#Cieco da Forlì
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Nella Venezia cinquecentesca iniziò il fenomeno dei ciarlatani, che dilagò poi in tutta Italia, e chiamati in dialetto: “monta in banco”. Il termine di ciarlatano, un misto di di imbroglione, medico-stregone, venditore di polveri magici, elisir, curatore e espositore di mostri.
Il termine “ciarlatano” nasce dal paese in cui per la prima volta si è creata questa professione: Cerreto di Spoleto: l’Accademia della Crusca così definì nel 1612 questa categoria come:”
coloro che per le piazze spacciano unguenti od altre medicine, cavano i denti e fanno giochi di mano che comunemente dicesi Ciarlatani ..da Cerreto, paese dell’Umbria da cui soleva in antico venir siffatta gente, la quale con varie finzioni andava facendo denaro”.
Sull’argomento vennero composte alcune opere come ” Speculum Cerretanorum”di Teseo Pini e il ” vagabondo ovvero sferza de i vagabondi” di Raffaelel Frianoiro. Cipriano Piccolopasso così descrisse: “esercitano questi uomini d���andar pel mondo vendendo il Zafferame, il pepe et altre spezierie, coralli come anco una certa sorte d’herba che chiamano corallina, qual, ridotta in polvere vendono per dar ai putti per scacciar i vermi…non si dilettano, pare a me , nè d’armi nè di lettere , si ben d’andar per biri …….quel costume che hanno di andare a torno accattando e cialtronando”.
Anche Macchiavelli utilizzò il termine “Cerretano” come sinonimo di medico ciarlatano nella sua famosa commedia ” la Mandragola”.
A Venezia i ciarlatani salivano su un palco, e , accompagnati da danzatori e giocolieri, iniziavano a declamare le virtù prodigiose di unguenti, elisir, creme, polveri, cerotti, sciroppi, acque di bellezza ed altro. Nella Piazza più famosa d’Europa ( Piazza San Marco) si davano quindi appuntamento diversi di questi personaggi, e che sono rimasti nella memoria della città per la loro dialettica e la capacità di convinzione: Il Cieco da Forlì, Zan della Vigna, Mastro Paolo di Arezzo, il Moretto da Bologna, l’Alfier Lombardo ( Giuseppe Colombani da Parma)cavadenti, Monsù Guascon, mestro Leone , ma tutti i suoi preparati e i suoi elisir nulla valsero contro la pestilenza del 1576 che se lo portò via assieme alla moglie .
Uno degli oggetti per cui rimase famoso il suo banchetto fu la carcassa di un pesce, opportunamente essiccato e ripiegato, che acquistò un orribile aspetto e che venne spacciato come un terribile e orrido mostro.
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dai giochi di prestigio al linguaggio e siamo punto e a capo.
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Libri| Mesagne e la sua storia di Diego Ferdinando (II parte)
Pubblichiamo i brani conclusivi dell’Introduzione alla Messapographia sive Historia Messapiae
di Domenico Urgesi
Le fonti di Diego
[…]
Le fonti basilari di Diego sono anzitutto quelle classiche: gli storici greci, Erodoto, Strabone, Pausania, da lui citati sia direttamente che attraverso le riletture umanistiche; allo stesso modo si avvale di Plinio, Virgilio e Festo. Copiosi sono i richiami da autori umanistici; Leandro Alberti e Gabriele Barrio sono suoi punti di riferimento, specialmente nel libro I della Historia Messapiae, come anche Lamberto Ortensio e Biondo Flavio. Non mancano Pontano, Facio, Sabellico, D’Alessandro, anche se in maniera un po’ defilata.
Le fonti della classicità greca e latina ricorrono specialmente nei primi due Libri. Notevole, per la trattazione dell’epoca romana, sembra anche il ricorso alla Historia Augusta, altra opera enciclopedica i cui estensori sono citati e/o parafrasati.
Il Galateo
Continui e insistenti i riferimenti agli umanisti salentini, soprattutto Antonio De Ferrariis detto il Galateo il cui Liber de Situ Iapygiae (1558) viene citato molto spesso oltre che parafrasato; nei suoi confronti, il nostro riconosce continuamente un’autorevolezza indiscussa, attestata anche dal corografo Abrahamus Ortelius, che ne stampa un brano nella carta geografica della Apulia quae olim Iapygia inserita nel supplemento (1573) all’atlante Theatrum Orbis Terrarum, pubblicato più volte ad Anversa a partire dal 1570; è lo stesso brano che Diego commenta nella parte iniziale del suo ms., quella dedicata alla descrizione naturalistica della Iapygia. All’autorevolezza corografica dello stesso Ortelius, Diego si richiama più volte.
Un posto speciale occupa Virgilio[1], sulla scia della lettura fattane da umanisti quali Biondo Flavio e Lamberto Ortensio, ma soprattutto da Auctores di età romana imperiale come Servio Mario Onorato, privilegiato mentore di Diego, di Giunio Valerio Probo, e di Ambrogio Teodosio Macrobio (il quale aveva contribuito a rendere l’opera virgiliana enciclopedica e a diffonderla enormemente). Molto verosimilmente, questi autori che avevano fatto di Virgilio uno dei massimi “sapienti” dello scibile umano mitologico, storico, religioso e filosofico, agli occhi di Diego legittimano la validità storica della mitologia classica. Accanto ad essi, però, non è da sottovalutare l’influenza dell’umanista Natale Conti, la cui Mythologiae sive explicationes fabularum libri X ebbe numerose edizioni tra la fine del ‘500 e la prima metà del ‘600[2]. Sembra mutuata proprio dal Conti, ampiamente citato da Diego, il suo forte richiamo alla mitologia; come per l’umanista, i miti pagani sono completamente assorbiti da Diego all’interno della sua assoluta fede cristiana, alla quale sono ricondotti.
Epifanio Ferdinando
Tra i Salentini, oltre al De Ferrariis, molto citato è l’amico e collega del padre Epifanio, Girolamo Marciano (1571-1628); sono anche conosciuti e citati, elencandoli qui in ordine cronologico, Antonello Coniger (XV-XVI sec.), Quinto Mario Corrado (1508-1575) e Iacopo Antonio Ferrari (1507-1588), come pure Giovan Battista Casmirio (XVI sec.) e Giulio Cesare Infantino (1581-1636), la cui opera (a noi nota come Lecce sacra) è citata come “Sacrarum Lupiarum”. Varie volte Diego attesta le sue affermazioni con l’autorevolezza del padre Epifanio.
Ad eccezione della Lecce sacra, pubblicata nel 1634, le opere di Marciano, Coniger, Casmirio e Ferrari, rimasero inedite per lungo tempo; ma, evidentemente, Diego ne possedeva (o, almeno, ne aveva letto) i manoscritti circolanti al suo tempo. L’elenco in ordine cronologico può essere utile: la cronaca del Coniger (Recoglimento de più scartafi de certe cronache moderne, et antiche de più cose, et rinuate le cose socesse in questa Provincia de Terra d’Otranto), databile al 1512, circolò manoscritta fino al 1700; la lettera del Corrado (Ad Cives Uritanos Oratio) è datata al 1561; la Epistola apologetica del Casmirio[3], databile al 1567, è stata pubblicata solo recentemente[4], ma circolava ms. ai tempi dell’autore; l’Apologia paradossica della città di Lecce del Ferrari (opera ultimata nel 1586[5] ma, benché pubblicata soltanto nel 1707 in Lecce, anch’essa era nota ai contemporanei essendo circolata ms.); la già citata opera (s.d., ma ante 1628) del Moricino (1558-1628), ms. ben noto ai tempi dei Ferdinando e che troverà solo nel 1674 la necessità di essere pubblicata (ma plagiata) dal Della Monaca; la Descrizione, origini e successi della Provincia d’Otranto[6] (s.d., ma ante 1628) del Marciano, anch’essa circolata ms. ai suoi tempi. Sul Marciano, in particolare, bisogna rilevare che questo autore è continuamente citato e parafrasato da Diego, a volte esplicitamente, ma più spesso implicitamente.
Innumerevoli i richiami, quasi sempre espliciti, a Giovanni Giovine, Giovanni Antonio Summonte, Marino Freccia, Pandolfo Collenuccio, dalle cui opere Diego attinge notizie e considerazioni in continuazione; meno citati Tommaso Costo e Angelo Di Costanzo. In un’ottica comparativa, alla luce delle notevoli differenze ideologiche e di impostazione storiografica, nonché della loro differente dipendenza dal loro specifico contesto politico, sarebbe da approfondire quanto di codesti Auctores Diego condividesse, e fino a qual punto. Anche perché Collenuccio, Di Costanzo, Costo, Summonte, Freccia, ecc., sono i capostipiti di varie tendenze (filo-angioina, filo-aragonese, antispagnola) che saranno proposte tra XV e XVIII secolo, sulla cui fortuna utilissime sono le considerazioni di autorevoli studiosi quali Aurelio Musi[7] e Antonio Lerra[8] (che qui accenniamo solamente).
Peraltro, un altro illustre studioso, Angelantonio Spagnoletti, sottolinea che «… la ricostruzione della memoria municipale nel Regno di Napoli è organizzata su elementi facilmente riconducibili ad un unico modello: la fondazione eroica e leggendaria della città, la vita del santo protettore, il rinvenimento miracoloso del suo corpo, la costellazione di chiese e di edifici sacri, la cronotassi episcopale…»[9].
Questi autorevoli studiosi hanno, dunque, messo in evidenza il trasferimento agli storici-cronisti-storiografi locali di temi e modelli afferenti ai capostipiti napoletani, quali l’insistenza sui miti di fondazione di origine greco-romana, il tema della fedeltà, la dinamica del potere locale, il peso dell’agiografia, l’emergenza dell’antispagnolismo[10].
Troviamo questi temi in Diego Ferdinando, ma in una miscela del tutto particolare, in cui non sembra prevalere nessuna delle tendenze citate; insistente è, invece, il tema delle origini (incentrato sui Messapi) insieme a quello agiografico (incentrato su S. Eleuterio). La dinamica del potere è accennata nel ricordo della vicenda del pallio, ma soprattutto nel richiamo meticoloso ai privilegi[11] che Mesagne aveva ereditato dai sovrani angioino-durazzeschi, puntualmente elencati da Diego, teso a rivendicare alla propria patria l’antico status di città demaniale.
