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Memorandum del Calibano
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ilcalibano · 4 years ago
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Sono leale alla speranza di una rivoluzione anche se non credo che succederà più. Non so se basta per essere comunista, io sono marxista perché penso che non ci sarà stabilità finché il capitalismo non si trasformerà in qualcosa di irriconoscibile dal capitalismo che conosciamo oggi. E sono leale alla memoria in quello in cui ho creduto e che fu un grande movimento anche in Italia
Eric Hobsbawm
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ilcalibano · 4 years ago
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La pandemia ha rivelato il clamoroso fallimento delle due destre egemoni: liberismo e sovranismo. Da essa possiamo trarre due insegnamenti: il primo è di segno anti-liberista, relativo al carattere pubblico, l’altro di segno anti-sovranista, relativo al carattere globale che dovrebbero rivestire le garanzie del diritto di tutti alla salute e alla vita, senza distinzioni né di ricchezza né di nazionalità. La pandemia potrebbe insomma produrre un risveglio della ragione su questioni fondamentali e farci dire di essa, con le parole di Giambattista Vico, «sembravano traversie ed erano in fatti opportunità.
Luigi Ferrajoli
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ilcalibano · 4 years ago
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(Cos'è Lo Stato) Esso è piuttosto un prodotto della società giunta ad un determinato stadio di sviluppo, è la confessione che questa società si è avvolta in una contraddizione insolubile con se stessa, che si è scissa in antagonismi inconciliabili che è impotente a eliminare. Ma perchè questi antagonismi, queste classi con interessi economici in conflitto non distruggano se stessi e la società in una sterile lotta, nasce la necessità di una potenza che sia in apparenza al di sopra della società, che attenui il conflitto, lo mantenga nei limiti dell' ordine; e questa potenza che emana dalla società, ma che si pone al di sopra di essa e che si estranea sempre più da essa, è lo Stato.
Friedrich Engels
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ilcalibano · 4 years ago
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poggiamo i piedi proprio su quelle sconfitte, a nessuna delle quali possiamo rinunciare, ognuna delle quali è una parte della nostra forza e consapevolezza (Rosa Luxemburg)
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ilcalibano · 6 years ago
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Il furto del tempo di lavoro altrui, su cui poggia la ricchezza odierna , si presenta come una base miserabile rispetto a questa nuova base che si è creata nel frattempo e che è stata creata dalla grande industria stessa. Non appena il lavoro in forma immediata ha cessato di essere la grande fonte della ricchezza, il tempo di lavoro cessa e deve cessare di essere la sua misura, e quindi il valore di scambio deve cessare di essere la misura del  valore d’uso
Karl Marx
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ilcalibano · 6 years ago
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Ma come gli uomini all’inizio poterono fare con degli strumenti naturali delle cose facilissime, sebbene faticosamente ed imperfettamente, e fatte queste ne eseguirono altre più difficili con minore fatica e maggior perfezione, e così gradatamente procedendo dai lavori più semplici agli strumenti e dagli strumenti ad altri lavori e ad altri strumenti, arrivarono al punto di eseguire tanti e tanto difficili lavori con poca fatica – così anche l’intelletto con la sua forza innata si fa degli strumenti intellettuali con i quali si acquista altre forze per altre opere intellettuali e da queste opere si forma altri strumenti, ossia il potere d’indagare ulteriormente; e così avanza gradatamente, fino ad attingere il culmine della sapienza.
Baruch Spinoza
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ilcalibano · 6 years ago
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Una classe che ha il medesimo interesse in tutte le nazioni e per la quale la nazionalità è già annullata, una classe che è realmente liberata da tutto il vecchio mondo e in pari tempo si oppone ad esso
da Ideologia tedesca, Karl Marx
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ilcalibano · 6 years ago
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Se la geometria di Euclide è vista come la scienza delle possibili relazioni mutue di corpi praticamente rigidi nello spazio, cioè se la si tratta come una scienza fisica, evitando di astrarre dal suo originale contenuto empirico, l’omogeneità logica tra geometria e fisica teorica diviene completa.
