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Pretty neat seeing the silk road overlaid over a modern map
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I poveri di oggi (e cioè coloro che costituiscono un "problema" per gli altri) sono prima di tutto e soprattutto dei "non consumatori", più che dei "disoccupati". Essi vengono definiti innanzi tutto dal fatto di essere consumatori difettosi: infatti, il più basilare dei doveri sociali cui vengono meno è il dovere di essere acquirenti attivi ed efficaci dei beni e servizi offerti dal mercato. [...] Il consumismo, oltre a essere un'economia dell'eccesso e dello spreco, è anche un'economia dell'illusione. Esso fa leva sulla irrazionalità dei consumatori, non sulle loro previsioni informate e disincantate; punta a suscitare emozioni consumistiche, non a sviluppare la ragione. II valore più caratteristico della società dei consumi, anzi il suo valore supremo rispetto al quale tutti gli altri sono chiamati a giustificare il proprio merito, è una vita felice; anzi, la società dei consumi è forse l'unica società della storia umana che prometta la felicità nella vita terrena, la felicità qui e ora e in ogni successivo "ora": felicità istantanea e perpetua. [...] Nella società dei consumi l'infelicità è un reato punibile o, nel migliore dei casi, una peccaminosa perversione che squalifica chi la professa dall'appartenere a pieno titolo alla società. [...] Nella società dei consumatori nessuno può diventare soggetto senza prima trasformarsi in merce. Zygmunt Bauman - Consumo, dunque sono (Consuming Life), 2007

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US states’ main import partners
Canada emerges as the leading import partner for most states, particularly in the Midwest and Northeast. China is a significant partner, especially for states along the West Coast and parts of the South. Mexico is the main partner for several Southern states, such as Texas and Arizona. Other notable partnerships include Germany (e.g., South Carolina), South Korea (Alaska), and Switzerland (New York) Partner:
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È piuttosto nota, almeno a grandi linee, la storia di come la Coca-Cola nacque nel 1886 grazie all’iniziativa di un farmacista ed ex soldato confederato di Atlanta, e di come la bevanda debba il suo nome alle noci di cola, ed alle foglie di coca usate per farla. È invece un po’ meno nota la storia di come la Fanta, altra popolarissima bevanda della Coca-Cola Company, fu ideata nella Germania nazista dal tedesco Max Keith.
La Coca-Cola arrivò in Francia negli anni Venti del Novecento e poi si espanse in altri paesi europei. In Germania arrivò nel 1929 e ci restò anche dopo che nel 1933 il partito nazista prese il potere. Così come molte altre aziende straniere, nella seconda metà degli anni Trenta anche Coca-Cola continuò le sue attività, nel suo caso facendo arrivare nel paese tutto il necessario per produrre la sua bevanda dalla formula segreta. Coca-Cola fu tra gli sponsor delle Olimpiadi di Berlino del 1936, alle quali tra l’altro partecipò Robert Woodruff, presidente della Coca-Cola Company, e secondo dati citati da Snopes nel 1939 la divisione tedesca dell’azienda aveva 43 stabilimenti e oltre 600 distributori locali.
In quegli anni, il responsabile delle operazioni tedesche di Coca-Cola era il non ancora quarantenne Keith, descritto come imponente e carismatico e di cui Mark Pendergrast, autore del libro For God, Country, and Coca-Cola, ha detto ad Atlas Obscura: «Per lui, la fedeltà alla bevanda e all’azienda era persino più importante di quella al suo paese». In breve, Keith – che a quanto pare non si dichiarò mai apertamente nazista – riuscì a mantenere buoni rapporti con il partito nazista, senza interrompere le attività dell’azienda americana di cui era responsabile.
«Nemmeno dopo il 1939, con l’inizio dell’invasione dell’Europa da parte di Hitler, Keith e Coca-Cola fermarono le loro attività», ha scritto Atlas Obscura. E nel 1940 «Coca-Cola era l’incontrastata regina del mercato delle bevande gassate della Germania nazista». Sempre Atlas Obscura ha scritto che «si dice che esista una foto di Hermann Göring che sorseggia Coca-Cola» e che «pare che Hitler amasse bere la bevanda mentre guardava film americani come Via col vento».
