#Solo un piccolo uccello fragile
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dominick-ferraro · 6 years ago
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Il Mio Verso Rap
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IL MIO VERSO RAP
Il mio verso rap vestito a festa batte come fosse un martello. Agile con l’ ali di un uccello vaga sopra la città e non sa dove finirà questo andare dove tutto il soffrire farà rima con il mare. Dove il mio amore nascerà metterà radici nella grigia metropoli del sesso , errante per lidi austeri come ieri anche oggi non ho portato l ombrello. il mio cuore sbava a poppa deciso deriso perduto nella nebbia perduto in un idea che sale verso il monte che parla con Gennaro con Filippo ed Andrea . Mesto martello pneumatico entra dentro il corpo della volontà scaturiscono note dolenti giorni ingrati senza giungere oltre ciò che si pensa di questa storia. una vergogna un momento utopico senza topiche senza ponti senza guardie alle calcagna , senza nulla che abbia la pena di credere e perseguire l’idea di una bellezza amara.
Lascia stare sono in pochi a capire, il molti camminano senza mutande chi se la ride chi non ha peccato chi come un angelo ferito viene portato al pronto soccorso lasciato sopra una barella in attesa che passi il chirurgo di turno . Ci sono i parenti in sala d’attesa ci son due coccodrilli ed un orango tango ci son Filippo ed Andrea c e il destino che t aspetta un lungo viaggio in questo fine maggio con un taglio alla gola un colpo nella gamba sinistra un panciera che stringe il piacere e tu non ridere scansati non chiedermi nulla. Il tempo mi ha condotto in questo orbitorio con un turbante in testa come un indiano ho recitato la mia parte . Siamo rimasti in pochi a capire tre signore di mezza età un ladro una ragione che trascende il mistero della vita.
Il mio pensiero vive nella poesia. in mondi sconosciuti . incapace d amare di volare via verso una nuova esistenza. in mezzo a questo inferno con tante domande da fare con mille turbamenti con un cuore che pompa sangue , colora l’animo. ed il cielo è solo la porta d’ingresso per un nuovo amore . Metto un punto tra un rigo e l’altro non ho scusanti e come prendere la macchina in compagnia di mamma come ieri alla stazione a fare benzina osservare il ragazzo che rubava sogni al vecchio addormentato dentro la sua auto si nascondeva tra le pieghe del desiderio tra l idea di un amore malato incline alla musica alla speranza di esistere ancora.
Lascia stare che qualche anno in più contano , lascia stare che viene presto natale ed andremo alle Maldive in bikini tu con i tuoi tacchi alti tu con quel aria da furbetta con il vestito migliore. Ok baby fammi sognare fammi passare la più bella notte della mia vita aggrappato alla gonna della lussuria come se fossi un condannato a morte in questa città che risucchia il mio sperma misogino mitocondrio generante una condizione umana migliore. Ed al parco giochi i bambini corrono nei verdi prati dell’infanzia nella bella canzone dell‘amore malandrinò, ed io sono rimasto per ore a guardarli alla fine ho compreso che era passato il mio tempo era passato l autobus delle sette.
Ora sono solo qui che mi cingo il capo d’alloro nell’ora meno opportuna con un terribile dolore che mi trascina per contrade deserte. Strade lontane illuminate dal lume di una ragione infiamma il senso di essere di credere. Come ieri sono qui ancora alla ricerca di una felicita di uno spazio tra le pieghe del tempo che spenga il mio dolore nell’ora meno opportuna. Tutto cosi illogico come accingersi a capire dove è nato questo errore madornale dove la strada si è piegata sotto le ruote dell’auto quando sono entrato in altri dimensioni ed in altre questioni mi son consumato come fossi una fiamma dentro una lampada spenta . Dentro il mio tempo che scorre e mi trascina verso altre questioni ipercinetiche chimiche astrazione , castrano l’ingegno biogenetico in malversazioni e discorsi campati in aria.
