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Chez Mimich
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Diario delle buone maniere.
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chez-mimich · 7 hours ago
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Oggi il Ministro dell'Interno ha dato l'ordine di sgombrare il Centro Sociale Leoncavallo di Milano. Lo storico centro sociale aveva avuto più ordini di sfratto e così si dirà che l'operazione era sacrosanta. Non so se lo stesso trattamento verrà riservato all'edificio romano occupato da Casa Pound, ma era ovvio che il centro sociale della sinistra antagonista fosse il più a rischio. Chi il Leoncavallo, anzi al Leonka, lo ha frequentato sa bene che con questo atto lo Stato stato, oltre a ripristinare l'ordine costituito e aver sancito le ragioni del diritto, compie un cinico gesto di soppressione e repressione nei confronti di una straordinaria fucina di cultura, un luogo leggendario della cultura underground italiana, un laboratorio politico. Non voglio annoiare nessuno con ricordi non condivisi, ma è molto più probabile che nella storia contemporanea del nostro Paese ci vada il Leoncavallo che non il ministro che lo ha voluto chiudere.
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chez-mimich · 7 days ago
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"... I membri delle attuali comunità urbanizzate e occidentalizzate possiedono appena la metà della diversità microbica rispetto ai loro antenati cacciatori-raccoglitori. La mancanza di diversità è letale.
L'epidemiologo Martin Blaser parla di "estinzione silenziosa dei microbi" e sostiene che si tratti di una minaccia per la specie umana persino più temibile del cambiamento climatico. L'architettura antibiotica non sole riduce la diversità batterica, ma favorisce anche la proliferazione di microrganismi sempre più letali e resistenti agli antimicrobici. L'ambiente costruito indebolisce la resistenza ai patogeni che esso stesso incuba. Si prevede che nei prossimi venticinque anni i decessi legati alla resistenza antimicrobica aumenteranno del 70%, diventando la principale causa di morte a livello mondiale..."
(Beatriz Colomina e Mark Wigley, "We the Bacteria. Appunti per un'architettura bioetica" in "Inequalities")
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chez-mimich · 8 days ago
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"... L'architettura occidentale è sempre stata concepita in relazione al corpo umano, più precisamente al corpo atletico del maschio bianco, disegnato e ridisegnato all'infinito, dai trattati rinascimentali. Fino ai manifesti dell'architettura moderna, da Leonardo da Vinci a Le Corbusier. Un corpo idealizzato, immerso in sistemi geometrici di proporzioni, una fantasia che esclude la maggior parte dell'umanità. Il corpo reale che l'architettura si trova a ospitare è fragile, predisposto alla malattia o già malato, ha bisogno di sostegno. L'architettura è dunque una sorta di supporto ortopedico, come una stampella o una pelle artificiale, per questa creatura delicata che deve essere mantenuta a una temperatura di 37 °C, protetta dagli agenti esterni, quanto dalle minacce interne: malattie, disturbi mentali, traumi, paure, ansia, solitudine. Utilizzando l'architettura a mo’ di bolla sanitaria protettiva, gli esseri umani si isolano da quasi tutte le altre specie, come se quelle rappresentassero una minaccia biologica ed esistenziale. L'architettura crea una separazione tra la vita interna e quella esterna, una divisione biopolitica tra le diverse forme di vita: tiene l'uomo al di fuori dell’intreccio mutevole e caleidoscopico tra specie animali, vegetali e insetti oltre che alla maggior parte degli altri uomini..."
(Beatriz Colomina e Mark Wigley, "We the Bacteria. Appunti per un'architettura bioetica" in "Inequalities")
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chez-mimich · 9 days ago
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LOVETT/CODAGNONE. I ONLY WANT YOU TO LOVE ME (parte I)
John Lovett e Alessandro Codagnone sono due artisti e performer che avrebbero meritato più attenzione di quanto l'Italietta distratta e provinciale ne abbia loro dedicata. I due artisti, legati anche sentimentalmente, si sono incontrati nel 1995 e la loro unione artistica e sentimentale è poi durata fino al 2019, anno della prematura scomparsa di Alessandro Codagnone. Difficili da collocare in uno specifico movimento artistico poiché hanno sempre fatto parte di quel mondo a cavallo tra l'Undergorund, la moda, le produzioni musicali alternative (garage-rock, punk e post-punk) e il cinema d'avanguardia, con un occhio di riguardo per un grandissimo regista del Nuovo Cinema Tedesco ovvero Rainer Werner Fassbinder (in particolare le teorie del cosiddetto Antiteatro del regista tedesco), ma anche per il Teatro della crudeltà di Antonin Artaud, sempre però fortemente attratti dalla sottocultura sadomasochista legata anche al mondo Queer. Il Pac di Milano espone molte delle loro opere più significative in una mostra (aperta fino al prossimo 14 settembre) ed intitolata "I Only Want You to Love Me", mutuando appunto il titolo da un film del 1976 proprio di Fassbinder, che sarebbe un vero peccato avere perso, soprattutto per chi ama e ha amato quegli anni che possono all'apparenza sembrare privi di grandi produzioni artistiche ma, se scandagliati a fondo, sembrano essere stati fertili quanto altri decenni della fine del secolo scorso.