A fine 1941 l’attacco di Pearl Harbor e la successiva entrata in guerra degli Stati Uniti cambiarono però le cose. Così come altre aziende statunitensi, anche Coca-Cola bloccò le sue attività in Germania e dall’estero smisero di arrivare gli ingredienti per produrre la bevanda. Non potendo più produrre Coca-Cola e probabilmente temendo che il partito nazista si appropriasse degli stabilimenti, Keith – che peraltro non aveva più modo di parlare con la sede di Atlanta – decise di provare a inventare una nuova bevanda.
Assieme ad alcuni chimici, Keith creò una bevanda con i pochi ingredienti disponibili in periodo di guerra: resti del sidro di mela, scarti della produzione del formaggio e quel che restava della frutta usata altrove. «Usò gli scarti degli scarti», ha detto Pendergrast, «e non penso avesse un buon sapore». Per correggerlo, Keith usò prima saccarina, e poi, dal 1941, zucchero da barbabietola.
Per il nome della nuova bevanda, Keith chiese consiglio ai venditori, incentivandoli a usare la loro fantasia (in tedesco: Fantasie). Uno di loro propose quindi “Fanta”. Anche vista la scarsità di alternative, negli anni della guerra la Fanta ebbe successo nella Germania nazista, anche perché in virtù delle sue alte quantità di zucchero diverse famiglie iniziarono a usarla per insaporire altri alimenti, come fosse un brodo. Nel 1943, si stima – non è ben chiaro se solo in Germania o anche in paesi allora occupati dai nazisti – che furono vendute oltre tre milioni di bottiglie di Fanta.
Tutto questo mentre, come ha scritto Snopes, «negli Stati Uniti i dirigenti di Coca-Cola non sapevano se Keith stesse lavorando per loro o per i nazisti».
A guerra finita, Keith riprese i contatti con l’azienda, riconsegnò stabilimenti e profitti e in conseguenza delle sue attività l’azienda potè riprendere con rapidità a produrre Coca-Cola in Germania. Ci fu anche una sorta di indagine interna all’azienda per valutare quanto fatto da Keith negli anni della guerra, che determinò che Keith non divenne mai nazista, e che anzi andò incontro a diversi problemi per essersi rifiutato di diventarlo. Come ha detto Pendergrast, c’è comunque da tenere conto del fatto che «sarebbe stato impossibile fare affari nella Germania nazista senza alcun tipo di collaborazione».
Nel dopoguerra, a Keith fu assegnato il controllo di tutte le attività europee di Coca-Cola e la Fanta così come era durante il periodo nazista smise di essere prodotta. Una Fanta più simile a quella odierna, al gusto d’arancia, arrivò nel 1955 in Italia, prodotta a Napoli: il nome fu scelto perché ritenuto efficace, a prescindere dal suo passato. La nuova Fanta ebbe poi successo nel resto d’Europa e del mondo, in molti casi avendo molto più successo che negli Stati Uniti, dove non ha mai davvero sfondato.
Del fatto che la Fanta fu inventata durante il periodo nazista si riparlò nel 2015, quando in una pubblicità per promuovere la nuova “Fanta Classic”, venduta in bottiglie dall’aspetto rétro, si parlava di un gusto che voleva richiamare “i bei vecchi tempi”. L’azienda intendeva gli anni Cinquanta, ma ritirò la pubblicità dopo l’accusa che qualcuno potesse pensare che il riferimento fosse invece al periodo nazista.
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Come altre bibite rimaste sul mercato e moltissime altre sparite nel frattempo, la Dr Pepper fu inventata negli Stati Uniti alla fine dell’Ottocento, peraltro un po’ prima della Coca-Cola, in un periodo storico di grande fascinazione per le presunte proprietà curative e benefiche delle bevande a base di acqua gassata (o di soda). Studiata un secolo prima in Inghilterra dallo scienziato Joseph Priestley, l’acqua di soda era già ampiamente diffusa e utilizzata da tempo per ottenere limonate frizzanti, o per mescolarla con il vino. E dalla seconda metà dell’Ottocento negli Stati Uniti veniva mescolata anche con vari sciroppi aromatizzati alla frutta e servita attraverso enormi distributori refrigerati.