Non ho capito nulla del mio verso del mio pensiero rap tutto cosi oscuro come le parole mosce che fanno la spola tra un rigo ingiallito ed il dubbio socratico crescono e non cessano di stupirmi nella loro fragile femminilità festaiola funebre come l’aria salubre che respiro . Senza capire cosa sono stato e quando sono caduto in questo orrore ortografico che non mi lascia in pace . Sono quello che sono forse un poeta dialettale che non conosce le lingue straniere con un aria che non me la conta giusta. E questo il discorso d’affrontare nella sera che giunge come ieri sull’onda di un ricordo nella calura dei colori gocciolanti dal pennello intriso di bellezza. Una linea una forma tonda senza occhi senza testa si muove lesta tra il dire e il fare . Un drago ,un mostro con mille teste lancia fiamme brucia il mio ardore l’apostolo ed il furbo sermone del prete circonciso. Ho visto il cielo cadere ho visto le nuvole fare l’amore come erano belle come erano incredibile volare perdersi nell’ipergiunzione di un mondo d’astrofisiche dimensioni. Fuochi d’artificio bruciavano l’amore e non cera nulla valesse la pena capire non cera sorte migliore quella di lasciarsi andare nell’affrontare il proprio destino. Sull’onda del successo chiuso nel cesso da solo con i propri mostri con quel dubbio sulla bellezza.
Tutto cosi bello quasi incomprensibile quasi surreale una bomba calligrafica trascritta su fogli di carta igienica gettata dentro il buco dove il ragno balla la sua tarantella . Meno male il ragno sopra il muro sale scende si cala i pantaloni e giunge finalmente a placare le sue insane voglie. Ora il tempo ha dato scacco matto al giullare ora la torre e caduta ora il cavallo e morto ora siamo in più di mille a chiederci cosa ci facciamo qui a cantare tutti insieme oh bella ciao. Il tempo ci ha resi diversi preso per il collo trascinato oltre ciò che noi credevamo figli dispersi nel sogno di un re e di un amore mai nato. Un bene mai assaporato mai assaggiato bello tondo secolare come l’ossesso delle parole come il sesso consumato in fretta dentro una macchina . Per pochi spiccioli tutto quello credevamo, morire nell’illogicità dei fatti nella forma che non si piega al nostro volere. Una volontà superiore ci conduce verso questo eterno comizio dove son tanti a parlare pronti a tirare sassi al malcapitato tutti d’accordo che la morte non è la verità dei fatti commessi.
Il mio rap improvvisato nato tra montagne di rifiuti durante un viaggio a ritroso nell’ossesso di un sesso sperimentale cosi come ieri , come un angelo ferito sopra un autobus, andare verso casa, verso la fine d’una sera dolce che t’afferra l’animo t’interroga ti mette soggezione. Ed io non ho compreso dove sia il bene di questa vita dove sia il male di quest’anima afflitta, tutto troppo facile da digerire da scrivere come queste canzonetta saltellante nemica delle mie virtù.
Qui tra cent’anni con questo cuore che continua a battere con il mio pensiero rap con il tuo sorriso in una giornata di pioggia scendere , risalire , andare, migrare verso un nulla verso qualcosa che non ha senso. E tutto scorre come ieri anche oggi saremo a casa ad aspettare natale. Saremo li a capire dove abbiamo sbagliato dove il signore ha lasciato l’auto fuori sosta. anche se sembra tutto ridicolo il mio pensiero rap mi porterà ad Itaca forse in Gerusalemme forse ad Amsterdam forse in viaggio su un cavallo alato . E rido forse sono folle come la luna che se la ride dietro le nuvole laggiù a mergellina che si gingilla con gigino il meccanico fa la stupida con Nicola il pescivendolo vola e balla sull’onda porta il suo cuore dietro l’attimo represso nello scrutare il cosmo sulla spiga di grano tutto il valore della farfalla . tutto il suo amore ingordo sordo ad ogni richiamo sordo all’odore della femmina che arde nella fiamma delle passione sono giunto perverso come un fiume in piena in questo porto in questo corpo abbandonato a se stesso.