Ad accogliere il visitatore è l'installazione "Love Vigilantes" del 2007 (che fu esposta al MoMa di Nyc) e che si compone di specchi e superfici oscurate di varie dimensioni che formano una sorta di skyline newyorkese. Sulle parti oscurate si leggono frasi smozzicate, tratte da poesie di Hakim Bay, filosofo, poeta (e anche un po' santone), parole evocative di sentimenti forti, amori proibiti ed inconfessabili; infatti il nucleo centrale della loro produzione può essere individuato proprio nella dialettica che circonda questo mondo delle forme di amore non convenzionale e legate anche al mondo sado-maso. Naturalmente non si tratta di mero voyeurismo da baraccone, ma piuttosto dello studio e della riflessione sulle dialettiche che si generano e rigenerano in questo tipo di rapporti, anche alla luce delle società oppressive (allora come oggi) che tendono a mettere tra virgolette tutto ciò che non rientra nella norma. Questo è per esempio molto evidente in "To Breathe in Always Even Though It Kills", una realizzazione del 2006, dove due megafoni neri e lucidi sono uniti proprio dalla parte dell'uscita del suono, rendendo così vano il tentativo di urlare la propria rabbia in contesti performativi e di protesta urbana. Nell'installazione "Truth Is Borb of the Tiimes, not Authority", costituita tre grandi cilindri metallici di filo spinato immersi nel buio e colpiti da un fascio di luce, con la presenza di una corposa colonna sonora e parole di Brecht da "Vita di Galileo", è facile vedere l'apoteosi del controllo, dell'inquisizione di una società esclusiva che colpevolizza la libertà di pensiero (e comportamentale). In mostra anche installazioni che fanno riferimento agli ambiti dello svago e allo stesso tempo ai luoghi di socializzazione della fine degli anni Settanta, (luogo simbolico per eccellenza la discoteca) , in particolare le leggendarie discoteche newyorkesi, spesso rifugio e porto sicuro per omosessuali altrove guardati con sospetto. L'opera "Death Disko: Last Dance" è proprio un riferimento diretto al simbolico rogo di dischi "dance" operato al Comiskeey Park di Chicago, dinnanzi ad una folla reazionaria e plaudente. (continua)
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chez-mimich · 9 days ago
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LOVETT/CODAGNONE ONLY WANT YOU TO LOVE ME (parte II)
(segue) L'installazione "In Darkness There Is No Sun/Light Only Brings the Fear", consiste in una scritta al neon lampeggiante (tratta dal brano “Wait for the Blackout della band post-punk” The Damned), situata in una sala completamente buia, dove gli artisti provano, e con un certo successo, ad invertire il paradigma spostando la riflessione e concependo la luce come condizione della norma e del controllo e l'ombra come zona dove il corpo e il desiderio possono sottrarsi agli sguardi normativi e alle logiche del controllo. "I Only Want You to Love Me", è una scritta gialla al neon ed è (anche) il titolo di un film del 1976, sempre di Rainer Werner Fassbinder, una richiesta di amore assoluto che non accetta compromessi: l’opera, . Fassbinder è stata una figura di riferimento del duo Lovett/Codignone, e altro non è che la riproduzione al neon e con gli stessi caratteri tipografici dell'affiche del film. Il neon, usato per la comunicazione commerciale, è solitamente legato ad una immagine notturna e si armonizza perfettamente con tutto il mondo di un Es costretto a nascondersi nella voluttà della notte. Di grande interesse la serie fotografica "Greetings" (1006), cubi fotografici di varie dimensioni con ritratti di Lovett e Codagnone in vari contesti milanesi, dalle Colonne di San Lorenzo a Via della Spiga, dove il "corpo queer" va ad inserirsi in modo disturbante per la fine degli anni Novanta, (per qualcuno ahimé ancora oggi) in cui l'omofobia non era un tabù, e rivendicare la possibilità di abitare gli spazi che storicamente avevano escluso queste contaminazioni. Sulla balconata del PAC ecco "Drift", una serie fotografica, stampata su grande o grandissimo formato, che allude alla vacuità del messaggio pubblicitario (allora veicolato dalla cartellomistica pubblcitaria): le fotografie-manifesti, infatti qui non veicolano alcun messaggio verbale-tipografico e