Ricorre spesso l’utilizzo di fonti ecclesiastiche come Eusebio di Cesarea e Lattanzio, il Venerabile Beda, S. Epifanio, Henschenius, ma soprattutto S. Agostino (il Doctor Gratiae), un epigono del quale, il monaco agostiniano Jacopo Filippo Foresti alias Eremitano, occupa un posto privilegiato nella narrazione del Ferdinando. Ma occorre aggiungere anche un’altra considerazione, più generale e complessiva: dalla narrazione di Diego emerge una Puglia incessantemente battuta da eserciti stranieri e da sciagure naturali; una narrazione che sembra ricalcare l’impianto degli Annales Ecclesiastici di Cesare Baronio, altro suo Auctor prediletto; considerazione che emerge da un sommario confronto tra l’intitolazione di alcuni capitoli del Baronio e di Diego e che meriterebbe, forse, un maggiore approfondimento. Il Martirologio del Baronio (presumibilmente nell’edizione del 1620), in particolare, fu la sua fonte privilegiata per attestare il martirio di S. Eleuterio a Mesagne; e Diego gli rimase fedele anche dopo la revisione fattane nel 1630 da Urbano VIII. Bisogna, però, notare che il Martirologio Urbaniano non chiuse definitivamente la questione del martirio di S. Eleuterio; tant’è che, ancora nel 1660, troviamo affermata, sebbene in maniera critica, la versione del martirio mesagnese in un Martirologio Agostiniano[12].
[…]
Altro autore utilizzato da Diego fu Cieco da Forlì, alias Cristoforo Scanello, autore di una Chronicha universale della fidelissima, et antiqua regione di Magna Grecia, overo Iapigia divisa in tre parti, cioè di Terra di Otranto, Terra di Bari et Puglia Piana, stampata a Venezia nel 1575. La cronaca pugliese dello Scanello ebbe notevole successo, ma fu ritenuta poco autorevole già dagli studiosi dei secoli seguenti; la sua credibilità fu definitivamente demolita nel 1892 da Ludovico Pepe[13].
[…]
Per il periodo angioino-aragonese e quello del Viceregno, Diego si avvale del Summonte, del Giovine, di Paolo di Tarsia, di Paolo Giovio ed altri (compreso il Mannarino), ma soprattutto dei protocolli notarili, dei Tavolari, del “libro dei privilegi[14], conservato in Archivio” come dice lo stesso Diego (ossia il cosidetto “Libro Rosso”), dai quali trae e mette in risalto i numerosi e preziosi diritti concessi specialmente dagli Angioini, dai Durazzeschi e poi da Ferrante e suoi successori.
Nei due capitoli finora ignoti (Sepulchra ed Inscriptiones), i riferimenti sono soprattutto a Luciano di Samosata e ai Manuzio, Paolo e Aldo il Giovane. Nel capitolo sulle epigrafi mesagnesi, Diego espone quelle tramandate sia dal padre Epifanio che da lui viste, e si cimenta nella interpretazione del loro significato, anche per spiegare le incongruenze tra alcune versioni. In verità, alcune epigrafi erano state già pubblicate da Aldo il giovane, sulla base di comunicazioni inviate ai Manuzio da Quinto Mario Corrado (e da Giovanni Antonio Paglia), molto prima che se ne occupassero sia Epifanio che Diego Ferdinando. La vicenda ingenerò un po’ di confusione, poi perpetuata fino a Diego; un nostro supplemento di indagine[15] ha consentito di ricostruirne in parte i contorni (ma ne diamo un accenno nel relativo commento a pié di pagina, nella traduzione).
Uno sguardo particolare merita la polemica insistente (ma espressa cortesemente) che Diego propone nei confronti di Giovanni Maria Moricino[16], l’autore dell’opera Dell’Antichità e vicissitudine della città di Brindisi. Opera di Giovanni Maria Moricino, filosofo e medico dell’istessa città, descritta dalla di lei origine sino all’anno 1604. Una copia di tale opera, di cui l’originale fu disperso, è custodita in Biblioteca Arcivescovile “A. De Leo” di Brindisi: ms. D/12, trascrizione datata al 1761. Essa fu pubblicata nel 1674 dal plagiario Andrea Della Monaca col titolo Memoria historica dell’antichissima e fedelissima città di Brindisi.
Il Moricino era un medico e filosofo discendente da famiglia veneta, nato nel 1558, morto nel 1628; nel periodo 1604-1605 ricoprì la carica di Sindaco a Brindisi, mentre nel 1613 vi risultava Auditore[17]. Oltre che a Brindisi, visse anche in Mesagne, dove insegnò retorica, logica e geometria a Epifanio Ferdinando; molto probabile, quindi, che una copia del ms. del Moricino fosse stata nelle disponibilità della famiglia Ferdinando. Evidentemente, per poterlo contestare, Diego ne leggeva il manoscritto; e, ad onor del vero, in molti casi ne riconosceva la piena validità. Perché, allora, questa polemica? Quasi certamente, la possiamo capire leggendo ciò che Moricino scrive a carta 16v del suo citato ms.:
[…] Nel che non posso fare di non ridere la vana pretendenza di coloro che pretendono Misagne, picciola Terricciola distante da Brindisi otto miglia, esser Messapia Regia de’ Re Messeni e Capo de Salentini…
[…]
Il contenuto dell’opera
Anzitutto, il confronto storiografico di Diego con la bibliografia e gli studi storici di oggi sarebbe impari; pertanto, nell’edizione critica ci siamo limitati a segnalare gli studi e le ricerche storiche ed archeologiche più autorevoli. Risulta molto più proficuo, invece, metterlo a confronto con la bibliografia dei suoi tempi, sia per capire quali, e di quale tipo, fossero le sue fonti, sia per mettersi in sintonia col suo modo di pensare.
Un breve accenno (ma l’argomento meriterebbe un discorso a parte) alla forma linguistica del codice 1655: il latino di Diego è fatto di lunghissimi periodi, spesso scoordinati, circonvoluti, “torrenziali”, colmi di termini abbreviati; si ha l’impressione di leggere un “racconto orale”; e, forse, l’uso sfrenato delle abbreviazioni, alcune delle quali sembrano inventate proprio da lui, tanto sono inusuali e ardite, è funzionale all’incalzare del racconto. La traduzione ha cercato di essere fedele non solo nella lettera, ma anche nello stile, al testo dell’autore; ma, soprattutto, ha cercato di rendere pienamente il significato di ciò che Diego intendeva esprimere. Compiti non semplici, tant’è che soltanto dopo essere entrati in sintonia con il suo pensiero, è stato possibile individuare i sinonimi più adatti a rispecchiarlo. È utile, mi pare, segnalare l’utilizzo (non eccessivo, tutto sommato) di termini ed espressioni dialettali e pure in volgare, quali “vuttisciana”, “girator di paese”, “porta picciola”, “de corpo a corpo”, “adaquatione”, “porta nova”, “porta di Rusci”, etc., che è oggetto di uno studio in corso di stampa[18]. Interessanti, anche, le numerose varianti latine e vernacole del nome di Mesagne.
Ciò premesso, riassumere quest’opera in poche frasi è impresa titanica, se non risibile. A mio modesto parere, tuttavia, qualche breve considerazione sul suo contenuto è necessaria, per potercisi orientare. Se quello che abbiamo prima appena accennato è l’orizzonte culturale nel quale si muove Diego, sembra di poter affermare che il suo è un terreno piuttosto campanilistico, benché supportato da una vastissima erudizione. Ma, d’altronde, il campanilismo del Ferdinando non è poi tanto esagerato, se solo si mette la sua opera a confronto con quelle (del ‘500 e ‘600) di altre città meridionali, in particolar modo quelle calabresi ricordate da Francesco Campennì[19], in cui sembrano persistere le antiche contrapposizioni tra le varie colonie magnogreche, che riemergono più o meno consapevolmente addirittura in epoca seicentesca: si vedano, in particolare, le contrapposte storie municipali di Cosenza, Crotone e Vibo Valentia[20]. Nel nostro caso, la contrapposizione è quasi a tutto campo, pur in forme erudite, tra la (presunta) centralità mitologica e religiosa di Mesagne e le circostanti città.
In realtà, quello che Diego esplora e approfondisce è un terreno che in area salentina era stato già solcato dal Casmirio, dal Ferrari, dal Moricino, dal Marciano.
Come per costoro, anche il Ferdinando si ispira sostanzialmente ad una linea storiografica che, nel Mezzogiorno, parte dal Galateo e fa il paio con il De antiquitate et situ Calabriae (1571) di Gabriele Barrio. Le vicende dei popoli italici precedenti la civiltà romana sono lette dagli studiosi ed eruditi locali vissuti tra umanesimo ed età moderna, come il fenomeno culturale che fornisce gli specifici caratteri identitari costitutivi di una “nazione”. Così, Diego fonda l’identità della sua città, Mesagne, sulle memorie della “nazione messapica”, che tenta di definire, descrivere ed illustrare sulla base delle fonti di cui poteva disporre, quelle letterarie innanzitutto; a queste aggiunge, poi, le scarne fonti archeologiche che andavano emergendo nel periodo burrascoso del primo ‘600.
[…]
Diversamente dal Mannarino, è del tutto assente, in Diego, qualsiasi intento encomiastico di signori o feudatari coevi o passati; e, mentre Mannarino esalta la Misagne felix, in Diego risulta vano cercare un minimo accenno alla Mesagne reale dei suoi tempi, fatta eccezione per i ritrovamenti archeologici. La celebrazione di Mesagne era, per il primo, funzionale alla benevolenza (per sé e per la città) del feudatario Giovanni Antonio Albricci; mentre per Diego sembra fine a sé stessa, funzionale alla dimostrazione della magnificenza di Mesagne nei confronti di chicchessia.
[…]
Tuttavia, benché scarna, l’attenzione di Diego ai suddetti temi indica (e conferma) la consapevolezza, negli osservatori seicenteschi, dell’autonomia riconosciuta alle autorità comunali di Terra d’Otranto dai sovrani angioini e aragonesi e non da quelli spagnoli (nel sistema neo-feudale), come è stato messo in evidenza da vari recenti studi[21]. Probabilmente, non è senza motivo la puntualità archivistica che a tratti ritroviamo in questa Messapographia: sarà da illuminare nel quadro delle dispute e delle alleanze che sorsero tra l’Università di Mesagne, il potere baronale, quello ecclesiastico e quello Vicereale, un campo di ricerca che merita di essere ulteriormente e sistematicamente solcato[22].