Albert Einstein
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ilcalibano · 6 years ago
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Finché si sta facendo un’esperienza, bisogna abbandonarsi all’esperienza e chiudere gli occhi, cioè non voler fare già in essa l’osservatore
Friedrich Nietzsche
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ilcalibano · 6 years ago
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L’epoca è in putrefazione, e al tempo stesso ha le doglie
Ernst Bloch
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ilcalibano · 6 years ago
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Nessuna nazione (cioè nessuno stato nazionale) possiede di fatto una base etnica, il che vuol dire che il nazionalismo non potrebbe essere definito come etnocentrismo, se non precisamente nel senso della produzione di un’etnicità fittizia. Ragionare altrimenti significherebbe dimenticare che i popoli, esattamente come le ‘razze’, non esistono naturalmente in virtù di una discendenza, di una comunanza di cultura o di interessi preesistenti. Ma bisogna istituire nel reale (e quindi nel tempo della storia) la loro unità immaginata, contro altre unità possibili.
Etienne Balibar
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ilcalibano · 6 years ago
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I nuovi “sonnambuli” di fronte al postfascismo
di Enzo Traverso
Le nuove destre radicali sono oggi ben rappresentate in tutti i paesi dell’Unione Europe e occupano posizioni di governo in otto di essi. Le eccezioni spagnola e tedesca sono cadute. Dopo l’elezione di Trump e Bolsonaro, il fenomeno ha assunto dimensioni globali. Il mondo non aveva conosciuto nulla di simile dopo gli anni trenta e ciò risveglia la memoria del fascismo. Una domanda sorge quindi spontanea: cosa ci insegna il passato per capire quel che sta avvenendo sotto i nostri occhi? Non tutto, ma forse qualcosa. Il comparativismo serve a cogliere analogie e differenze più che omologie e ripetizioni; talvolta rivela affinità e continuità ma spesso indica che i vecchi concetti sono obsoleti e devono essere sostituiti o almeno rinnovati.
OCCORRE INNANZI TUTTO osservare che, tranne poche eccezioni, le nuove destre non si autodefiniscono fasciste, anche se in molti casi quella è la loro matrice. Forse sarebbe meglio chiamarle postfasciste per distinguerle dai loro antenati: da un lato, esse appartengono a un diverso contesto storico, ma dall’altro è difficile interpretarne la natura e gli scopi senza metterle in rapporto con il fascismo, che rimane un’esperienza fondatrice della nostra modernità politica. In altri termini, il concetto di fascismo è al contempo inappropriato e indispensabile per decifrare questa nuova realtà. Le nuove destre non sono più fasciste ma non sono neppure qualcosa di completamente nuovo e altro dal fascismo. Hanno un carattere transitorio e instabile, ancora in mezzo al guado, suscettibile di mutare in direzioni diverse.
L’ANALOGIA con gli anni tra le due guerre è abbastanza evidente: l’ascesa delle nuove destre si inscrive in una cornice di disordine mondiale e di crisi economica – la crisi fiscale dello stato – che alimenta reazioni xenofobe e nazionaliste. In seno all’Unione Europea, la crisi è anche politica e morale, come hanno messo in luce il Brexit e la vicenda dei profughi, di cui l’Italia è l’epicentro. I vertici europei su questo tema ricordano la conferenza di Evian del 1938, quando le grandi potenze abbandonarono gli ebrei al loro destino.
Le differenze sono tuttavia altrettanto se non più vistose. Alcune sono ovvie, come l’uso limitato della violenza e il ruolo marginale dell’anticomunismo nella retorica delle nuove destre. Non stupisce che, dopo sette decenni di pace nel mondo occidentale, la violenza non sia più il tratto dominante del nazionalismo.
ALL’INDOMANI della Grande Guerra, la politica si faceva con le armi e si prefiggeva lo scopo di annientare il nemico. Oggi non ci sono più milizie ma Salvini che predica la legittimità della violenza individuale: «la difesa è sempre legittima». A trent’anni dalla fine della Guerra Fredda, l’anticomunismo ha perduto gran parte del suo significato, ma questo declino – parallelo all’eclissi del comunismo – è diventato in molti casi un vantaggio per le nuove destre che possono rivolgersi alle classi laboriose senza dissolverle in un indistinto «popolo», stirpe o nazione, e senza dover superare una barriera di culture, valori e linguaggi.