Una pubblicità a neon della Coca-Cola a Times Square, negli anni Trenta (AP Photo)
La Dr Pepper fu inventata nel 1885 a Waco, in Texas, in una farmacia: il posto in cui all’epoca era più probabile trovare un distributore di soda. Un giovane chimico, Charles Alderton, miscelò i suoi vari sciroppi dolci con l’obiettivo di ricreare un aroma che ricordasse l’odore della farmacia in cui lavorava come impiegato, secondo il racconto dell’azienda. L’origine del nome è meno chiara: secondo un vecchio aneddoto, ritenuto poco credibile, deriverebbe dal nome di un certo Charles Pepper, che il proprietario della farmacia dove lavorava Alderton aveva cercato di compiacere attribuendogli il nome di una nuova bevanda perché era innamorato della figlia.
A inventare la Coca-Cola un anno dopo, ad Atlanta, fu un altro farmacista: John Pemberton, che come Alderton era un produttore esperto di pillole, sciroppi e altre medicine brevettate non convenzionali, molte delle quali contenevano grandi quantità di alcol, caffeina e altre sostanze. Negli ultimi decenni dell’Ottocento godevano di una certa popolarità, tra le altre cose, perché la promozione di questi medicinali costituiva per i giornali la principale fonte di introiti pubblicitari, come racconta il giornalista inglese Tom Standage nel libro Una storia del mondo in sei bicchieri.
Pemberton utilizzò un ingrediente noto da moltissimo tempo alle popolazioni sudamericane, la coca, che era peraltro già utilizzata in Francia da oltre due decenni per produrre una popolare bevanda a base di foglie di coca infuse nel vino (il Vin Mariani). Alla coca aggiunse estratto delle noci di cola, un’altra pianta di cui erano note le proprietà stimolanti. Il nome gli fu invece suggerito da un suo socio in affari, Frank Robinson, che realizzò anche la scritta del logo. Dopo la morte di Pemberton nel 1888, Robinson trattò poi la vendita dei diritti della bevanda ad Asa Candler, un altro produttore di medicine brevettate di Atlanta.
Oltre all’alcol, eliminato dalla ricetta dopo qualche tempo per rendere la bibita bevibile da un maggior numero di persone, la versione originale della Coca-Cola conteneva una piccola quantità di estratto di coca, e quindi una traccia di cocaina. Fu eliminata anche quella, nel 1901, quando la cocaina cominciò a essere percepita negativamente dall’opinione pubblica (ma altri estratti derivati dalle foglie di coca fanno parte della bevanda ancora oggi).
Uno dei principali fattori del successo pressoché immediato della Coca-Cola, secondo Standage, è che inizialmente l’azienda vendeva soltanto la miscela di sciroppo a base di coca e cola, non il prodotto finito. Candler era infatti convinto che la conservazione della Coca-Cola in bottiglie – che all’epoca venivano chiuse con rudimentali guarnizioni di legno legate con un filo – ne avrebbe alterato il sapore. E questa convinzione semplificò indirettamente l’espansione in altre città e in altri stati, rendendo sufficiente concludere accordi con i proprietari delle spine e i farmacisti del luogo, in modo da spedire loro solo lo sciroppo, da mescolare alla soda, e il materiale pubblicitario.
Candler accettò infine la proposta di due imprenditori, Ben Franklin Thomas e Joseph Whitehead, di imbottigliare la Coca-Cola: contro le sue aspettative, e grazie anche all’introduzione di tappi metallici più pratici ed efficienti, l’accordo incrementò moltissimo le vendite fin dai primi anni del Novecento. Rese la distribuzione della Coca-Cola molto più capillare in ogni città e stato del paese, anche in luoghi privi di distributori di soda, dalle drogherie alle stazioni di rifornimento ai campi sportivi. La forma caratteristica delle bottiglie, introdotta nel 1915 e ispirata alla forma delle fave di cacao (peraltro assente tra gli ingredienti), rafforzò ulteriormente il franchising.

