lampieroi
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Lampi eroi
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poco usato, superfluo, serbatoio, divano/zattera - tema: minimal by arturkim
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lampieroi · 2 months ago
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nina b.
la mia insegnante mi ripete che il canto è una questione sentimentale. Ogni mese salgo su un treno e d'improvviso rammento che lo dirà un'altra volta: aspetta anche lei che io liberi me stessa. Chiede un'apertura come diritto fondamentale: io cerco dentro quale sia la porta da spalancare. Mentre cammino risolvo problemi che poi devo lasciare fuori dalla stanza, accanto alle scarpe. Conosco il tragitto, ma resto sempre col dubbio quando devo svoltare. A Venezia sembra di non andare mai da nessuna parte. Con le note non nascono problemi, ma è il fatto stesso di respirare che mi contesta: qualche volta dopo una lunga giornata penso che sia un fallimento sbagliare anche a prendere l'aria. Nelle piccole piazze c'è sempre qualcuno che fa festa e può tenere la sciarpa al collo, mentre a me è chiesto di levare ogni strato. Appena succede il nostro stupore riempie lo spazio prima della battuta successiva: lei mi fa un complimento e io rido provando a nasconderlo. Al ritorno devo affrettarmi se è buio, non avere nessuna incertezza tra me e la stazione pensare già alla busta lasciata in ingresso così allo stesso modo dopo una nota perfetta la mia apertura finisce e Nina chiude la bocca, mi dice che è normale e il mio corpo è tornato al riposo, tutto è come prima perché lui mi difende. Sembra uno scherzo che la posizione migliore sia quella di un ponte medioevale issato, la comodità che nessuno entri e nessuno esca, mentre per andare e tornare da queste lezioni sono quattro i cavalcoli da scendere e salire. Eppure è serissimo il corpo, che ieri ha pianto appena la nota si è fatta una breccia un'acqua venuta fuori non per lo sforzo, ma forse come segnale del suo disappunto.
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lampieroi · 2 months ago
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cibo_matto
oggi ho pensato a una scena, una scena solita nei miei ricordi, che ogni tanto trapela forse perché sicura di non essere ancora stata spiegata, giustificata, stretta in una cornice di senso. Sono al liceo, un periodo di cui ho dimenticato quasi tutto, come se non fosse stato importante, anzi meglio, come se semplicemente non fossi stata io ad attraversarlo. E in effetti non lo sono. La lezione di filosofia con il prof. S. era quasi finita; lui poi è diventato vicepreside, ha lasciato la nostra classe per scelta, ne ha tenute altre ma la nostra no, diceva che lo avevamo ferito, non ricordo più perché. Qualche mossa avventata dei finti bulli della nostra sezione, ragazzini cattivi ma resi innocui dai loro soldi e dalla loro scarsa attenzione. Non ricordo più perché durante l'ora di S., quel giorno, nella mia testa ci fosse a ribollire la mia tristezza, perché fossi così fragile durante quell'ora e non altre, non ricordo per esempio se il giorno prima mi fossi abbuffata o se quello sia un altro ricordo. Si mescolano se provo a pensarci i flash delle merendine comprate di nascosto, per mangiarle con rabbia da sola. Forse non era nemmeno successo, il giorno prima. Eppure io mi sentivo aggredita; da me stessa probabilmente. Mi sentivo finita. Drammatica come solo un'adolescente può considerarsi, senza essere ridicola. Oggi il problema della tristezza è che deve sempre scontare il senso della vergogna e del ridicolo. Alla fine di quell'ora, la sensazione dev'essere diventata incontenibile perché ho seguito S. in corridoio, lui stava parlando con un'altra alunna, l'ho aspettato pazientemente a pochi metri di rispettosa distanza. Poi sono andata da lui dicendogli di dovergli parlare. Sono immediatamente scoppiata a piangere, lì in corridoio, davanti a tutti, cosa che avrebbe acceso quel senso del ridicolo fino ad allora rimasto sopito. Lui non capiva, io ci ho messo un po' a spiegare che il problema era il cibo, la mia forma, il fatto che non riuscissi a smettere. Questo ricordo ogni tanto sobbalza e si prende spazio, soprattutto per quello che è venuto dopo, lui non ha fatto una piega, ma nemmeno ha capito, si è messo a elencarmi dei menu che avrebbero potuto aiutarmi, cento grammi di carne bianca, ricordo questo, lui che dice 'una fettina di pollo', io che penso che lo dice con una voce gentile, ma che non c'entra nulla, non ho bisogno di una dieta, ma di essere contenuta, capita. In questo strano ricordo io annuisco e mi asciugo le guance, lui prova a consolarmi. Io chiudo l'argomento, lo ringrazio e lo lascio andare oltre. A S. ho voluto bene anche se non ho mai capito perché fosse convinto di aver capito me, in quegli anni. Mi voleva bene, è morto due anni fa.
