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Amelia Rosselli, Le poesie, Poesie, 1959, Garzanti, 1997
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“Per alcuni istanti si guardarono negli occhi in silenzio, e ciò che era lontano, impossibile, a un tratto diventò vicino, possibile, inevitabile.”
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Lev Tolstòj, Guerra e pace
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“[…] e quel momento, be’, io volevo che restasse, proprio come quel giorno d'aprile, la primavera dopo che Ruby si era sfracellata sul pavimento in mattoni del cortile, la prima primavera da quando avevo conosciuto il professore che sarebbe diventato mio marito, quel giorno in cui io e lui eravamo in un parco stesi su una coperta fatta, disse, da sua madre e per la prima volta da quando l'avevo incontrato lui sorrideva parlando di lei, e io e il professore stavamo in quel parco, sdraiati di fianco su quella coperta e ci tenevamo per mano e ci guardavamo negli occhi e i nostri cuori ci davano prova di essere organi perfettamente funzionanti – marciando come veri soldati, i più forti e patriottici in testa alla marcia delle nostre piccole vite – e insomma io e il professore eravamo innamorati che più innamorati di così non si può perché era stata la perdita che avevamo in comune a unirci e nonostante questo, o forse proprio per questo, eravamo riusciti a innamorarci l'uno dell'altra in quell'autunno più nero che mai, ma poi era caduta la neve e si era sciolta e la terra si era asciugata e sugli alberi rispuntavano le foglie e finalmente c'eravamo di nuovo dentro, e contemplavamo l'assurdità della primavera, la primavera era tornata, e contemplavamo l'assurdità del sentirsi così vivi e così svegli stando insieme a qualcuno, e il professore, guardandomi fisso negli occhi in quel momento colorato di giallo, decide di citare una cosa detta o scritta da una persona che era morta da un pezzo: Momento, resta, disse, e io feci: Che?, e lui mi spiegò: È una cosa che ha scritto Virginia Woolf: Momento, resta, perché sei così bello, o qualcosa del genere, e io gli chiesi: E tu ti senti così? Ti senti come si sentiva Virginia Woolf?, e lui rispose: Sì, e io in parte ero d'accordo con lui, perché sì, anch'io ero innamorata e volevo rimanerci, ma allo stesso tempo provavo una specie di tristezza, una specie di rabbia, una specie di delusione, perché quel momento era passato non appena lui gli aveva chiesto di restare.”
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Catherine Lacey, Nessuno scompare davvero
quel momento era passato non appena lui gli aveva chiesto di restare
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Dieci anni fa lessi per la prima volta, su un libro di scuola, un capitolo. Era su Petrarca e faceva parte del manuale di letteratura italiana adottato all’epoca dalla mia professoressa di liceo. Petrarca lo avevo già studiato alle medie, quando mi ero innamorata della letteratura, ma non mi aveva colpito particolarmente. Ricordo ancora la scansione dei paragrafi di quelle pagine: parlavano di memoria, di soggettivismo e di dissidio dell’anima. Erano parte di quel Raimondi con la copertina verde che amavo tanto, per tre anni l’unico libro di scuola studiato volentieri; la mia bibbia personale, insieme al Luperini rubato di tanto in tanto dalla libreria di mia sorella. Ho passato pomeriggi interi, nella mia camera, a ripetere di bovarismo, estetismo, crepuscolarismo. Non bastava mai. Mi chiedevo che facce avessero gli autori di quei libri, come si sarebbe potuta accumulare tutta quella conoscenza. Non osavo neanche immaginare, di poterli conoscere personalmente un giorno, di discorrere con loro, che vivevano a chissà quanti chilometri da quel liceo di Catania, in un mondo quasi parallelo. Oggi a commuovermi non sono io, ma quella Federica sedicenne incapace di realizzare il fatto che l’autrice di quel capitolo su Petrarca non è più solo un nome, ma la sua relatrice, colei che l’avrebbe proclamata dottoressa in Italianistica e avrebbe apprezzato il suo lavoro. Oggi quel senso di riconoscimento e di felicità che la me adolescente ha provato, sfogliando le pagine di quel libro, risponde ad un luogo, ad un tempo che non è più solo della carta stampata, ma della mia vita vissuta e io non sarò mai abbastanza grata per tutto questo.
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Perduta la speranza nel rifugio, hai aperto le porte alla più turbinosa tempesta.
F. Petrarca, De remediis utriusque fortunae
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Difficilis facilis, iucundus acerbus es idem: nec tecum possum vivere, nec sine te.
{Complicata e facile, gioviale e aspra tu sei, contemporaneamente: né con te, né senza di te ormai posso vivere.}
Marziale, Epigrammi, XII, 46
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da che ti conosco
in questo diario
sono cominciate le cancellature
e ogni poesia
è diventata un grido sordo
perduto nel vento
ogni parola
un fruscio d’incertezza
come il falso amore che m’hai regalato
così grandioso ma pronto a crollare
alla stregua d’un castello di carte:
un giorno non molto lontano
lo prenderò
lo farò a pezzi
e ci costruirò un aeroplano
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Essere ricchi per lei significava avere Nino, e poiché Nino se n’era andato si sentì povera di una povertà che non c’era denaro in grado di cancellare. Poiché a quella sua nuova condizione non c’era rimedio – aveva commesso troppi errori fin da piccola e tutti erano confluiti in quell’ultimo errore: credere che il figlio di Sarratore non potesse fare a meno di lei come lei di lui, e che il loro fosse un unico eccezionale destino, e che la fortuna di amarsi sarebbe durata per sempre e avrebbe tolto forza a qualsiasi altra necessità – si sentì colpevole e decise di non uscire più, di non cercarlo, di non mangiare, di non bere, ma aspettare che la sua vita e quella del bambino perdessero ogni contorno, ogni possibile definizione, e lei nella testa non trovasse più niente, nemmeno un briciolo della cosa che la faceva incattivire di più, vale a dire la coscienza dell’abbandono.
