a difendere più che a offendere, a proteggere più che a minacciare. Non a caso, il regime non manca mai di menzionare quegli esempi – la Libia di Gheddafi o l’Iraq di Hussein – che privi, o privatisi, di tali strumenti sono stati rovesciati da interventi militari occidentali. Il secondo obiettivo è quello di sfruttare questo strumento di pressione per ottenere concessioni e aiuti economici, dalla Cina o dalla stessa Corea del Sud. Aiuti, questi, indispensabili alla sopravvivenza di un’economia fragile e inefficiente e, secondo molti resoconti, sfruttati per arricchirsi dalla famiglia del dittatore nordcoreano e da quelle degli uomini a lui vicini. Terzo e ultimo: l’utilità di avere un nemico assoluto, del quale sempre si nutrono regimi autoritari come quello di Pyongyang, per mantenere un livello di mobilitazione totale e preservare il controllo del potere.
Un nemico assoluto fa comodo però anche a Donald Trump. Che sta evidentemente usando la crisi coreana e quella siriana per cercare di ovviare ai numerosi insuccessi di questi primi mesi di Presidenza e ai tassi d’impopolarità altissimi che ne conseguono (secondo Gallup, solo il 38/40% degli americani approva oggi l’operato di Trump, circa 25 punti sotto la media delle altre presidenze degli ultimi 70 anni). L’emergenza sicurezza, reale o esagerata, unisce e compatta. Celebrare la ritrovata potenza militare – le super-bombe sganciate in Afghanistan o l’Armada che si dirige verso il mar di Corea - alimenta uno scoperto orgoglio patriottico. Affidarsi alle Forze Armate – liberate, afferma Trump, dalle costrizioni impostele da Obama - significa sfruttare quell’istituzione nella quale massima è oggi la fiducia dell’opinione pubblica (quasi sempre in contrapposizione a una politica in pesante deficit di credibilità e legittimità). Accanto a questo obiettivo politico vi è un calcolo strategico. L’auspicio è che le pressioni statunitensi rendano più collaborativa la Cina sia sullo specifico dossier nordcoreano sia rispetto ai tanti nodi della complessa interdipendenza sino-statunitense.
Vi è – questo è evidente - un chiaro bluff che informa dichiarazioni e comportamenti di ambo le parti. Trump sembra muoversi nel solco di quello che alcuni studiosi a suo tempo definirono “il paradosso di Reagan”: alle parole roboanti e minacciose, e ai gesti ad alto contenuto simbolico, quasi sempre corrisponde massima cautela e basso rischio; lo scarto tra retorica e atti rimane in altre parole assai marcato. Per quanto riguarda la Corea del Nord, è difficile immaginare che essa sia mossa da istinti suicidi che soli spiegherebbero una sua deliberata escalation delle tensioni fino alla soglia dello scontro nucleare. Nel caso di Pyongyang, minacciare serve, come detto, per difendersi e sopravvivere. Nella consapevolezza della sua evidente debolezza nei confronti degli Usa, ma consci di poter scatenare un inferno nella penisola (a poche decine di chilometri dal confine con il Nord, i dieci milioni di abitanti che vivono nella capitale del Sud Seul sono assi vulnerabili ai devastanti effetti di una possibile azione nordcoreana) o di causare una profonda destabilizzazione dell’area che nessuno, a partire dalla Cina, vuole e si può permettere.
I rischi sono ovviamente altissimi. Come questo interminabile anniversario dei cent’anni della Prima Guerra Mondiale ben ci ricorda, soggetti che ritengono di agire in piena razionalità, con l’obiettivo di massimizzare i propri interessi e la convinzione di controllare le conseguenze dei propri atti, possono provocare spirali che sfuggono rapidamente al controllo. A maggior ragione se spesse lenti ideologiche deformano il giudizio che si dà della controparte: della sua natura, dei suoi obiettivi e dei suoi mezzi. E, razionalità o meno, pare francamente difficile trovare oggi due soggetti più ideologici e spregiudicati di Trump e Kim Jong-un.
Il Mattino, 16 aprile 2017
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Tanto rumore ...

Con una coreografia mediatica degna del miglior dottor Stranamore, Trump ha annunciato l’utilizzo in Afghanistan della “madre di tutte le bombe” – la GBU-43/B – l’arma convenzionale più potente di cui dispongano gli Stati Uniti. La bomba – e le devastanti onde d’urto che essa genera - è stata utilizzata per colpire il sistema di grotte e tunnel utilizzato da gruppi legati all’ISIS che operano nella parte orientale del paese.
Il Presidente statunitense ha presentato l’azione come esemplare di una nuova linea che rimuoverebbe le inutili inibizioni degli anni di Obama, lasciando piena libertà “alle più potenti forze armate del mondo”. “Per questo stiamo avendo così tanti successi ora”, ha chiosato Trump.
Se di successi davvero si tratta lo scopriremo nelle settimane a venire. L’azione è stata giustificata dalla necessità di colpire gli avversari in un terreno ove più difficile è l’azione dell’esercito afghano, con un mezzo che, nella sua devastante e indiscriminata potenza, può essere complementare all’uso quotidiano dei droni. È difficile però sfuggire all’impressione che le matrici operative di questa scelta – la sua funzionalità cioè alla strategia perseguita nello specifico teatro afghano – siano subordinate a calcoli e considerazioni di altro tipo.
Due, in particolare, sono le possibili chiavi di lettura che spiegano questa scelta. La prima riguarda la valenza psicologica di uno strumento come la GBU-43/B. Quando l’arma fu testata per la prima volta nel 2003, l’allora segretario della Difesa Donald Rumsfeld rivendicò esplicitamente questa dimensione, sottolineando come la funzione primaria della bomba fosse dimostrativa più che operativa: serviva cioè a ostentare sia la capacità di fuoco di cui dispongono gli Usa sia la loro piena disponibilità a farne uso, disincentivando di conseguenza una resistenza che sarebbe tanto futile quanto suicida. Nel caso dell’azione contro ISIS, Al Qaeda e i loro tanti affiliati, l’efficacia simbolica della GBU-43/B integrerebbe l’azione paralizzante dei droni nel dissuadere l’avversario dal continuare il conflitto. Ma essa si estenderebbe ad altri teatri – quello nord-coreano su tutti – dove lo sfoggio di forza serve per esercitare una pressione supplementare sul regime di Pyongyang e sulla stessa Cina, preparando al contempo l’opinione pubblica statunitense a una possibile azione militare.
E questo ci porta alla seconda dimensione, che è invece tutta politica. Sciogliere le briglia poste negli ultimi anni all’azione del Pentagono e tornare a usare la forza come Trump ha fatto, in Siria e in Afghanistan, dovrebbe permettere di aumentare il consenso e la popolarità del Presidente, che oggi si collocano a livelli straordinariamente bassi. Si celebra (e sfrutta) quell’istituzione, le Forze Armate, verso la quale gli americani nutrono la massima fiducia, spesso in contrapposizione a una politica screditata e delegittimata. Si promuove uno sfoggio di orgoglio patriottico costruito attorno a quella dimensione della potenza, le armi, nella quale incontestata rimane la superiorità tecnologica e quantitativa degli Usa. Infine, si risponde a quella sensazione, diffusa e profonda, secondo la quale gli Stati Uniti non sarebbero più rispettati sulla scena internazionale.
Il copione appare, per il momento, quello che fu già di Ronald Reagan negli anni Ottanta: massimo rumore, cioè, combinato con minimo rischio. E però il pericolo appare altissimo, dalla Corea del Nord dove una miccia potrebbe scatenare una reazione incontrollabile al Medio Oriente, dove qualsiasi intervento statunitense ha finito per moltiplicare più che debellare l’attività del terrorismo fondamentalista.
Il Giornale di Brescia, 15 aprile 2017
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Trump e la Russia

Le tensioni tra Russia e Stati Uniti sembrano crescere di giorno in giorno in una spirale viziosa inarrestabile e assai pericolosa. È un gioco delle parti, come sostengono taluni? O siamo di fronte a qualcosa di più rilevante e strutturale? Soprattutto, come si mette in asse quanto sta avvenendo con mesi di campagna elettorale durante i quali l’ostentato elemento di discontinuità promesso da Trump era quello di abbandonare la linea dell’ostracismo verso Mosca in favore di una nuova, intensa collaborazione russo-statunitense?
Diverse risposte possono offerte. Il punto di partenza, però, deve essere un elemento di contesto troppo spesso negletto. Il presunto isolazionismo di Trump, così enfatizzato da tanti commentatori e critici del Presidente, non è in realtà mai esistito. Posto che, come gli storici sanno bene, la categoria d’isolazionismo è tanto abusata quanto poco utile per capire la politica estera degli Stati Uniti, quello di Trump non era un invito a un irrealistico e impossibile isolamento dalle vicende mondiali. Si trattava, piuttosto, di un discorso nazionalista e unilateralista, centrato sulla rivendicata necessità di tutelare e promuovere con qualsiasi mezzo l’interesse nazionale in un’arena globale presentata come anarchica e brutale. Ciò voleva (e vuol) dire accettare la competizione e la contrapposizione con le altre principali potenze laddove gli interessi di queste e degli Usa collidano o non siano complementari.
Ci sarebbe molto da dire sulla patente, rozza schematicità di questa lettura. Il punto, però, è che Russia e Stati Uniti d’interessi confliggenti ne hanno molti, a partire proprio dal Medio Oriente. Che vi sia un elemento quasi naturale nel loro antagonismo di potenza, sul quale incidono peraltro elementi residuali della lunga contrapposizione della Guerra Fredda (in ambito nucleare il sistema odierno rimane ad esempio bipolare) e, ancor più, l’assenza di quelle forme d’interdipendenza profonde – finanziarie e commerciali - che al contrario cementano le relazioni tra la Cina e gli Usa. Invocare la necessità di un reset delle relazioni con Mosca è insomma più semplice che realizzarlo, come già Obama ebbe modo di verificare.
Se dal contesto ci spostiamo alla specificità dell’oggi, quattro possibili spiegazioni aggiuntive possono essere offerte. La prima si lega alla Siria. Dove evidentemente l’amministrazione Trump ambisce ad avere un ruolo maggiore in un processo negoziale nel quale Washington è stata progressivamente marginalizzata. Le pressioni americane, e l’insistenza sulla dipartita di Assad, sembrano avere anche questa funzione. La seconda chiave di lettura rimanda agli equilibri interni all’amministrazione e alla presenza di una fazione atlantista e anti-russa influente, fattasi nelle ultime settimane molto più assertiva. Una fazione pare ben rappresentata in quei servizi d’intelligence che da tempo contestano le aperture trumpiane a Mosca e dai quali sono giunte ai media tante delle soffiate sulle presunte ingerenze russe nella campagna elettorale del 2016. E questo ci porta alla terza, possibile spiegazione, che è invece tutta politica. Dentro il partito repubblicano uno dei principali elementi coesivi è proprio l’avversione alla Russia e a Putin che in taluni casi, si pensi al senatore e candidato presidenziale del 2008 John McCain, raggiunge livelli quasi parossistici (McCain è da sempre sostenitore di un ulteriore allargamento della Nato fino a includere Ucraina e Georgia). Alzare il tono della polemica con Mosca permette in teoria di ricompattare un partito diviso e lacerato da questi primi, sconclusionati mesi di Presidenza, mettendo i democratici in un angolo (cosa che è effettivamente accaduta in seguito al bombardamento di venerdì scorso in Siria). Quarto e ultimo, se in qualche misura di gioco delle parti si tratta - e se vogliamo fare una piccola incursione nella fantapolitica - potrebbe esservi un legame con la vicende delle intromissioni, in parte acclarate, della Russia nella campagna elettorale del 2016. Se letta in questa chiave, la linea di Trump ambirebbe a depotenziare preventivamente quei repubblicani che vorrebbero avviare inchieste indipendenti e indicherebbe a Putin che a dispetto di tutto i rapporti di forza continuano a pendere inequivocabilmente a favore degli Stati Uniti. Perché troppo spesso, negli ultimi anni, si è dimenticato questo basilare elemento di realtà: che nelle relazioni russo-statunitensi una delle due parti continua a essere nettamente superiore all’altra.
Il Mattino, 13 aprile 2017
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Tillerson a Mosca