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lampieroi · 6 months ago
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Fissità
Da me a quell'ombra in bilico tra fiume e mare solo una striscia di esistenza in controluce dalla foce. Quell'uomo. Rammenda reti, ritinteggia uno scafo. Cose che io non so fare. Nominarle appena. Da me a lui nient'altro: una fissità. Ogni eccedenza andata altrove. O spenta.
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lampieroi · 6 months ago
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FALSE ACACIE
Un blocco di false acacie diritte all’apparenza d’anima invece obliqua pescano in un mare d’ombra producono un verde di sott’acqua supporti d’usignoli e di silenzio tendono forti braccia diffondono qualcosa chiuso orto infinito bel serbatoio di ciò che non appare.
Bartolo Cattafi, 1977
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lampieroi · 6 months ago
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corinna (aprile)
la tua voce distinta tra tutte le altre, penso somigli a un sussurro tutte le parole in suo pugno acquistano fiducia, non ne ho mai paura. Tu stessa provi ad afferrarla con le tue mani, quando vuoi dire e disegnare una persona o una ferita. Non ha colore, ma io le trovo motivi ricorrenti: liquida di giorno, scorre sotto la luce o la pioggia aeriforme e quasi sospesa senza toccare terra, quando è arrivata la sera. Eppure sei sempre tu. Hai dei colori caldi. Non posso che fermarmi quado la sento. Ho la sicurezza un po' arrogante di averti già riconosciuta alla prima parola; lo stupore non viene dalla deviazione, ma dalle conferme. E non è un colpo meno profondo. Qualche volta però mi domando se quest'abbandono sia sintomo di ingiustizia, mi ritrovo a contare le parole che ti ho detto quasi facendomi una colpa di una rara fiducia. Allora poi penso a quando mi dici di far bruciare anche le gocce, quello che di me sparisce quando lo piango.
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lampieroi · 6 months ago
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vaso
Tutto è in superficie e per questo tutto scotta mi dicevo solo qualche istante fa, ma saperlo non comporta un sollievo della bruciatura né può ricucire i lembi. La pelle aperta, le parole ormai troppo vicine il senso di amicizia con me stessa confuso nella stanza. Per coprirlo è uso comune cercare un odore più forte come il profumo alcolico che punge solo pochi secondi o qualsiasi altro tentativo di assuefazione. Del resto un'essenza sul collo freddo si spegne in fretta come un dito colpito di vino, immerso in una padella vuota e ben calda a evaporare. I miei limiti, quello strato sottile di pelle assomigliano a un vaso scavato dentro, fatto per contenere non per farsi esplorare. Il suono invece severo di queste infiammazioni
è quello come di una gola in subbuglio e io congelata con le mie parole dentro pacifica, mi sono sempre fermata. Qualcuno pensa che mi sia mancato il coraggio di uscirne.
Non conoscevo altro bisogno e così serrata da dentro non mi sono mai mancata, non sapendo ancora cosa volessi far saltare fuori.