nemmeno i soggetti evanescenti e casuali sembrano far cenno ad un prodotto da vendere. Presenti in mostra anche video realizzati degli artisti, tra i quali il magnifico "For You", dove su una piattaforma rotante Levett e Codagnone sono avvinghiati, con un coltello con due lame tra i denti e si cimentano in un quasi immobile tango, sulle note di "Libertango" di Astor Piazzolla. Per finire, non obbligatoriamente seguendo il filo conduttore espositivo, un necessario accenno a "In Dreams" (1997) dove i due artisti sono ripresi in scene di vita domestica, intrecciate con la ritualità del sadomascochismo. Mostra non ad alta digeribilità, inadatta ai "salutisi dell'arte", ma di gran gusto e capace di suscitare più d'una necessaria riflessione.
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chez-mimich · 10 days ago
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ROBERTO BONATI MADREPERLA TRIO. PARFOIS LA NUIT
La notte è per la musica una miniera inesauribile di suggestioni, tanto che è stata detta “notturno" proprio ogni composizione evocativa della notte, nella musica classica, ma non solo. Se dovessimo stilare una bizzarra classifica degli strumenti notturni, il podio spetterebbe certamente di diritto al pianoforte, non sarebbe poi un problema anche decidere quale strumento collocare al secondo posto, certamente il sax. Del resto è cosa risaputa e non credo di scoprire nulla di nuovo. E' invece un piacere scoprire il nuovo lavoro di Roberto Bonati che, proprio in onore della notte, si intitola “Parfois la nuit”. Ma non si illuda chi crede di trovarsi di fronte a composizioni consolatorie sulla scia di ciò che s’intende solitamente per “notturno”. Se il pezzo che dà il titolo all'album, in apertura prefigura tutto l'universo notturno carico di mistero, fatto di intima pace, già dal secondo pezzo, ovvero "Sogno#1 Danza d'amore", qualcosa comincia ad incrinarsi, poiché il jazz non è fatto per le facili consolazioni. Lo dicono le stesse note di copertina del disco: "Parfois la nuit est difficile,/on ne la comprend pas, parfois,/avec sa couleur, ses lumières/ses ténèbres/joyeuses, le noir de son obscurité,/le bruit de la pluie, l'aube qui viendra./Parfois la nuit est suspendue,/quelque fois elle a une grâce particulière, une beauté douloureuse./La notte, parfois mystérieuse, toujours inconnue. Ed è proprio così ed ecco allora che si presentano Roberto Bonati e il Madreperla Trio, ovvero Gabriele Fava al sassofono tenore e soprano, Luca Perciballi alla chitarra, e all'elettronica e lo stesso Bonati al contrabbasso. E se "Chiara è la notte" ci fa tornare ad uno stato interiore e sonoro di pace, col lento scorrere della notte, l'incipit di "Sogno n.2 la fuga", elide bruscamente il tempo della notte, con suoni frammentati, improvvisi come, se si volesse rifarsi sempre al tema dominante, ma con quei rumori notturni presaghi di incertezza e anche di angoscia. Per ritrovare la quiete, dopo una serie di brani come "Rosso", "Villaggio notturno" "Sogno n. 3 la caduta" "Popolare", "Sogno n.4 la notte", occorre arrivare a "Madreperla" il cui titolo lunare, lattiginoso e diafano ci riporta al tema del notturno. La notte è il mondo dell'Es che mette a tacere il fragore di Io e Super-Io, (se proprio si volesse eccedere in una lettura freudiana, cosa anche forse un po' illegittima da parte di un ascoltatore), e in temi come la caduta o la lotta emergono in particolare, le corde del contrabbasso di Roberto Bonati che sembrano scimmiottare la dialettica vibrante della lotta e qui hanno pieno diritto di cittadinanza. Anche gli "Incontri strani" dell'omonimo pezzo, sono giocati sullo stridore degli strumenti, in un crescendo che arriva quasi agli eccessi della Industrial Music, se mi è concesso un azzardo (uno dei tanti). Con "E la dipinge di blu", si torna nell’alveo delle tematiche meno sperimentali, dove persino il colore è quello del jazz e, per antonomasia, della notte. "Può amare" conclude l'album fatto di piccoli incantesimi onirici e suggestioni interiori. Il disco si può reperire su Bandcamp, piattaforma interamente dedicata a musicisti indipendenti a cui, nonostante il blasone, Roberto Bonati e i suoi musicisti appartengono a pieno titolo (e questo è davvero un gran merito).