La Siria doveva costituire tanto il medium quanto il fine di quel riavvicinamento tra Russia e Stati Uniti che l’elezione di Donald Trump sembrava preconizzare. L’interesse condiviso a sconfiggere l’ISIS e stabilizzare il paese, abbandonando i vecchi progetti americani di rimuovere il dittatore Bashar al-Assad, sembrava produrre una oggettiva convergenza d’interessi, cementata anche da un linguaggio – di cruda realpolitik – che accomunava Putin e Trump. Da questa convergenza sarebbe scaturita una collaborazione che avrebbe permesso l’ottenimento degli obiettivi auspicati, a Mosca come a Washington, su tutti quello di una Siria governata da Assad e alleata della Russia, ma non levatrice di pericoli e minacce per gli Usa e i loro alleati regionali.
Era, questo, uno schema (e un auspicio) piuttosto rigido e binario, che sottovalutava la presenza di spinte centrifughe e destabilizzatrici plurime, alimentate dai tanti attori, interni ed esterni, che agiscono nel teatro siriano. Ed era uno schema poco realistico e, nel caso statunitense, molto elettorale perché sottovalutava i mille ostacoli – politici e geopolitici - che si sarebbero da subito frapposti sulla strada di questa collaborazione russo-statunitense. Il reset con Mosca promesso da Trump pare insomma aver avuto vita ancor più breve di quello cercato a suo tempo da Obama e da Hillary Clinton. La visita a Mosca del segretario di Stato Rex Tillerson, che segue la sua partecipazione al G-7 dei ministri degli Esteri di Lucca, rischia quindi di certificare l’ennesima crisi nei rapporti tra Russia e Stati Uniti (l’ennesima “guerra fredda” tra i due, nell’analogia storica usata, abusata e invariabilmente mal applicata in molte rappresentazioni mediatiche).
Da questo stato di cose chi ha più da perdere è decisamente il soggetto più debole che - per buona pace dei tanti fan europei e italiani di Putin - rimane senza dubbio la Russia. La prosecuzione e intensificazione del deterioramento delle relazioni russo-statunitensi porrebbe Mosca di fronte a un nuovo compattamento del fronte transatlantico che molti a Washington sembrano sostenere, a partire dallo stesso Tillerson. La Russia si troverebbe di nuovo isolata nel suo sostegno ad Assad, l’unico alleato di cui essa disponga in Medio Oriente. Soprattutto, morirebbe l’auspicio di vedere sollevate le sanzioni imposte sull’Ucraina che, assieme alla cronica arretratezza del sistema produttivo russo, contribuiscono a spiegare le magrissime performance dell’economia di Mosca (il PIL è sempre stato in territorio negativo nel 2015 e nel 2016, con una contestuale, rilevante crescita del tasso di povertà).
Come ha potuto verificare con la decisione di colpire Assad – decisione, questa, dalla bassa sostanza operativa, ma dall’altissima rilevanza politico-simbolica - Trump ha la possibilità di trarre vantaggi tanto rilevanti quanto immediati. Una Nato ricompattata è un’alleanza ai cui membri gli Usa possono chiedere con più forza, e credibilità, di contribuire maggiormente alla Difesa comune, come Trump ha fatto incessantemente, da candidato e Presidente. I 59 tomahawks lanciati venerdì scorso sembrano inoltre aver garantito un chiaro dividendo politico, che ha immediatamente oscurato le magagne e i gl’insuccessi che avevano scandito questi primi mesi di Presidenza. I repubblicani – lacerati e divisi – si sono ricompattati; almeno sul breve periodo, il paese sembra apprezzare questa nuova “guerra umanitaria” degli Usa; i democratici non sono pervenuti o hanno espresso apprezzamento per la decisione di ricorrere alla forza; intellettuali molto critici nei confronti di Trump hanno celebrato la decisione (il commentatore liberal della CNN Fareed Zakaria ha addirittura sostenuto che con quei 59 tomahwaks Trump è finalmente “diventato Presidente”).
L’evidente debolezza relativa della Russia non implica che essa sia un gigante d’argilla o che non abbia delle frecce al suo arco. Con la collaborazione di Assad, Mosca può alzare la soglia del rischio a livelli intollerabili per gli Usa esponendo così il bluff di Trump; dispone sempre della leva diplomatica al Consiglio di Sicurezza dell’Onu; soprattutto, se è vera anche solo una parte delle indiscrezioni filtrate in questi mesi sul suo ruolo nell’ultima campagna elettorale statunitense, può mettere in gravissimo imbarazzo il Presidente americano, alimentando uno scandalo politico dalle conseguenze inimmaginabili. Anche per questo è fondamentale che l’azione di venerdì sia utilizzata da tutte le parti per rilanciare il negoziato e non diventi la prima salve di un’escalation che nessuno ha gli strumenti per controllare e sfruttare.
Il Mattino, 11 aprile 2017
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La guerra di Trump

Aveva promesso che non si sarebbe fatto trascinare in nuovi conflitti. Che in un’arena internazionale anarchica e brutale avrebbe agito spregiudicatamente per massimizzare l’interesse nazionale statunitense, da perseguirsi anche tollerando dittatori brutali come Assad o addirittura collaborando con essi laddove fosse necessario. Dopo due mesi e mezzo di presidenza Donald Trump sembra già rinnegare quelle promesse che tanto avevano contribuito a portarlo alla Casa Bianca. Certo, i 59 tomahawks lanciati ieri sulla base militare siriana di Al Shayrat sono in sé poca cosa; un gesto dimostrativo intrapreso cercando di minimizzare qualsiasi rischio collaterale, come la preventiva decisione d’informare Putin (e quindi Assad) ben evidenzia.
La discontinuità, e quindi l’importanza, di questa scelta sono nondimeno rilevanti. L’America torna a muovere guerra in Medio Oriente. Guerra vera e deliberatamente esibita, non le azioni quotidiane – cruciali, ma quasi invisibili e sistematicamente occultate – dei droni e delle forze speciali.
Come si spiega questa scelta di Trump e quali scenari potrebbe aprire?
Per convenienza possiamo suddividere i fattori che sottostanno alla decisione di bombardare in alcune categorie distinte, ancorché strettamente intrecciate. Vi è, a monte, un ragionamento strategico. Il convincimento, cioè, che questa iniziativa possa in una certa misura moderare Assad e contribuire a reinserire gli Usa dentro la negoziazione sul futuro del paese. Trump ha più volte fatto chiaro che la dipartita di Assad non è condizione indispensabile; il dittatore siriano ha anzi un ruolo centrale nel processo che dovrebbe riportare un minimo di stabilità e di pace nel paese. L’azione militare non costituisce quindi in alcun modo la prima salve di un processo finalizzato a un cambiamento di regime in stile libico. Serve invece per punire Assad e dimostrare che gli Usa hanno riacquisito il decisionismo e la risolutezza dolosamente mancati negli anni di Obama. È questa la seconda dimensione – precipuamente simbolica – che aiuta a spiegare la decisione di usare la forza. Il messaggio appare inequivoco. Ed è destinato tanto al pubblico interno quanto a quello internazionale. Al primo, nel quale una maggioranza da tempo ritiene che gli Usa siano indeboliti e umiliati nel mondo, si dice che la potenza statunitense è finalmente tornata. Lo si fa ricorrendo ai codici classici dell’interventismo del post-guerra fredda. A modo suo - con un lessico essenziale e finanche rozzo - Trump parla una lingua, politicamente trasversale, che riecheggia in fondo quella che fu di Clinton e di Bush Jr.: enfatizza cioè le fondamenta etiche dell’intervento, la sua natura “umanitaria”. Ma vi è un altro evidente simbolismo i cui destinatari stanno fuori dai confini statunitensi. Il messaggio, qui, è che si è pronti a utilizzare l’elemento primario della superiorità di potenza degli Usa, la forza militare, in modo assai meno parsimonioso di quanto non sia stato con Obama. L’auspicio della Casa Bianca è che Cina e Nord Corea prendano nota e agiscano di conseguenza. Ostentare forza serve infine per raggiungere precisi obiettivi politici. L’enfasi sulla natura “giusta” e necessaria dell’azione punta a mobilitare un’opinione pubblica inorridita dalla brutalità di Assad. Questa mobilitazione procede di pari passo con il ricompattamento di un partito repubblicano nel quale forte, e forse ancora egemone, è la posizione di quei falchi alla McCain da sempre critici nei confronti del cinico realismo trumpiano. Un partito spaccato da questi primi mesi di Presidenza Trump che sembra ora poter ritrovare un collante forte.
I rischi sono però molteplici. Assad potrebbe essere spinto a testare la reale determinazione americana, consapevole che tutto gli Usa vogliono fuorché un’ulteriore destabilizzazione della Siria. Russia e Iran minacciano di fare altrettanto in quei teatri, Iraq e Ucraina orientale, dove dispongono dei mezzi per agire. L’ISIS troverà una fonte ulteriore di reclutamento e sostegno, approfittando dell’ampia ostilità esistente in Medio Oriente contro qualsiasi guerra americana a prescindere da chi ne sia bersaglio. La Turchia sarà tentata dalla possibilità di approfittare della situazione, contando su un possibile asse con Washington. La stessa opinione pubblica statunitense, scemato l’effetto iniziale della “guerra umanitaria” e dell’orgogliosa riaffermazione della potenza americana, potrebbe tornare su quelle posizioni favorevoli a un disimpegno globale che l’hanno contraddistinta in questi ultimi anni. Quello di Trump insomma è un grande azzardo i cui esiti appaiono oggi davvero imprevedibili.
Il Mattino, 10 aprile 2017
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Trump e Xi Jinping

