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“Sparta (Sulla pittura in Italia)”, Villa Gori, Stiava (Lucca), 4 - 18 marzo 2023
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SPARTA (Sulla pittura italiana), Villa Gori, Stiava (Lucca)
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“Sparta”: Villa Gori, Stiava (Lucca)
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SPARTA
SPARTA (SULLA PITTURA IN ITALIA)
Mostra collettiva, a cura di Paolo Emilio ANTOGNOLI
Con il patrocinio del COMUNE di MASSAROSA, Assessorato alla Cultura e del COMITATO di RAPPRESENTANZA LOCALE
in collaborazione con: MUSKETEERS & PAVILLON SOCIAL ~ MIGRANTE KUNSTHALLE & L’ANGELO ARTISTI ASSOCIATI
LUOGO della mostra: VILLA GORI, Via della Misericordia, STIAVA (LU)
INAUGURAZIONE: sabato 4 marzo 2023: dalle ore 17 fino alle 20.
DURATA della mostra: dal 4 al 18 marzo 2023
ORARI: venerdì - domenica: 17.30-19-30 (o su appuntamento)
PER INFORMAZIONI e per appuntamento: T. (+39) 342 5829365, [email protected]
ARTISTI INVITATI:
Daniele BACCI, Jacopo CASADEI, CCH, Francesco CIMA, Yilixiati DILIXIATI, Lorenzo DI LUCIDO, Francesco LAURETTA, David LUCCHESI, Beatrice MEONI, Giuliano NANNIPIERI, Michela NOSIGLIA, David PAOLINETTI, Luigi PRESICCE, Marco SALVETTI, Eugenia VANNI
Pavillon social ~ Migrante Kunsthalle è lieta di annunciare, sabato 4 marzo 2023 dalle ore 17.00, il progetto SPARTA.
Il titolo della mostra rispecchia lo spirito che anima il progetto. Sparta, innanzitutto, nel senso di una mostra ‘spartana’: di assoluta austerità, per uno spazio pubblico nella provincia di Lucca.
Il progetto nasce dal desiderio di far ripartire l’iniziativa artistica dal ‘basso’, dal marginale, in tempi di crisi e grande difficoltà collettiva.
La mostra nasce anche come progetto-pilota per una mostra itinerante concepita per iniziare a sviluppare una riflessione in progress sulla pittura italiana al presente. Si conclude con la pubblicazione di un catalogo.
Sono stati invitati a partecipare una selezione di artisti d’interesse internazionale residenti in Italia dediti a una ‘pittura di ricerca’.
La pittura ha conosciuto periodi di alti e bassi nel corso degli ultimi decenni: dal ‘ritorno alla pittura’ degli anni ottanta (dopo la stagione concettualista), fino ai costanti ‘ritorni’ alla pittura a breve cadenza dopo il calo d’interesse degli anni novanta e la crisi economica del 2008. Si tratta adesso di riprendere le fila di un discorso confuso e intricato e di fare il punto sull’attuale situazione, oramai affrancati dai pregiudizi che tendevano a considerare la pittura una pratica minore, di per sé conservatrice o comunque antitetica alle arti di ‘avanguardia’, bisognosa per questo di una sorta di lasciapassare culturale per essere accettata.
Sparta richiama anche il nome di una palestra: una sorta di palestra di pittura aperta agli esercizi della mente; una mostra come esercizio e riflessione sulla pittura in Italia o più in generale.
In quanto raccolta più o meno aleatoria di dipinti, la mostra produce di per sé una sorta di reciproco confronto che permette di valorizzare somiglianze e differenze. Non c’è perciò alcuna selezione riguardo a stile, genere o corrente pittorica – privilegiando appunto le differenze.
La Versilia è conosciuta per le iniziative artistiche della cosiddetta ‘Piccola Atene’, ossia Pietrasanta. A Stiava siamo invece ai margini della Versilia, in un paese povero e modesto, ma in un certo senso ‘fiero’ delle proprie origini operaie e contadine – un paese che fra Otto e Novecento annoverava tre teatri e cinque sale cinematografiche.
Villa Gori a Stiava è adesso centro civico del Comune di Massarosa: una piccola villa in stile eclettico trasformata negli anni settanta in fabbrica di rasoi e infine in centro culturale dalla seconda metà degli anni ottanta. La villa è stata animata con mostre dal lavoro volontario di associazioni culturali locali, in primis del Circolo Culturale Mario Cosci.
Il luogo è un’area della Toscana scarsamente interessato dall’arte contemporanea. Il progetto si propone di gettare semi per lo sviluppo di attività artistiche sul territorio con il coinvolgimento di istituzioni, scuole e abitanti per una diretta partecipazione ai progetti.