L’intento programmatico, che oggi definiremmo ideologico, di Diego non è dichiarato (ma ce n’era bisogno?); tuttavia, rifulgono chiaramente due obiettivi: ─dimostrare che Mesagne fosse stata Messapia capitale dei Messapi; ─dimostrare altresì una forte preminenza cristiana di Messapia-Mesagne, in quanto sede del martirio di S. Eleuterio, posto cronologicamente nell’anno 121 d.C., secondo i ragionamenti logici di Diego. Da ciò derivano le due caratteristiche fondamentali di quest’opera: la valorizzazione della “nazione messapica” e l’apologia di S. Eleuterio, confluenti entrambe nella grandezza di Mesagne. Mentre rispetto al secondo punto, l’accostamento della storia cittadina a quella del santo patrono non è una caratteristica rara né in Terra d’Otranto, né in tutto il Mezzogiorno, riguardo al primo punto, invece, Diego è l’unico scrittore di storia municipale, nel Seicento salentino, ad illuminare la propria città sulla base di una storiografia messapica.
Diego Ferdinando e il Patronato di S. Eleuterio
Tali impostazioni risultano oggi plasticamente erronee; ma non erano assolutamente errate per Diego, e neanche per i suoi contemporanei, se è vero che nei documenti notarili ed ecclesiastici del suo tempo, Mesagne veniva indicata come Messapia (e ciò, in verità, fin dalla metà circa del ‘500). E Messapia veniva, pure, indicata la città nella epigrafe[23] incisa sul frontone del primo ordine della Chiesa Matrice riedificata, che reca la data del 1653. E le statue di S. Eleuterio, con Anzia e Corebo, erano e sono scolpite sul portale maggiore di detta chiesa (ma con un S. Eleuterio stranamente simile alla classica iconografia di S. Oronzo). Se, oggi, l’apologia di S. Eleuterio non ha più alcun senso, non era così nella mentalità (1655) dell’autore mesagnese; ma non era così, evidentemente, anche per i fedeli mesagnesi. Messapia e S. Eleuterio erano strettamente vincolati a costituire la base identitaria dei mesagnesi, come avvenuto in molte altre città salentine[24]. Erano così vincolati, che le statue dei tre Santi furono poste sul portale maggiore, affianco alla epigrafe inneggiante a Messapia, col Santo Eleuterio centrale e imponente, nonostante che la nuova chiesa, appena riedificata, fosse stata intitolata ad Ognissanti, mentre prima era intitolata ai tre Santi, come dice lo stesso Diego in questo ms., e come sarà poi ricordato (nel 1744) dall’Arciprete Moranza (vedi appresso).
Sul culto mesagnese di S. Eleuterio vi sono precedenti studi, ai quali rinviamo[25]. Ma questa, finora ignorata, insistenza di Diego sul presunto martirio mesagnese di S. Eleuterio apre nuovi squarci. Il legame che Diego stabilisce tra la Città ed il “suo” martire sembra ricondurre all’importanza della “parentela” col santo martire, dalla quale deriverebbe una concittadinanza (ossia parentela col sacro)[26] che da sola sarebbe bastata a dare sicurezza e preminenza alla città di Mesagne.
[…]
Da alcune carte nell’Archivio Capitolare di Mesagne, anzi, possiamo forse capire le motivazioni più profonde alla base della lunga dissertazione su S. Eleuterio. Sappiamo che Diego, divenuto sacerdote dopo la morte della consorte, fu accolto nel Capitolo nel 1648[27]. Mentre la nuova chiesa era in costruzione (essendo crollata il 31 gennaio 1649), fu perorata – su iniziativa della Civica Università – l’attribuzione effettiva del patronato alla Madonna del Carmine. Cosicché il 30 aprile 1651, il Capitolo della Chiesa Collegiata, «come in virtù del decreto et Bolla di Papa Urbano di felice memoria», preso atto che la Civica Università di Mesagne aveva «pigliato ed accettato ad Avvocata et Protettrice la gloriosa Vergine Santa Maria del Carmine acciò a suo tempo se ne celebri et solennizzi la festa in conformità di quello che s’ordina nelli detti Decreti pontifici», diede il proprio «consenso a quanto da detta Università era stato conchiuso […] nemine discrepante [corsivo nostro]»[28]. […]
Peraltro, rispetto ad altre Conclusioni Capitolari, questa sembra piuttosto sbrigativa, e il Capitolo, dal numero dei partecipanti – per essere un evento eccezionale – non sembra neanche molto affollato: solo una trentina sui circa 50 titolari. Sembrerebbe quasi che i religiosi capitolari non fossero molto entusiasti. Comunque, tra i Preti, Canonici e Presbiteri partecipanti a detta riunione del Capitolo mancava proprio Diego Ferdinando. Sorge il dubbio che la sua assenza non fosse casuale; che, cioè, Diego non condividesse l’operazione e non avesse partecipato per “motivi di opportunità”.
[…]
Tale dubbio è corroborato da un’altra Conclusione capitolare[29], in cui risulta che, nel mese di aprile del 1660, nel Capitolo (presenti, questa volta, oltre 50 religiosi) si discusse, fra l’altro, una precedente proposta di Diego, che fu accolta:
[il R.do Bartolomeo Leonardo Sasso…] Inoltre propone che il Dr. Fisico D. Diego Ferdinando per rinovare la venerazione de’ Nostri S(an)ti Eleuterio, Corebbo et Antea ne havea fatto fare un Quadro Grande, e desiderava che detto R.do capitolo gli concedesse una cappella per collocarlo, offerendo ducati 100 di capitale a detto Capitolo con obligo di messe e desiderava ancora che l’istesso R.do Capitolo insieme con l’Univ.(ersi)tà comparissero nella Sagra Congregazione in Roma per ottenere che detti s(an)ti ci siano concessi per Compadroni con la Beatissima vergine del Carmine e da tutti parimente fu concluso che citra preiudicium dell’altre concessioni di cappelle che si faranno per essere detto Sig. D. Diego benemerito di Capitali si concedesse detta Cappella [— —] se gli darà l’assenzo di Mons. Ill.mo Arcivescovo e che per l’avvenire non s’intenda con ciò fatto pregiudizio nelle concessioni che si faranno con sì poca somma e gli fu concessa la Cappella all’incontro di quella dov’è collocato il Quadro del S.(acro) Monte che è la 3a à man dritta in ord(in)e nell’entrare dalla Porta Magg(io)re della Chiesa et andare al Presbiterio e che si supplicasse in Roma per ottenere la d(ett)a Compadronanza a spese del med(esi)mo Sig. D. Diego.
Con questa decisione, dunque, fu accolta l’istanza di Diego di dedicare un altare a S. Eleuterio, come anche quella di chiedere alla sacra Congregazione dei Riti che Eleuterio, Antea e Corebo fossero elevati a Compatroni della Città, insieme con la Madonna del Carmine. Curiosamente, però, – sia detto per inciso – una precedente Conclusione Capitolare del 1658 ci informa che il Capitolo aveva accettato anche la nuova proposta dell’Università di proporre S. Oronzo quale protettore di Mesagne[30]. […]
Quanto all’istanza di Diego, non sappiamo se, e come, si sviluppò la perorazione della Compadronanza, ma l’altare di S. Eleuterio fu effettivamente realizzato, come risulta dalla Santa Visita svolta dall’Arcivescovo di Brindisi Francesco d’Estrada[31], che lo ispezionò il 18 ottobre 1660. Esso risulta pure nell’elenco degli altari dichiarati dall’Arciprete Antonio Moranza nel 1744, nella sua relazione consegnata all’Arcivescovo Antonino Sersale durante la Santa Visita[32]:
[…] L’altare di S. Eleuterio martire è della famiglia Ferdinandi, oggi ne tiene possesso il di loro erede il reverendo D. Diego cantore Baccone che ha il pensiero di provederlo di sacre suppellettili.
[…]
Tirando le somme, possiamo affermare che, per Diego Ferdinando, la magnificenza di Mesagne è soprattutto fondata sia sulle antiche (ma pretese) glorie messapiche che su quelle, religiose, dei proto-martiri Eleuterio, Antia e Corebo. Diego ritrova tali glorie nelle fonti letterarie, nei monumenti, nei documenti; i quali tutti attestano, nella sua concezione, che la magnificenza di Mesagne risaliva a ben prima della vendita della Terra di Misagne ai baroni (Beltrano nel 1522, Albricci nel 1591, De Angelis nel 1646). Sembra proprio questo il filo conduttore di tutta l’opera, sebbene non esplicitamente dichiarato.
[…] In conclusione, questa Historia Messapiae è una vera e propria miniera; scavandola ne possono venir fuori sassi, scorie, ma anche molti gioielli (e sono tanti). A tal proposito, segnalo soltanto alcuni brani interessanti:
Un gioco dei fanciulli con le monete
[carta 23r] «… Da ciò l’antica usanza dei fanciulli, ed il gioco di lanciare in alto i denari, e di presagire la sorte scegliendo o “testa” o “Nave”, genera in noi non poca fiducia nell’antichità. La moneta così contrassegnata, [come dice] Macrobio nel primo libro, capitolo 7 dei Saturnali, anche oggi è avvertita nel gioco dei dadi, quando i fanciulli, gettando in alto i denari, esclamano “Testa” o “Nave” in un gioco [che è] testimone dell’antichità».
L’Artopticus: La “frisa” ai tempi di Diego
[95v] «… quello che noi [chiamiamo] Arton, gli stessi Romani lo denominano Pane. Da ciò Artopta in Plinio nel libro 18, cap. 11, o Artopta in Plauto, [vocabolo] con cui chiamavano la donna fornaia, o il vasellame in cui veniva cotto il pane abbrustolito detto Artopticus».
La Vuttisciana
[carta 135v] «Da ciò [gli eruditi] sembrano spiegare la ragione di quella parola [vedi in appresso Vuttisciana], di cui ci serviamo non solo in Messapia, ma in tutta la Regione; vale a dire il giorno in cui non ci asteniamo per nulla dalle attività, poiché Giano, sia che fosse istruito da Saturno che accolse come ospite, oppure che fosse animato dal suo stesso genio e dalla [sua] saggezza, fu promotore dell’[attività] di piantare e seminare, e coltivare i campi la ragione, ed insegnò gli altri lavori per il vantaggio degli uomini, e per la coltivazione della terra. Perciò il giorno, in cui si fanno tutte queste cose, veniva chiamato Vuttisciana, vale a dire, “giorno di Giano”, o “ritratto [la personificazione] di Giano”.»