Proprio alla vigilia del primo vertice sino-statunitense dell’era Trump, giunge a sorpresa la decisione del Presidente americano di escludere dal Consiglio di Sicurezza Nazionale Steve Bannon, la figura forse più controversa e radicale della sua amministrazione. Campione di un nazionalismo estremo, ispiratore e co-autore del primo, fallimentare “muslim ban” con cui si bloccava l’accesso negli Usa ai cittadini di una serie di paesi a maggioranza mussulmana. Bannon è colui che più sosteneva la linea della fermezza nei confronti della Cina, invocando misure di protezione commerciale e arrivando addirittura a preconizzare prossime, inevitabili guerre tra Washington e Pechino.
In un mondo, e in un’amministrazione, normali, questa decisione e la sua tempistica parrebbero segnalare una volontà distensiva di Trump verso la Cina: una parziale ritirata dai roboanti proclami anti-cinesi che hanno scandito sia la campagna elettorale del miliardario newyorchese sia queste sue prime settimane alla Casa Bianca. Ma i tempi, e l’amministrazione statunitense, tutto appaiono fuorché normali. Sulla politica estera ancor più che su quella interna, Trump ha detto tutto e il suo contrario, mentre dalla sua amministrazione è uscita una cacofonia di suoni rispetto alla quale si è a lungo distinto, per il suo totale silenzio, il segretario di Stato Rex Tillerson.
Se il parziale ridimensionamento di Bannon segnali una svolta moderata cominceremo già a scoprirlo nel vertice tra Trump e il leader cinese Xi Jinping che inizia oggi nella residenza del Presidente statunitense a Mar-a-Lago in Florida. Con buona pace di Putin e, anche, di noi europei è il G-2 sino-americano l’asse fondamentale delle relazioni internazionali correnti: il pilastro sul quale un ordine globale volatile e fragile precariamente si regge. Sono Stati Uniti e Cina, per incontestabile distacco, le due principali potenze economiche (40% del PIL mondiale), militari (più o meno metà della spesa globale) e inquinanti (i due generano da soli circa il 45% delle emissioni). Il G-2 non riflette solo questa indiscussa gerarchia di potenza, ma consegue anche alla strettissima interdipendenza venutasi a determinare tra i due paesi nell’ultimo trentennio: una situazione che ha indotto alcuni studiosi a parlare di “Chimerica” per descrivere l’intreccio tra i due paesi. Il vorace mercato statunitense ha trainato la crescita export-led della Cina; Pechino ha contribuito a rendere questi consumi sostenibili sussidiando il debito pubblico e privato statunitense e accumulando una montagna di riserve in dollari; le grandi corporation Usa hanno trasferito parte della loro produzione in Cina, attratte dalla stabilità sociale e dal basso costo della manodopera. Questa integrazione sembra essere oggi giunta a punto di quasi saturazione e alcuni indicatori (come la decrescita dei titoli del Tesoro statunitense in mani cinesi) sembrano segnalare una prima inversione di rotta. Ad essa si sono aggiunti elementi crescenti di competizione, alimentati dalla crescita della potenza relativa della Cina, divenuta nell’ultimo decennio l’egemone economico – per investimenti diretti e volumi di scambi commerciali – nell’area dell’Asia Pacifico.
Si tratta, quindi, di un equilibrio tanto fondamentale quanto fragile. Fondato su asimmetrie profonde, a partire da un deficit americano nella bilancia commerciale bilaterale che, superati gli effetti della crisi del 2007-8, è tornato a correre a ritmi accelerati. E minacciato da turbolenze latenti ma pericolosissime, siano esse la bolla bancaria cinese, le aggressive posture sinofobe di molti conservatori americani o il desiderio di Pechino di sfidare il persistente primato strategico statunitense in Estremo Oriente.
Soluzioni semplici non esistono. Il massimo che si può auspicare sono graduali correttivi di queste asimmetrie e uno sforzo congiunto per potenziare forme di governance ancora parziali e incomplete. Con Obama alcuni risultati in questo senso furono ottenuti, si pensi solo all’accordo bilaterale sulle emissioni del dicembre 2014 che aprì poi la strada ai negoziati di Parigi. La variabile imprevedibile sono però oggi proprio gli Usa. Le promesse di Trump di re-industrializzare il paese attraverso una guerra commerciale con la Cina sono ovviamente irrealistiche: una boutade che ha ammaliato un pezzo di elettorato. Ma quelle promesse vincolano in una certa misura Trump e lo stesso partito repubblicano. E da un vertice dove diversi dossier assai concreti, il nucleare nordcoreano su tutti, saranno discussi è lecito immaginarsi un esito che, almeno simbolicamente, serva a Trump per poter dire di aver difeso gl’interessi statunitensi come i suoi predecessori non sono stati capaci di fare.
Il Mattino/Il Messaggero, 6 aprile 2017
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Egemoni zoppi