Pavillon Social ~ M.K., nata nel 2011, riprende le attività con questo progetto, dopo il trasferimento da Lucca nel 2016 all’interno di un cappotto.
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SHANNON BOOL - Don't know what you’ve got till it's gone
“Hi, just back ... I was thinking of the title: "Don't know what you've got 'till it's gone" as the phrase jumped into my head when I was making the works. Both the carpets and photograms illuminate information through formal subtractions (cutting out Maria, cutting out Paris exhibition figures) and replacements, the beauty of absence...
It is a quote from a Joni Mitchell song from the seventies (Big Yellow Taxi); you pave paradise and put up a parking lot.”

Pavillon social Kunstverein è lieta di annunciare la mostra personale dell’artista canadese Shannon Bool, sabato 27 settembre alle ore 18:00.
Nel momento in cui l’occidente colonizza l’oriente, cristallizzando un’idea di se stesso tra otto e nove- cento, è allora che inizia a immaginare il levante come diverso; per poi però adottarne la suggestione come evasione dal raziocinio (anche attraverso le droghe: l’oppio e l’hashish), dalla storia progressiva (verso eclettici revival), dall’oppressione dell’abbigliamento, da religioni repressive e infine dalle costri- zioni sessuali - immaginando harem, costumi disinibiti esotici ed erotici.
La sessualità cacciata dalla porta d’ingresso; ovvero la doppia morale, borghese e vittoriana, lascia che sia proprio l’erotismo a rientrare dalle finestre. Ci si riferisce al tempo di Freud e della scoperta dell’inconscio, quando nel suo studio ricoperto di tappeti orientali, da una scrivania affollata di divinità egizie e pagane, il padre della psicanalisi oppone il baluardo materialista della teoria sessuale a fronte del proliferare dei simboli e del neo-spiritualismo dilagante.
Se il progresso della cultura occidentale sembra dover coincidere con la rimozione dell’ornamento da ogni utensile, da un lato ecco Adolf Loos, con l’ornamento come delitto, e poi da un altro Ludwig Wittgenstein, tra la progettazione della casa di sua sorella a Vienna e la riformulazione della logica, del suo Tractatus che sembra una tabula rasa, pur provvisoria, alla ricerca di punti fermi.
Eppure, dal lato artistico, ecco allora che la nascita della modernità tra otto e novecento si associa all’eclettismo storicista e orientalista, allo stile floreale, la riscoperta dell’art nègre, poi all’art deco. E’ così che torna l’arabesco quale contrappasso barocco alla linearità razionale. Si direbbe che la nascita di un paradigma culturale moderno e occidentale cresca sulle spalle di ciò che nel medesimo tempo reprime: il fascino della natura, della libera crescita dei fiori, delle piante, e dei corpi liberi dalle costrizio- ni culturali come nella danza di Isadora Duncan, i vestiti di Mariano Fortuny o Paul Poiret, il vegetaria- nesimo, la scoperta delle culture orientali... Shannon Bool sembra ripercorrere questo continuo para- dosso tra repressione e ritorno del represso. In una modalità quasi narrativa in Harem inverted, dove esili colonne di metallo, che pur richiamano suggestioni sumere di De Dominicis, diventano allusioni erotiche e pali da lapdance, e ancora un excursus da esibizioni notturne in night club via fino ai centri fitness.
L’attenzione al dettaglio, per una modalità forse più descrittiva invece quando a Firenze recentemente ha filmato un tappeto orientale, un gigantesco tappeto mammelucco del Cinquecento, riscoperto solo negli anni ottanta del secolo scorso nei sotterranei di Palazzo Pitti (Forensics for a Mamluk, 2013) e avviene che d’improvviso si disvela qualcosa che era stato dimenticato, trascurato, non visto, rimosso: il tappeto, un fondo, una semplice decorazione, una sorta di scenario geometrico. Come nella Madon- na di Lucca di Jan van Eyck dove tra le pareti così intime della stanza figurava un tappeto anatolico pur messo in prospettiva, ma che non era ancora inteso come si direbbe oggi ‘occidentale’. Si mette in scena il disvelamento del rimosso, l’affiorare del represso, del dimenticato, dell’inosservato. Diventa visibile ciò che è visibile è sempre stato, ma a cui mancava l’evidenza, la coscienza, figlia del cambia- mento e della cesura
Shannon Bool, nata a Comox, in Canada, studia all’Emily Carr Institute of Art and Design di Vancouver, al Cooper Union di New York e infine alla Staedelschule di Francoforte sul Meno. Nel 2013 è tra i vincitori del Premio Villa Romana a Firenze. Il suo lavoro è stato esposto in musei e istituzioni internazionali tra cui la Gesellschaft fur Aktuelle Kunst di Brema (2010) e la Bonner Kunstverein (2011). Il suo lavoro è diventato parte delle collezioni del Museum fur Moderne Kunst di Francoforte sul Meno, del Lenbachhaus, di Monaco, ma anche di numerose collezioni private, fino a includere la Saatchi Collection di Londra. Il suo lavoro figura in numerose collettive, fra cui recentmente Screen and Décor, a cura di Rosemary Heather, al Southern Alberta Art Gallery; Soft Pictures, a cura di Irene Calderoni alla Fondazione Sandretto Re Rebaugen- go di Torino; Girls Can Tell, al Gesellschaft für Aktuelle Kunst di Brema. L’artista vive e lavora a Berlino.