Il primo stemma di Mesagne
[carta 136v] «Inoltre, si vedrà l’effigie del Sole posta tra le spighe di frumento e scolpita su una pietra quadrata in una delle torri che, dal lato Meridionale, racchiudono le mura della nostra Città; e le spighe, poste sotto il Sole da entrambe le parti, che – si pensa – [siano] tra gli antichi simboli di Messapia [Mesagne], vogliono significare che anticamente i Messapi adoravano il Sole.»
Il castello Orsiniano di Mesagne
[205v] «Giovanni Antonio del Balzo Orsini […] A Mesagne, in verità, presso cui era solito recarsi spesso per via dell’aria più salubre e per diletto, costruì una Fortezza o grande Torre nei pressi del Castello vecchio [Castrum vetus] …».
[167v] «E, da una cerchia più grande, forse di tre miglia (da cui prima era recinta) fu ristretta ad una di un miglio, trincerata da fossati, mura, torri e munita di una Fortezza nel lato Boreale ed occidentale. Di questa Fortezza (che era chiamata Castello Vecchio [vetus Castrum]), la parte boreale, subìta la forza del tempo, crollò, ed il Principe dell’Avetrana volle abbattere negli anni passati <1630> la parte occidentale, in verità provvista di archi e fornici…».
Le distruzioni di Mesagne
[117r] «Soprattutto le Città di Messapia [Mesagne] e di Oria, che [si trovano] in mezzo all’Istmo tra Brindisi e Taranto, furono prese con la forza da Annibale e nel contempo date alle fiamme» [nel 212-211 a.C.];
[152v] Totila nel 547;
[166r] I Saraceni nel 914;
[239r-240r] I Francesi nel 1528-29.
Il contributo dei Mesagnesi alla difesa di Otranto dai Turchi, nel 1480
[222v] «Durante questa guerra, inoltre, che fu combattutta da parte loro contro i Turchi per riconquistare Otranto, i Cittadini di Mesagne pagarono cento fanti col pubblico denaro; e per i Viveri dell’Esercito inviarono molti moggi di farina, botti di vino e moltissimi animali, come leggiamo in alcune lettere Regie, che i Mesagnesi conservano. In esse, come dicono, il Re ordinò che i Cittadini di Mesagne non venissero afflitti da pagamenti straordinari, poiché [avevano dato] tutte queste cose di cui sopra …. [4 puntini di sospensione] <si vedano le lettere Regie in Archivio e se ne riportino esempi>».
Da rilevare, infine, il ricorso frequente all’etimologia (latina e greca), tanto per rafforzare i concetti espressi e/o argomentarli più compiutamente (emblematico il caso testé accennato di vuttisciana), quanto – invece – per escludere o confutare ipotesi e interpretazioni ritenute erronee. Ancora una volta, il nostro si avvale, per quelle che considera vere e proprie dimostrazioni, della letteratura specifica accreditata ai suoi tempi, tra cui Isidoro di Siviglia e Aldo Manuzio il Giovane (oltre che della propria vastissima erudizione). Sono spunti suggestivi, ovviamente; ma anche su questo specifico aspetto dell’opera di Diego Ferdinando, non c’è che da auspicare l’attenzione e il giudizio degli specialisti.
[…]
Note
[1] Sulla ricezione di Virgilio in ambito meridionale, cfr. almeno F. Tateo, Virgilio nella cultura umanistica del Mezzogiorno d’Italia, in Atti del Convegno Virgiliano di Brindisi nel bimillenario della morte (Brindisi 15-18 ottobre 1981), Università di Perugia 1983.
[2] Cfr. almeno, V. Costa, Natale Conti e la divulgazione della mitologia classica in Europa tra Cinquecento e Seicento, in Ricerche di antichità e tradizione classica (a c. di E. Lanzillotta), Tored 2004, pp. 257sgg.
[3] Ms. D/8 in Bib. “A. De Leo” (Brindisi).
[4] Iohannis Baptistae Casmirii, Epistola apologetica ad Quintum Marium Corradum, (a cura di R. Sernicola), edizioni Edisai, 2017.
[5] A. Laporta, Introduzione, in I. A. Ferrari, Apologia paradossica della città di Lecce, Cavallino, Capone 1977, p. XIV.
[6] Ms. D/3, in Bib. “A. De Leo” (Brindisi).
[7] A. Musi, Storie “nazionali” e storie locali, in Il libro e la piazza. Le storie locali dei Regni di Napoli e di Sicilia in età moderna, Manduria, Lacaita, 2004, pp. 13 sgg.
[8] A. Lerra, Un genere di lunga durata. Le descrizioni del Regno di Napoli, ivi, pp. 27 sgg.
[9] A. Spagnoletti, Ceti dirigenti e costruzione dell’identità urbana nelle città pugliesi tra XVI e XVII secolo, in A. Musi, Le città del Mezzogiorno nell’età moderna, Napoli 2001, p. 37.
[10] Vedi soprattutto Musi, Storie “nazionali” e storie locali, in Il libro e la piazza…, cit., p. 20.
[11] Alcuni si sono fortunatamente salvati e si possono apprezzare in Storia e fonti scritte: Mesagne tra i secoli XV e XVIII: Documenti della Biblioteca Comunale «Ugo Granafei» (a c. di F. Magistrale, M. Cannataro, P. Cordasco, C. Drago, C. Gattagrisi, S. Magistrale), Fasano, Schena Editore, 2001.
[12] Vedi Martyrologium Romanum Illustratum Sive Tabulae Ecclesiasticae Geographicis tabulis et notis historicis explicatae…, Authore RP Augustino Lubin Augustiniano…, Lutetiae Parisiorum…, 1660, p. 180.
[13] L. Pepe, Il Cieco da Forli, cronista e poeta del secolo XVI, Napoli, Tip. dell’Accademia reale delle scienze, 1892.
[14] Il rif. è alla raccolta dei documenti, ovvero Libro Rosso, in cui erano trascritte le concessioni, esenzioni, etc., statuite dai Regnanti in favore delle città demaniali. Quello di Lecce, ad esempio, fu pubblicato da Pier Fausto Palumbo in due volumi, nel 1997 e ‘98. Quello di Mesagne, invece, fu disperso, o distrutto, e non ha avuto la fortuna di essere tramandato.
[15] D. Urgesi, Epigrafi latine da Mesagne nelle opere di Aldo Manuzio il giovane, in corso di stampa.
[16] Il medico-filosofo G. M. Moricino (1560-1628) era stato, per tre anni, insegnante di Epifanio Ferdinando per le materie di Retorica, Logica e Geometria. Vedi Profilo, Vie, piazze, vichi e corti…, cit., p. 243; R. Jurlaro, Prefazione, in Andrea della Monaca, Memoria historica dell’antichissima e fedelissima città di Brindisi, Rist. An. Bologna, Forni, 1972 dell’ed. Lecce, Pietro Micheli, 1674.
Per la sua bio-bibliografia, cfr. anzitutto Biblioteca Napoletana, et apparato a gli huomini illustri in lettere di Napoli, e del Regno, delle famiglie, terre, città, e religioni, che sono nello stesso Regno. Dalle loro origini per tutto l’anno 1678. Opera del Dottor Nicolo Toppi Patritio di Chieti, in Napoli, appresso Antonio Bulifon All’insegna della Sirena, 1678, p. 349. Inoltre, cfr. almeno E. Pedio, Il manoscritto di Giovanni Maria Moricino e la Storia di Brindisi del P. della Monaca, in «Rivista Storica Salentina», VI, 1904, pp. 364-74; Dizionario biografico degli uomini illustri [ma chiari] di Terra d’Otranto, cit., pp. 375-76; R. Jurlaro, Prefazione, in Andrea della Monaca, Memoria historica dell’antichissima …, cit; G. Jacovelli, Medici letterati brindisini tra 1500 e 1600, in «Brundisii Res», XV (1983), pp. 40-42.
[17] P. Cagnes – N. Scalese, Cronaca dei Sindaci di Brindisi, 1529-1787 (a cura di R. Jurlaro), Brindisi, Ed. Amici della «A. De Leo», 1978, p. 75 e p. 87.
[18] F. Scalera, Dialettismi e volgarismi nella Messapographia di Diego Ferdinando.
[19] F. Campennì, Le storie di città: lignaggio e territorio, in Il libro e la piazza…, cit., pp. 69 sgg.
[20] Ivi, pp. 87-93.
[21] Sull’argomento, vedi anzitutto M. A. Visceglia, Territorio, feudo e potere locale. Terra d’Otranto tra Medioevo ed età moderna, Napoli 1988, pp. 199 sgg., con la sua ampia bibliografia.
[22] Segnaliamo che una prima, fertile, incursione in codesto campo fu compiuta da Luigi greco, in Storia di Mesagne in età barocca, vol. I: I sindaci, l’università, i feudatari, Fasano 2000.
[23] Emendata dagli errori del lapicida, così recita: IN HONOREM SANCTORUM OMNIUM COLLAPSUM MESSAPIA RESTITUIT MDCLIII.
[24] Cfr., in proposito, M. Spedicato, L’identità plurima: i santi patroni nel Salento moderno e contemporaneo, in «L’Idomeneo» n. 10 (2008), pp. 145 sgg.; Id., Santi patroni e identità civiche nel Salento moderno e contemporaneo, Galatina 2009, pp. 9-18.
[25] F. Lanzoni, Le diocesi d’Italia al principio del secolo VII (an. 604), vol. I, Faenza 1927; G. Antonucci, Il martirio di S. Eleuterio, in Curiosità storiche mesagnesi, Bergamo 1929; L. Scoditti, S. Eleuterio e Mesagne (datt.), 1957; D. Urgesi, Una correzione all’iconografia mesagnese: Eleuterio, Anzia e Corebo non furono martirizzati a Mesagne, in Studi Salentini, LXX (1993).
[26] Interessanti, in merito, le considerazioni di F. Campennì, Le storie di città: lignaggio e territorio, cit., p. 102.
[27] Cfr., per tutti, Profilo, Vie, Piazze…, cit., p. 95.
[28] Archivio Capitolare di Mesagne, Conclusioni Capitolari, Cartella R/2, anno 1651, 30 aprile; v. anche A. C. Leopardi, Il Carmine nella realtà mesagnese, Bari 1979, pp. 70-71; e T. Cavallo, Il Santuario della Vergine SS. del Carmelo e i Padri Carmelitani nella storia di Mesagne, Fasano 1992, p. 74.