Ultimo giro ultima corsa il mio pensiero rap e improvvisamente cambiato umore mi ha preso per il collo mi ha baciato sulle labbra mi ha detto ti amo e poi si e gettato dal ponte. Che bello pensai mentre cadevo ero vivo ed adesso sono un uccello che vola in cielo sono una rana che saltella dentro il bel giardino dell’esperienza insieme ad Ezechiele insieme a pietro che non smette di tirarmi la zampa che mi dice stai attento. Ed il mio pensiero rap e ridicolo piccolo brutto cosi sincero che lo vorrei regalare a tutti quello che conosco e non conosco o credo di conoscere. come una bella canzone sarò libero di volare per la città con l’ombrello sotto l’ascella in pompa magna come un morto al cimitero come Ciccio che fuma una cicca che intasca una mazzetta che se la ride mentre si scopa la moglie del padrone. Ora il mio pensiero rap diviene sempre più ridicolo piccolo innocente roseo come la rosa nel bel giardino là tra le gambe di lei il fiore del peccato il fiore che soffre tace stanca a sera mentre allarga le braccia per stringere il cielo a sè .
Ecco cosa faro sarò deciso un taglio netto, forse un giorno ti porterò a conoscere mia madre ti regalerò il mio amore la mia rima sincera che arma se la ride mentre trema mentre cerca per illogici giochi onirici la cecità degli atti commessi sull’uscio del tempo sull’uscio del silenzio il mio pensiero rap sara il figlio che desiderai , mesto cercai tra le pagine dei libri tra quell’amore pagano e quell’amore malato. Dopo berrò tutto il veleno di questo mondo sarò il salvatore atteso di nuovo crocifisso deturpato imprigionato sarò il tuo sogno il fiume dell’odio sarò sull’uscio di un nuovo verso con il mio amore morente mentre imploro pace, imploro la bellezza, nudo davanti alla croce, davanti al mondo intero. Il mio pensiero rap mi condurrà oltre ciò che credo forse nell’amore forse nella speranza di un vivere migliore.
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pangeanews · 6 years ago
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“Nella rude solitudine dell’arte”: reportage dalla casa-studio di Giancarlo Sangregorio, lo scultore che mutò il Ticino nell’Altaj. In appendice, le sue poesie (e un incontro con Cristina Campo)
Quando arrivi, ed è un privilegio, a volte concesso anche ai cinghiali, ai cervi, e ammiri l’incipit del Lago Maggiore, fermo, come argento liquido, pronto a fare il calco al volto di Dio, e il Ticino che serpeggia lento, dolce, su cui viaggiava, una manciata di secoli fa, il fatidico marmo di Candoglia, quello del Duomo di Milano, roccia che vola sulle acque, roccia che bisbiglia, il duro che si fa morbido, cava che diventa cattedrale, pietra che assorbe l’acquazzone di preghiere.
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Con Angelo Crespi, aristocratico indagatore di cose d’arte, scaliamo Sesto Calende, via Cocquo, la casa-studio, l’opificio di Giancarlo Sangregorio (1925-2013), e capisci che un luogo può essere consustanziale al genio di un artista. Tra le prime opere che sorprendono, la Donna nel campo del 1952: immagino l’artista, neanche trentenne, ma evidentemente esperto nel dolore e nella grazia, che scava il noce, finché la donna, di arcaica bellezza – tra l’icona neorealista e la cariatide greca – non gli sfugge, diventa, divampa, è.
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Tutte le immagini sono state scattate nella casa-studio di Giancarlo Sangregorio a Sesto Calende, ora Fondazione Sangregorio
Sangregorio fa della scultura l’avvenimento dell’uomo, scolpisce l’attimo, il vento. Scolpire è pensare, sragionare, avvitarsi in carne pietrificata, che ti sovrasta e sopravvive. In un testo del 1979 Sangregorio scrive un pensiero riassuntivo – allora come ora. “Esonerata da pochi decenni dagli umilianti servizi temporali di rappresentare e imitare, la scultura dei nostri giorni è già afflitta dalla noia della libertà. Appiattita fra le pagine bianche viene investita di concetti a lei estranei o si vede programmata e decifrata come un cardiogramma. Qui non è più a casa sua, qui è in casa di cura. Si può ancora trovarla quasi per caso nelle recinzioni degli orti nella campagna rumena, le stesse che hanno fornito sicuri motivi al contadino Brancusi emigrato a Parigi. Anche se mosse da motori fuoribordo, conturbano ancora le canoe scolpite che viaggiano lungo il Sepik. Non la troveremo fra i pezzi supercalibrati della meccanica più evoluta e nemmeno tra i piacevoli oggetti del design industriale. Però non sta neppure fra le impressionanti scogliere scolpite dal vento e dal mare. Alle nuove sensazioni forniteci dalla tecnica o al godimento estetico esteso a nuovi mondi naturali, la scultura risponde celandosi in forme e luoghi appartati. Diviene misura e rivelazione della condizione umana fragile ed inesplicabile”.