Sono due egemoni, Stati Uniti e Germania, in fondo zoppi quelli rappresentati ieri da Donald Trump e Angela Merkel nel loro primo, atteso e, a quanto pare, piuttosto teso incontro. I primi, non solo vedono sempre più contestata la loro leadership globale ma, con Trump, paiono essi stessi voler scardinare l’ordine internazionale liberale che avevano contribuito edificare e dal quale, oggi troppo spesso lo si dimentica, hanno tratto molteplici vantaggi. La Merkel si presenta come ultimo baluardo di tale ordine e dei processi d’integrazione globale che ne sono conseguiti, nei quali l’ iper-competitiva economia tedesca ha spesso eccelso. Berlino, però, fatica anche solo a guidare e tenere unito il sub-ordine regionale europeo, sfidato dal risorgere di nazionalismi spesso estremi e indebolito dalle carenze egemoniche della stessa Germania. Un leader, quello tedesco, che non dispone ancora di forza militare; e un leader che in più occasioni, si pensi alla crisi greca, ha rivelato una sconcertante miopia e una forte fragilità di fronte alle pressioni della sua opinione pubblica interna.
In questo contesto, Trump e Merkel sembrano paradossalmente essere utili l’uno all’altra. Con la sua demagogia grossolana e, spesso, anti-europea, Trump offre alla cancelliera un facile bersaglio con cui chiamare a raccolta le forze di un europeismo che il Presidente statunitense sembra avere in parte risvegliato. Così come fece Schroeder nel 2002 con Bush, la Merkel potrebbe sfruttare politicamente la straordinaria impopolarità di Trump in Europa (e, ancor più, in Germania) per ottenere il consenso necessario a un nuovo successo elettorale e per contribuire a rilanciare su basi nuove, e forse più realistiche, il processo d’integrazione europea. Per Trump e per molti suoi consiglieri, Steve Bannon su tutti, la Germania è uno degli emblemi di un sistema internazionale che gli Stati Uniti hanno dolosamente costruito e tollerato. Un sistema – si sostiene - dove gli Usa garantiscono protezione militare ad alleati irriconoscenti mentre questi non ottemperano ai loro obblighi nella difesa comune e - approfittando (nel caso della Germania) di una valuta di fatto debole - invadono il mercato statunitense con i loro prodotti, contribuendo così all’ulteriore impoverimento del settore manifatturiero statunitense. Ecco quindi le frequenti invettive della destra americana nei confronti del misero 1.2% che Berlino destina alle spese militari (ben lontano dall’obiettivo Nato del 2%) o, ancor più, del monumentale attivo (65miliardi di dollari nel 2015) che la Germania ha nella bilancia commerciale con gli Usa.
Pur in un contesto caratterizzato da una decrescente centralità geopolitica dell’Europa, rimangono però elementi forti che cementano quello che è – oggi ancor più che in passato – il rapporto centrale delle relazioni transatlantiche nel loro complesso. Vi sono i summenzionati squilibri, che sono stati al centro delle discussioni tra Trump e Merkel e tra i rispettivi responsabili del Tesoro. E che, per buona pace del Presidente statunitense, non possono certo essere risolti con tweet, ma richiedono invece un’opera certosina di ridefinizione di relazioni commerciali che imporranno nuovi, complessi negoziati e finanche la riattivazione, in qualche forma, di quell’ampio accordo transatlantico (il famoso TTIP) che giace oggi in stato comatoso. Vi è il nodale dossier ucraino che s’intreccia con la questione, a oggi difficile a prevedersi, di come potranno evolvere i rapporti tra Russia e Stati Uniti, con la linea “filo-russa” di Trump vieppiù contestata all’interno dello stesso partito repubblicano. E, contestuale a questo, vi è appunto la discussione su come ripensare l’Alleanza Atlantica e forse, in un’UE a più velocità, la stessa politica di difesa europea, il cui rilancio dipende in ultimo proprio dalla disponibilità tedesca ad alzare significativamente la soglia del proprio impegno: ad assumersi pienamente le responsabilità che derivano dall’essere, e dal voler essere, il soggetto egemone nel continente.
Le incognite sono molte. La principale è proprio l’amministrazione Trump, che da quando si è insediata ha mandato messaggi plurimi e contraddittori sui rapporti con l’Europa come su altre questioni, in una cacofonia nella quale difficile, finanche impossibile, è comprendere quale linea di politica estera s’intenda davvero seguire.
Il Mattino, 18 aprile 2017
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Wikileaks e Trump
Col tempo ci siamo progressivamente assuefatti all’idea che i vantaggi derivanti dallo stare entro una rete globale di scambi e comunicazioni vadano giocoforza barattati con crescenti forme di limitazione della (e intrusione nella) nostra privacy. Le ultime rivelazioni di Wilikeas, che si sommano alle tante degli ultimi anni, ci mostrano però quali livelli di raccolta d’informazioni riservate, e di controllo delle nostre vite, siano ora possibili; quanto pervasiva e totalizzante possa essere un’azione d’intelligence capace di sfruttare questi processi d’interconnessione globale e superare le barriere, evidentemente deboli, attivate a loro protezione.
Da quanto sappiamo, la CIA avrebbe sviluppato strumenti per accedere a comunicazioni sui telefonini e Internet, incluse quelle di servizi comunemente utilizzati come Whatsapp. Un hackeraggio, questo, attraverso il quale raccogliere e stivare ulteriori milioni di dati: un monumentale archivio elettronico la cui crescita non conosce soluzione di continuità, producendo scenari orwelliani nei quali ognuno di noi è potenziale vittima.
Quali sono le possibili implicazioni per le nostre fragili democrazie e cosa ha spinto Wikileaks ad agire proprio ora? Sono queste le domande cui si deve cercare di dare risposta per comprendere la portata e le conseguenze di questo nuovo capitolo nella storia recente dello spionaggio globale.
È evidente come la possibilità di disciplinare e controllare le azioni dei servizi d’intelligence – così come quelle degli hacker alla wikileaks – sia oggi alquanto limitata. Per come e quanto circolano le comunicazioni, per la porosità ultima della rete, per un modello di sviluppo e crescita centrato sulla rapidità e facilità delle interazioni, si è creato un contesto nel quale sono saltati tutti i vincoli e le regole che, pur tra mille difficoltà e limiti, avevano negli anni creato un quadro pratico e normativo capace di frenare questa attività d’intelligence. All’assenza, se non alla quasi impossibilità, di regolamentare e contenere tali attività si aggiunge il pericolo – affatto virtuale – di una mal gestione delle informazioni. Che vengono stivate in quantità ingestibili; che sono viste e maneggiate da più persone, inclusi i tanti privati a cui gli stati – a partire dagli Usa – ormai subappaltano parte delle loro attività di sicurezza; che, in una ossessione per la quantità e i metadati, sono sottoposte a una decrescente opera di lavorazione e interpretazione indispensabile per trasformare il dato grezzo in vera e propria intelligence. A questo contesto opaco e fuori controllo va aggiunto un ulteriore elemento. Ed è l’elemento su cui i demagoghi come Assange hanno in ultimo costruito le proprie fortune. L’idea, cioè, che la possibilità di sollevare il velo su questo mondo di segreti ed eccessi renda superfluo un giornalismo tradizionale al meglio inetto e al peggio colluso. Che nessun filtro critico possa ormai esistere tra il potere e i suoi abusi e chi ne disvela i mezzi e le azioni. Che la partita si giochi in un campo nel quale il mondo dell’Informazione tradizionale non ha più spazio o diritto di residenza.
E questo ci porta alla seconda domanda: perché ora e con quali obiettivi? Due ipotesi possono essere avanzate. La prima è che wikileaks e Assange abbiano bisogno di recuperare parte della legittimità e del credito perduti. Nulla di meglio, per farlo, che colpire il capro espiatorio classico, quella CIA che nell’immaginario rimane una piovra dai tentacoli globali. È uno scoop – quello di wikileaks – come non si vedeva da tempo, insomma, che risolleva il prestigio alquanto appannato di Julian Assange. Lo risolleva facendo un favore, l’ennesimo va detto, a Donald Trump. Che con i servizi d’intelligence, e la CIA su tutti, è in guerra aperta in conseguenza della vicenda delle ingerenze russe nelle elezioni di ottobre e delle tante fughe di notizie che i primi hanno fatto giungere a media amici. Questo attacco alla CIA toglie per il momento dai riflettori Trump e il suo entourage; e rafforza la capacità del Presidente di rimettere le redini a un mondo dell’intelligence che pare costituire oggi uno dei principali ostacoli alla sua azione.
Il Mattino, 8 marzo 2017
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Trump e la Corte Suprema

Per certi aspetti era la nomina di Trump più attesa e importante, quella del nono membro della Corte Suprema. E scegliendo Neil Gorsuch – giudice della Corte d’appello del Colorado – il Presidente ha compiuto una scelta scontata, ma non banale. Gorsuch non solo ha uno straordinario pedigree (studi universitari a Columbia, dottorato a Oxford, Law School a Harvard nello stesso anno di Obama), ma pur facendo propri assiomi classici del conservatorismo giuridico sembra essere figura meno ideologica e di rottura rispetto ad altri nomi considerati. È anche lui, come Antonin Scalia il giudice che dovrebbe sostituire, un “originalista”: convinto, cioè, che qualsiasi valutazione di costituzionalità debba essere ispirata da uno sforzo di comprensione di quale fosse l’intento originale dei padri costituenti. Una giurisprudenza delle intenzioni originarie, questa, che rigetta o quantomeno qualifica l’idea della Costituzione come documento vivente e flessibile: come scheletro - essenziale e vago - da aggiornare, interpretare, storicizzare. L’“originalismo” di Gorsuch si coniuga con sue posizioni care a quella destra religiosa che di Trump ha a lungo diffidato, ma che lo ha infine votato massicciamente anche perché spinta dalla promessa di nominare un giudice che abbia posizioni simili sui temi etici, a partire dall’aborto. Anche su questo, però, i convincimenti di Gorsuch paiono essere meno netti (o nettamente definibili) di quelle di altri candidati; il suo legame con Anthony Kennedy, la figura più centrista, politicamente e giuridicamente, dei nove, contribuisce infine ad alimentare l’idea che Gorsuch possa essere giudice più indipendente di quanto non si creda.
Cosa ci si può attendere, quindi, rispetto al processo di approvazione della nomina, agli equilibri interni alla Corte e all’inevitabile, invero centrale, dimensione politica di tutto ciò?
In un altro contesto, la scelta di Gorsuch difficilmente avrebbe incontrato ostacoli insuperabili al Senato. E Trump ha fatto di certo del suo meglio per soddisfare una parte del suo elettorato senza per questo offrire appigli alla controparte. Ma i tempi che corrono non sono normali. La polarizzazione e lo scontro hanno raggiunto livelli di guardia. Soprattutto, la nomina segue un lungo stallo durante il quale i repubblicani – in uno dei loro tanti atti d’ostruzionismo di questi otto anni – hanno impedito la discussione e il voto sul giudice designato da Obama, Merrick Garland. In Commissione Giustizia non vi saranno problemi. In aula, però, servono 60 voti su 100 per porre termine alla discussione e procedere alla ratifica e i repubblicani ne hanno solo 52. Gorsuch diventerà, anzi è già diventato, oggetto di una battaglia politica e pubblica; il processo di ratifica sarà un’occasione per una chiamata alle armi dei democratici: per ricompattarsi e rispondere ai repubblicani con la stessa moneta usata da questi contro Obama. La prossimità di Gorsuch a Kennedy – per il quale lavorò da giovane - e la sua età (solo 49 anni) forniscono motivazioni aggiuntive agli avversari di Trump. L’ottantenne Anthony Kennedy sembra valutare un pensionamento che l’ingresso nella Corte di un suo pupillo potrebbe accelerare, offrendo al Presidente la possibilità di una seconda nomina e di uno stravolgimento a favore dei conservatori degli equilibri di questa istituzione cruciale.
La Corte Suprema non solo definisce la costituzionalità ultima dei provvedimenti esecutivi e legislativi, offrendo un fondamentale contrappeso agli altri due poteri. Con le sue decisioni essa è risultata decisiva nell’attivare processi che hanno modificato in profondità il corso della storia statunitense, dalla segregazione all’aborto, per citare casi recenti tra i più noti. I giudici sono nominati a vita e un Presidente può con le sue scelte lasciare un imprint duraturo e profondo (tale fu il caso di Reagan, che nominò ben sei giudici, uno dei quali – Kennedy appunto – ancora in carica). La partita che si apre quindi è fondamentale e dalle altissime implicazioni politiche, simboliche e pratiche. E aggiunge un ulteriore fattore d’inasprimento a uno scontro e una fattura che pare farsi ogni giorno più profonda.
Il Mattino, 2 febbraio 2017
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La notte della ragione