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chez-mimich · 12 days ago
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"Il principale indicatore dell'aspettativa di vita di un individuo non è il suo codice genetico, bensi quello postale. Una realtà sconcertante che mette in risalto la profonda influenza dei fattori sociali e ambientali sulla salute e sul benessere. In ogni parte del mondo i dati sanitari rivelano enormi disparità tra quartieri, città e paesi, determinate non dalla biologia, ma dalle condizioni socio-ambienta A Chicago, per esempio, si registra un divario di ben trent'anni tra l'aspettativa di vita dei quartie più ricchi e quella dei più poveri. A Glasgow, sono ventotto anni a separare i distretti più e meno privilegiati..."
(Matilda Van den Bosch in "Inequalities", catalogo dell'omonima esposizione internazionale della Triennale di Milano)
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chez-mimich · 12 days ago
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...Per chi non avesse mai letto una sola riga del suo pensiero...
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chez-mimich · 17 days ago
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chez-mimich · 21 days ago
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Oggi il mondo ha perso Bob Wilson, regista e creatore geniale. Per qualcuno non fu un uomo di teatro, per altri fu uno dei più grandi. A me non sembra poi così fondamentale sviscerare la questione, mi basta solo tutto l'incanto e la meraviglia che ha saputo creare. Ricordo con grandissimo stupore un suo "like" ad un mio commento a "Odissey". Mi piace ricordarlo così...
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chez-mimich · 22 days ago
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THIERRY DE CORDIER, NADA
Chiunque abbia frequentato una scuola d’arte o anche chiunque si sia cimentato, non già nell’esecuzione di un dipinto o di un disegno, ma anche di uno scritto, conosce bene l’angoscia del foglio bianco; forse non si tratta esattamente di angoscia perché certamente il vuoto provoca una sensazione di estrema libertà, ma anche contemporaneamente si palesa una tensione emozionale. Ci sono artisti che hanno però operato al contrario, cioè di fronte a immagini pre-esistenti hanno cercato di ripristinare il vuoto, la quale operazione non è affatto più semplice di quella di creare dal vuoto il pieno, anzi, in un certo senso, è anche molto più complessa sia da un punto di vista concettuale che formale. Non si tratta solo di “cancellare” con una pennellata o una mano di bianco ciò a cui è stata data una forma, un colore, una profondità di campo, un significato, un simbolismo, ma di ricostituire proprio una sensazione di vuoto e di annullamento. A provarci è per esempio l’artista belga Thierry De Cordier che nella sua carriera artistica ha fatto sperimentazioni su diversi materiali e con numerosissimi materiali. Nelle tele dal titolo “Nada”, eseguite dal 1999 al 2025, De Cordier si prefigge lo scopo di effettuare una cancellazione dell’immagine e, in particolare, di una specifica immagine che nella storia delle arti ha rivestito un ruolo fondamentale, l’immagine sacra e, ancora più nel dettaglio, l’artista ha cercato di cancellare il tema della Crocefissione, con l’esplicito scopo di far percepire allo spettatore quella grandezza del nulla che ha sempre affascinato poeti e scrittori, ma anche pittori e scultori. Potrebbe sembrare un paradosso che alla ricerca del nulla e della sua grandezza ci vada un creatore, ma è altrettanto noto che, esistendo materia ed anti materia, il nulla sostanzialmente esiste. Ad ospitare queste grandiose, impressionanti ed inquietanti tele è la Fondazione Prada di Milano