fragilifiori
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Mi manca sempre l’elastico per tener su le mutande cosicché le mutande al momento più bello mi vanno giù
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Vorrei tanto prendere un cane ma sono convinta che non sarei mai in grado di occuparmene. Oggi mi hanno diagnosticato (anche) l’adhd quindi forse non è il caso di decidere di occuparmi ora di una povera creatura. Ma forse solo un animale potrebbe amarmi senza manipolazione e senza rifiuto del mio essere tremendamente imperfetto. Lo ha scritto anche Rilke: 
Con tutti gli occhi la creatura vede
l’aperto. […]
Ciò che è fuori, puro, solo dal volto
animale lo sappiamo;
Ma io nemmeno un cane saprei tenermi, mi sento incompatibile con qualsiasi creatura, provo una solitudine mortale che non voglio però più nemmeno provare a infrangere. Non voglio parlare con nessuno, non ho più voglia nemmeno di scopare, non sono più io.
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Non dormo e mi autocommisero; non ho mangiato e sono andata a vedere The Elephant Man al cinema. Non funzionava il pos quindi due ragazzi che erano davanti a me per vederne un altro mi hanno pagato il biglietto; uno era nero e bellissimo. Li ho ringraziati dicendo che se ci fossimo beccati all’uscita gli avrei offerto da bere, ma così non è stato, purtroppo, da una parte, e per fortuna, dall’altra, perché ero emotivamente devastata dal film, nonostante lo avessi già visto. La mia sensibilità di fronte all’esclusione, alla marginalità, all’umiliazione, alla crudeltà, diventa una pietra, diventa la croce di tutto il dolore del mondo sulle mie spalle. Sento una sorta di martirio cristologico, come se appunto tutti i peccati del mondo si annullassero nel mio dolore. E invece sono solo una ragazzina stupida con la mente sciatta, più vado avanti e più lo capisco e più mi odio e più sento che tutta la mia vita è una matassa di rapporti scadenti, di fallimenti intellettuali, di uomini che mi abbandonano senza mai davvero prendermi, di ossessione per quegli stessi uomini e di rabbia, tantissima rabbia che non so dove va, dove si mette la rabbia? Io non l’ho mai saputo ed è finita che lei si è messa sopra di me, dentro di me, ovunque, e ora io non sono altro che rabbia
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Sono tornata per un giorno a casa dei miei perché non potevo sopportare un minuto di solitudine in più, e ora mi sembra di essere tornata a dieci anni fa, quando facevo ancora il liceo e passavo le mie estati immobili dentro questo letto. Solo che ora non sono io a fare la maturità ma gli studenti a cui ho insegnato per un anno. Per il resto leggo un libro che ho comprato e avrei voluto leggere dieci anni fa, prendo la patente che avrei dovuto prendere dieci anni fa, sono incastrata in questa città come dieci anni fa, vivo logorandomi il pensiero, il ventre, gli occhi per uno che non mi vuole come dieci anni fa, ma la mia solitudine si è ingrossata di dieci volte. I miei amici sono lontani e io ho bisogno di qualcuno dentro casa mia
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Da qualche mese ho ricominciato ad andare a scuola guida: non prendere la patente a diciott’anni è stata forse la mia più grande persecuzione emotiva, la prova empirica del mio essere meno degli altri, l’asseverazione che pure la banalità per me non è scontata. Che per me non esiste nessuna norma, che non posso non dipendere, non chiedere, non sentirmi fragile in ogni movimento, in ogni luogo, che non esiste geografia che mi possa appartenere. E sono rientrata lì muovendomi su questo fallimento, dieci anni dopo. E l’istruttore della scuola guida che è un vecchio borghese democristiano e che per questo dice, anche se in buona fede, un sacco di cazzate borghesi e democristiane, è ossessionato umanamente e forse un po’ viscidamente da me. Mi dice: io non ti posso vedere sempre così. A che pensi? Perché sei sempre abbacchiata. Sono stufa di questo lavoro che deve sembrare un’opera messianica, il precariato della scuola e l’insegnamento come martirio e io che invece devo solo vigliaccamente sopravvivere come tutti vorrei un salario regolare e una persona che mi ami senza illusioni e senza farmi a pezzi. Io ci tengo a te, ci tengo che passi l’esame io ti farei lezione pure alle tre se ti serve. Ma quale esame posso fare? Tanto niente, nessuna conferma, può svuotare l’empirismo del mio fallimento, la certezza che per me non esiste nessuna norma, che non posso non dipendere, non chiedere, non sentirmi fragile in ogni movimento, in ogni luogo, che non esiste geografia che mi possa appartenere.