Crudele; inutile; pericoloso. È questo l’ordine esecutivo promulgato da Donald Trump che blocca a tempo indeterminato l’accesso negli Usa di rifugiati siriani, e temporaneamente (rispettivamente quattro e tre mesi) quello di tutti i rifugiati o d’immigrati e possessori di visti provenienti da sette paesi considerati a rischio (Libia, Iran, Iraq, Sudan, Yemen, Siria e Somalia). È crudele, questa misura, perché colpisce indiscriminatamente sia chi – le vittime di una catastrofe umanitaria drammatica come quella siriana – più avrebbe bisogno oggi di protezione sia decine, forse centinaia di migliaia di uomini e donne che negli Usa risiedono legalmente, lavorano, studiano e pagano le tasse. È inutile e finanche stupido perché nessun cittadino dei paesi colpiti dal provvedimento è stato autore di attentati sul suolo statunitense negli ultimi quarant’anni: nati e cresciuti negli Usa (e di origine afghana e pakistana), ad esempio, erano gli autori degli ultimi attentati di San Bernardino e Orlando; sauditi (per la quasi totalità), egiziani, libanesi e degli Emirati Arabi Uniti furono i terroristi dell’11 settembre. Pericoloso, infine, perché getta benzina sul fuoco, dentro e fuori gli Stati Uniti: spacca e polarizza un paese di suo lacerato e diviso; produce un ulteriore strappo a un ordine mondiale sempre più instabile e precario; alimenta l’idea di un inconciliabile scontro di civiltà e di religione della quale si nutre il terrorismo fondamentalista.
Perché è stato emanato oggi un provvedimento simile, in fretta e grande approssimazione tanto da far mancare le più basilari indicazioni alle autorità, in primis aeroportuali, responsabili per la sua attuazione? Tre risposte possono essere offerte.
La prima è che Trump è consapevole di avere a disposizione un capitale politico destinato ad affievolirsi: di avere delle possibilità che nei mesi e negli anni a venire si ridurranno. In parte ciò è normale e fisiologico per qualsiasi presidenza; in parte è il prodotto di alcune evidenti peculiarità della situazione attuale. Trump è Presidente entrante straordinariamente impopolare; è inviso a una parte non marginale dell’establishment del suo partito; dispone di una maggioranza assai risicata al Senato. I repubblicani al Congresso hanno delle priorità – su tutte tagli alle tasse e nuova deregulation – che impongono una collaborazione col Presidente anche su temi che interessano meno o rispetto ai quali molti loro esponenti hanno un’opinione diversa. Questa collaborazione forzosa non è destinata a durare per sempre; ottenuto ciò che vogliono, diversi membri repubblicani del Congresso potrebbero allontanarsi dall’amministrazione o assumere posizioni più indipendenti. Il Presidente agisce così oggi perché teme di non poterlo fare più, quantomeno con le stesse modalità, domani.
La seconda spiegazione è che Trump di scontro e conflitto si nutre: è prodotto e causa della frattura, sempre più profonda, che lacera l’America. Quest’ordine esecutivo, così come i suoi ultimi, sconcertanti commenti sulla possibilità di reintrodurre la tortura negl’interrogatori di terroristi o sospetti tali, servono anche a galvanizzare quell’America che lo ha spinto alla Casa Bianca. Hanno la funzione di alzare la soglia della tensione in un meccanismo perverso in virtù del quale per una parte di paese la legittimazione di Trump passa attraverso la contrapposizione assoluta e non mediabile con un avversario caricaturato come traditore e non-americano. È una chiamata alle armi del suo elettorato in una sorta di campagna permanente in assenza della quale il Presidente rischierebbe una normalizzazione per lui politicamente non sostenibile.
E questo ci porta alla terza e ultima spiegazione che sono Trump e il trumpismo stessi. Contestualmente all’ordine esecutivo il Presidente ha annunciato la riorganizzazione di una delle strutture chiave dell’esecutivo – il Consiglio di Sicurezza Nazionale – con l’inclusione del suo principale consigliere, il giornalista Steve Bannon, e la marginalizzazione del direttore dell’intelligence nazionale e dei capi di Stato Maggiore. Una decisione che segnala la forte volontà di centralizzare alla Casa Bianca il processo decisionale in materia di sicurezza e di dare ancor più voce a chi, come Bannon, simboleggia come pochi altri quell’America bianca e iper-nazionalista che ha trovato in Donald Trump il suo improbabile profeta. Fuor di parafrasi, l’ordine esecutivo di Trump è il prodotto di un razzismo che la sua corsa alla Casa Bianca ha cavalcato e infine sdoganato.
Ma è davvero un segnale di forza questo suo provvedimento? È lecito avere dei dubbi, come evidenziano le manifestazioni spontanee e massicce in diverse parti del paese e la parziale sospensiva dell’ordine esecutivo subito promulgata da un giudice federale di New York. La mobilitazione pubblica e l’azione giudiziaria – la partecipazione democratica e le garanzie costituzionali, in altre parole - sono le leve di cui dispone l’opposizione a Trump: alla sua grossolana demagogia e al rischio di un’inimmaginabile deriva autoritaria.
Il Mattino, 30 gennaio 2017
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Trump e il suo nazionalismo non eccezionalista

Le proposte di politica estera di Trump, e il discorso per il tramite del quale vengono illustrate, formano una miscela decisamente eccentrica rispetto ai canoni dell’internazionalismo statunitense per come lo abbiamo conosciuto dalla Seconda Guerra Mondiale a oggi. Tre sono le categorie che aiutano a sintetizzare queste proposte: protezionismo, nazionalismo e anti-interventismo. Protezionismo in materia di politiche commerciali, con l’abbandono dei dogmi del globalismo libero-scambista abbracciati da tutte le amministrazioni statunitensi dell’ultimo quarantennio. Nazionalismo nell’affermazione – mai così smaccata e urlata – che venga prima l’America: che in un’arena internazionale dove prevalgono competizione e antagonismo, sia compito di chi guida gli Usa anteporre senza scrupoli gl’interessi statunitensi. Anti-interventismo nel rigettare l’idea che gli Usa debbano agire fattivamente per promuovere democrazia, diritti umani e libero mercato, se necessario ingerendo negli affari interni di altri paesi.
Non si tratta, come spesso si afferma, d’isolazionismo. Perché non è, quella dell’isolamento, un’opzione data all’unica superpotenza dell’ordine internazionale corrente, con la sua impareggiabile proiezione militare globale e le sue mille relazioni finanziarie e commerciali. E perché la categoria stessa, come gli storici sanno bene, è abusata e il più delle volte poco utile per capire l’azione internazionale degli Stati Uniti. È, appunto, un nazionalismo radicale ed estremo. Che si lega a un’idea ben precisa, normativa e prescrittiva, di cosa gli Stati Uniti siano e debbano essere: della loro identità primaria di paese bianco e cristiano. E che rigetta al contempo molti degli assunti storici dell’eccezionalismo statunitense, su tutti che gli Usa non siano solo una realtà da osservare e ammirare, ma un modello – di democrazia, modernità e libertà – da replicare: un “impero della libertà” nel celebre slogan del terzo Presidente Thomas Jefferson, che dal centro nordamericano si può estendere al mondo intero. Un nazionalismo anti-eccezionalista, quello trumpiano, nel quale sottotraccia (e talora palesi) corrono profonde pulsioni xenofobe; che affonda le sue radici in una parte della tradizione politica statunitense, ma che mai ha avuto a sua disposizione le chiavi della Casa Bianca e che negli ultimi settant’anni è apparso sempre più marginale. Che sembrava essere stato sconfitto dalla storia.
Come sia potuto riaffiorare oggi, dopo otto anni di Obama, è questione sulla quale studiosi e commentatori s’interrogheranno a lungo. Non si può, però, non essere scettici sulla praticabilità delle ricette trumpiane. Gli Stati Uniti si trovano al centro di quel reticolo di relazioni che Trump si propone di recidere. Non vi sono scorciatoie unilaterali, ad esempio, rispetto a quell’azione contro la proliferazione nucleare che ha sortito risultati assai importanti per il tramite di accordi collettivi. Non possono pensare, gli Usa odierni, di liberarsi rapidamente di una dipendenza fattasi macroscopica da crediti e investimenti esteri. Né di preservare un ampio livello di consumi interni scatenando guerre commerciali che alzerebbero di molto il costo dei tanti prodotti importati. Né, infine, di continuare a beneficiare dello straordinario privilegio dato dall’egemonia del dollaro seguendo i dettami autarchici e protezionistici di Trump. Il mondo odierno, con le sue storture e contraddizioni, gli Usa lo hanno fatto e al loro centro si sono collocati. Possono cercare di correggerne e modificarne alcune coordinate, non certo di scardinarlo come Trump propone di fare.
Il Giornale di Brescia, 24 gennaio 2017
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Trump e il lascito di Obama