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Voci dal coro. Tessitrici e voce dell'inespresso.
logos, la tessitura lo è per le donne, arte applicata prossima al lavoro manuale ripetitivo e materico. Si deve notare che più che un'immagine, l'attività della tessitura presente nei canti degli antichi nelle figure di protagoniste femminili al fianco degli eroi, tende più all'evocazione dell'attività immaginativa, che alla presenza reale dell'immagine vera e propria, all'ornamentazione dello spazio visuale, all'arabesco, a una visione propria degli organi interni più che una prospettiva pittorica vera e propria.

I poemi sono ricchi di figure di donne con la conocchia, anche sul vasellame antico; esemplare è la posa malinconica di Penelope al telaio con il volto appoggiato alla mano. Nei poemi le opere belle intessute nei telai dalle eroine sono un canto nel canto, ma più che un canto esse costituiscono un timbro di voce, una tonalità lirica conseguenza della ripetitività del lavoro manuale che diviene ritmo. Non a caso Judith Raum, ospite di Pavillon Social nel marzo 2013 riferisce di un viaggio in Oriente dove ha potuto osservare alcuni dipinti indiani dove le tessitrici al telaio sono affiancate da musici che invocano canti.

Il ritmo lavorativo diviene contrazione metadiscorsiva evocatrice di melodie e racconti in musica. Ma è necessaria questa trasposizione dal pensiero al materico e poi al ritmico e infine al visuale, o meglio all'occhio interno connesso all'immaginario, per dare un canale a una voce inespressa in procinto di prendere corpo. Ad esempio Penelope tesse la famosa tela che poi disfa di notte affinchè il connubio con Ulisse non sia vanificato. Penelope attraverso ciò che tesse (ricami di animali fantastici, mostruosi o alati sul bordo della tela) connette fatti a distanza (le contemporanee esperienze di Ulisse) e al contempo allontana la morte del genero non portando a compimento il sudario.

Diciamo che i poeti descrivono le donne tessitrici in medias res, dove il personale è politico. Quelle antiche figure letterarie greche "vedono con le mani", parlano con la spola, nell'immaginario letterario della Grecia non erano mai rappresentate sole, ma sempre affiancate da un coro di altre figure femminili. Erano quindi una forza.
Penelope, Elena, Filomela, Aracne sono descritte al lavoro al telaio affiancate da ancelle nel produrre immagini che duplicano la realtà letteraria attraverso suggestioni che vanno a costituire un commento politico alle vicende narrate.
Si immagina che nelle stanze della tessitura essa sia sempre accompagnata da un chiacchericcio o addirittura da un canto. Nel mondo delle donne il gesto raddoppia le parole e fa affiorare una verità corporea corale e intersoggettiva. Cori di voci femminili, timbri vocali, commenti sulla realtà creano un intreccio materico sonoro, un ritmo operativo, una trama emozionale. L'applicazione alla tessitura reca questo tipo di esperienza corale.
La comunità femminile antica ha come mezzo di comunicazione la tessitura e in essa è racchiusa anche una metafora politica sul ruolo delle donne nella società: esse sono intente alla “ tessitura di un grande mantello per il popolo, fattore di coesione e di unità.” (Francoise Frontisi Ducroux, “Trame di donne. Arianna, Elena, Penelope...” 2010, Angelo Colla Editore).