L’evoluzione delle bottiglie di Coca-Cola dal 1894 al 1975 (AP Photo)
Negli anni Trenta tra le concorrenti della Coca-Cola Company la più agguerrita diventò la PepsiCo, che fin dal 1894 produceva un’altra bibita gassata a base di cola, inventata da Caleb Bradham, un farmacista di New Bern, in North Carolina, che aveva aggiunto tra gli ingredienti l’aroma di vaniglia. In origine la bibita si chiamava Brad’s Drink, poi Pepsi-Cola dal 1898, perché veniva pubblicizzata come cura per la dispepsia, cioè l’indigestione.
Durante la Grande Depressione l’azienda si era ripresa grazie alle abilità e alle intuizioni di Charles Guth, un imprenditore newyorkese che l’aveva acquistata dopo la bancarotta del 1923, aveva cambiato la formula dello sciroppo e aveva introdotto strategie di marketing molto aggressive, ancora oggi considerate un tratto distintivo di PepsiCo.
La rivalità tra la Coca-Cola e la Pepsi emerse sia in termini di concorrenza di mercato che come competizione culturale. La prima era associata a valori tradizionali e familiari, non solo perché diffusa da più tempo rispetto ad altre bibite gassate, ma anche perché aveva investito moltissimi soldi in pubblicità che mostravano scene di vita quotidiana o sfruttavano figure già presenti nell’immaginario collettivo, che Coca-Cola contribuì ulteriormente a diffondere. Tra tutte quella di Babbo Natale, protagonista di festosi manifesti pubblicitari della Coca-Cola fin dal 1931.

Una pubblicità della Coca-Cola su un tir a Bruxelles, in Belgio, il 9 dicembre 2006 (Mark Renders/Getty Images)
La PepsiCo riuscì ad affermarsi come antagonista della Coca-Cola Company adottando fin da subito strategie di marketing che richiamavano più o meno esplicitamente la Coca-Cola: una politica poi storicamente applicata anche da altre grandi aziende “numero due”, come Burger King, da sempre la seconda catena di fast food negli Stati Uniti dietro McDonald’s. Una delle prime e più proficue mosse di mercato suggerite da Guth, per esempio, fu vendere bottiglie di Pepsi da 12 once (circa 35 cl) allo stesso prezzo a cui la Coca-Cola vendeva quelle da 6 once. Era una scelta calcolata e relativamente sostenibile, dato che a pesare sui costi finali erano principalmente l’imbottigliamento e la distribuzione.
Per effetto della concorrenza tra Coca-Cola e Pepsi, che determinò peraltro una serie di contenziosi legali, la parola «cola» diventò familiare presso un pubblico sempre più ampio per indicare la tipica bevanda bruna gassata contenente caffeina. Fu un bene per entrambe le aziende, scrive Standage: «La presenza di una concorrente mantenne la Coca-Cola sempre all’erta, e la proposta di vendita della Pepsi-Cola, quella di offrire il doppio del prodotto allo stesso prezzo, fu possibile solo perché la Coca-Cola aveva già creato un mercato».
La partecipazione degli Stati Uniti alla Seconda guerra mondiale fu per la Coca-Cola un’ulteriore opportunità di espandere oltre i confini nazionali la popolarità della bibita, già comunque venduta all’estero. Per volontà del suo presidente Robert Woodruff l’azienda rifornì milioni di soldati impegnati su diversi fronti: furono aperti in tutto il mondo almeno 64 impianti militari per l’imbottigliamento, e furono serviti almeno 10 miliardi di bibite, messe a disposizione anche dei civili vicino alle basi militari.

Mary Spencer-Churchill, volontaria per la Croce Rossa e figlia dell’allora primo ministro del Regno Unito Winston Churchill, inaugura un bombardiere statunitense aprendo una bottiglia di Coca-Cola nella base militare di Ridgewell, nell’Essex, il 24 aprile 1944 (Horace Abrahams/Keystone/Hulton Archive/Getty Images)
Alla fine della guerra uno dei più illustri e improbabili estimatori della Coca-Cola fu il generale sovietico Georgij Zukov, il più importante comandante dell’Armata Rossa, che l’aveva scoperta tramite un altro grande fan, il comandante delle forze Alleate Dwight D. Eisenhower. Non volendo essere associato a una bevanda considerata simbolo degli Stati Uniti nel mondo, Zukov chiese e ottenne dalla Coca-Cola Company – con il benestare del presidente statunitense Harry Truman – scorte private di Coca-Cola in una speciale versione incolore e in bottiglie etichettate con una stella rossa sovietica, in modo da farla sembrare vodka.
