#manca cap
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libriaco · 8 months ago
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Corbezzoli!
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In latino nell'originale:
Et veniunt ederæ sponte sua melius, Surgit et in solis formosior arbutus antris, Et volucres nulla dulcius arte canunt. L'edera viene meglio senza esser coltivata, e il corbezzolo cresce più bello nelle grotte solitarie, e il canto degli uccelli è più dolce se manca d'artificio.
M. E. de Montaigne, [Essais, 1580-1595], Saggi, Milano, Bompiani/RCS Libri, 2012. [Trad. F. Garavina]. Lib. I cap. XXXI
Immagine: Funghi e corbezzole (o albatre), foto scattata ieri in un'aiuola vicino a casa [part.].
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bibliotecasanvalentino · 9 months ago
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Ed eccoci di nuovo qui con la rubrica a cadenza mensile e precisamente l'ultimo giorno di ogni mese, curata dalla nostra utente e amica Valentina Pace
Questa rubrica nasce anche e soprattutto da una riflessione che ci accompagna da un po' di tempo: per una "piccola" biblioteca di un piccolo paese non è sempre facile stare al passo con le richieste, i suggerimenti, le necessità degli utenti e non. Per questo motivo, con l'aiuto di Valentina scopriremo nuovi autori e nuove letture, consigli e spunti di riflessione, insieme a curiosità e notizie sui nostri cari libri. E allora, diamo il benvenuto a questo nuovo spazio culturale dove si viaggerà alla scoperta delle case editrici indipendenti: ʟᴇᴛᴛᴜʀᴇɪɴᴅɪᴇ.
La casa editrice di questo mese è: Neri Pozza
Buona lettura a tutti!
OMICIDIO A CAP CANAILLE - CHRISTOPHE GAVAT
“… il comandante sa bene che i delinquenti marsigliesi non hanno nulla da invidiare ai loro colleghi della capitale in materia di criminalità. In quanto a tecniche per uccidere il prossimo il marsigliese, benché provinciale, non manca mai di immaginazione, e tiene a dimostrare al parigino che in questo campo, come su quello da calcio, il migliore è lui. E che non ha paura di dégun – di nessuno.”
Cos’hanno in comune un cadavere carbonizzato trovato nel portabagagli di un’auto abbandonata a Marsiglia: il cosiddetto “barbecue”, un sistema atroce per regolare i conti tra fuorilegge, con una serie di rapine a furgoni portavalori a Parigi?
Il comandante Henri Saint-Donat, da poco trasferito alla Brigata criminale della città provenzale dal 36 quai des Orfèvres, la celeberrima sede della Polizia giudiziaria di Parigi, capisce subito di trovarsi di fronte ad un caso molto complesso.
Henri ha un curriculum di tutto rispetto, è un poliziotto di grande esperienza ed estrema sensibilità; dopo tanti anni di matrimonio è ancora molto innamorato della sua Isabelle, ma è anche un uomo tormentato a causa di una tragedia familiare che lo ha segnato nel profondo e di cui nessuno dei suoi colleghi è a conoscenza.
Negli uffici dell’Eveché, sede della polizia giudiziaria, nel dedalo di strade che attraversa La Cayolle, quartiere labirintico e malfamato di Marsiglia, nei corridoi delle Baumettes, il tetro penitenziario, Henri non è solo. Lo supportano il giovane tenente Basile Urteguy e il capitano Lucie Clert.
Basile è un ragazzo pieno di vita, un appassionato di musica, un genio dell’informatica e, allo stesso tempo, un poliziotto di grande perspicacia: nel corso dell’indagine il suo apporto sarà fondamentale.
Lucie, invece, è una forza della natura: una gran bella donna dal carattere impossibile che ha il brutto vizio di saltare subito alle conclusioni. Sul lavoro è testarda e professionale, ma la sua vita privata è un vero disastro. Chissà che non trovi l’amore proprio nel corso dell’indagine…
“Omicidio a Cap Canaille” è un polar di azione che mostra al lettore le tecniche di investigazione della polizia francese, ma dà anche molto spazio alla vita privata e ai sentimenti dei suoi protagonisti.