Se in genere la tessitura ha a che fare con un punto di vista intersoggettivo, con il canto e con la voce femminile anche solista che si stacca dal coro ma che ne conserva l'identità, la storia di Filomela e Procne, pressochè spaventosa, ha a che fare con l'evocazione della voce femminile attraverso il telaio, una volta che questa voce è stata annientata. La storia canta del re di Atene che dà in sposa la figlia Procne a un re semibarbaro dal nome Tereo e dell'eroina Procne che lo segue nel suo regno remoto dove partorisce il piccolo Iti, ma avendo nostalgia della sorella Filomela il marito Tereo si offre di andare a prenderla; così accade che nel viaggio di ritorno Tereo dai costumi lussuriosi propri ai paesi barbari stupra la sorella e per farla stare zitta le taglia la lingua. L'accaduto non resta nel silenzio ma prende forma visiva e viene rappresentato al telaio da Filomela con fili imbevuti nel proprio sangue. Il termine della storia vede le due sorelle vendicarsi facendo a pezzi il piccolo Iti che servono cucinato al padre e poi le due infanticide fuggono verso Atene, inseguite da Tereo. Infine tutti sono trasformati dagli dei in uccelli: Procne in usignolo, Filomela in rondine, Tereo in upupa, il piccolo Iti in regolo. I temi che questa storia offre sono molteplici: di nuovo tessitura e canto, un canto di dolore di cui sono portatori gli uccelli; tessitura e voce femminile che va a raggiungere un'altra voce femminile ( il telaio che si fa mezzo di comunicazione fra donne) e infine tessitura e sessualità. La lingua tagliata aggiunge una dimensione sadica al crimine là dove il mutismo reca traccia di disumanizzazione. Voce annientata come quella di Filomela è anche quella del popolo dei Ciompi, i lavoratori della lana che si rivoltarono contro il potere nel 1378 per rivendicare il proprio diritto di costituirsi in corporazioni. L'opera esposta da Judith Raum per Pavillon parla anch'essa di un contenuto vocale che deve trovare un canale d'espressione. Il contesto evocato è appunto la rivolta dei Ciompi e il contenuto narrativo inespresso è la voce dei lavoratori della lana che rimane nella mente dei lavoratori mentre lavorano e il suo contenuto è in particolare la preoccupazione della rivolta in atto, i pericoli presenti, l'oppressione, gli ostacoli presenti sul cammino della speranza. Questi contenuti prendono forma visiva da una parte nei disegni araldici di una lotta fra fiere, composizioni tradizionali la cui iconografia proviene dalla Georgia presenti su alcuni tessuti dell'età medioevale lucchese, in cui si simboleggia il conflitto fra l'accumulo di cui sono portavoce i grifoni e il malessere che ne deriva simboleggiato da animali feroci ma leggeri in lotta. Dall'altra questi pensieri ossessivi ondeggianti nella mente dei lavoratori vengono resi visibili attraverso una scrittura in forma di paragrafi geometrizzati sulla pagina come arabeschi. Ciò che Judith Raum esprime bene è il conflitto descritto da un punto di vista interno alla rivolta. Manualità e il pensiero vanno di pari passo. La voce muta che riusciamo a percepire finalmente chiara è la carta dei diritti che viene redatta e la costituzione in nuce dei primi sindacati.
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Kamikaze Loggia

The Pavilion of Georgia at the 55th International Art Exhibition – la Biennale di Venezia will be a parasitic extension to an old building in the Arsenale. This informal structure called a “kamikaze loggia”—characteristic of Tbilisi—will be designed by the artist Gio Sumbadze, who is a researcher of the typology of these architectural additions. Vernacular extensions of modernist buildings have been created since the 1990s as an organic response to the new, “lawless” times after the fall of the Soviet Union. They increase the living space and are usually used as terraces, extra rooms, open refrigerators, or—as in Sumbadze’s case— an artist studio.
It is said that a Russian journalist named them “kamikaze”, drawing a parallel between the romantic and suicidal character of such an endeavour and the typical ending of most Georgian family names “-adze”. This architecture also refers back to the local palimpsestic building technique, which since the Middle Ages has allowed new houses to be built on top of existing ones on the steep slopes of the Caucasus Mountains thus not monumentalising the past but expanding on it for the future.