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lampieroi · 11 months ago
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Invernale
Ha messo su un disco di Rory Gallagher per metterci a tacere. Voleva farmi sentire di nuovo Tattoo Man, ma in realtà si è perso nei brani precedenti, mettendosi a ballare per sdrammatizzare un discorso che lui stesso aveva tirato fuori. Il bisogno di sdrammatizzare tutto è una cosa che ho sempre detestato nelle nostre discussioni da focolare domestico. Mio padre è così, e sa anche cosa ne penso: il re della repressione, un'eredità pesante che mi ha consegnato mentre tutti incolpano il cattolicesimo, che pure non aiuta. Ma parlare dei ricordi dolorosi gli scatena una rabbia inusuale; di colpo sembra che ogni traccia della sua pelle scateni un prurito che potrebbe rivelarsi fatale, come quando eravamo piccoli e gli abbiamo attaccato la varicella. Abbiamo ancora le fotografie che mia madre gli ha scattato con quella vecchia Leica grigia e nera con il flash smontabile che sembrava il sidecar di un piccolo veicolo, la fotocamera aveva il motore e il flash si faceva portare in giro per illuminare le nostre facce o, in quel caso, una schiena piena di papule rosse, come tende di un nemico che aveva conquistato una terra straniera accampandosi dove non avrebbe mai dovuto.
Stavamo parlando dei suoi genitori, per cui continua a nutrire un gigantesco senso di colpa che, pure quello, sembra disegnare una freccia invisibile, che parte da me a lui, o da lui a me, per indicare la nostra somiglianza. Nessuno concorda con quel senso di colpa, pensiamo che sia stato un figlio straordinario fino alla fine; ma per lui è impossibile vederla a questo modo, così parla di loro in un singulto amoroso brevissimo, e un attimo dopo i muscoli si irrigidiscono e il suo viso diventa una lavagna impenetrabile su cui scrive solo una rigida negazione. Non si parla di queste cose.
Repressione incoerenza e inutile comicità: dover sempre sdrammatizzare invece di piangere e guarire. Letteralmente le mie paure e le mie profezie che faccio puntualmente avverare nella lotta con me stessa.
Oggi ho ripensato a quel momento, ambientato nel salotto di casa dei miei, lo stereo acceso e mio padre che mi ricorda che Rory Gallagher sarebbe per pensiero unanime universale il miglior chitarrista del mondo, per correggere l'inciampo di aver citato la propria madre. Ci ho ripensato mentre ero seduta al tavolino di un bar e chiudevo con un rumore ovattato "Invernale" di Dario Voltolini, un libro sul decadimento della carne di un padre, altra cosa che mio padre ha vissuto, perché, come ricorda, già tre genitori gli sono morti fra le braccia. Anche se il quarto, quello che invece è diventato un fratello nel tempo e che alla fine è stato un figlio, è quello che ancora riconosco gli ha fatto più male.
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lampieroi · 11 months ago
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malaga
In un giorno di luce bianca mi sono seduta a perdere tempo, contro il vento che mi scivolava sulla fronte io che protestavo sottovoce predicendo un malanno. La voce di un vecchio amico mi sibilava contro in quel getto d'aria del mare. Sono rimasta lì troppo a lungo, come tutti i miei desideri. Aspettavo un conto salato, le sardine morivano sullo spiedo. Ho immaginato tutte le volte che ti ho fatto arrossire. Mi sono portata via una bottiglia ancora mezza piena. Come tutti i tuoi desideri. Una squadra di gabbiani minacciava dall'alto. Sono tante le mie irragionevoli paure. Adesso già è sceso questo colore polvere che anticipa la notte. Erano quattro minuti fa le acque rosa che si producevano nelle onde. Due volte la canzone che ho ascoltato e che compie un anno. Mi sono nascosta nell'erba bassa e ti ho rivisto. Intanto l'onda quando sta per finire si gira in quelle dita bianche che toccano la sabbia. Io vedevo una colla che mi tirava giù a fondo.
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lampieroi · 11 months ago
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a.
qualche volta vedo sulla tua testa una vena che non c'era brilla come una corda di strumento, grigia quasi verde, silente al fianco degli occhi, sopra l'orecchio. Non è dettata da un'emozione in particolare, tra quelle che so decifrarti, questo aumenta il tuo dispettoso mistero. Cerco allora di ripercorrerla sentiero all'indietro e scendo per trovarti, a costo di altre sorprese. Spesso parli a bassa voce, per ascoltarti, ma contieni così tante parole e qualche volta ti scusi se ti scappano dalle labbra nei pomeriggi in cui ci sediamo fianco a fianco e io ti evito lo sguardo avvicino solo il ginocchio, provando ad urtarti. A volte ascoltandoti non ti ho capito ma ritornavo all'origine di te per fugare il mio dubbio.