I capitoli sono estremamente brevi e il linguaggio è semplice, diretto, crudo nel raccontare l’evolversi dell’inchiesta giudiziaria, ma altrettanto evocativo nelle pagine dedicate alla descrizione dei luoghi e degli stati d’animo, anche quando i sentimenti, le emozioni e il privato dei protagonisti prendono il sopravvento sul dovere professionale.
L’autore, Christophe Gavat, è lui stesso un commissario della polizia francese e, leggendo il romanzo la passione per il suo lavoro, il rispetto e l’ammirazione per i colleghi sono del tutto evidenti.
“È ancora un piedipiatti nell’anima, perché ama quell’atmosfera ovattata e notturna dell’Evêché, dove i passi riecheggiano nei corridoi vuoti, dove solo poche luci negli uffici, qualche grido o un’invettiva qua e là suggeriscono che ci siano ancora dei poliziotti al lavoro. Lavorano sempre. Soprattutto, sa di amare quegli agenti dal carattere forte, che non mancano né di energia, né di abnegazione, né di senso dell’umorismo per svolgere ogni giorno con passione il loro mestiere, tanto da farlo anche di notte.”
COSA MI È PIACIUTO
La lettura di “Omicidio a Cap Canaille” è stata la mia prima esperienza con un polar e ho apprezzato moltissimo la descrizione vivida dei luoghi, l’approfondimento psicologico dei personaggi e l’analisi dei rapporti che si creano tra di loro.
COSA NON MI È PIACIUTO
Il finale prevedibile.
L’AUTORE
Christophe Gavat, nato nel 1966, è entrato in polizia nel 1989. Parigi, Marsiglia, Grenoble, Guyana: nella sua carriera pluritrentennale è stato decorato al valore, messo sotto inchiesta e reintegrato. Ha avuto a che fare sia con i grandi casi che catturano l’attenzione mediatica, sia con i piccoli casi quotidiani che lasciano il segno. Già autore di tre libri sulla sua vita di poliziotto, con questo suo primo romanzo si è aggiudicato nel 2021 il Quai des Orfèvres, premio deciso da 21 giurati tra poliziotti, avvocati, magistrati e giornalisti.
LA CASA EDITRICE
Neri Pozza è una casa editrice veneta rinomata e prestigiosa, fondata nel 1946 dall’omonimo scrittore e ha pubblicato, nel corso degli anni, opere di autori molto famosi della letteratura italiana come Carlo Emilio Gadda, Eugenio Montale, Goffredo Parise, Massimo Bontempelli, Giuseppe Berto ai quali si affiancano oggi nomi internazionali grandiosi quali Romain Gary, Natsuo Kirino, Tracy Chevalier, Eshkol Nevo, Herman Koch.
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yin-dra · 3 months ago
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Estic construint un futur d’abundància per a mi. Aprenent a organitzar-me i enfocar l’energia en crear, impactar, viure en llibertat i claretat. La claretat és la clau, però no és l’objectiu. L’objectiu és la llibertat, és el flux, és el ser. La claretat és l’eina per treure el tronc travessat dins del riu. L’art, aleshores, és un mecanisme de llibertat.
Però no un mecanisme qualsevol: és un mecanisme al qual només accedeixo com a salvació un cop estic immers dins la meva pròpia tempesta de pensaments i símbols. Em pregunto: què passaria si pogués portar la tempesta a la realitat per voluntat, i no només com a reacció a una ferida o a un buit?
Tinc aquesta capacitat. Puc entrar dins el món dels símbols a propòsit, no només com a refugi. Però sovint ho faig per evitar la manca, per protegir-me d’ella. Així he construït un espai segur —aquell espai mental al qual vaig quan m’agobio en el primer nivell, quan busco protecció davant la meva pròpia falta i em refugio en la tormenta.
Però un cop dins, avanço. Tinc resiliència. Si no, no estaria escrivint tants anys. Vull anar cap al meu desig, però hi ha defenses. La por a la falta, la por de no ser prou, la por de no encaixar. I aleshores, una altra vegada, arriben pensaments i símbols com a boira que m’amaguen del centre. És una tempesta que em protegeix, però també em confon.