che, nei locali della Cisterna, ha esposto tutti e dieci i dipinti di Thierry De Cordier (la mostra è aperta fino al prossimo 29 settembre). L’artista, particolarmente legato al contesto storico e culturale spagnolo, raccoglie visivamente l’eredità delle sacre rappresentazioni di maestri secenteschi spagnoli e fiamminghi quali Rubens, Van Dyck, Zurbaran, Ribera, Murillo e Velasquez per procedere quindi ad una cancellazione della figura del Cristo Crocefisso e lo fa con amplissime campiture di colore a olio, acquarello e bitume. Il risultato è francamente piuttosto impressionante poiché, benché lo
spazio rappresentato risulti oggettivamente vuoto dal punto di vista della percezione visiva, quello spazio sembra (anche simbolicamente) anche abitato. De Cordier, che cerca spasmodicamente la cancellazione per documentare in certo senso la limitatezza dell’esistenza, finisce, a mio modo di vedere, di creare una visione fantasmatica ma potente, di ciò che è stato cancellato. Persino la scritta “Nada”, posta su quel che resta di una croce da dove è stata cancellata la figura di Gesù Cristo, in sostituzione della scritta “INRI”, non riesce, a mio parere, a convincere lo spettatore che l’operazione sia pienamente riuscita. Indubbiamente si potrebbe ascrivere il nome di Thierry de Cordier con quella serie di artisti che hanno attraversato obliquamente la storia dell’arte, che hanno cercato, secondo il noto aforisma di Karl Kraus, di fare della soluzione un problema. Si deve dire allora che la sperimentazione dell’artista belga sia fallita? Io credo che De Cordier stesso che, ricordiamolo, è stato anche un grande e provocatore performer sul finire degli anni Ottanta, sia in qualche modo conscio che cercare di dimostrare che il nulla esiste e che tutto ha come unica destinazione la fine, sia una operazione quasi impossibile. Mi piacerebbe paragonare la sua figura a quella di uno scrittore che amo molto, ovvero Emil Cioran, che ha passato la vita a cercare di dimostrare che l’esistenza è inutile, che tutti gli esseri sono finiti, che nessuna speranza è data all’uomo e che è il nulla il capolinea di tutto, ma per fare questo e per essere sufficientemente convincente, non ha fatto altro per tutta la vita che scrivere, produrre, creare, immaginare, elaborare pensieri, dimostrando nei fatti che la vita non è né utile, né inutile, è vita e basta, così ci è data, così siamo chiamati a viverla. Infine qualche parola sul luogo dove la mostra è ospitata. L’edificio della Cisterna alla Fondazione Prada (ricordiamo che la Fondazione è ospitata in un edificio che fu una distilleria), è costituito da tre gigantesche sale sviluppate in altezza e illuminate dall’alto dalla luce naturale. Il progetto di De Cordier prevede tre strutture, una per ogni stanza, che formano idealmente un trittico monumentale. Una visita alla Fondazione ed in particolare a questa mostra-installazione, nelle desolate e assolate giornate d’estate, consente al visitatore un’esperienza che potrebbe assomigliare a quella di un pellegrinaggio nel luogo della sacralità negata. Fortemente consigliata.
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chez-mimich · 29 days ago
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ISRAELE-PALESTINA
“Come recita un antico detto spagnolo, quando si verifica un’inondazione la prima cosa che manca è l’acqua potabile”. E’ con questo detto popolare che Lorenzo Kamel apre il suo breve, ma approfondito, saggio intitolato “Israele-Palestina”, edito da Einaudi e uscito qualche settimana fa, che getta molta luce sulle nostre approssimative (e molto spesso emozionali) convinzioni sull’infinito conflitto israelo-palestinese che, negli ultimi anni, ha subito l’ennesima atroce impennata di recrudescenza.