[29] A. C. M., Conclusioni Capitolari, ivi, anno 1660, 10 aprile.
[30] Ivi, anno 1658, 6 ottobre.
[31] L. Greco, in Storia di Mesagne in età barocca, vol. III: L’architettura sacra nella storia e nell’arte, Fasano 2001, p. 273.
[32] Ivi, p. 296.
Per la prima parte leggi qui:
Libri| Mesagne e la sua storia di Diego Ferdinando (I parte)
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“L’ultima notte di Antonio Canova” è l’accattivante titolo del nuovo romanzo di Gabriele Dadati. Il dettaglio riprodotto in copertina mostra la raffinata acconciatura di Paolina Borghese, sulla quale sembra incombere la mano, che affiora di sguincio come se fosse un corpo estraneo, creando un curioso effetto di spaesamento negli occhi del riguardante.
Si tratta di un’immagine emblematica che sembra prefigurare la narrazione del romanzo, in cui affiorano improvvise e inaspettate incrinature nelle vicende umane dei protagonisti, celate sotto l’apparente perfezione levigata del marmo.
Gabriele Dadati rende omaggio ai carteggi canoviani, contrassegnando l’incipit di ogni capitolo con luogo e anno, quasi a scandire il tempo del racconto con un artificio letterario che appare una delle tante singolarità del testo: la scelta, non casuale, deriva da un’antica familiarità con la letteratura artistica e gli epistolari di Canova, che l’autore ha indagato nei precedenti studi filologici.
I personaggi sono in gran parte documentati e realmente esistiti, e le loro biografie – per lo più note a una ristretta platea di specialisti dell’Ottocento – vengono narrate per la prima volta attraverso una formula espressiva completamente nuova, che sarebbe semplicistico ricondurre unicamente al genere del romanzo storico.
Il tempo del presente si mescola al tempo del ricordo, in un pellegrinaggio tra Venezia, Possagno e Fontainebleau, i luoghi della vita e della memoria di Antonio Canova, che dal letto di morte rende l’estrema confessione al fratello sacerdote Giovanni Battista Sartori, saldando in tal modo l’intenso rapporto di confidenza, fiducia e dedizione che li tiene legati.
Le scene d’interno restituiscono, più di altre, quella particolare atmosfera di intimità domestica che si nutre di gesti, di parole e di impressionanti dettagli visivi, fissati sulla carta con lo stesso acuto spirito di osservazione della pittura fiamminga.
L’apertura del romanzo, con la visita di Aglietti allo scultore, appare emblematica in tal senso: la relazione tra i due uomini si può leggere attraverso i gesti lenti, pacati e sapienti del medico sul corpo del paziente, che prendono forma negli occhi del lettore, rivelando nell’atto amorevole la natura stessa del sentimento.
È questa sorta di scrittura figurata degli affetti a rendere memorabili i protagonisti e a riscattarli dall’eterno anonimato delle fonti, dei documenti e dei libri, poiché tornano a essere umani mossi da alterne passioni e debolezze, pertanto simili a noi.
L’esistenza dei tre protagonisti – Antonio Canova, Napoleone Bonaparte e Maria Luisa d’Austria – è mossa dal bisogno comune e molto umano di colmare delle mancanze, e da un desiderio cieco che non conosce ragion di stato e può procurare danni irreversibili.
Il linguaggio si accorda senza apparente difficoltà alle regole dell’eloquio ottocentesco, mostrando improvvise accelerazioni nella caratterizzazione dei personaggi, che l’autore plasma secondo una peculiare cifra stilistica, creando impeccabili ritratti di scena.
La scelta di condurre il lettore a empatizzare con Maria Luisa d’Austria, giovane sposa di Napoleone, non appare frutto del caso, bensì di un’abile regia che costruisce intorno all’imperatrice un alone di pathos misto a caparbietà e tenerezza, esaltato dall’inquietudine a forti chiaroscuri della donna, che sceglie consapevolmente di immolarsi a un matrimonio di convenienza per riscattare il proprio popolo dal nemico e assecondare con questo sacrificio un bisogno ideale di grandezza e di nobiltà d’animo. Il richiamo alla figura di Giuditta, sottolineato nel testo, risulta esemplare in tal senso.
Fig. 4 Antonio Canova, Ritratto di Maria Luisa d’Austria in veste di Allegoria della Concordia, particolare, gesso, Possagno, Museo e Gipsoteca Antonio Canova, intero © Museo e Gipsoteca Antonio Canova
Fig. 4 Antonio Canova, Ritratto di Maria Luisa d’Austria in veste di Allegoria della Concordia, gesso, Possagno, Museo e Gipsoteca Antonio Canova, intero © Museo e Gipsoteca Antonio Canova
La circostanza storica che condusse Canova alla corte di Francia fu la commissione di un’opera d’arte che raffigurasse Maria Luisa, opera che si conserva in veste di Allegoria della Concordia presso la Gipsoteca di Possagno per la versione in gesso (figg. 4-5), e alla Galleria Nazionale di Parma per l’esemplare in marmo: si tratta di un ritratto idealizzato, che nulla lascia trasparire della passionalità adolescenziale della giovane, tramandata dal romanzo.
Fig. 1 Antonio Canova, Danzatrice, gesso, Possagno, Museo e Gipsoteca Antonio Canova, particolare © Debora Tosato, 2017
Anche la fisionomia di Canova acquista una tensione emotiva esistenziale, che si riverbera tutta all’interno, restituendo la testimonianza di una personalità di grande dignità morale, che attribuisce all’arte della scultura il soffio vitale della propria aspirazione genitoriale. La bellezza delle opere di Canova (figg. 1, 2, 3) appare pertanto come un segno della grazia, alimentata dall’amore divino e umano. La personalità artistica dello scultore si arricchisce nel romanzo di una profonda riflessione intima, che lo sguardo consapevole di Gabriele Dadati traspone in un’immagine completamente inedita, così come aveva a suo tempo fatto Mimmo Jodice in maniera originale attraverso la fotografia.
Fig. 2 Antonio Canova, Danzatrice, particolare, gesso, Possagno, Museo e Gipsoteca Antonio Canova © Debora Tosato, 2017
Bibliografia
G. Dadati, Sul carteggio tra Pietro Giordani, Antonio Canova e Giovanni Battista Sartori, in “Strenna piacentina”, 2005, pp. 136-140; Pietro Giordani, Panegirico ad Antonio Canova, edizione critica e commentata a cura di G. Dadati, introduzione di F. Mazzocca, Piacenza 2008;
G. Dadati, “Egli si mostra di piacevole e lieto aspetto anche nel primo incontro cogli sconosciuti”. L’amicizia tra Antonio Canova e Pietro Giordani, in Canova. L’ideale classico tra scultura e pittura, catalogo della mostra a cura di S. Androsov, F. Mazzocca, A. Paolucci (Forlì, Musei di San Domenico, 25 gennaio-21 giugno 2009), Cinisello Balsamo 2009, pp. 113-117;
G. Dadati, Un “Panegirico” in chiaroscuro: Canova, Giordani e la descrizione della bellezza, in “Symposium”, n. 5/2009, p. 3.
Jodice Canova, catalogo della mostra a cura di M. Jodice (Bassano del Grappa, Museo Civico, 15 settembre 2013-19 gennaio 2014), Venezia 2013.
Fig. 3 Antonio Canova, Maddalena penitente, marmo, Genova, Musei di Strada Nuova – Palazzo Tursi, particolare © Debora Tosato, 2017
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Gabriele Dadati, "L’ultima notte di Antonio Canova", un post di D. Tosato “L’ultima notte di Antonio Canova” è l’accattivante titolo del nuovo romanzo di Gabriele Dadati. Il dettaglio riprodotto in copertina mostra la raffinata acconciatura di…
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“Dunque, nascere, è proprio necessario – paurosamente”. Pietro Cimatti, il poeta che non ha pietà per nessuno, fa 90 anni
– dunque, nascere, è proprio necessario – paurosamente. E sentiva ruotare la bolla d’acquanera. E da una luce sconosciuta, oltre il dedalo, richiami. Come se fosse già tempo di andare, lasciando lo zigote, il tepidario.
Questi i primi versi di Pietro Cimatti che mi hanno lasciata senza respiro in una giornata di pioggia a Bologna, immobile alla bancarella dei libri usati. A lettura già iniziata vado a scorrere la breve nota biografica e scopro che è nato a Forlì nel 1929, mia stessa città, “ma subito dopo la guerra è sbarcato fortunosamente a Roma, dove si è cimentato in molti mestieri e ha cambiato molti indirizzi prima di stabilirsi, provvisoriamente, in via della Polveriera”.
*
Avvicinarsi a un poeta è sempre un rischio, è sempre pericoloso, bisogna stare davanti ai versi completamente nudi, bisogna essere capaci di farci segnare il corpo dalle parole. Aprirsi ai versi di Pietro Cimatti equivale a entrare in una foresta, non importa quanto ci impegniamo a scansare i rovi, ci sarà sempre qualche ramo a renderci lo schiaffo dopo il nostro passaggio. Sono versi questi di Cimatti che non possono lasciarci indifferenti, illesi. La poesia, se è tale, ti cambia la vita, ti ribalta la visione, ti fa girare la testa. “Raccontami qualcosa che dia chiaro/ nella sera che già cade e mi oscura.”, “Un silenzio di sibili serali,/ un odore di fumo: viene l’uomo/che non sono, non sono chi lo chiama.”, “Forse c’è una ferita che mi butta/ sotto la giacca, forse la mia vita/ è tutta in questo inchiostro che si secca”.
*
Cimatti è ferocemente umano, le sue poesie non hanno pietà per nessuno e il ritmo è intenso, non ti lascia scampo, non puoi permetterti di scappare. Questo è un poeta che si deve leggere fino in fondo, non si possono fare pause nella lettura. I testi sono tagli continui, veloci come il trottare di un cervo spaventato nel bosco. In questo “Stanze sulla polveriera” trovate sangue e uomo, dei e fango, rabbia e dolore, dolcezza e perdono. La poesia di Pietro Cimatti è capace di passare da un tono tipico dell’invettiva al lamento disperato, all’ultima richiesta di aiuto di un uomo che sa che deve morire. Nascita e morte per Pietro sono due atti uniti, sono movimenti di creazione, riguardano la carne e il sangue, l’ossigeno che entra e poi ci abbandona.