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La scultura, dice Sangregorio, si cela, perché la sua forma – che non può essere didascalica o, peggio, esornativa – sfugge all’era del rumore, impone una perfezione marziana al quotidiano rollio dei passi. Anche lui, in effetti, allievo, a Brera, di Marino Marini e di Giacomo Manzù, che trae ispirazioni a Viareggio, a Parigi, tra Brancusi, Giacometti e le grotte di Altamira e di Lascaux, nei recessi dell’Antelami e nei bassorilievi assiri, che costella di opere pubbliche Milano e Basilea, Gottinga e Friburgo, protagonista in una manciata di Biennali di Venezia, si cela, si ritira. Negli ultimi anni, immaginando onirici Orienti in riva al Lago Maggiore, Sangregorio sa ancora dare forma alla pietra, con la perizia linguistica di chi forgia un sonetto.
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Il Sepik è un fiume in Nuova Guinea – dal Ticino, Sangregorio si è mosso verso i mondi australi: Africa, Australia, Asia estrema. A cercare se stesso, certo, una nuova forma alle proprie mani – un avvio diverso al mito. La casa di Sangregorio a Sesto Calende (visitabile: ogni informazione è qui) ha un fascino triplo. Oltre alle opere dello scultore, oltre a vedere gli spazi dove ha lavorato, la meraviglia sono, pure, le collezioni d’arte altra. Così, le maschere indonesiane e i cavalieri Dogon dialogano con i marmi liturgici di Sangregorio, e lo stregone aborigeno, stilizzato, il cranio del Buddha giapponese, la teca dove sono stipate divinità aliene, dei mari del Sud, che rimandano all’alba di Gauguin, alla sua capanna negli altri mondi – reali e fittizi, tahitiani e artistici.
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La sala è il cuore della casa, dove l’apogeo di innumeri civiltà s’intreccia; davanti al camino, spento, i lavori di Sangregorio; la finestra arde sotto i colpi del lago. M’inoltro nella biblioteca, per deformazione. Testi di antropologia, i libri di André Malraux sulle pitture rupestri, studi intorno a stirpi perdute, a città sommerse, le Atlantidi dei piccoli popoli, autorevoli e autoctoni, sterminati; un libro con le poesie di Wystan H. Auden.
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Ad accompagnarci nei luoghi nascosti della casa-studio, il presidente della Fondazione Sangregorio, nata nel 2011 per volontà dell’artista, Francesca Marcellini. Sono affascinato dalla sua sapienza – più tardi userà una parola fatale, che dirò dopo. Mi racconta un dettaglio, per capire i carati da studioso di Sangregorio. “Sono stati ospiti da lui anche Elémire Zolla e Cristina Campo. Sangregorio era interessato ad approfondire il discorso sullo sciamanesimo siberiano. D’altronde, le distese infinite dell’Altaj tornano spesso nei suoi scritti”. Nelle opere più celebri di Sangregorio, dove legno e marmo s’incuneano con precisa ferocia, come l’alba è il residuo della notte, e ne è l’alcova, c’è una nitidezza claustrale, un’ambizione spirituale.