Aquest espai s’ha tornat tan familiar que l’he convertit en realitat base. Un lloc acceptable. He dit que sóc artista perquè això dona sentit a aquest món intern. Però potser no cal que el defensi tant. Potser no cal que m’hi refugiï. Puc començar a entrar-hi per voluntat, no per necessitat.
Quan entro voluntàriament, connecto amb el desig. No cal que accedeixi per dolor, per la ferida. I això és clau. No cal esbrinar tots els pisos d’aquest edifici mental, però sí reconèixer que puc estar en qualsevol pis per voluntat, no per obligació. Això és llibertat.
Per això cal cuidar el sistema nerviós. Regular-lo. Menjar, dormir, riure, fer activitat, crear, meditar... I també mirar als ulls la por: quan no sóc suficient, quan no sóc reconegut, quan em sento atacat o en perill. I sí, també treballar la relació amb la mare. Deixar de projectar la figura materna com a font de seguretat. Matar la mare, simbòlicament, per poder ser.
Aquí entra la disciplina. Una disciplina nova, no com a càstig ni com a exigència, sinó com a ritual: escriure, regular-me, crear, compartir, desapegar-me. Una disciplina que sosté. Que crea estructura per a la llibertat. Però encara no sé com encaixar aquesta energia masculina, cap a on orientar-la.
Potser ja ho estic fent. Potser tot aquest text ja conté la resposta. I ho veig claríssim.
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ernestblanch · 3 months ago
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Més de 25.000 persones han omplit els carrers de València.
Familiars de les víctimes mortals de la DANA, bombers, professionals d’emergències, i una ciutadania indignada han dit alt i clar el que és una veritat de justícia: Mazón ha de dimitir.
A les 20:11h han sonat les alarmes, les mateixes que no van arribar a temps. El silenci institucional, les mentides i la manca de responsabilitats no es poden perdonar.
Un govern que falla en salvar vides, no pot liderar cap reconstrucció.
No es pot reconstruir un país amb qui no el va saber protegir.
No volem més excuses, ni més propaganda.
Volem justícia. Volem veritat. I volem votar.
#VolemVotar #MazónDimissió #EleccionsJa #DANA #víctimes
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sophiaepsiche · 4 months ago
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Il Salvatore VIII
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Duplice Perfezione
Ci siamo lasciati, nell’ultimo articolo, con una serie di domande sulla spontaneità che caratterizza la santità cristiana vissuta non solo nel distacco ma anche molto umanamente. La domanda più importante riguardava proprio le due perfezioni incarnate dal Maestro Divino, Vero Dio e Vero Uomo. Se capiamo come fece il Maestro, capiremo il segreto del Suo esercito.
Gesù era in perfetta unione con Dio, era Dio di natura, non doveva subire, come noi, il processo di divinizzazione tramite il distacco e il raccoglimento, del quale abbiamo parlato nell’ultimo articolo. Sebbene passasse notti intere in comunione col Padre in orazione profonda, essa non costituiva una pratica di trasformazione ma la consolazione spirituale della sua vita umana. Possedeva una natura divina totale e perfetta. Come perfezionò o super perfezionò allora la parte umana? Lo fece, per forza di cose, durante l’abbandono di Dio. Lo fece quando Dio lo lasciò, lo fece nel Getsemani. Lì il più grande atto di volontà di perfezionamento della natura umana in cui per lo sforzo immane di superare, con le sole forze naturali, le tentazioni diaboliche e l’abbandono di Dio arrivò a sudare sangue. Lo fece sopportando il tradimento di Giuda, lo fece durante la cattura, durante la tortura, nella prigionia, negli affronti dei potenti che lo giudicarono, tra l’odio della folla che aveva beneficiato e miracolato, lo fece nel cammino lungo il Calvario, lo fece in Croce, lo fece testimoniando l’atroce dolore della Madre, lo fece nell’abbandono dei discepoli fuggiti. Lo fece da uomo. “Quando Dio aiuta è facile sollevare anche il mondo e sostenerlo come giocattolo di bimbo. Ma quando Dio non aiuta più, anche il peso di un fiore ci è faticoso” (Evangelo M.V. 603.7). Gesù arrivò così alla natura umana totale e perfetta, per Sua stessa volontà. Aveva dunque duplice natura ugualmente totale e perfetta.