*
“Nel camminare e sciogliersi degli anni/ sono stato abitato dagli dei/ – se posso dirlo, se non posso dirlo./ Mi fermeranno quando sarò pieno/ di voci come il Colosseo di polvere:/ uscirà da cento occhi il loro sole/ – abiterò, per poco, nel sereno”. Scrivere non è un atto che proviene dall’io, dall’ego, scrivere è un dono perché chi scrive è abitato dagli dei. La poesia quindi è un fatto sacro, riguarda l’accoglienza: si scrive perché si accolgono nelle nostre corde vocali tante voci, si cerca di dargli un unico suono per trovare una pace, anche se poco, abitare il sereno. Pietro Cimatti è pieno di voci, è un’abitazione antica che ha accolto tutti i suoni che lì sono accaduti, li porta alla luce, cerca di dargli forma di parola.
*
I testi di Cimatti hanno anche il carattere della sentenza: nascosta da un’accurata musicalità, da un lavoro altissimo sulla parola e sul suono, ci sono versi che sono ghigliottine, tagliano il tuo asse portante e ci metti qualche secondo per capire come è successo, torni indietro e rileggi tutto da capo. Cimatti non ha pietà per nessuno, non ha pietà per sé stesso e nemmeno per il lettore: “Mi dico addio, a te non potrò dirlo./ Sei forte come chi tradisce. Il golgota/ conosco, calda camera d’albergo./ Ma questo ho seminato e ora raccolgo.” (…) “Sei forte come chi non ama, il golgota/ puoi offrirmi in una camera d’albergo./ Ma questo ho seminato, che raccolgo./ Perché ti ho amato come chi si dona,/ ti ho chiesto eternità come chi muore,/ mi hai dato verità come chi uccide”.
*
Pietro Cimatti scrive quello che pensa in una verità assoluta, verticale e che acceca. Queste poesie sono un ottimo strumento di analisi, o rispondi o ammutolisci. Cimatti ti chiede che cosa sai fare, quanto sai essere uomo e umano insieme, quanto riesci a vivere nella verità. Non sono poesie per deboli, se quindi volete poesie da leggere la sera per farvi cullare lasciate stare questo libro di Cimatti, lui è un uomo che domanda e che vuole risposta. Dopo la lettura di questo libro sarete disorientati, passerete da una stanza all’altra chiedendovi chi siete e che senso ha ciò che fate, dove sta il vostro sangue. Nel testo “In poeti riuniti a Scanno” Cimatti riporta la domanda che ci esaurisce “Quali prospettive per la poesia contemporanea?” e risponde senza sottrarsi al censimento “Dunque, non siamo utili, più che mai necessari,/ né cancellati né iscritti nell’albo dei mestieri/ e dei doveri, del bene e del male,/ siamo assolutamente superflui e totalmente/ ridicoli e magnificamente irrisorii,/ invendibili, incomprabili, fuoriusciti, fuori”.
*
Il titolo della seconda sezione, “Antologia del quotidiano ingiallito”, mantiene la sua promessa: Pietro Cimatti ci porta nel quotidiano, in un quotidiano però stirato dal presente. L’autore è aderente alle cose e allo stesso tempo tenta di porre una distanza, prova a rendere obliqua la verità usando ad esempio la mitologia come scudo, come mezzo. Cimatti però non ce la fa, a questo tentativo fallisce, si dice la verità, dirla obliqua non è una soluzione. E allora “Prometeo non mi è strano – / e la rupe è domestica. Dell’aquila/ so il battito, l’accosto rituale./ Dopo i primi anni è un passero –/ e Prometeo non grida più, la rupe/ è il lavoro sicuro. A questa roccia/ di vimini in giardino viene l’aquila/ ma non è poi temibile: il telefono,/ la scheda perforata, lo scadere” (…) “Prometeo è qui, dopo il coito interrotto,/ antichi calendari gli rinnovano/ l’aquila cieca, squilla nel telefono/ un debito di lebbra: pagherò/ a dio la colpa di avere creduto/ (e, guarda, siamo neri come preti)”.
Clery Celeste
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L’USCITA DAL TEPIDARIO
– dunque, nascere, è proprio necessario – paurosamente. E sentiva ruotare la bolla d’acquanera. E da una luce sconosciuta, oltre il dedalo, richiami. Come se fosse già tempo di andare, lasciando lo zigote, il tepidario.
– da questa sfera mai dissigillata, carico d’ombra, a farti vita, vai, è fuori chi ti aiuta e chi ti stritola. Qui è come dopo. – – dove? – già staccato, nell’utero succhiante, giù la testa. – tu sei già nato. Io resto, – lo zigote. e si contrasse, come addormentato.
– pesce abissale, ti fulminerà la luce appena esplosa. Sarà vita quel più cieco terrore, o cuore vuoto, o bocca nell’acqua, sarà una ferita senza memoria. Perché sei già nato, addio. – E non seppe – prima che a un bagliore di suoni lacerati, o mani vuote, scoppiassero gli orecchi, e già un oblio l’anneriva – perché senza zigote nasceva. E fu scuoiato del calore, costretto, solo, come è necessario. E l’altro era lontano, il tepidario, oltre la nascita. Urlò come era atteso, giù la testa, col cuore spaccato, e la memoria lo dimenticò, annegò nell’ossigeno spietato.
– pesce abissale, ti fulminerà la luce appena accesa. Sarà vita questo cieco terrore, o cuore atteso, o bocca senz’acqua. Perché sei già nato. Sei libero. Zigote. Sono libero
Pietro Cimatti
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La nascita di Cesenatico ai tempi dell’Inferno Dantesco
Seppur solo a livello simbolico, il 1302 può essere considerato l’anno che sancisce la nascita di Cesenatico, o meglio di Porto Cesenatico. Escludendo gli insediamenti che raccontano dell’antica Ad Novas e della Tomba di San Tommaso, possiamo affermare che il cuore della nuova città, sviluppatasi poi nei modi che conosciamo, è il portocanale con tutte le valenze strategiche, politiche e commerciali che nel tempo hanno fatto prosperare e crescere la cittadina, prima come porto di Cesena e poi come città autonoma.

Il 1302 viene richiamato in una delle più antiche testimonianze degli Annales Caesenates e in particolare nella cronaca n.184 “De ocupatione Casalboni et Filcini”. D.Gnola ce ne propone una traduzione dal latino nel suo “Storia di Cesenatico”:
“1302, 16 agosto. I Cesenati e i Riminesi stabilirono i loro confini, ad iniziare dalla Strada (la via Emilia) fino al mare. E lo stesso anno il 5 settembre i Cesenati con grande alacrità costruirono una fortezza sulla riva del mare. Lunedì 22 ottobre il Conte Federico Da Montefeltro, Uguccione Della Faggiola con gli Aretini, e Bernardino figlio del Signor Guido Da Polenta con i Ravennati e i Cervesi, con grande moltitudine di soldati assediarono Cesena di qua e di là del fiume, bruciando tutto il contado. Alla fine con mangani e macchine da guerra andarono alla fortezza sopra il Porto, la espugnarono, e anche grazie al tradimento di alcuni capitani che erano nel castello, la presero, la bruciarono, e ne riempirono i fossati.”
Questa cronaca è ricca di dettagli perché racconta dei Cesenati che dal fronte sud riescono finalmente ad accordarsi (1279) sul confine coi Riminesi, dalla Via Emilia lungo tutto il fiume Rubicone, e questa stabilità almeno parziale è certamente propizia per aprirsi uno sbocco commerciale al mare, dopo la constatazione che la conquista del porto di Cervia, già esistente, sarebbe difficile da porre in atto. Il porto di Cesena risulta in questa cronaca già esistente ma probabilmente da poco tempo dato che in quell’anno si decide di porgli a protezione una “fortezza sopra il Porto”, sulla riva del mare.
Tutto bene, ma non per molto. La prima cronaca di quello che sarà l’embrione di Cesenatico si intreccia con diversi personaggi che curiosamente sono quasi tutti legati, seppur non in modo diretto, all’opera letteraria Dantesca ed in particolare all’Inferno. Va precisato che la Divina Commedia è ambientata nel 1300, anno simbolico di passaggio di secolo e anno santo di Giubileo; i personaggi protagonisti della cronaca, vivi e vegeti, erano impossibilitati a prender parte alle bolge luciferine. Tuttavia l’Inferno è stato scritto da Dante tra il 1304 e il 1308, o quantomeno in questo intervallo è stato iniziato (gli storici non sono concordi).

Il Sommo Poeta si trovava in esilio e proprio nel 1304 fu ospite di diverse importanti famiglie di Forlì, tra cui gli Ordelaffi, e non si allontanò troppo nel 1305 quando si trasferì a Bologna. E’ probabile che egli fosse perfettamente a conoscenza dei vari conflitti che avevano luogo in Romagna; nello scrivere le terzine in rima egli inoltre già conosceva il futuro più prossimo al tempo dell’ambientazione.
Il primo dei personaggi sopra indicati è Federico Da Montefeltro, che nella cronaca degli Annales Caesenates il lunedì 22 ottobre 1302 assaltò Cesena, assieme ad altri due alleati che approfondiremo in seguito, e quindi “con mangani e macchine da guerra andarono alla fortezza sopra il Porto, la espugnarono (…) e ne riempirono i fossati”.
Figlio di Guido I Da Montefeltro, Federico I Da Montefeltro (da non confondere col più celebre Federico III Da Montefeltro ritratto da Piero Della Francesca) era un condottiero e capitano di ventura, Conte di Urbino e Signore di Pisa, Fano e Cagli. E’ stato altresì capitano del popolo di Cesena fino al 1301 e non da meno dal 1294 al 1300 (anno di ambientazione dell’Inferno) Galasso Da Montefeltro, cugino di Guido, era Podestà di Cesena.
Va detto che siamo in tempi in cui l’incertezza politica era la regola; la Romagna era parte integrante, seppur periferia estrema, dello Stato della Chiesa ma l’equilibrio di potere tra il papato e i signorotti locali, in perenne guerra tra loro, era costantemente precario e vedeva continui sconvolgimenti di fronte per il controllo del territorio; talvolta il pontefice avallava il governo delle città da parte delle famiglie conquistatrici mentre talvolta interveniva, specie tramite eserciti alleati, per riprendersi il controllo diretto delle zone.