DUE SONO FORSE le differenze meno ovvie e più significative. La prima riguarda il carattere radicalmente anti-utopico del postfascismo, il quale appartiene a un’era post-ideologica – alcuni direbbero «presentista» – che ha perduto ogni orizzonte di attesa. Negli anni trenta, il fascismo si presentava come una «rivoluzione nazionale», voleva edificare una nuova civiltà e plasmare un «uomo nuovo» contro la debolezza e la decadenza delle democrazie. Il postfascismo non coltiva più ambizioni utopiche. La sua modernità risiede nella dimestichezza dei suoi leader con i mezzi di comunicazione di massa, mentre il suo progetto non è né moderno né rivoluzionario. I suoi nemici sono la globalizzazione, l’immigrazione, l’islam e il terrorismo contro i quali prescrive un ritorno al passato: sovranità nazionale, ripristino delle frontiere, protezionismo, difesa dell’«identità nazionale», preservazione delle radici cristiane dell’Europa, leggi liberticide, decisionismo autoritario, ecc. La sua logica ricorda i lamenti del «pessimismo culturale» di fine Ottocento più che il furore della «rivoluzione conservatrice» degli anni tra le due guerre.
La seconda differenza rilevante risiede nel passaggio dall’antisemitismo all’islamofobia. Come i suoi antenati fascisti, la nuova destra è razzista e fonda la sua politica nella ricerca di un capro espiatorio ma il suo bersaglio è cambiato: i responsabili dei mali che affliggono le nostre società, dalla disoccupazione al declino dei valori tradizionali, dallo sradicamento culturale alla minaccia terrorista, non è più l’ebreo ma l’immigrato. Il nemico non ha più l’aspetto dell’ebreo cosmopolita, incarnazione ubiqua della finanza e del bolscevismo internazionali; è il musulmano, il migrante, bacillo islamico dentro l’Europa «ebraico-cristiana», e il jihadista pronto a esplodere come una bomba umana.
TALVOLTA ANTISEMITISMO e islamofobia coesistono come due figure retoriche complementari. Viktor Orbán denuncia due minacce simbioticamente intrecciate: da un lato una cospirazione ordita dalla finanza ebraica di Wall Street – il banchiere di origine ungherese George Soros – e dall’altro un’invasione demografica, ossia l’immigrazione identificata sul piano culturale con l’«islamizzazione» dell’Europa. Questa retorica razzista non impedisce a Orbán di mantenere ottime relazioni con Israele, che appare ai suoi occhi un efficace bastione contro l’islam. In Francia, i principali sostenitori del mito dell’invasione islamica (le grand remplacement) sono intellettuali ebrei come Alain Finkielkraut o Eric Zemmour.
L’islamofobia non è un surrogato o una riformulazione dell’antisemitismo perché ha una sua storia che, a partire dal secolo XIX, è indissociabile da quella del colonialismo. È il colonialismo ad aver inventato un’antropologia politica fondata sulla dicotomia tra cittadini e «indigeni» che fissava rigorose frontiere geografiche, razziali, giuridiche e politiche. Sono queste le frontiere che le nuove destre vogliono ristabilire, sostituendo il mito della «missione civilizzatrice» con quello dell’«invasione islamica». Oggi preferiscono promulgare leggi contro il velo delle donne musulmane o escludere i bambini immigrati dalle mense scolastiche.
UN’ULTIMA DIFFERENZA chiama in causa le cosiddette «élites» europee. Negli anni trenta, la paura del bolscevismo le aveva spinte ad accogliere Mussolini, Hitler e Franco. Innumerevoli sono stati gli «errori di calcolo» da parte di statisti, banchieri e capitani d’industria, ma la loro scelta era chiara. Oggi gli interessi delle élites economiche e finanziarie non sono rappresentati dalle nuove destre ma dalla Troika e dagli organismi dirigenti dell’Unione Europea: la Commissione e la Bce. Il postfascismo potrebbe diventare il loro interlocutore privilegiato in caso di una crisi dell’euro e di una disgregazione dell’Unione Europea che precipiterebbero il continente in una situazione caotica e turbolenta.
PURTROPPO questa eventualità non è affatto inverosimile e la rapidità con la quale Wall Street si è adeguata a Trump mostra che una conversione del genere non sarebbe per nulla difficile. Le élites economiche e finanziarie che fissano gli orientamenti delle istituzioni europee e la classe politica che li mette in atto sono tutt’altro che un argine contro le nuove destre, ne sono anzi il motore. L’ascesa del postfascismo è in larga misura il prodotto di dieci anni di austerità condotta indifferentemente da governi di destra e sinistra in nome del principio secondo cui la responsabilità della crisi non appartiene alla finanza ma agli stati che, con le loro politiche sociali, vivono al di sopra dei loro mezzi e accumulano un enorme debito pubblico. Criticare queste politiche significa rimanere ancorati alle ideologie arcaiche del Novecento.