Certe volte sbarri gli occhi. Sono piccoli dettagli impeccabili che ti trasformano in una persona nuova. Si portano si mettono a fuoco le cose che vedevo da sempre: le tue mani con i tatuaggi che ho fotografato, il suono quando sgranchisci la voce, come sporge la bocca quando non dici niente la tua altezza che pure si fa vicinanza.
Anche questo segreto che ti scrivo ha il ritmo spezzato per il ripensamento tutte le volte che ho fatto un rumoroso respiro ritratto la mano o ritratto il corpo mentre il mio pensiero si faceva l'addetto alle emergenze e quella vena appariva a intermittenza per indicare le differenze tra la paura e la vicinanza.
Certe volte sbarri gli occhi. In oltre un anno mi piace pensare a quando mi hai detto: avevi ragione tu riconoscendomi di averti visto profondamente confessandomi poi un altro genere di piccole verità. Tutte le volte pioveva per trattenerci, tranne ieri.
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lampieroi · 2 years ago
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Giorgia
sotto i tuoi capelli che mi ricordano per colore la notte per mistero il telo pesante di un palco nell'altra stanza per riflessi la luce di un collo di bottiglia scavalcata da una lampada sotto i tuoi capelli c'è il suono, dicevo dei tuoi pensieri. Frusciano come foglie, graffiano come rami millepiedi che io mi fermo a contare, come corre il mio desiderio di sentirli frusciare per ore attraverso la tua bocca. A guardare da vicino anch'io mi rischiaro, divento campagna una velocità diversa, parole veloci per stare ai tuoi mille veloci passi una lentezza diversa per raggiungerti in silenzio e assecondare il desiderio che corre di poterti ascoltare. Non ho mai sentito il bisogno di guadagnarmi spazio tuo assente, mi manca il coraggio di ripensare alla sconosciuta che sei stata o alla paura che provo almeno una volta alla settimana quando la mia domanda d'amore sembra farsi inadeguata e posticcia e ogni volta che mi rassicuri con la tua amicizia prometto di non chiederti più niente di così volgare. Seta e pelle: ci scambiamo di continuo la consistenza e non c'è un'altra persona che mi faccia quest'effetto così mi ritrovo in tutto quello che ti definisce chiedo a me stessa di esserti diversa per avvicinarmi alla tua essenza. Non porti anelli, ti piacciono i baci senza rumori sono due cose che so di te.
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lampieroi · 3 years ago
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I fiumi risplendono più facilmente, ogni volta che il sole insidia i suoi raggi nell’acqua le lettere d’oro sulla tua tomba restano invece perennemente opache come se le toccasse solamente la luna. Il cimitero di Torre è pieno di insetti: fermi in attesa diligente tra una visita e l’altra ci aspettavano ci rubano il sangue mentre noi ti piangiamo. È impossibile prendersi il proprio tempo, come del resto in tutta una vita così che la mia rabbia monta e distrae un dolore che torna a battiti lenti ma certi. Tutto il camposanto è un vortice di vento, l’inverno e l’estate ti riga le guance più dell’acqua che piangi, eppure ancora adesso che settembre se n’è quasi andato conserva i tratti più odiosi dei mesi caldi: i becchi su tutta la pelle per quei morsi affamati e un senso di eterna confusione insoddisfatti come se i giorni ci prendessero in giro, con quella incessante voglia di festa proibita proseguiamo finché la punizione è completa e possiamo tornare al riparo dell’autunno. Ci dimentichiamo tutte le volte che anche la fine dell’anno ci può fare del male.