Alla fine della Seconda guerra mondiale la Coca-Cola controllava circa il 60 per cento del mercato delle bevande gassate negli Stati Uniti, e nel 1950 un terzo dei suoi profitti arrivava da oltre i confini nazionali. Ma una crescente propaganda internazionale contro la «Coca-Colonizzazione» – un’espressione utilizzata inizialmente dalla sinistra francese – favorì indirettamente la Pepsi, che riuscì a espandersi in alcuni mercati del blocco sovietico e del medio Oriente in cui l’opposizione all’apertura di impianti di imbottigliamento della Coca-Cola proseguì invece per decenni.
In una delle pubblicità più famose e citate, uscita nel 1971, la Coca-Cola cercò di migliorare la sua reputazione di cola più famosa al mondo, indebolendo le passate associazioni al patriottismo e alla guerra. La pubblicità mostrava un gruppo di persone provenienti da ogni parte del mondo, che riunite su una collina cantavano in coro dicendo di voler «comprare una Coca-Cola al mondo».
Intanto, negli Stati Uniti, il successo di Pepsi nella seconda metà del Novecento fu favorito da strategie di marketing che si concentrarono su gruppi demografici a lungo trascurati da Coca-Cola e da altre grandi società, tradizionalmente più attente al mercato rappresentato dalla popolazione bianca. Ma fu trainato, in generale, da pubblicità di grande efficacia e da riferimenti più o meno costanti all’azienda concorrente.
La «Pepsi Challenge», una delle campagne pubblicitarie più ricordate e apprezzate, cominciata nel 1975 e proseguita per anni, rafforzò il ruolo di PepsiCo da principale rivale di Coca-Cola. La serie di pubblicità mostrava alcuni passanti selezionati a caso da una sorta di sperimentatore che chiedeva loro di assaggiare un bicchiere di Coca-Cola e uno di Pepsi in una degustazione alla cieca, e di indicare quale delle due bevande preferissero prima di scoprire le etichette. La maggior parte delle persone diceva di preferire la Pepsi, ovviamente.
Il risultato degli esperimenti mostrati nelle pubblicità della Pepsi – che non erano studi scientifici – fu in parte confermato in alcuni test alla cieca effettivamente condotti da Coca-Cola, che pur dominando il mercato decise di ampliare la propria offerta e migliorare alcuni suoi prodotti in commercio. Nel 1982 introdusse la Diet Coke, una versione dietetica della Coca-Cola, che andò molto bene nelle vendite ma a scapito della versione classica, e a vantaggio della Pepsi nella guerra delle cole tradizionali. Per effetto della concorrenza Coca-Cola controllava ormai nel 1984 solo il 22 per cento del mercato delle bevande gassate: oltre 30 punti percentuali in meno rispetto agli anni Cinquanta.
Il 23 aprile 1985, in quello che sarebbe poi diventato uno dei più raccontati casi di insuccesso nel mondo del marketing, Coca-Cola rimpiazzò quindi la versione classica con una nuova cola: la New Coke. Fu messa in vendita solo negli Stati Uniti e in Canada, mentre nel resto del mondo restò in commercio la versione con il vecchio gusto. Contraddicendo i risultati di test, sondaggi e focus group condotti fino a quel momento dall’azienda, le numerose proteste dei consumatori e le loro minacce di boicottare la New Coke indussero la Coca-Cola a rimettere in commercio la versione precedente, chiamata Coca-Cola Classic. Era l’11 luglio: appena 79 giorni dopo il lancio della New Coke (non più prodotta dal 2002).