La campagna ossessiva dei media contro i populismi di destra e di sinistra tende a nascondere questa realtà: le élites pretendono di agire come i pompieri chiamati a spegnere l’incendio ma in realtà sono loro ad averlo appiccato. Esse non sono la risposta ai nuovi fascismi per la semplice ragione che ne sono la causa. Ricordano terribilmente i loro antenati, i «sonnambuli» che nel 1914 avevano precipitato un continente nel baratro senza rendersene conto.
Fonte: Il manifesto del 25/04/19
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ilcalibano · 6 years ago
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OLTRE LA TRAPPOLA DELLA RAPPRESENTANZA
Di JACQUES RANCIÈRE e MARCO ASSENNATO.
Jacques Rancière è, tra gli intellettuali francesi contemporanei, uno dei più assidui nel prendere la parola in pubblico per analizzare le dinamiche sociali e politiche del nostro tempo. Già allievo di Louis Althusser, dopo aver partecipato alla pubblicazione di Leggere il Capitale ha rotto con l’ortodossia strutturalista e, a partire dalla pubblicazione del suo Le Maître ignorant ha orientato la sua ricerca su due versanti: da una parte – con volumi quali Au Bords du Politique, La Haine pour la démocratie, Le Partage du Sensible e La Mésentente – ha dato vita a una corposa critica libertaria dell’ordine dominante che, mettendo in tensione ricerca estetica e filosofia politica, ruota attorno alla valorizzazione della democrazia come irruzione di un nuovo partage del sensibile sulla scena dell’ordine sociale; e dall’altra, si è dedicato al recupero della memoria dell’emancipazione operaia, con testi fondamentali quali La Nuit des prolétaires o Le Philosophe Plébéien. Lo abbiamo intervistato in occasione della sua partecipazione alla Biennale Democrazia di Torino dove, il 28 marzo, terrà una lezione nell’Aula Magna Cavallerizza Reale, dal titolo Oltre l’odio, per la democrazia.
Nel suo libro L’odio per la democrazia, lei ha proposto una originale genealogia dell’odio che i governanti hanno sempre rivolto contro il «governo della moltitudine». Allo stesso tempo analizzava il passaggio a forme di govrenance che mescolavano neoliberismo economico e anti-liberalismo politico. Può ripercorrere con noi i passaggi fondamentali del suo ragionamento?
In quel libro ho messo in questione l’equivoco contenuto nella nozione di neo-liberalismo. Con questo termine s’intende spesso l’idea di un trionfo del libero mercato che si accompagnerebbe all’indebolimento degli Stati e dei loro poteri: in sintesi, una forma di regolamentazione dell’ordine sociale che non passerebbe più da obblighi e repressione, ma dalla coincidenza con i desideri dei soggetti – tanto sul piano dell’iniziativa e della creatività nel lavoro quanto nelle forme sempre più raffinate del consumo. Ora mi sembra invece che la legge del mercato capitalista si sia imposta in modo del tutto autoritario attraverso un sistema di vincoli per il quale gli Stati e le organizzazioni internazionali hanno sottomesso tutte le forme della vita alle esigenze del profitto. Gli Stati sono davvero diventati, come anticipato da Marx, dei comitati d’affari del Capitale. Gli Stati oggi impongono delle soluzioni ai problemi, giustificate da saperi specialistici che consideriamo inaccessibili ai cittadini. L’idea di un «potere di tutti» incarnato dal sistema della rappresentanza mi sembra dunque sempre più ridicola. Questa situazione allora ci obbliga a richiamare alla memoria lo scarto che sempre esiste tra democrazia e rappresentanza. Il sistema della rappresentanza politica, nella sua definizione originaria, non coincide con il governo del popolo mediato dai suoi rappresentanti, ma con il governo esercitato “sul” popolo da coloro che, si pensa, rappresentano gli interessi generali della società. La democrazia, invece, è il potere esercitato dagli uguali in quanto uguali. Questo tipo di potere si esercita attraverso delle istituzioni e delle forme di azione che sono autonome dalle istituzioni statuali e dagli appuntamenti elettorali.
Nel saggio Il Disaccordo lei sottolinea la centralità del dissenso e della differenza come motori fondamentali della costruzione politica. Se l’ordine del discorso dominante pretende di attribuire ai governi un potere di pacificazione generale della società, enfatizzando il rapporto tra espressione del consenso e meccanismi elettorali, mi pare che la sua ricerca indichi piuttosto che fare politica significa lasciare emergere le soggettività sociali e le loro forme di azione. A quali condizioni, oggi, una tale emersione è possibile?