This year the Pavilion of Georgia will take the form of a kamikaze loggia hosting an exhibition of the Bouillon Group, Thea Djordjadze, Nikoloz Lutidze, Gela Patashuri with Ei Arakawa and Sergei Tcherepnin, and Gio Sumbadze. The exhibition looks at the creation of such informal architecture, a manifestation of the refusal of dominant structures, in order to incorporate provisional liberty, local self-determination and contemporary appropriation of the infrastructural legacy of Soviet master plans. The exhibition aims at presenting the extraordinary range of informality, bottom-up solutions and the concept of self-organization in Georgian art and architecture. Looking at local examples of self-initiated environments—e. g. kamikaze loggias, “euroremonts”, “beautifications” or other modifications of the Soviet heritage—the project will seek to examine their anticipatory and often progressive potential. It will cast a critical look at the social, political and ideological discourses of the last twenty years in Georgia — thus introducing an artistic scene of a country that sometimes is described as “Italy gone Marxist”. During the preview days there will be daily performances by Bouillon Group, Nikoloz Lutidze, and Gela Patashuri with Ei Arakawa and Sergei Tcherepnin.
more: georgian-pavilion.org
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FREE RANGE WINTER BANANA

Appunti di viaggio. di Chiara Chelotti
Pavillon social, Lucca 27/04/2013
Come ogni goccia di pioggia compone su un vetro un suono sovente piacevole e armonioso, così la sincronicità degli eventi estetici, e la relativa riflessione che ne deriva in ogni soggetto verso di essi percepiente, distende con picchetti più che effimeri un manto cangiante sullo specchio della vita quale è la coperta incorporea bottino di guerra fra gli abissi del mare e le atmosfere del cielo. Quel manto, quel velo che è l'evidenza del vero presente nell'aria e nel discorso corale dei gesti e degli sguardi dei viventi, viene captato dall'artista ed è proprio la coperta intera ad essere tirata via verso sé dall'artista e quindi da lui perlustrata nelle sue configurazioni, non si sa se dono rituale o appunto bottino di guerra.
Simmetricità e cecità, pensiero e mutismo sono due coppie che nell'esperienza estetica vanno di pari passo. Bisogna essere zoppi per camminarvi, a lungo smemorati per capirne il senso.
Altrimenti i colori delle stagioni e delle stagioni il ritmo proiettato ortogonalmente lungo il cammino della vita sarebbero una continua ripetizione.
Punctum: là dove si annota con l'occhio sinistro ma attraverso uno specchietto la storia di un emigrante turco in terra tedesca che inventa il kebab e lo rende merce di scambio distribuita in crocicchi sotto una rossa insegna a neon proprio a forma del turco panino. Con l'altro occhio, il destro orbo, si traccia in asse orizzontale la metafora del cammino e dell'incontro tra culture, l'evoluzione e la trasformazione del costume e delle tradizioni. Qui vi si rimira un tempo illuminato da bellezza accecante, dove antico e moderno si avvicendano nella quotidianità che è divenuta metafisica. Antico e moderno in mostruosa torsione nei passanti colti a passeggiare per la metropoli con in mano il kebab o riuniti sotto l'insegna al neon salda in alto come una messianica roccia rossa, così come un tempo gli antichi consumavano il vitello sacrificato partigiano sotto i frontoni del tempio. A evocare questa atmosfera l'insegna stessa distesa sul pavimento a configurare il punctum, o l'abisso della memoria aperto e riaffiorante nell'odierno.
Altre opere fotografiche: bagnato dai colori del “mai stato”, da una consustanzialità specchiosa fuoriesce tra altre una sagoma monocroma, un costume argenteo fatto indossare ad un giovanissimo performer e fotografato insieme ad altre figure di giovani in costume in diverse location a Lucca. Così plastica, la sagoma argentea, che nelle sue pose si intravede la potenzialità della posa ultima, della ragione d'esistere di un doppio che non avrà mai vita. Il suo uscire dallo specchio è un violare una soglia temporale.
Affiora alla mente la nascita della scultura nei tempi arcaici: una pietra immaginata sacra perchè discesa dal cielo ha un aspetto dapprima appena abbozzato, solo una certa aura, poi acquisendo occhi, naso e bocca, il resto del corpo con le gambe infine, poiché troppo carica in potenza di movimento e troppo viva, temendo che possa fuggire, allora incatenata. Indi abbracciata.
Fitte e abusive in questo mondo altre maschere una sull'altra vicino a un dipinto. Viene in mente “La via delle Maschere” di Levi Strauss: pescate in profondità dei mari o cadute dal cielo, maschere di trasmissione di pensiero a celare la luminosità di sguardo, la proiezione temporale sovrapposta di essere e “mai stato”, anzi, apotropaiche, maschere intrecciate come ceste, intrecciate e colorate, ogni filamento metafora del pensiero e della collocazione in esso dell'esistere e consistenti di carne e logos, quali “maschere nude”. Filamenti parte di una pittura segnica che al risveglio, in un piccolo dipinto a olio, noi bagnati dal sogno, e scossi al sistro di Mark Tobey vibriamo percepienti.
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