È raro che un Presidente uscente abbia dei tassi di approvazione assai maggiori di quello entrante. Il secondo solitamente gode di un’apertura di credito che gli garantisce una sorta di luna di miele iniziale con l’opinione pubblica. I sondaggi indicano però come gl’indici di popolarità di Obama siano oggi di 15/20 punti superiori a quelli di Trump. È solo una delle tante anomalie di questo passaggio di consegne. Che impone una riflessione su quanto, e soprattutto come, l’elezione di Trump abbia costituito una reazione a otto anni di Obama: ai suoi fallimenti e forse ancor più ai suoi successi.
Trump è il prodotto di una frattura – di una polarizzazione politica e culturale – che la sua conquista della Casa Bianca ha ulteriormente acuito. Quella divisione Obama aveva promesso di ricomporre. Tutta la sua retorica politica, a partire dal famoso discorso della convention democratica del 2004, è stata centrata sulla necessità, e possibilità, di riportare queste due Americhe a parlare tra di loro: di riattivare quella koiné repubblicana condivisa che permettesse di riconoscere le ragioni della controparte e il raggiungimento dei necessari compromessi bipartisan. Su questo Obama ha fallito e Trump e il trumpismo ne sono il prodotto. Negli ultimi otto anni la divisione si è fatta ancor più intensa e con essa si è radicalizzato un processo di delegittimazione reciproca che contribuisce a spiegare la straordinaria impopolarità del neo-Presidente. Ha fallito, Obama, perché si è dovuto confrontare con avversari repubblicani disposti a promuovere politiche ostruzionistiche che, numeri alla mano, non hanno precedenti nella storia del paese. Politiche che si sono a loro volta intrecciate con la mobilitazione, radicale e certo inattesa, di un pezzo non marginale di America bianca contro il primo presidente nero. Ma ha fallito, Obama, anche perché ha sottovalutato inizialmente la portata di questi ostacoli; nella sua incessante ricerca di una mediazione con gli avversari, e in alcune sue capitolazioni nel braccio di ferro col Congresso, ha rivelato una debolezza e un deficit di leadership presidenziale che hanno finito solo per rendere più rigidi i suoi avversari.
Trump, però, rappresenta anche, se non soprattutto, una reazione ai successi di Obama. Ci vuole certo una dose non marginale di pregiudizio ideologico per non riconoscere i buoni risultati ottenuti dalle politiche economiche e sociali delle sue due amministrazioni. Queste politiche sono state integrate da uno sforzo di ampliare e rendere più inclusivo il perimetro dei diritti civili e sociali. Dalle unioni omosessuali all’impegno per il superamento del differenziale di retribuzione (a parità di mansioni) tra uomini e donne, dai provvedimenti per ridurre la diseguaglianza fino alla difesa di minoranze vittime di politiche anti-criminalità spesso assai discriminatorie, Obama ha ottenuto risultati rilevanti per una parte d’America e assai difficili da accettare per un’altra. Anche qui la frattura non solo non è stata ricomposta, ma si è accentuata, come tutte le analisi disaggregate del voto di novembre hanno mostrato.
Trump è ora chiamato a modificare, o annullare, riforme che i suoi elettori ritengono premino gl’immeritevoli con forme di assistenzialismo immotivato e oneroso, per lo Stato e per i contribuenti: per quell’America operosa e onesta che, nelle rappresentazioni di tanti avversari di Obama, si contrappone a quella che le sue politiche avrebbero invece sussidiato e privilegiato. E proprio il successo o meno di questo sforzo che ci dirà quanto profondo sarà il lascito di Obama. Perché la storia americana indica come le presidenze più incisive siano state quelle che hanno prodotto cambiamenti non reversibili nemmeno quando la Casa Bianca è caduta nelle mani dei loro critici più implacabili (i repubblicani, ad esempio, denunciarono con asprezza molte delle riforme sociali del New Deal di Roosevelt senza però poi riuscire a cancellarle). Sarà insomma Trump a dirci se e quanto Barack Obama sia stato un grande Presidente; se la sua eredità – a partire dalla riforma sanitaria (Obamacare) ormai associata al suo nome – sia destinata a reggere e consolidarsi ovvero a essere travolta con la nuova amministrazione repubblicana.
Il Messaggero 20 gennaio 2017
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Inauguration Day

No, nemmeno l’occasione – i suoi rituali consolidati, il suo cerimoniale orgoglioso, la sua proiezione globale – è riuscita a rendere un po’ più presidenziale Donald Trump. Chiudendo gli occhi e ascoltando le parole del neo-Presidente si sarebbe potuto credere di trovarsi ancora in Michigan o in Wisconsin, in un comizio della campagna elettorale. Il tono pugnace e veemente; il lessico rozzo, autoritario e approssimativo; la retorica aggressivamente nazionalista, incapsulata nello slogan trumpiano per eccellenza: la promessa di “rendere nuovamente grande l’America” (to make America great again). Questa visione iper-nazionalista di Trump è stata articolata attorno a quattro assi fondamentali, che in una certa misura la rendono peculiare ed eccentrica rispetto a quelle di tutte le presidenze moderne.
Il primo è l’impegno a promuovere una svolta drasticamente protezionista in economia. “Seguiremo due regole: comprare americano, assumere americani (buy American; hire American)”, ha promesso Trump, calcando ancor più la mano su uno dei temi centrali del suo messaggio elettorale. Con una lettura della storia a dir poco discutibile, Trump è tornato a denunciare i processi d’integrazione economica globale dell’ultimo cinquantennio come nocivi per gli Usa: come fattori d’indebolimento di un paese troppo ingenuo e generoso, e quindi frequentemente derubato da avversari più cinici, capaci e scaltri.
Il secondo asse è rappresentato dall’unilateralismo. L’impegno a proteggere l’America e gli americani dalla concorrenza sleale, e a rilanciare quindi l’industria statunitense, poggia sulla disponibilità, se non la necessità, ad agire unilateralmente. Non vi è stata menzione della comunità internazionale e solo un breve cenno alle alleanze di cui gli Usa fanno parte. Le relazioni internazionali sono state invece presentate come un’arena di competizione e conflitto: un sistema anarchico dove ognuno cerca di massimizzare i propri obiettivi a discapito di quelli degli altri. “È un diritto di tutte le nazioni anteporre i propri interessi”, ha affermato Trump. Una lettura, questa, assai lontana dai dettami basilari dell’internazionalismo statunitense, repubblicano e democratico, secondo i quali è compito e responsabilità degli Stati Uniti intervenire nelle vicende mondiali per indirizzarne il corso in accordo con i propri principi e valori.
Terzo asse: un populismo anti-establishment dal quale il discorso ha preso le mosse. Un attacco a Washington e a una politica corrotta e auto-referenziale che avrebbe rubato l’America agli americani. “Non stiamo solamente trasferendo il potere da un’amministrazione all’altra”, ha affermato Trump “stiamo trasferendo il potere da Washington e lo stiamo restituendo a voi, il popolo”. Un populismo, quello di Trump, che suona in una certa misura stridente sulle labbra tanto di un Presidente quanto di un miliardario, ma che evidentemente tocca corde profonde nel paese.
Quarto e ultimo: una riflessione tutta centrata sull’idea che gli Usa soffrano di un declino cui Obama non solo non avrebbe dato risposta, ma che le sue politiche avrebbero attivamente, e colpevolmente, accelerato. Con una sconcertante iperbole, Trump ha parlato di una “carneficina dell’America” (American carnage) in riferimento allo stato in cui gran parte del paese verserebbe, a partire dalle sue città infestate dalla criminalità, “dalle droghe e dalle gang che troppe vite” avrebbero “rubato”.
Non è ovviamente così. Tutti gl’indicatori mostrano come l’America sia oggi assai più sicura, e le sue città più vivibili, rispetto a qualche anno fa. Ma nel mondo della post-verità in cui Trump pare spesso abitare questo conta poco o nulla. Il tutto sembra però rendere assai poco realistiche le promesse del neo-Presidente, sul piano della politica interna così come di quella internazionale. Da domani si volta pagina. La retorica potrà anche rimanere invariata, ché Trump ha dimostrato ieri di non conoscere altro linguaggio; la quotidianità della politica e dell’interazione con il Congresso imporrà però a Trump un bagno di realismo da cui in ultimo dipenderà il successo o meno delle sue politiche.
Il Mattino, 21 gennaio 2017
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Il Farewell Address di Obama

Barack Obama si è congedato con un discorso di commiato solido e dotto, anche se forse meno trascinante di altri suoi interventi, fatto salvo il ringraziamento commosso a una Michelle che questi otto anni alla Casa Bianca hanno reso figura pubblica sempre più forte e riconosciuta. Nel salutare il paese, Obama ha offerto una summa di quella che è, ed è stata durante i suoi due mandati, la sua visione della democrazia statunitense.
Una visione e una retorica, queste, dove costante è la tensione – poco politica e molto accademica – tra un ottimismo tipicamente liberal e progressista e la ribadita consapevolezza che nulla è scontato, nemmeno la tenuta della più antica democrazia del mondo. La fiducia nella forza inclusiva dell’esperimento repubblicano statunitense, nel suo inarrestabile incedere verso una perfezione ultima agognata e mai raggiungibile, si combina così con la sottolineatura della sua intrinseca fragilità. Come in altri grandi farewell address del passato, a partire dal primo di George Washington del 1796, quello di Obama ha rappresentato al tempo stesso una celebrazione della grandezza degli Stati Uniti e un monito sulla loro vulnerabilità. Obama ha meticolosamente elencato i pericoli con cui il paese è chiamato a confrontarsi, senza mai menzionare chi, Donald Trump, agli occhi dei suoi sostenitori e di una metà del paese quelle minacce incarna e ha saputo sfruttare. Ha evidenziato la persistenza di una frattura razziale che lacera il paese e che rende risibili le illusioni, e il lessico, “post-razziali” che avevano seguito l’elezione del 2008, quando molti, troppi pensarono che una pagina fosse stata per sempre chiusa. Ha sottolineato come la polarizzazione politica non solo danneggi l’efficacia del processo legislativo (i congressi dell’era obamiana sono stati tra i meno produttivi di sempre), ma renda impossibile quel dialogo e confronto sui quali si deve reggere qualsiasi sistema democratico, a maggior ragione in un modello di presidenzialismo debole e poteri divisi e decentrati come quello americano. Non ha mancato di sottolineare i guasti di un sistema ormai orizzontale e non filtrato di accesso alle informazioni, dove verità e menzogna diventano indistinguibili e ognuno può trovare rapida conferma dei propri pregiudizi e convinzioni. Ha ricordato, Obama, quanti danni possa fare la strumentalizzazione di pericoli esterni alla sicurezza del paese che certo esistono, ma che possono essere gestiti entro una cornice rispettosa dei diritti umani e della legalità. Ed è tornato su un tema, quello della diseguaglianza, al centro di molti dei provvedimenti della sua amministrazione a partire da quella riforma sanitaria che costituirà nei mesi a venire terreno cruciale di battaglia politica.
È stato, lo si è detto, un saluto dotto e sofisticato. Non banale. Ma Obama in questi otto anni banale raramente lo è stato, qualsiasi sia il giudizio su un’azione di governo caratterizzata da successi cui il tempo forse renderà merito, ma anche da inevitabili chiaroscuri ed evidenti errori. Perchè tra i tanti lasciti delle presidenze Obama ve ne sono due, forse meno tangibili di altri e però ugualmente importanti, che questo discorso ha ricordato. Il primo è la straordinaria dignità portata alla Casa Bianca dal primo presidente nero e dalla sua famiglia. Dopo gli scandali clintoniani e la sconcertante inadeguatezza politica e intellettuale di George Bush, con Obama l’ufficio presidenziale ha visto ripristinato quel prestigio che aveva in parte perduto. A fronte di attacchi spesso pregiudiziali e volgari – si pensi solo alla controversia sul suo luogo di nascita e alla tesi, sostenuta da Trump per primo, che Obama fosse un occupante abusivo della Casa Bianca – il Presidente ha mantenuto un decoro e una compostezza che anche molti avversari gli hanno dovuto infine riconoscere. Nel farlo, e questo è il secondo lascito, ha trattato con grande serietà sia la politica sia quei cittadini cui si è rivolto sempre con attenzione e rispetto. I discorsi sofisticati e complessi di Obama – così lontani dalla piacioneria dei tweet, del lessico che banalizza invece di spiegare, delle battute – ci ricordano cosa possa e debba essere la buona politica e offrono forse un antidoto ai tanti demagoghi che sulla crisi e le colpe della cattiva politica invece crescono e prosperano.
Il Mattino/Il Messaggero, 12 gennaio 2017
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Hackeraggi ed elezioni