Guido I Da Montefeltro, padre di Federico, era un abile condottiero e politico che trascorse i suoi ultimi anni di vita ad Assisi dove si convertì al Francescanesimo, non prima però di riappacificarsi col papato (era un ghibellino; un anticlericale, diremmo oggi semplificando) e non prima di venire nominato Signore di Forlì. A suo figlio Federico lascerà il titolo di Conte del Montefeltro. Dante lo colloca nell’ottava bolgia dell’Inferno (Canto XXVII) tra i consiglieri fraudolenti e, alla vista sua e di Virgilio, gli fa pronunciare queste parole:
Se tu pur mo in questo mondo cieco caduto se’ di quella dolce terra latina ond’io mia colpa tutta reco, dimmi se Romagnuoli han pace o guerra; ch’io fui d’i monti là intra Orbino e ‘l giogo di che Tever di diserra.

Guido chiede in sostanza a Dante, se veramente è venuto all’inferno (in questo mondo cieco) dalla Romagna (di quella dolce terra latina) dove ha compiuto le nefandezze per cui ora si merita la punizione eterna (ond’io mia colpa tutta reco), di dirgli se in Romagna si vive in pace o in guerra, perché lui proviene dal Montefeltro (ch’io fui… ecc…). Dante gli da una risposta dettagliata che comincia in modo molto significativo:
Romagna tua non è, e non fu mai, sanza guerra ne’ cuor de’ suoi tiranni; ma ‘n palese nessuna or vi lasciai.
In sostanza gli risponde innanzitutto che la terra di Romagna non è mai stata senza guerra perché i suoi tiranni, i signorotti delle famiglie locali, solo la guerra hanno in animo (e, forse, quello dell’animo in guerra è una caratteristica che si estende per analogia all’impeto naturale del carattere Romagnolo). Continua dicendo che ora come ora, ovvero nel 1300 in cui è ambientato il viaggio negli inferi, non c’è nessuna guerra in atto ma dato che le terzine sono state scritte presumibilmente tra il 1304 ed il 1308, Dante sa che al di là di una pausa momentanea le guerre continueranno. E sa già che proprio il suo diretto discendente, Federico I di Montefeltro, è uno dei vari artefici di queste guerre come ad esempio durante l’attacco a Cesena e al Porto Cesenatico del 1302.

Dante prosegue descrivendo città per città lo stato di fatto, ed è molto significativa la terzina dedicata a Cesena:
E quella cu’ il Savio bagna il fianco, così com’ella sie’ tra ‘l piano e ‘l monte, tra tirannia si vive e stato franco.
Quindi nel 1300 a Cesena (quella cu’ il Savio bagna il fianco), descritta ancora più minuziosamente come la città posta tra il monte Garampo (sede della rocca) e la pianura del resto della città (così com’ella sie’ tra ‘l piano e ‘l monte), si viveva a metà via tra tirannia e stato libero. Le interpretazioni date degli studiosi a questa espressione (tra tirannia si vive e stato franco) sono principalmente due. Molti la interpretano come una definizione di tirannia moderata, con qualche accenno di libertà, da parte di Galasso Da Montefeltro, cugino di Guido, che nel 1300 (e proprio solo fino al 1300) era Podestà e capitano del popolo di Cesena.

Altri interpretano questa terzina come l’anticipazione del fatto che questo periodo di liberalità tra il 1294 e il 1300 fosse prossimo al termine e si sarebbe poi tornati all’abituale tirannia di qualche altro Signore locale. E proprio alla morte di Galasso, nel 1300, il successore fu Federico I che venne però ben presto cacciato dalla città, che tornò quindi sotto il governo diretto della Santa Sede. La distruzione del Porto Cesenatico in quest’ottica, oltre che necessaria per evitare al porto di Cervia di avere un nuovo concorrente a pochi chilometri, ha anche il sapore di una vendetta verso la città che lo aveva cacciato, così come l’assedio al cuore di Cesena.
La cronaca dell’assalto a Cesena del 1302 però comprende anche un altro importante personaggio dell’epoca che ne è anzi il principale promotore: Bernardino Da Polenta. Bernardino, figlio di Guido Da Polenta detto “il Vecchio” o “il Minore”, è un valente condottiero nonché tra i principali esponenti della sua famiglia. Nel 1293 è Podestà di Parma, nel 1306 di Bologna ma soprattutto nel 1297 diventa Signore di Cervia; si può capire già da qui come l’apertura di uno sbocco al mare da parte di Cesena nel Porto Cesenatico fosse cosa soprattutto a lui particolarmente ostile.
Il padre Guido è il fondatore della dinastia dei Da Polenta grazie alla sottrazione nel 1275 di Ravenna ai Traversari, abdicando poi attorno al 1300 in favore di Lamberto, fratello di Bernardino. Ed è quindi proprio a loro che Dante sempre nel Canto XXVII dell’Inferno fa riferimento quando descrive a Guido Da Montefeltro la situazione di Ravenna nel 1300:
Ravenna sta come stata è molt’anni: l’aguglia da Polenta la si cova, si che Cervia ricuopre co’ suoi vanni.
Dante riporta come da molti anni la città di Ravenna sia saldamente in mano ai Da Polenta, rappresentati dal loro stemma contenente un’aquila (l’aguglia) sotto le cui ali (i vanni sono delle piume dell’ala) tiene anche Cervia.

Ma non è a loro che Dante riserva un posto di primo piano nella Divina Commedia, bensì a una Da Polenta che, se non fosse stato proprio per il Sommo Poeta, sarebbe probabilmente finita nell’oblio: Francesca, amante di Paolo Malatesta detto il Bello.
Ai fini delle vicende legate alla nascita della nostra cittadina il personaggio è in sé ininfluente ma vale la pena ricordarla con un paio di terzine dell’Inferno, dove Dante la pone col suo amante nel secondo cerchio (Canto V) tra i lussuriosi, travolti da un vento incessante che li fa girare continuamente, così come in vita si lasciarono travolgere dalla focosa passione:
Amor, ch’a nullo amato amar perdona, mi prese del costui piacer sì forte, che, come vedi, ancor non m’abbandona.
Francesca, figlia di Guido il Minore e sorella di Bernardino (uno degli assaltatori di Porto Cesenatico), racconta a Dante che l’amore, che l’ha travolta tanto da non poter che ricambiare quello del suo amante Paolo (Amor, ch’a nullo amato amar perdona), la rapì grazie alla sua bellezza (mi prese del costui piacer sì forte), tanto che lei lo ama tutt’ora (che, come vedi, ancor non m’abbandona).
Francesca Da Polenta venne data in moglie nel 1275 a Giovanni Malatesta (detto Gianciotto per la sua fisionomia non propriamente appetibile) dal padre Guido, per suggellare l’alleanza tra le due potenti famiglie Romagnole dell’epoca. Tuttavia questa si innamora di suo cognato Paolo, di cui diventa amante. Scoperti da Gianciotto, vengono entrambi fatti uccidere.
Amor condusse noi ad una morte. Caina attende chi a vita ci spense". Queste parole da lor ci fuor porte.

Il loro amore li portò a morire insieme (Amor condusse noi ad una morte) ma avvertono Dante che Gianciotto, in quanto mandante del loro assassinio, è atteso (attende chi a vita ci spense) nella Caina, il primo girone del nono cerchio dell’inferno, destinato ad ospitare i traditori dei parenti (Gianciotto morirà nel 1304, a opera non ancora pubblicata); queste le parole che gli riferirono Paolo e Francesca (Queste parole da lor ci fuor porte).
Ritornando sul selciato della prima testimonianza relativa alla nascita del Porto Cesenatico terminiamo col terzo dei protagonisti dell’assalto: Uguccione Della Faggiola. Già in passato aveva combattuto al fianco dei Montefeltro. Nel 1300 diventa Capitano di Cesena ma viene cacciato nel 1301 e nel 1302, assieme a Federico Da Montefeltro, firma la pace con i Malatesta di Verucchio e i Da Polenta. L’occasione è quindi propizia nell’ottobre 1302 per vendicarsi della cacciata proprio al seguito dei Montefeltro e dei Da Polenta. Nel 1302, tra l’altro, diventa amico di Dante Alighieri. Non vi sono per lui riferimenti nella Divina Commedia, essendo morto nel 1319 e soprattutto non potendo vantare discendenza da alcuna potente famiglia.

Dopo l’interramento del porto di Cesena la comunità non si arrende. Nel giugno del 1314 cominciano i lavori di ripristino del canale e il 10 agosto del 1314 finalmente viene riaperto lo sbocco al mare. Podestà di Cesena era Guido Novello Da Polenta (mecenate di Dante Alighieri), tra l’altro appena nominato; non stupisca constatare come Guido Novello non fosse altro che il nipote di Guido il Vecchio e che Bernardino Da Polenta, colui che aveva assaltato il porto, non fosse altro che suo zio, a testimonianza dei continui capovolgimenti di fronte dei governi delle città.
Tuttavia anche il nuovo porto non avrà lunga vita; la cronaca degli Annales Caesenates n.313 “De perdizione castri Portus Cesene” ci informa riguardo alla seguente seconda distruzione avvenuta 14 anni dopo e che riporto sempre tradotta dal latino come presente sul libro “Storia di Cesenatico” di D.Gnola:
“1328, nel mese di settembre, quasi all’ora terza (le nove). Avendo il Signor Venerabile Padre Signor Aimerico di Chateluz, (…) Podestà e Capitano della città di Cesena, presa e avuta in custodia da detto Comune la fortezza del Porto Cesenatico; Cecco degli Ordelaffi Capitano di Forlì, insieme col Signor Ostasio Da Polenta, e con il Conte Chiaramonti (…) insieme a ottocento cavalieri, e a ottomila soldati a piedi, si recò armato alla predetta fortezza cavalcando nella notte (…) perché a custodire la fortezza non vi erano che 10 servitori, occupò la detta fortezza, fece bruciare la palizzata del porto, e ostruire l’imboccatura; poi lavorando continuamente alla distruzione della torre della fortezza di detto porto, al domenica 25 del detto mese alla sera la fece minare, ossia crollare.”
Ora; non ci si meravigli del fatto che Ostasio Da Polenta fosse figlio di Bernardino, colui che aveva distrutto una prima volta il Porto Cesenatico, nonché cugino di Guido Novello, colui che 14 anni prima ne aveva inaugurato il ripristino, a ulteriore conferma dei continui capovolgimenti di fronte del periodo trecentesco.