Nei decenni successivi la guerra delle cole continuò a essere combattuta principalmente attraverso una lunga serie di spot pubblicitari, molti dei quali trasmessi durante il Super Bowl (Pepsi fu sponsor dello spettacolo dell’intervallo nel 2007 e dal 2013 al 2022). Il messaggio consolidato attraverso le pubblicità era grosso modo lo stesso di sempre, ha scritto il Guardian: «la Coca-Cola dominava il Natale; la Pepsi lavorava con le pop-star», da Michael Jackson a Britney Spears, Beyoncé e Pink.
La progressiva diminuzione dell’influenza della televisione e il successo crescente dei servizi di streaming hanno avuto un impatto anche sulla guerra delle cole. In questo contesto di sostanziale duopolio, pur essendo un prodotto meno rilevante sul mercato, la Dr Pepper ha comunque tratto benefici da una posizione acquisita nel corso del Novecento, ha ricordato Vox. La Coca-Cola Company e la PepsiCo richiedevano di solito ai loro stabilimenti di imbottigliamento di firmare accordi in esclusiva, proibendo l’imbottigliamento per qualsiasi azienda di cola rivale. Lo stesso vale ancora oggi per alcune grandi catene di ristoranti e fast food in cui si vende o soltanto Coca-Cola (da McDonald’s, per esempio) o soltanto Pepsi (da Taco Bell negli Stati Uniti, ma anche in Italia per esempio nella catena milanese Spontini).
Una sentenza nel 1963 aveva tuttavia stabilito che la Dr Pepper non era una cola, perché non conteneva estratto delle noci di cola. E questo permise all’azienda di utilizzare gran parte dello stesso sistema di distribuzione che Coca-Cola Company e PepsiCo avevano creato. La Dr Pepper – che attualmente fa capo al gruppo Keurig Dr Pepper, che produce anche macchine per il caffè e bevande come 7Up e Schweppes – è quindi venduta normalmente in molti ristoranti in cui è possibile bere o Coca-Cola o Pepsi, ma non entrambe.
Anche PepsiCo ha intensificato negli ultimi anni la produzione di bevande diverse dalla cola, tra cui le bevande energetiche, e soprattutto quella di snack di cui è proprietaria: le patatine Lay’s, le Cheetos, i Doritos e decine di altri snack. Matthew Quint, direttore del Center on Global Brand Leadership, un centro di ricerca della Columbia Business School di New York, ha detto al Guardian che PepsiCo è l’unica grande azienda di bevande le cui bevande gassate rappresentano una quota minoritaria del fatturato: più della metà dei profitti deriva dagli snack.
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Real productivity growth in Europe in the past 20 years
Source: OECD data explorer. Data for Turkey, Mexico and Australia is integrate with data from national agencies. The data for Ireland, Luxembourg and Norway has to be interpreted with caution, as hourly productivity is defined as the GDP for hour worked, so countries with high GDP fluctuations due to external causes (tax policies for Ireland and Luxembourg, oil prices for Norway) can have productivity data that do not reflect true growth.
by slicheliche/reddit
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I didn’t factor those extra 15mins into my miserable day
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Denmark (55.9 percent), France (55.4 percent), and Austria (55 percent) levy the highest top personal income tax rates in Europe.
by TaxFoundation/twitter
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Tutto per la produzione...
Mi colpisce molto questo passaggio di Teilhard de Chardin, ne "Il fenomeno umano"
Vivendo in un Mondo che essa [la scienza] ha realmente rivoluzionato, abbiamo accettato la sua funzione sociale, - e persino il suo culto. E tuttavia continuiamo a lasciarla crescere a caso, quasi senza alcuna cura, come quelle piante selvatiche di cui i popoli primitivi raccolgono i frutti nella foresta. Tutto per la produzione. Tutto per gli armamenti. Ma per lo scienziato e per il laboratorio che decuplicano le nostre forze, ancora nulla, o quasi nulla.
Parole scritte una settantina di anni fa, eppure più che mai vere, reali, pressanti. Quasi non serve commentare, anzi non serve. Produzione, armamenti: no, meglio non commentare. Del resto è abbastanza chiaro.
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Amount of active businesses older than 1700 in every country in the world
by trumparegis/reddit
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