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lampieroi · 3 years ago
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L'ultima volta che ho visto mio zio D. è stato il 23 dicembre 2016, credo. Mi sembra di ricordare così, mi sembra che fosse il ventitré e non il ventiquattro, perché il giorno della vigilia di solito non metto piede fuori casa fino al cenone, salvo qualche incursione, salvo forse comprare un regalo di Natale in ritardo, una volta per esempio sono uscita a cercare un profumo da mio padre per mia madre, perché mio padre pensava bene di comprarlo il 27.
Quindi penso fosse il 23 dicembre, eravamo nel salottino del piano di sopra, dove ora ci sono delle poltrone rosse che forse c'erano anche allora.
Mio zio D. ha riso insieme a me di mio cugino, che aveva appena preso un cucciolo di cane insieme alla sua compagna, procurandosi le ire di mezza famiglia che vive a 300 km da lui ma che comunque aveva un'opinione molto precisa di quel cane, un'opinione negativa ovviamente. Il cane peraltro è stato chiamato Caos.
Mio zio quel giorno mi ha parlato della sua personale resurrezione, del fatto che sentiva che concluse le terapie sarebbe cominciato qualcosa di nuovo, una nuova vita; ora, mi è venuto naturale scriverlo come se fosse accaduto a me, ma ora ricordo meglio ed è stato mio fratello a raccontarmi questa conversazione tra di loro, dopo che mio zio è morto tre giorni dopo il 23 dicembre.
Mi sarebbe piaciuto che quella conversazione lui l'avesse avuta con me, la nipote umanista, la più affettuosa, la più ciarliera, la poetessa, la sinistrorsa, senza alcun dubbio la più sentimentale e come tante volte abbiamo appurato (o hanno appurato) la più appiccicosa. Sarebbe stato logicamente più naturale, mi verrebbe quasi da polemizzare.
Invece con me zio si è ritrovato a parlare di diritti di proprietà e società in accomandita semplice.
Mio zio insieme a mia madre e mia zia gestiva la SAS che porta il nome di mio nonno, una persona che ha continuato a invocarlo più volte di notte anche dopo che mio zio non c'era più: non per cattiveria, ma per Alzheimer, ma urlando il nome di D. così tante volte che avrei davvero voluto mollargli un ceffone una sera, mentre non prendeva sonno.
Io in quel periodo stavo studiando diritto privato, o diritto commerciale; la logica vorrebbe che fosse diritto commerciale, ma io ho in testa il manuale di diritto privato, rosso come le poltrone che forse c'erano già nel salottino o forse sono state messe dopo.
Per curiosità, per applicare la teoria nella mia vita e nella vita di questo negozio che è stato vulcano dimora e officina di 11 di noi, adesso 9, ho cominciato a fargli domande sul suo status di titolare, o meglio di socio accomandante. Qualche risposta me l'ha saputa dare, qualcuna me l'ha data un po' sbilenca, quasi indisponibile.
Ancora ripenso con una lucidità chiarissima a quando mia madre giorni, o settimane o mesi dopo, mi ha detto che chissà, forse una certa risposta non proprio esatta mio zio me l'aveva data pensando che io stessi indagando sulle divisioni della società per capire il mio ruolo in tutto questo. A volte ripensare che nel nostro ultimo dialogo mio zio mi credesse una potenziale arraffona, che gli faceva il malocchio pensando alla propria fetta di torta, quasi mi toglie il respiro. Ma poi, sarà andata davvero così? Lo avrà davvero pensato di me? Di me che ero la più affettuosa, che da piccola mi mettevo sulle sue ginocchia mentre decidevamo che ogni polpastrello del suo dito corrispondeva ad un pulsante per attivare uno specifico particolarissimo metodo di fare il solletico, diverso dagli altri, come se lui fosse una macchina di una divertentissima tortura a base di risate. Io che non ho mai pensato che potesse morire, che la ritenevo una preoccupazione quasi paranormale. 
Alla vigilia sono uscita solo per il cenone, ma a chiamarlo cenone sembra grottesco, quanto la serata che è stata. Mio zio non c'era, l'ambulanza è venuta a prenderlo nel pomeriggio per un malore. Mia madre, mio padre, mia zia, mio zio erano corsi con lui in ospedale.