Ma merita in questo racconto un posto particolare Cecco degli Ordelaffi, Capitano di Forlì. Signore della città dal 1315, la sua famiglia da decenni teneva in mano Forlì. Nell’incontro all’Inferno con Guido Da Montefeltro, nel Canto XXVII, così Dante descrive la famiglia degli Ordelaffi:
La terra che fé già la lunga prova e di Franceschi sanguinoso mucchio, sotto le branche verdi si ritrova.

La città di Forlì viene qui richiamata con riferimento ai tempi del governo di Guido Da Montefeltro, proprio colui a cui Dante sta parlando, quando era una roccaforte ghibellina che per due anni resistette all’assedio degli eserciti guelfo e francese inviati dal Papa (la lunga prova). Facendogli poi credere di aver conquistato la città, Guido vi rientrò poco dopo circondandoli e facendo una strage (sanguinoso mucchio). Tuttavia dal 1296 al 1303, e quindi nell’anno 1300 di ambientazione della Divina Commedia, Forlì era in mano agli Ordelaffi, il cui stemma comprende un busto di leone verde con gli artigli ben in vista (sotto le branche verdi si ritrova).
Va detto che a seguito della distruzione del Cesenatico del 1328 i lavori di ricostruzione della fortezza vengono completati pochi mesi dopo mentre il porto, più difficile da ripristinare, verrà riaperto al mare solo nel 1334, anno in cui Cesena passa (ironia della sorte) proprio sotto gli Ordelaffi.
Seguono nell’ordine il ritorno di Cesena sotto il dominio diretto del papato tramite il Cardinale Albornoz nel 1356, con conseguente incendio appiccato alle palate del porto, un assedio da parte di Giovanni Manfredi da Faenza nel 1360 e un’occupazione nonché ulteriore distruzione da parte di Braccio da Montone nel 1415.
E’ quasi un miracolo che Porto Cesenatico sia sopravvissuta a tutti gli attacchi subiti, si sia sviluppata e abbia prosperato proprio grazie alle sponde di quel suo canale più volte ostruito, assaltato, distrutto, bruciato ma, con la tenacia di chi non molla mai, ogni volta tornato a riveder le stelle.
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Cagnacci esposto in osteria! Per tutti è una figata (compreso uno Sgarbi felliniano), per me è una boiata pazzesca. In ogni caso, sul geniale pittore ha scritto tutto Alberto Arbasino
Io non so nulla, sento solo puzza di bruciato, vedo tanto fumo verbale e perfino l’arrosto retorico, purtroppo. Soprattutto, non mi piacciono gli intellettuali titanici che scodinzolano intorno all’imprenditore-principino, all’interessato mecenate.
*
Penso d’essere l’unico, nell’alcova giornalistica, a impiccarsi con un interrogativo. Possibile che a nessuno sembri una inesorabile ca**ata? Per carità, io sono sempre il più cretino di tutti. Mi riferisco alla notizia divulgata come “Guido Cagnacci. Ritorno a Santarcangelo”. In realtà, Cagnacci non entra in un museo – che non dovrebbe essere il mausoleo del morto, ma il sacrario del meraviglioso. Va in osteria. Torna a Santarcangelo, certo. Ma nel ristorante di un privato. Alla prima mi metto a ridere. Sono cretino, avrò capito male. Purtroppo, la realtà supera la mia idiozia.
*
La notizia, di per sé, è buona. Un privato non proprio ignoto, Manlio Maggioli – guida del Gruppo Maggioli – ha fatto spesa e si è comprato alcuni Cagnacci. Leggo dal Resto del Carlino: “Tra le opere acquisite ci sono due ritratti (databili tra il 1640 e il 1645), ‘Testa di ragazzo cieco’ e ’San Bernardino’, che provengono dalla collezione Albicini di Forlì, mentre gli altri due quadri, che hanno come soggetto entrambi ‘La Maddalena penitente’, l’imprenditore santarcangiolese li ha acquistati all’asta, a Londra e a Vienna”. Intorno all’imprenditore mecenate si palesano due esperti del Seicento pittorico italiano: Massimo Pulini, già Assessore alle arti al Comune di Rimini, valente pittore, e Vittorio Sgarbi. La notizia è ribattuta così: “Quattro capolavori di Cagnacci sono tornati finalmente a Santarcangelo”. Esulto. Cagnacci è un pittore straordinario, un avanguardista, uno che indossava svariati cognomi (“Cagnaccio, Cagnazzi, Canalassi, Canlassi”), che “per essere uomo obeso, barbuto e tozzo fu detto Cagnacci” (così il pettegolo Abbecedario pittorico di Pellegrino Antonio Orlandi, 1731), che litigò con tutti e non ci pensò due volte a fulminarsi la fama per l’amore scandaloso con la ricca vedova Teodora Stivivi, riminese. Il problema, però, si fa chiaro fin dal sottotitolo. E io ululo d’indignazione.
*
Il sottotitolo: “Valgono un milione, le tele presto saranno esposte nella sala Cagnacci del ristorante Sangiovesa”. Non ci credo. La Sangiovesa è effettivamente un’osteria, sta a Santarcangelo, è proprietà di Maggioli, e tra le sale una ha il nome di Sala Cagnacci. In quella sala, come è lecito, si mangia. I quadri del Cagnacci tra gli afrori della carne che cuoce e il chiasso dei magnoni. Mi pare una scena delirante di un film felliniano, uso a sfottere gli abusi della borghesia trionfante. Da oggi, dunque, Cagnacci si può ammirare nella Chiesa Collegiata di Santarcangelo, pregando, o nel ristorante di Maggioli, mangiando e pagando. Che orrore.
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C’è dunque un lieve difetto nella comunicazione giornalistica, mi dico. I quadri del Cagnacci acquistati da Maggioli – felice chi li ha comprati tanto quanto chi li ha venduti, d’affari si parla mica di arte – non tornano a Santarcangelo. Verranno esposti nel ristorante di Maggioli. La cosa è diversa perché, nonostante le trombe pubbliche, questo non è un fatto pubblico – è pubblicità.
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Fino all’ultimo penso a una fake news. Macché ristorante: Maggioli predisporrà nella sua azienda uno spazio per i Cagnacci, dove andare, gratuitamente, a meditare. Oppure, già che c’è, comprerà uno stabile atto a costruire un breve ‘Museo Cagnacci’. Perché il criterio, per amare l’arte, è predisporsi al contemplare, nell’aureola del silenzio – all’osteria, piuttosto, presti attenzione al palato e agli amici. Ma, si sa, qui basta rimpinzare la pancia per pensare di avere la mente piena.
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Invece. Leggo un referto giornalistico on line (qui). Alla Rocca Malatestiana, mercoledì scorso, sono state presentate le opere del Cagnacci. Sgarbi ha detto – cito testuale – “restituire a Santarcangelo, interpretando il desiderio e il piacere di Tonino Guerra, delle opere, spiritualmente sensuali, di Guido Cagnacci, che prefigurò il sogno di Fellini, è una decisione preziosa e inevitabile quando la volontà, l’amore e la cura sostengono un luogo dell’anima come La Sangiovesa. E ciò accade grazie alla costante attenzione di Manlio Maggioli, mecenate del nostro tempo, custode della tradizione e interprete perfetto del mio pensiero”. C’è modo e modo di gratificare un mecenate, credo, gli incensi intossicano l’aria e dire di un ristorante che è “un luogo dell’anima” è un eccesso fisiologico e filologico.
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Le parole del patron ce le possiamo risparmiare. Cito due frasi. La prima conferma, contro la mia ingenua idiozia, che le cose stanno proprio così: il Cagnacci – immagino, debitamente protetto – entra in osteria. “Ho ritenuto quindi più saggio riportare il Cagnacci – che poi sono diventati quattro – a Santarcangelo, così che anche i santarcangiolesi potessero goderne; ho posizionato le opere in Sangiovesa, proprio nella Sala Cagnacci, che, guarda caso, esiste da sempre”. La seconda è più intrigante, esemplifica la bulimia del possesso. “Ho sempre desiderato avere un Cagnacci”, dice Maggioli. Come se Cagnacci fosse una griffe. Un Rolex. Una Ferrari. Un segno come un altro di un potere qualsiasi.
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La questione non è di luoghi o di abiti estetici (meglio l’osteria del monastero, per carità), ma di dignità estatica. Qual è il modo migliore per amare Cagnacci? Domandatevelo. Altrimenti, è la solita spacconeria dell’imprenditore danaroso che compra una cosa sua, per metterla in uno spazio suo, doma mangi e bevi e lo paghi.
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Immagina. Una Maddalena penitente in osteria. C’è una sacralità nei segni che non può essere dissacrata.
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Al Cagnacci di Maggioli – e alle scodinzolate di Sgarbi – preferisco quello di Alberto Arbasino. Lo scrittore ne scrive, sommamente, in Fratelli d’Italia (“davanti ai Cagnacci ci si ferma di colpo. È un pittore talmente hanté di immagini di seni femminili turgidi e di seggioloni finto-Cinquecento di pelle rossa, con le loro borchie, che intorno a queste immagini fa il vuoto; abolisce tutto il resto, paesaggi e suppellettili; ma con queste continua a costruire una serie di straordinarie Morti di Cleopatra”). Poi ci torna, in Le Muse a Los Angeles, così: “Questa magnifica raccolta italiana… viene presieduta da un sensazionale Guido Cagnacci… Un Cagnacci addirittura più ‘intriguing’ delle sue varie e notorie Cleopatre e Maddalene porcellone che muoiono sui seggioloni da notaio in un tripudio di splendide tette da casino emiliano, agitate, sballottate, frementi; o volano al Cielo in un vortice di stupende cosce bolognesi sorrette da robusti facchini alati, bene accolte da angioletti sviluppatissimi, pesantissimamente commentate dai visitatori padani alle mostre locali, e dipinte con squisitezza soave. La sua Europa migliore, ebbra di velocità con le tette salmastre e aulenti al maestrale o al libeccio, nemmeno sente se eventualmente pungono le rose ‘pompier’ accumulate in grembo per la navigazione sul mitico toro, fiorito anche lui come un bouquet”. Lo invitiamo a Santarcangelo?
*
Non so se s’è capito. Per me esporre Cagnacci al ristorante è una candida minchiata. (d.b.)
*In copertina: Guido Cagnacci, “Noè ebbro”, 1663
L'articolo Cagnacci esposto in osteria! Per tutti è una figata (compreso uno Sgarbi felliniano), per me è una boiata pazzesca. In ogni caso, sul geniale pittore ha scritto tutto Alberto Arbasino proviene da Pangea.
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