Il libro di Kamel è strutturato in trentasei domande che l’autore pone a sé stesso, immaginando di dover rispondere a domande complesse, che i lettori più esigenti si dovrebbero e poi gli dovrebbero porre. In realtà, non so quanto alle persone interessi porsi domande complesse ricevendo in cambio risposte altrettanto complesse o quanto l’atrofizzato pubblico televisivo, o peggio, i frequentatori dei social siano disposti a far lavorare il loro cervello, in considerazione del fatto che viviamo in tempi di estrema semplificazione, dove piacciono molto le risposte semplici e sbrigative o, meglio ancora, i gesti istintivi e autoritari per mettere fine a qualsiasi problematica, dall’immigrazione all’urbanistica. Appartenendo, tuttavia io, alla generazione che vuole capire o che si sforza di capire, ho letto con molta soddisfazione il saggio di Lorenzo Kamel e, proprio da lì, in alcuni casi ho capito e in altri mi sono rinfrescato la memoria, circa il fatto che l’inizio della diaspora data almeno al 70 d.C. quando, almeno così si pensa, i romani cacciarono gli ebrei dalla loro terra. Ed è proprio questo il primo luogo comune che Kamel comincia a distruggere o, diciamo così, a decostruire. Gli ebrei infatti non furono propriamente cacciati dalla loro terra, ma piuttosto si trattò di un esodo che, come ricorda lo storico Israel Jacob Yuval, durante i primi secoli del millennio li fece emigrare verso diverse terre dello smisurato Impero romano, in cerca di una vita migliore e di nuove opportunità, come si direbbe oggi .La necessità di indagare le origini e la storia della Palestina, data invece XVIII secolo: i Palestinesi infatti sono tra le comunità più antiche al mondo e sono il risultato finale della combinazione di genti di varie origini e provenienze che si sono succedute in quelle terre in veste di conquistatori.
Molti palestinesi, ad esempio, in origine erano in realtà cristiani. E’ quindi una artificiosa creazione intellettuale l’idea di una Palestina modellata sui racconti biblici. Persino il nome di Palestina deriva da quello di una tribù, i Filistei, annoverati tra i “popoli del mare” già nel XII secolo a.C. e anche il termine di Palestina deriverebbe dalla parola araba “Pelishtim”. Come già si evince dalle prime pagine di questo magnifico saggio, la situazione è molto più complessa di come si vorrebbe far credere e denota quanto siano strumentali i pregiudizi su chi abbia abitato per primo quella terra. Ed è così che, fonti alla mano, Kamel demolisce tutta una serie di pregiudizi, volti solo a giustificare le sopraffazioni dell’una o dell’altra parte nel corso dei secoli. Per dire il vero, quel che ne esce al temine delle risposte lunghe edarticolate alle trentasei domande, è una verità pressoché incontrovertibile, che vede il popolo palestinese sempre vessato e sfavorito in tutte le contese economiche, sociali e persino religiose. Uno dei luoghi comuni più triti e ritriti è certamente quello che indicava la Palestina come una terra brulla, divenuta fertile solo dopo l’insediamento, prima dei kibbutz e dopo dei coloni. Le fonti primarie ci dicono invece che la Palestina (abitata da musulmani e cristiani, non perdiamolo mai di vista) conobbe, per esempio, un considerevole surplus agricolo tra il 1856 e il 1882 e che i porti di Haifa, San Giovanni d’Acri e Giaffa veicolavano, già allora, questa produzione verso i principali porti del Mediterraneo. Così come l’idea di una terra disabitata va corretta alla luce di molti studi, a cominciare da quello del governo mandatario britannico che, nel 1922, conteggiò una popolazione di 757.000 abitanti di cui 590.000 musulmani e 83.000 ebrei, oltre altre popolazioni minoritarie. Qualche decennio prima nel 1891 (fonte Asher Ginberg) la popolazione era formata dal 92% di palestinesi (musulmani e cristiani) e dall’8% di ebrei. Ma di chi era la terra palestinese nel 1947, anno della creazione dello Stato d’Israele? L’equivoco di fondo è che i territori “appartenessero” per il 70% alla potenza mandataria britannica, teoria basata sulla trasposizione di pratiche e consuetudini che avevano una
scarsissima attinenza con il peculiare contesto locale, in cui il possesso delle terre era di tradizione ereditaria tribale. Insomma il cosiddetto Occidente ha sempre giocato sporco nella questione e ha continuato a farlo anche dopo la creazione dello Stato d’Israele, forse anche per una sorta di risarcimento, dovuto alla diffusa cattiva coscienza dovuta all’Olocausto. E’ naturalmente problematico, anche solo accennare, tutte le questioni poste nelle 36 domanda di Kamel tra le quali molte affrontano questioni di fondamentale importanza, quali la Gerusalemme del Corano, Palestina e Giordania,  il concetto di Sionismo; e poi i crimini compiuti dagli arabi, la Guerra dei sei giorni, le origini di Hamas, il
Piano Olmert del 2008. Sarebbe bello che prima di cimentarsi in spericolate discussioni sulla strage di Gaza o sulla storia e sul ruolo di Israele, si prendesse conoscenza di testi come questo, anche di agile lettura, per evitare di continuare a ragionare per luoghi comuni poiché, come si ricordava all’inizio, “non è detto che durante un’inondazione, non vi possa essere una carenza d’acqua potabile” (in questo caso la conoscenza della realtà fattuale).