Noi eravamo incastrati a mangiare quantità imbarazzanti di cibo con mia nonna e mio nonno. A mia nonna tremavano le mani, noi abbiamo passato metà del tempo a ridere di cose che non avrebbero dovuto farci ridere.
Mio nonno ad un certo punto si è fatto la pipì addosso. Mio nonno era di stazza grande, aveva una sedia a rotelle per navigare lungo i corridoi di una casa che non si ricordava granché. Quando ha urinato, a noi è scappata una risata, inadeguata, isterica, un'altra risata nervosa in una serata nervosa. Certe volte non riesco a credere di aver riso anch’io, ma forse ho riso soltanto io. Mia nonna per la prima volta in 23 anni di vita, ne avevo ventitré, ci ha gridato contro. Ci ha detto su, si dice in Veneto. E io ricordo il mio sguardo che da giù, dal pavimento bagnato, sale su e si ferma sulla tovaglia a quadretti rossi e bianchi su cui trionfavano gli antipasti ancora avanzati (sarebbe stato troppo cibo anche con tutti i presenti), le linguine di pesce, mio fratello che sta bloccato perché siede dalla parte del tavolo che pone lui tra il tavolo e il muro e quindi anche volendo non si può muovere agilmente. Il mio sguardo si ferma sul tavolo e prende metà del corpo di mio fratello, gli altri non li prende nemmeno. Lo vedo lì fermo e poi la mia memoria si ferma.
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lampieroi · 3 years ago
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Al pari di un profilo conosciuto, o meglio sconosciuto, senza pari Fra gli altri animali, unica terra La tua forma casuale quanto amai.
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lampieroi · 3 years ago
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In ogni gioia breve e netta scorgo il mio pericolo. Circolo chiuso ad ogni essere è l’amore che lo regge. Tendo a questo dubbio intero, a un divieto in cui cogliere il sospetto e la lusinga del mio movimento. Universo che mi spazia e m’isola, poesia.
1932
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lampieroi · 3 years ago
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Non rifugiarti nell’ombra di quel folto di verzura come il falchetto che strapiomba fumineo nella caldura. È ora di lasciare il canneto stento che pare s’addorma e di guardare le forme della vita che si sgretola. Ci muoviamo in un pulviscolo madreperlaceo che vibra in un barbaglio che invischia gli occhi e un poco ci sfibra. Pure, lo senti, nel gioco d’aride onde che impigra in quest’ora di disagio non buttiamo già in un gorgo senza fondo le nostre vite randage. Come quella chiostra di rupi che sembra sfilacciarsi in ragnatele di nubi tali i nostri animi arsi in cui l’illusione brucia un fuoco pieno di cenere si perdono nel sereno di una certezza: la luce.
Eugenio Montale, Non rifugiarti nell'ombra...  (da “Ossi di seppia”, 1925)
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lampieroi · 4 years ago
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ero a vedere “marx può aspettare” il cui protagonista è, dovrebbe essere, Camillo Bellocchio, il fratello gemello del regista. Scorrevano sullo schermo queste vecchie fotografie di un ragazzo bellissimo, stupendo, mentre le voci calde impastate e molto molto emiliane dei suoi fratelli raccontavano la sua depressione, l’insoddisfazione, l’angoscia per il futuro e forse ancor più per il pesantissimo presente, tutte cose capite postume di Camillo Bellocchio che si è ucciso a ventinove anni, nel 1968 come Luigi Tenco; quando l’ho pensato mi sono detta “che fissata che sei”, poi hanno parlato di Tenco anche i Bellocchio del film, mi sono meravigliata del paragone, che addosso ad un membro della mia famiglia avrei avuto paura di fare. Come sempre, per me che non ho la bocca per il cinema, un film bello è un film in cui le persone sullo schermo diventano scatole vuote, memorie soprattutto, cartine tornasole. Le persone intervistate parlavano di questo ragazzo con una certa sofferenza, coperta però da un velo sincero di serenità, distacco, rassegnazione dato il tempo che è passato, questa è la cosa che più