Elena Ferrante, Storia del nuovo cognome
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un giorno mi hai detto
che speravi di essere
il mio rifugio
non pensai però al fatto
che i rifugi sono temporanei
e che si scelgono per le guerre,
le malattie ed il buio
mentre io volevo il sole
la brezza della primavera
la giovinezza
e sciocca pretendevo che qualcuno
tutte queste cose
me le regalasse
come un dio capriccioso
che dopo tanto penare
eccoci finalmente nelle sue grazie
come poteva funzionare?
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Essenziale per il bello non è la presenza dello splendore immediato, ma l’essenza raccolta nel passato. […] Non è l’immediata presenza delle cose a essere bella. Per la bellezza sono essenziali le segrete corrispondenze fra le cose e fra le idee, che si stabiliscono oltrepassando grandi spazi di tempo. Proust crede che la vita stessa sia una rete di relazioni che essa tesse senza posa tra gli esseri, tra gli avvenimenti, che li intreccia, li raddoppia per far più fitta la trama, tanto che fra il menomo punto del nostro passato e tutti gli altri una ricca rete di ricordi lascia solo la scelta delle vie di comunicazione. La bellezza ha luogo là dove le cose si rivolgono l’una verso l’altra ed entrano in relazione fra loro. Essa narra. La bellezza, come la verità, è un evento narrativo: la verità comincerà solo quando lo scrittore avrà preso due oggetti differenti, ne avrà stabilito il rapporto. […] Le metafore sono relazioni narrative, fanno dialogare fra loro cose ed eventi. È compito dello scrittore metaforizzare il mondo, il che significa poetizzarlo. La sua visione poetica scopre le segrete relazioni fra le cose. La bellezza è un evento relazionale, ed è insita in essa una specifica temporalità che si sottrae al godimento immediato, perché la bellezza di una cosa appare soltanto molto dopo, alla luce di un’altra cosa, come reminiscenza. Essa è fatta di sedimentazioni storiche che fosforeggiano. La bellezza è un indugiante, un ritardatario. Bello non è l’istantaneo splendore, bensí un silenzioso riverbero. La sua nobiltà sta in questo trattenuto riserbo. Stimolazione ed eccitazione sbarrano l’accesso al bello. Le cose svelano la loro segreta bellezza, la loro essenza profumata solo successivamente, per vie traverse. Il tempo lungo e la lentezza rappresentano l’andatura del bello.
Byung-Chul Han, La salvezza del bello
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“L’universo è pieno di indizi o sistemi di misura potenziali, che nessuno rileverà mai. E viceversa, forse ogni cosa del mondo potrebbe diventare significativa, se fosse inserita nel sistema adatto di domande.”
Ugo Volli, Manuale di semiotica
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Cominciò come una gragnuola di goccioloni grandi e radi, che, battendo e risaltando sulla via grande e arida, sollevavano un minuto polverio; ben tosto si spessarono in pioggia; e prima ch’egli giugnesse al viottolo, la veniva giù a secchie. Egli, lungi dal darsene fastidio, vi sguazzava sotto, si godeva quella rinfrescata, in quel borboglio, in quel brulichio dell’erbe e delle foglie, mosse, sgocciolanti, rinverdite, lucenti; mandava certi respironi larghi e pieni; e in quel risolvimento della natura sentiva come più liberamente e più vivamente quello che s’era fatto nel suo destino.
Alessandro Manzoni, Promessi Sposi
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La pigrizia mi assale, ma non mi piace chiamarla così. Il suo vero nome è accidia e come già Petrarca spiegava nel suo Secretum, si tratta di grandissimo male. Dunque questa pesantezza, questa voglia di giacere a letto e dormire, questa condizione di stasi e compiaciuta constatazione del proprio mal stare. Io ho sempre pensato che Petrarca con il suo dialogo filosofico “segreto” ponesse le basi delle moderne Nausea e Noia, sorelle ormai atee e scevre di cristianesimo, dove il peccato semmai diventa metafisico e condizione di colpa ineludibile dell'esistenza. E alla fine tutta la storia di Dio, era solo un modo di trovare qualcuno a cui chiedere scusa - perché a se stessi non ce la si fa - e di rigar dritto per non essere insomma puniti etc., quando ormai ora si capisce che la punizione è già qua, dentro i gesti, e che non esiste nessun Dio a cui scusarsi, ma solo la nostra coscienza che attende di essere salvata da uno sforzo che è tutto quanto umano.
E quindi niente pensavo che nonostante Dio, Petrarca era un figo e mi piace tanto.
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