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chez-mimich · 1 month ago
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GALATEO URBANO E SOCIALE PER SMEMORATI
Prima di abitare in Bosco verticale non è che gli agiati non c'erano, solo che abitavano in Corso Venezia o in via Vincenzo Monti. Tanto per dire...
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chez-mimich · 1 month ago
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"... Gli anni che stiamo vivendo stanno registrando l'accentuazione di quel processo migratorio che l'umanità ha sempre conosciuto nella forma del nomadismo, che confonde i confini del territori su cui si orienta la nostra geografia. Usi e costumi si contaminano e, se "morale" o "etica" vogliono dire costume, è possibile ipotizzare la fine delle nostre etiche fondate sulle nozioni di proprietà, territorio e confine in favore di un'etica che, dissolvendo recinti e certezze, va configurandosi come etica del viandante. Un'etica che non si appella al diritto degli Stati, ma al diritto della Terra, che oggi è in pericolo non solo per l'espansione incontrollata della tecnica e del mercato, ma anche e soprattutto per la "logica del nemico" con cui gli Stati hanno sempre regolato i loro rapporti. A differenza dell'uomo del territorio che ha la sua certezza nella proprietà, nel confine e nella legge, il viandante elabora una diversa esperienza che ha come punto di riferimento la fraternità, attestata dall'appartenenza degli uomini alla stessa specie, oggi messa a rischio dalle condizioni di estrema precarietà in cui gli uomini hanno ridotto la Terra. Per questo l'etica del viandante oggi non è come un tempo un appello, un auspicio, una speranza, ma una necessità imposta per la sopravvivenza della specie. E questa è la ragione per cui il viandante, con la sua etica, può essere il punto di riferimento dell'umanità a venire, se appena la storia accelera i processi di recente avviati che sono nel segno della de-territorializzazione.
Fine dell'uomo giuridico a cui la legge fornisce gli argini della sua intrinseca debolezza, e nascita dell'uomo sempre meno soggetto alle leggi del territorio perché fa appello a valori che trascendono la garanzia fornita dalle frontiere e dal confini che spartiscono la Terra e separano gli uomini che, nella storia, hanno sempre regolato i loro rapporti secondo la logica del nemico, e oggi ancora tardino ad accorgersi che, nei confronti della Terra, il nemico siamo noi..."
(Umberto Galimberti, "L'etica del viandante" - Feltrinelli)
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chez-mimich · 1 month ago
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"... Simili non sono più solo quelli che consideriamo come noi, ma anche quelli che finora abbiamo percepito come diversi da noi, e per difenderci dai quali, fin dall'antichità, abbiamo eretto delle mura che ora dobbiamo abbattere, perché identica è la nostra e la loro sorte. Questo non è un auspicio o un patetico invito morale, ma una necessità che, nella storia dell'umanità, non si era mai presentata in tutta la sua cogenza, perché nessuna generazione si era mai spinta fino a quel limite che comincia a registrare l'irreversibilità dei processi naturali.
Ma non basta che l'uomo riduca il suo potere distruttivo nei confronti della natura per salvare unicamente se stesso, perché in questo caso l'etica antropocentrica tornerebbe a fare di nuovo la sua inutile comparsa..."
(Umberto Galimberti, "L'etica del viandante" - Feltrinelli)
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chez-mimich · 1 month ago
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Topaz Lab
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chez-mimich · 1 month ago
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"Anche quando poteva parlare, lo faceva sempre con un tono di voce basso. Non era un problema di corde vocali o di capacità polmonare. Semplicemente non le piaceva appropriarsi dello spazio. Ognuno occupa un certo spazio fisico che corrisponde esattamente al volume del proprio corpo, ma la voce si propaga molto oltre. Lei non voleva espandere la propria presenza..."
(Han Kang, "L'ora di greco" - Adelphi)
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