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Nel 1999, “giorno del mio 74° compleanno”, Sangregorio rievoca un episodio del 1960. “Quasi a sera, all’ultimo varco dell’Appennino, infine mi giunge ‘il tremolar della marina’ ì ed Albissola… urbanisticamente intestinale… Simile ad un uccello migratore, sbatto contro la selva degli ombrelloni ormai chiusi. La sera stessa, su consiglio di Fontana, decido di trovarmi per la mattina dopo, nella stessa stanza della ceramica dove lui aveva appena ultimato le bocce. Il piccolo locale della Ceas è ricoperto da una coltre di polvere nera (quella delle bocce) – suolo e pareti – e il refrattario è troppo indurito: la lotta per la conquista del totem dura tutto il giorno e comporta l’uso di legni, braccia, mani e soprattutto dei piedi. Finisco con la pelle incrostata di sudore e polvere nera, completamente nero e nudo come un bantu. Oggi sul totem, anzi sul pezzo residuo, vedo l’impronta del mio piede beduino. Nostalgia per i sentieri battuti e un po’ di soddisfazione perché ancora questo piede compie agilmente la sua funzione. Il terzo e ultimo giorno godo del fortuito incontro con un certo Yves Klein e compagna, arrivati troppo tardi per trovar posto al ristorante “Pescetto”. Solo io potevo con loro condividere il piccolo tavolo all’ingresso e un po’ in discesa. In quell’ora ci siamo detti molte cose con l’entusiasmo di quegli anni “collettivi” e come se dovessimo fare tante cose insieme. Non li avrei più rivisti, ma di loro ho il ricordo come  dell’apparizione di una cometa, simile a quella di Klein nell’arte degli anni sessanta”. Fontana, Yves Klein, una narrazione scultorea: bisognerebbe mettere in ordine gli scritti di Sangregorio, ci sono, scaturirebbero bellezze.
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Quando chioso intorno alla dedizione di Francesca, lei mi corregge, “è quasi una consacrazione”. Da tempo non sentivo una parola così bella. Consacrazione. Non ci si sacrifica a un artista, si è consacrati, si è fatti sacri tramite l’opera dell’artista, a lui ci si consacra, sacrificando, semmai, tutto il resto. L’arte, d’altronde, reclama soltanto consacrati, unti nell’ardore. (d.b.)
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Poesia per l’opera  “Vino al vino”, 1988, legno di thuja e di sequoia, donata al Palazzo Viani Visconti di Somma Lombardo (VA).
“Una favola vera”
Tuia siberiana secolare Ti ho conosciuta solitaria volta al Ticino quasi torrente sinuoso priva del tuo grande fiume infinito nelle vallate dell’Altai. Ho visto le tue fronde estenuate fremere all’ultimo vento del Nord. Ho respirato profondo la tua essenza dal profumo inebriante che mi ha accompagnato quando ho cercato di darti nuova vita. Nella rude solitudine dell’arte Ti ho nominata Pane al Pane – Vino al Vino E ti domando: incontro fatale in cosmiche rotazioni o genesi di terrestri simbiosi? ti lascio al fianco del cipresso longobardo sposa regina dell’Altai.
(Giancarlo Sangregorio 2 marzo 2008)
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Poesia per la scultura “Lo Sguardo”, 1990-97, marmo di Carrara, donata al comune di Druogno (VB) nel 2010
“Lo Sguardo” scultura in marmo
All’erta della scala schiocca la danza magra e s’increspa il drago. La tenda di Sumba s’agita al vento Spangensekade La tua patria perduta Della scuola malvagia a me resiste un foglio Il mare di Giava Java to Netherlands Come da vero a vero rimbalza la virtù dello sguardo e non trova il senso Falsum non datur Fiori grandi e vermigli le menti accendono flettono ai varchi Moltitudini Poderose infiorescenze
(Passaggio indonesiano 26-07-1993)
Giancarlo Sangregorio
*In copertina: Giancarlo Sangregorio fotografato nel suo studio milanese, negli anni Cinquanta
L'articolo “Nella rude solitudine dell’arte”: reportage dalla casa-studio di Giancarlo Sangregorio, lo scultore che mutò il Ticino nell’Altaj. In appendice, le sue poesie (e un incontro con Cristina Campo) proviene da Pangea.
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