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Una volta ero in grado di farmi scorrere davanti agli occhi il dolore come migliaia di frasi. Sapevo nuotare nel dolore perché sapevo le parole, avevo le parole. Le parole mi appannavano la vista prima delle lacrime. Ora invece so solo raggomitolarmi dentro al bozzolo di una pace neuroindotta. Cerco di pilotare la mia chimica cerebrale in modo che non sia lei a pilotare me verso un cappio al collo. Se non mi ammazzo, come sempre, è solo per mia madre. Passo le giornate da un compito male fatto a un altro, comprimendo nel ventre il dolore per l’ultima persona che mi ha ferita senza riguardo, chiedendomi quando finirà ma soprattutto quando arriverà la prossima. Chiedendomi perché per me la serenità non possa che essere una persona, e perché io non possa essere nella serenità di nessuna persona, mai.
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La mia sessualità è una voragine che risucchia ogni decoro, ogni decenza, ogni piccolo principio, ogni promessa, ogni vaga lietezza dell’essere, dell’essere solo e almeno mia, e invece sono e voglio essere di tutti, assorbire chiunque nella mia voragine senza fondo; e ogni persona muore nella mia sessualità, ogni amore, ogni strada percorsa si sacrifica all’altare dello sfrigolio dei corpi e delle corde vocali
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Shūji Terayama - Throw Away Your Books, Rally in the Streets (1971)
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Mi ricordo quando scrivevo qui, ero un’altra persona, avevo voglia di esibire la mia sofferenza, perché era l’ultimo ponte che mi separava dalla mia solitudine. Ora ho tagliato anche quel ponte e ci sono solo io, nella stagione più solitaria della mia vita, ma negherei se dicessi che non l’ho voluto. Non riesco nemmeno a chiamare le poche amiche che mi sono rimaste qui, a dire loro di venire, perché vi prego, non ce la faccio più. L’unica persona che vedo è un ragazzo più piccolo di me, che ho conosciuto in una pizzeria mentre faceva il cameriere, e quando dorme con me io mi dimentico di essere una creatura sofferente, e diventa lui il ponte che mi separa dalla solitudine. Eppure non riesco a chiedergli ti prego stai con me, perché io di nuovo non ce la faccio più, perché per me ora l’unico modo per farcela è il tuo naso, i tuoi zigomi, aggrapparmi ai tuoi nei, al tuo piccolo speciale erotismo.
L’idea di una nuova depressione mi terrorizza, pensavo che il litio mi salvasse, ma se invece no? Se non potrò mai sfuggire a questo sentimento di morte lucida? Se per me l’unico modo sarà solo sopravvivere in mezzo alle sigarette, ai nei di qualcuno che dopo poco non mi vorrà più, e di nuovo, ancora, altre sigarette, altri nei, fino a quando? Resisterò? Fino a quando?
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Twiggy photographed wearing a fur coat, February 21st, 1966.
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Ci ho messo messo mesi a riappropriarmi di questa casa dal tuo ricordo. Ora fumo da sola e non ho più l’aria dolce dell’estate sulle mani, ho il gelo che mi fa sanguinare; da giorni. Non solo mestruo anomalo che mi riga le cosce, sanguino dentro, io. La mia giovinezza sanguinante, dice Anna Achmatova, mi pare. Quando finirà? Dico io. Quando smetterò di sanguinare al tocco di un altro? Quando smetterò di sanguinare dentro me stessa? Quando sarò vecchia di emozioni rapprese?
Mi illudevo di essere migliore, di amarTi, di amare il Tu e non l’amore stesso, ma non è così, e quando te ne vai io provo a riprenderti ma alla fine ti lascio negli inferi come Orfeo, perché l’amore è pago solo di se stesso.
Perché mi piace tanto Fabrizio? Perché mi fa sgorgare poco sangue, per ora, come un piccolo capillare reciso; perché dell’amore mi interessa solo il momento immediatamente prima che sia tale, quando è fatuo, e prima che diventi tormento
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Il giardino delle delizie - 1967 Silvano Agosti
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