C’è politica fintanto che emergono l’idea e la pratica di un potere che sia altra cosa dall’espressione della superiorità di un gruppo – i ricchi, i colti, i nobili o altro. Ciò suppone, di fatto, l’emergere di un soggetto che non sia già dato come gruppo sociale ma che si costruisca attraverso le sue azioni: il popolo non è la popolazione, i proletari non sono gli operai, eccetera. Detto ciò, i soggetti politici si sono spesso agganciati a dei gruppi sociali. In ogni caso così è stato per il movimento operaio, il cui nome coniugava in modo equivoco la forza soggettiva di una rete di azioni e istituzioni con la forza di un gruppo sociale numeroso che occupava il cuore della produzione. Con il trasferimento delle fabbriche ai margini del mondo, questa identificazione non è più possibile. Abbiamo oggi dei movimenti che si definiscono esclusivamente attraverso le proprie pratiche, come per esempio quando si occupano delle piazze e vi si installano tende e assemblee. Ma l’occupazione delle piazze non è l’occupazione da parte dei produttori dei luoghi della produzione. Il potere capitalistico non è più concentrato in fortezze da assaltare ma presente su tutta la superficie della nostra società. Ciò significa, certo, che può essere attaccato globalmente da qualsiasi punto – lottando contro il progetto di costruzione di un aeroporto, ad esempio – ma ciò significa anche che il rapporto tra il particolare e il globale non può più essere simbolizzato nello stesso modo che ieri: più che la figura di una soggettività sociale capace di creare attorno a sé una dinamica di allargamento, oggi il dissenso rischia di trovarsi prigioniero dei suoi stessi luoghi e delle sue stesse contraddizioni interne.  
Lei ha criticato la postura teorica di intellettuali come Alain Badiou, Slavoj Žižek o Peter Sloterdijk. Il radicalismo di questi autori, lei dice, è il correlato di una visione heideggeriana del mondo contemporaneo, sistematicamente descritto come spazio totalizzato dalla tecnica e dal mercato. Si tratta secondo lei di una «descrizione elementare del nichilismo». In cosa questo tipo di analisi impediscono lo sviluppo di una prospettiva critica?
Ho provato a sostenere due cose diverse tra loro. Innanzitutto ho voluto sottolineare come, a volte, pensatori si dicono fedeli a Marx, ne capovolgano di fatto la logica: Marx vedeva nello sviluppo capitalistico la formazione delle condizioni che avrebbero permesso l’avvento del comunismo. Mentre al contrario, in questi autori, il comunismo appare come una specie di uscita eroica dalla palude nella quale il capitalismo ci sta lentamente sprofondando. La visione marxista è stata quindi evidentemente capovolta dal riferimento al pensiero heideggeriano della salvezza sull’orlo dell’abisso. Ma ciò significa anche che questi autori squalificano, nel nome del loro comunismo futuro, tutti i movimenti reali che si oppongono all’impero dello Stato e del Capitale. Identificando capitalismo e democrazia, poi, si ritrovano nella posizione di quei pensatori reazionari per i quali la democrazia è il regno del mercato e le forme di lotta contro l’impero capitalista sono esse stesse equiparabili al comportamento dei consumatori formati dal regno del mercato. Così per esempio Žižek si è trovato a salutare benevolmente la «lucidità» con la quale Sloterdijk ha denunciato la «kleptocrazia» sindacale o con la quale Finkielkraut ha sostenuto che la rivolta dei giovani delle banlieues era l’espressione della frustrazione di consumatori avidi delle merci che vedevano alla televisione. Nel mio libro Lo Spettatore Emancipato ho studiato il modo in cui i temi della critica del feticismo, della società dei consumi e della società dello Spettacolo sono stati recuperati dal pensiero dominante e sono diventati dei temi reazionari che squalificano sistematicamente i movimenti di lotta.
Lei ha molto insistito sull’importanza di inventare nuove istituzioni politiche: una «immaginazione politica», che tuttavia a suo avviso «manca crudelmente oggi». La pensa ancora così o possiamo dire che si incominciano a intravvedere esperimenti che vanno in questa direzione?