Questo primo rapporto pubblico degli apparati d’intelligence statunitensi sembra lasciare pochi dubbi sulla portata dell’ingerenza russa nell’ultima campagna elettorale per la Presidenza e il Congresso. Non vi sono prove di un’azione finalizzata a manipolare e contraffare direttamente il voto. Si afferma però che hackers riconducibili ai servizi russi abbiano violato gli account del comitato nazionale e di quelli locali del Partito Democratico, divulgando su appositi siti e via Wikileaks documenti riservati e in alcuni casi compromettenti con l’obiettivo di danneggiare Hillary Clinton e altri candidati democratici. Pur avendo penetrato anche la posta elettronica del comitato repubblicano, hanno invece deciso di non rendere pubblici i suoi documenti. L’obiettivo – dicono CIA, FBI e NSA (la National Security Agency che si occupa delle comunicazioni elettroniche) – era evidentemente quello di aiutare Donald Trump a conquistare la Presidenza.
Inevitabile a questo punto è chiedersi cosa abbia spinto Mosca a promuovere un’azione tanto spregiudicata quanto difficilmente occultabile e quali possano essere le conseguenze per l’amministrazione Trump che s’insedierà tra poco meno di due settimane.
Alla prima domanda possono essere date quattro risposte, in una certa misura complementari tra di loro. Innanzitutto, quello russo è un ostentato sfoggio di potenza. Certo le armi utilizzate – la pirateria informatica – sono un po’ quelle degli straccioni e non potrebbe essere altrimenti per un paese in pesante sofferenza, come tutti i dati economici rivelano, e che dispone di un “soft power” – di una capacità di proiettare globalmente il proprio modello culturale e politico – prossimo allo zero. Nondimeno, poter rivendicare la capacità di condizionare il processo democratico dell’unica superpotenza rimasta è medaglia da ostentare e precedente da brandire anche in altri contesti – la Francia e la Germania vengono subito in mente – dove le elezioni si avvicinano.
La seconda spiegazione è che si tratti di una rappresaglia per le ingerenze che gli Stati Uniti stessi hanno messo in atto, in Ucraina nel 2013-14 e nella stessa Russia un paio d’anni prima. All’epoca ONG legate al dipartimento di Stato e settori del medesimo rivendicarono in modo spregiudicato (e non poco naif) la possibilità per gli Usa di sostenere le opposizioni a Putin o di usare l’Ucraina per indebolire il Presidente russo. Il quale ha probabilmente vissuto questo ciclo elettorale come un’opportunità per ripagare Washington con quella che ritiene essere la stessa moneta.
Nel farlo ha di certo minato ancor di più la credibilità di una democrazia, quella americana, già di suo indebolita da una polarizzazione politica e culturale che ormai spacca il paese, ne paralizza il processo legislativo e rende ancor meno efficiente la gestione della cosa pubblica. È questa la terza spiegazione che può essere offerta: la volontà di screditare gli Stati Uniti e il loro modello politico, alimentando le divisioni esistenti nel paese.
Quarto e ultimo: la possibilità di portare alla Casa Bianca Donald Trump. Qualcuno che al meglio è maggiormente sensibile agli interessi russi e al peggio rappresenta un interlocutore più malleabile e gestibile rispetto a Barack Obama e, ancor più, a una Hillary Clinton fattasi nel tempo ferocemente anti-russa.
Donald Trump si trova ora in una posizione assai delicata. Minimizzare la portata dell’ingerenza russa – di fronte alle certezze degli apparati d’intelligence – lo espone sia al rischio di uno scontro con un ampio fronte politico, che include molti pesi massimi repubblicani, sia all’accusa di essere quell’“utile idiota” che Putin auspicava di avere alla Casa Bianca. Ammettere che Mosca abbia agito apertamente per aiutarne l’elezione significa però accettare una sorta di delegittimazione preventiva e vedere drasticamente ridotto il capitale politico di cui il Presidente eletto oggi dispone, in particolare nei rapporti col suo stesso partito. È una situazione che indebolisce oggettivamente Trump. E forse era questo – far vincere un candidato da subito fragile e vulnerabile - il quinto e ultimo obiettivo di Putin e dei suoi.
Il Mattino, 8 gennaio 2017
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Scontri di debolezze

Trentacinque diplomatici (e funzionari dell’intelligence) russi espulsi dagli Usa; nuove sanzioni economiche; la promessa di promuovere una rappresaglia con strumenti clandestini che non possono essere rivelati. A poche settimane dalla fine del suo secondo mandato, Obama ha deciso di rispondere duramente agli atti di cyber-terrorismo che si asserisce Mosca abbia promosso per condizionare l’andamento delle elezioni americane, danneggiando non solo Hillary Clinton ma anche numerosi candidati democratici al Congresso.
Da più parti si parla ormai di nuova Guerra Fredda. Come tante repliche di storie già vissute, se di Guerra Fredda si tratta – e lo storico non può che nutrire molti dubbi al riguardo – è una Guerra Fredda assai farsesca e un po’ stracciona.
Da un lato abbiamo una potenza che fu, la Russia, che flette i muscoli e ostenta una presunta, abile realpolitik anche per occultare le tante magagne e debolezze di cui soffre. Stiamo parlando di un paese dall’economia fragile e dipendente dai prezzi, volatili, delle materie prime e delle risorse energetiche, contraddistinto da una crescita negativa nell’ultimo biennio e con un PIL pro-capite che è oggi circa un sesto di quello statunitense. Uno stato a potenza monodimensionale, nella quale rimane centrale se non esclusivo l’elemento militare e che, a dispetto della conclamata capacità geopolitica del suo leader, lotta per preservare il suo unico alleato mediorientale, la Siria, e con la crisi ucraina ha visto ancor più ridotta la sua sfera d’influenza in Europa orientale. Un paese, insomma, che per realizzare almeno parte delle sue velleitarie ambizioni di grandeur quasi abbisogna di disordine, per poter appunto spendere lo strumento primario di potenza di cui dispone. E che pare ricorrere ormai con frequenza al mezzo dei poveri del sistema internazionale: il cyber-terrorismo e la pirateria informatica, che hacker russi hanno dispiegato anche contro imprese e siti di e-commerce statunitensi.
Dall’altro vi è una potenza incommensurabilmente superiore, qualsiasi sia il parametro utilizzato per misurarla e definirla. Una superpotenza, quella statunitense, che in questa vicenda si dimostra però anch’essa assai fragile e vulnerabile, contraddistinta com’è da un livello interno di polarizzazione e scontro che agevola ingerenze esterne capaci addirittura di condizionarne le dinamiche elettorali, rischiando di inquinare, e in una certa misura screditare, la sua stessa democrazia. Gli apparati di sicurezza e intelligence mostrano a loro volta una significativa debolezza, inadeguati come sembrano essere stati nel proteggere il paese da questi atti di terrorismo informatico. Il tutto, in un contesto in cui stando ai sondaggi crescerebbe l’ammirazione di molti americani, soprattutto repubblicani, per Vladimir Putin, uomo forte e decisionista da contrapporre – come Trump spesso ha fatto in campagna elettorale – alla debolezza e corruzione della classe politica statunitense (secondo un recente sondaggio dell’Economist, tra il 2014 e il 2016 la percentuale di elettori repubblicani che giudicano positivamente il Presidente russo sarebbe passata dal 10 al 37%).
Nella rappresentazione pubblica di questo scontro di debolezze, entrambe le parti – Putin e Obama – stanno cercando di trarre il massimo vantaggio politico possibile. Si può quasi ipotizzare che la crisi attuale non dispiaccia loro. Nel caso del Presidente russo, la semplice idea che egli possa condizionare il processo elettorale negli Stati Uniti gli conferisce ulteriore credibilità come principale antagonista della superpotenza statunitense e gli permette di sfruttare un’ostilità interna a Obama che – sondaggi alla mano – sembra essere oggi elevatissima in Russia. È un utile strumento di costruzione del consenso interno, insomma, con cui occultare anni di mal governo e corruzione.
Nel caso di Obama, i provvedimenti adottati contro la Russia sembrano avere anche la funzione d’imbrigliare Donald Trump. Che nei mesi a venire dovrà gestire una questione politicamente delicata, sulla quale la stessa leadership repubblicana al Congresso sembra intenzionata a dare battaglia. Perché quella dell’hackeraggio russo, se confermata, rischia davvero di diventare una spada di Damocle per il Presidente eletto. Che potrebbe essere utilizzata per limitarne la libertà di manovra ovvero per sabotare la sua dichiarata intenzione di migliorare i rapporti con Mosca. Ma forse, tra gli obiettivi di Putin vi era anche quello di ritrovarsi da subito con un presidente più debole e delegittimato di Obama e di Hillary Clinton.
Il Mattino 31 dicembre 2016
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L’amministrazione Trump tra Cina, Russia e Medio Oriente