mi terrorizza ed è quindi per me la componente horror di una cosa ricercata ma nuda, senza effetti speciali. Camillo Bellocchio in bianco e nero qui fatico a non guardarlo, è perfetto, perché è fermo e proprio perché è una sorta di messaggio, è una vita ma abbastanza lontana da riempirsi delle vite di altri; che certo non posso nominare qui, ma che ritornano sempre. Sembra un fantasma non lui ma la storia della sua impiccagione; e tutto si fa vero, tutte le versioni conflittuali di persone diverse che vogliono ricordare ma non come gli altri. Eppure c’è sintesi dentro il suo corpo, solo perché silenzioso e con un sorriso che accontenta tutti mentre affonda.   Alla fine Camillo Bellocchio è un gemello invisibile che nemmeno per noi può farsi protagonista della propria storia, perché le presenze dei fratelli riempiono lo spazio e il suono; così è scritto male, ma lui pesa perché è ininfluente. Tranne nei secondi in cui è inquadrata una sua fotografia, ha uno sguardo schiacciante in cui senza volerlo trovo dei tratti familiari, questa emersione però non è una scoperta di niente, al massimo è una confessione. Mi sono accorta che ultimamente ho visto più di un film su membri della famiglia che muoiono, che lasciano gli altri a domandarsi di loro, che preoccupano noi spettatori ma non chiariscono nulla di sé, non perdonano, non concludono le storie. C’è una sorella sorda che dice che una volta morta non ha interesse a incontrare Dio, vorrebbe rivedere solo i suoi. In parte la capisco perché nell’aldilà, forse, cercherei almeno un compimento, un avanzare lineare, ma è un paradosso nel tempo dell’eterno.
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lampieroi · 5 years ago
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Tanti cercano di scrivere, interpretare, impugnare oggi il sentimento del mondo. Di dire come ci sentiamo, insieme nel sentirci così. Sono gli esperti o gli appassionati; ma di certo, sono i chiarificatori. Non tanto scientifici, ma sensibili lettori e cantautori della frustrazione e della solitaria reclusione. Così accurati, quasi degli intrusi. Poi però c'è chi, senza farne un merito ma anzi rammaricandosene, non sa dire nemmeno come sta; che non lo sa dire e che non lo sa proprio. Cosa sia vero e cosa no. Cosa ha sognato la notte prima o cosa prova. Che non sa nemmeno come sta, quel proprio corpo, così prova a farselo dire. Come essere un gregor samsa, stretto in un quadrilatero, trasformato in qualcosa di diverso da sé (ma vale solo se si dice "da me"), un corpo che si porta dentro altre cose, alcune di cui avere sospetto o da tenere bene lontane dagli altri, da rendicontare e da trasmettere alle autorità, agli affetti, agli impegni precedentemente assunti, infine a se stesso. Il corpo di Samsa è il corpo di un insetto parassita (uno scarafaggio, na roba che personalmente mi incute rabbia, paura e schifo, per il singolo e per la colonia che immagino poi persista da qualche parte, non si sa dove ma stai pur certo, troppo vicina), e per non turbare il mondo, ferinamente, o sta in fuga o sta in un antro. Non è naturale che stia dentro la sua stanza, manderà in rovina tutti, parassita dentro e fuori. Eppure si convince che è normale, come fosse sempre stato uno scarafaggio. Si riconosce per uno scarafaggio. E questo pure mi sembra un pericolo, perché trovare un agio in questa condizione, per chi può e per quello che si può, sarà poi preambolo di una sonora mazzata. È bello poter fare affidamento sulla complessità, unica regola: via di fuga dalle frasi di circostanza, dagli slogan, dalle cacce alle streghe, dagli uomini forti, venerati e (apparentemente) risolutivi, da aperto/chiuso, da Salute/Lavoro. Però se si sta dentro un antro la complessità non basta più, non offre niente. E qualsiasi feroce verità è anche un imbarazzo, come quello di essere una specie di insetto. illustrazione bellissima @similasti #quarantena #kafka #illustration #isntitapity https://www.instagram.com/p/CG-dY1_Az2D/?igshid=1wnwf8s21fv13
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