In generale non do mai consigli ai movimenti. Tento più semplicemente di individuare gli elementi che possono avere un valore di rottura rispetto a ciò che è ordinario tanto nel dominio, quanto nella protesta o ad ogni presupposto tipico delle visioni avanguardiste. In tal senso resto persuaso che la trasformazione non può che venire da quei movimenti che riescono a salvaguardare la loro autonomia rispetto all’agenda del potere dello Stato: ovvero da quei movimenti che riescono a inscriversi nella lunga durata senza prendere la forma né del partito elettorale, né del partito di avanguardia. Ora è chiaro che c’è qualcosa di paralizzante dire questo. Tuttavia resto persuaso del fatto che l’autonomia presuppone lo sviluppo di forme alternative in tutti i settori della vita sociale: produzione, consumo, informazione, educazione, salute etc. Si tratta di quello che è stato teorizzato nel movimento greco sotto il nome di «spazi sociali liberi». Sappiamo tutti quanto forme di questo tipo siano state importanti per i movimenti comunisti e anarchici del passato. Qui di nuovo, ci troviamo di fronte al problema che la forza collettiva, essenzialmente operaia, sulla quale si basavano quei movimenti è stata dispersa. In qualche modo potremmo dire che oggi è tutto da ricostruire, a partire da iniziative di collettivi che sono semplicemente gruppi di individui. Si tratta di un compito gigantesco. Quindi direi così: sì, ci sono molti esperimenti interessanti, ma hanno enormi difficoltà a disegnare una forza soggettiva e una organizzativa ben definita. Viene sempre un momento in cui l’impossibilità di fare un passo in avanti si trasforma in un’alternativa del tipo: fedeltà impotente o prelazione dei partiti che propongono la trasformazione del movimento in forma elettorale come Syriza, Podemos o La France Insoumise.
A proposito del movimento dei Gilets Jaunes lei ha parlato di una formidabile de-sincronizzazione del tempo della politica. Dopo quasi cinque mesi di mobilitazioni, può darci la sua lettura del movimento dei Gilets Jaunes?
La mobilitazione dei Gilets Jaunes ha seguito una logica che mi pare assai significativa e comune a molte mobilitazioni recenti: a partire da una rivendicazione limitata e negoziabile, il movimento ha instaurato una temporalità specifica che da una parte segnala una distanza rispetto al corso normale delle cose e dall’altra costituisce un acceleratore dell’azione e del pensiero. Si produce allora uno sviluppo autonomo che supera radicalmente l’obiettivo iniziale della lotta. Mi pare insomma che nei Ronds-Points occupati dai Gilets Jaunes sia successa esattamente la stessa cosa che era successa nelle piazze occupate dai grandi movimenti democratici degli ultimi dieci anni: in uno spazio di lotta che è allo stesso tempo uno spazio di vita e di riflessione condivisa, la protesta contro una tassa sulla benzina diventa un movimento globale contro l’ineguaglianza fiscale, e poi contro l’ineguaglianza dell’intero ordine sociale. A partire da quel momento gli attivisti e lo Stato non vivevano più nello stesso tempo. Il potere statale ha risposto sgomberando con la forza i Ronds-Points. Temo che perdendo questi luoghi di riflessione e di azione autonoma, il movimento abbia perso la sua dinamica iniziale. L’azione dei Gilets Jaunes tende oggi a concentrarsi sulle manifestazioni parigine del sabato e queste a trasformarsi in scontri programmati tra forze dell’ordine e specialisti della manifestazione violenta. Questi appuntamenti programmati fanno perdere al movimento la propria autonoma temporalità, ma è solo lì che si è esercitato il potere di invenzione democratica collettiva.
fonte: euronomade.info
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ilcalibano · 6 years ago
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Il futuro è arrivato. Solo che non è equamente distribuito.
William Gibson
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ilcalibano · 6 years ago
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L’influenza dell’alcol sull’umanità è senza dubbio dovuta al suo potere di stimolare le facoltà mistiche della natura umana, solitamente schiacciate al suolo dalla freddezza dei fatti e dall’arido spirito critico che accompagna i momenti di sobrietà. La sobrietà sminuisce, distingue e dice no; l’ubriachezza espande, unisce e dice sì
William James
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ilcalibano · 7 years ago
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Il nostro motto dev’essere quindi: riforma della coscienza mistica, oscura a se stessa, sul piano sia religioso che politico. Si vedrà allora che da molto tempo il mondo ha il sogno di una cosa, e che di essa deve soltanto divenire consapevole per possederla davvero.
Karl Marx
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ilcalibano · 7 years ago
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se il popolo non lotta, la filosofia non pensa
León Rozitchner
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