All’aprirsi del nuovo anno, tre appaiono essere le aree cruciali, e i teatri potenziali di crisi e tensione, dell’ordine internazionale. Il primo è rappresentato da quello spazio transpacifico – da quell’“Asia-Pacifico” nello slang geopolitico corrente – sul quale ha cercato di concentrarsi in questi anni l’amministrazione Obama. È qui che corrono profonde e contraddittorie alcune delle interdipendenze cruciali delle relazioni internazionali contemporanee, alimentate da un dinamismo economico regionale senza pari. Ed è qui che nell’ultimo decennio è andata costituendosi una doppia egemonia non necessariamente antagonistica, ma neanche naturalmente complementare: quella commerciale cinese e quella securitaria statunitense. La Cina è diventata infatti il principale partner in termini d’import/export di quasi tutti gli stati dell’area oltre che la fonte primaria degli investimenti diretti esteri in molti di essi; gli Usa hanno però visto rafforzata la loro funzione di garanti della sicurezza di tali paesi, spesso spaventati dalla prospettiva di una dipendenza (e di una conseguente subalternità) nei confronti del colosso cinese. Il tutto è avvenuto in un contesto di bassa istituzionalizzazione multilaterale: in assenza cioè di una rete di norme e accordi capaci di garantire forme solide e rispettate di governance regionale. Gli stessi Usa hanno esercitato (ed esercitano) il proprio ruolo di fornitori di sicurezza attraverso vari accordi bilaterali – il più importante dei quali è quello storico con il Giappone – e in assenza di strutture e modelli più ampi simili a quelli costruiti con la Nato nello spazio transatlantico.
E questo ci porta al secondo teatro nodale, che si colloca nel centro dell’Eurasia: in quell’Europa orientale che è stata cuore e soggetto di tante drammatiche crisi dell’ultimo secolo. L’illusione che con la fine della Guerra Fredda essa potesse essere pacificata e rapidamente assorbita dentro una più ampia cornice europea non è durata a lungo. La crisi georgiana del 2008 e ancor più quella ucraina del 2013-14 hanno rivelato le tante fragilità che attraversano la regione. Gli errori di un processo di allargamento della Nato mal pianificato e gestito e il contestuale riemergere di un aggressivo revanscismo russo hanno fatto morire il progetto d’integrare Mosca in un nuovo ordine paneuropeo. Nel mentre, l’involuzione quasi-autoritaria di alcuni stati come Ungheria e Polonia mette in discussione alcuni dei pilastri ideali e identitari del modello d’integrazione europea. Il tutto avviene con il parallelo indebolimento del collante securitario transatlantico, con una Nato ormai da più di due decadi in cerca di una ragione (e di una missione) che ne giustifichi l’esistenza, élites transatlantiche sempre più fragili e screditate – negli Usa come in Europa – e asimmetrie di capacità (e spese) militari tra gli Stati Uniti e i loro alleati europei profonde e ormai strutturali, che rendono risibile l’idea di una effettiva integrazione militare.
Terzo e ultimo: il Medio Oriente. Nel quale numerose sono le aree contraddistinte da una disfunzionalità politica che ostruisce la loro transizione verso una modernità ancora assente e sempre più lontana. E dove gli scellerati interventi statunitensi post-2001 e alcune dinamiche pregresse hanno finito per catalizzare forme radicali di conflitto settario che si sono intrecciate con antagonismi geopolitici compressi ma vivi, su tutti quello tra Iran e Arabia Saudita. Un’area, infine, in cui una delle matrici primarie di tensioni e antagonismi – il conflitto israelo-palestinese – pare ormai essere entrata in una spirale viziosa dalla quale non s’intravedono vie d’uscita.
Molteplici sono gli attori e le variabili che possono incidere su ognuno di questi tre fronti di possibile crisi e instabilità. È chiaro però che il soggetto centrale – quello le cui scelte hanno un impatto maggiore e talora dirimente – siano sempre gli Stati Uniti. Che pur soffrendo di un’inevitabile riduzione del loro peso relativo, di un declino tanto preconizzato quanto ritardato, rimangono la potenza superiore del sistema. E che in questi anni hanno esercitato un ruolo fondamentale dispiegando la loro egemonia su molteplici livelli. Sono stati i principali fornitori di sicurezza, nello spazio transatlantico così come in quello transpacifico, contenendo di conseguenza le tentazioni revansciste di alcuni stati, a partire dal Giappone. Hanno svolto il ruolo di garanti dell’accesso agli spazi globali – su tutti quelli marittimi – indispensabile per i processi d’integrazione economica globale cui abbiamo assistito. Sono stati capaci di utilizzare, con efficacia e talora spregiudicatezza, il privilegio derivante dalla loro egemonia monetaria: dal dominio di un dollaro in cui sono denominati i prezzi delle materie prime e che rimane la valuta di riserva primaria delle banche centrali. Hanno, infine, sfruttato un mercato interno vorace e bulimico per trainare una crescita globale che è dipesa grandemente da una capacità di consumo americana a debito, fortemente sussidiata dai prestiti esteri.
L’ordine americano-centrico in cui abbiamo vissuto negli ultimi tre/quattro decenni è stato fragile e contraddittorio: fondato sull’indiscusso primato militare statunitense e su una crescente propensione a farne uso, dai Balcani al Medio Oriente; basato su un modello di sviluppo nel quale centrali erano i deficit strutturali e permanenti della bilancia delle partite correnti degli Usa e il contestuale aumento del livello d’indebitamento, pubblico e privato, del paese; giustificato attraverso i codici di un internazionalismo liberale e multilaterale che celebrava i processi d’integrazione economica globale e le dinamiche libero-scambiste che vi sottostavano.
L’elezione di Donald Trump è stata anche – non solo, ma anche – una reazione al crescente manifestarsi di alcune delle ineludibili contraddizioni dell’egemonia statunitense, su tutte quei processi di delocalizzazione produttiva e de-industrializzazione che hanno colpito pesantemente alcune aree degli Stati Uniti. Articolate attorno a un mix di aggressivo unilateralismo, protezionismo, nazionalismo e ostentata realpolitik, le soluzioni che Trump propone rischiano però di esacerbare e far deflagrare quelle contraddizioni cui s’intende dare risposta.
Lo vediamo bene se torniamo ai tre teatri di crisi dai quali siamo partiti. L’idea trumpiana che la relazione con la Cina sia intrinsecamente antagonistica e competitiva cozza con una realtà delle cose nella quale le interdipendenze, e gl’interessi condivisi, tra le due parti sono assai profondi e rilevanti. La Cina è il principale partner commerciale degli Stati Uniti e il primo esportatore verso il mercato americano; rimane un cruciale investitore, che contribuisce a finanziare il debito statunitense anche se – dato rilevante e forse sottovalutato – ha nell’ultimo anno ridotto in modo rilevante (circa il 10%) la quantità di titoli del Tesoro statunitense in suo possesso. Ed ha, la Cina, un chiaro interesse a preservare quella stabilità regionale garantita dalla presenza statunitense, che è stata fondamentale nell’ascesa economica cinese dell’ultimo trentennio. Alimentare il conflitto con la Cina significa insomma non considerare le convergenze strutturali che legano i due paesi. Farlo con le modalità proposte da Trump, inoltre, rischia di attivare processi controproducenti rispetto agli obiettivi che ci si prefissa. Il protezionismo invocato dal neo-Presidente – che lo ha portato a osteggiare il trattato di libero-scambio transpacifico (TPP) negoziato e firmato da Obama (ma non ratificato dal Senato) – rischia di agevolare quell’egemonia commerciale cinese nell’Asia-Pacifico che il TPP voleva implicitamente contestare e rovesciare.
Negli schemi geopolitici trumpiani – assai rozzi e meccanici – l’asse con la Russia dovrebbe in qualche misura bilanciare l’antagonismo con la Cina. La logica che vi sottostà appare però piuttosto fragile. Diverso è il peso economico dei due attori, con una Russia in chiara difficoltà anche in conseguenza della linea adottata da Putin negli ultimi anni, con una crescita negativa del Pil e una chiara dipendenza dai prezzi, volatili e incerti, delle materie prime e delle risorse energetiche. Diverso è il livello d’interdipendenza, con una Russia che rimane partner commerciale di limitata rilevanza per gli Usa (il volume di scambi tra i due paesi è meno di un ventesimo di quello sino-statunitense). Rilevanti sono gli elementi – potenziali ed effettivi - di frizione, dall’Ucraina al Medio Oriente al rischio di una nuova corsa agli armamenti in un ambito, quello nucleare, che rimane bipolare: dove due potenze – gli Stati Uniti e la Russia appunto – si collocano in una categoria a sé stante.
Il superamento delle tensioni russo-statunitensi degli ultimi anni dovrebbe, infine, produrre effetti benefici anche nel teatro mediorientale. Pure qui, però, la linea di Trump rischia di destabilizzare più che di pacificare, di acuire i problemi invece di risolverli. Rispetto al conflitto israelo-palestinese, gli Usa possono credibilmente ambire a svolgere il ruolo di broker (l’unico oggi esistente) solo mantenendo un minimo d’imparzialità che sembra però mancare completamente nei primi atti di Trump, dalla nomina del controverso David Friedman ad ambasciatore in Israele al sostegno alla politica d’insediamenti nei territori occupati. La linea dell’intransigenza del neo-Presidente e dei membri della sua amministrazione verso l’Iran appare inoltre incongruente rispetto all’evoluzione degli equilibri di potenza regionali, contraddistinti da un chiaro aumento del peso di Teheran, all’oggettiva convergenza d’interessi tra i due paesi e alla stessa conclamata volontà di riavvicinarsi alla Russia.
Le relazioni internazionali contemporanee sono contraddistinte da complesse forme d’integrazione e interdipendenza che rendono obsoleta, e potenzialmente pericolosa, quella logica da “gioco a somma zero” che sembra invece ispirare la visione della prossima amministrazione Trump. Una logica, questa, dove al guadagno relativo di un soggetto corrisponderebbe la contestuale, ed equivalente, perdita di un altro. L’auspicio è che Trump e i suoi consiglieri lo comprendano rapidamente perché di tutto l’ordine internazionale corrente ha bisogno fuorché della trasformazione della sua principale potenza – e gli Usa ancora lo sono – in soggetto turbativo e destabilizzante.
Il Mattino, 29 dicembre 2016
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