Distacco
Il distacco, come visto, è più che presente nella tradizione cristiana ed è parte integrante della vita dei santi. È l’elemento essenziale anche in tutti gli altri insegnamenti genuini, ai quali però manca la completezza degli insegnamenti riguardanti la santificazione dell’umanità. Nel distacco, infatti, ciò che rifulge è la vicinanza a Dio, è il Suo amore, è la Sua forza e potenza. Traspaiono le Sue capacità, traspare la divinità stessa. Nel distacco il praticante arriva alla comunione con il divino Spirito e lo fa rifulgere attraverso di sé. ‘La somiglianza con Dio è in questo spirito eterno, incorporeo, soprannaturale che avete in voi.’ (Evangelo M.V.).
Il contemplativo sa benissimo che ciò che traspare nel distacco non è in alcun modo suo e tende quindi a permanere il più possibile, con o senza l’aiuto dell’ascetismo, in questo stato. Un esempio eclatante della differenza tra distacco e santificazione lo possiamo trovare tra i saggi della non dualità, i quali quasi insistono a non lavorare sull’umanità ma a trascenderla a piè pari. Il loro è un salto quantico in cui le imperfezioni non vengono superate umanamente ma sono tanto lontane dalla loro percezione distante e distaccata da non essere neanche più prese in considerazione. I veri praticanti della non dualità vivono nascosti in Dio e lasciano fare all’umanità ciò che crede. Ora, è bene specificare che, essendo in mano allo Spirito Santo, non arriveranno mai a fare il male, né a peccare. Chi vive in Dio e nella condizione di figlio di Dio, vive in grazia, non può mancare gravemente. Lo conferma anche Gesù alla Piccarreta che voleva imitare una persona che pensava sempre al peccato. Gesù le dice di non farlo poiché lei vive nella Divina Volontà che è ben oltre il peccato e deve pensare solo a lasciarsi andare alla volontà di Dio. ‘Chi fa la mia volontà non ha bisogno di leggi’ (Libro di Cielo cap.20). La resa della propria volontà, o la perdita dell’identificazione egoica, raggiunti grazie al distacco, sono sufficienti alla divinizzazione dell’essere. In questo processo però alcuni rinunciano al perfezionamento o al super perfezionamento della sfera umana. Sri Ramana Maharshi, uno tra i più santi maestri non duali mai esistiti, arriva a scrivere: “Poiché né i difetti né le mie virtù possono esistere indipendentemente da te, non posso pensare a queste cose, ma solo a te. O vita mia qualunque sia la tua volontà, che così sia. Amato mio concedimi soltanto di restare ai tuoi piedi e amarti sempre più!” (Arunacala Navamanimalai). In questo bellissimo messaggio d’amore a Dio Padre, si nota che il figlio è talmente ossessionato dall’amore da non pensare neanche più alla parte umana. Si offre alla divina volontà e si pone fisso e umile ai piedi di Dio. Il punto principale nella non dualità è che una volta sradicati gli impedimenti maggiori, il praticante deve impegnarsi solo nel distacco totale da qualsiasi elemento esterno o interiore. I famosi visaya vasana sono le tendenze all’attaccamento e non gli oggetti a cui siamo attaccati né le imperfezioni. Il caso di Sri Ramana Maharshi, con la sua santità perfetta, dovuta ad una rinuncia attuata in modo straordinario per amore di Dio, è quasi una rarità nel panorama non duale. Moltissimi saggi di questa tradizione mantengono piccoli vizi, fanno leggeri errori morali e non lavorano sulle propensioni caratteriali imperfette.
Il santo cristiano, che pratica il distacco come gli altri, ha invece, o almeno lavora per avere, una solidissima base di santità cercata anche umanamente. Ciò comporta che, una volta uscito dalla contemplazione, non ricade nella semplice umanità, ma si poggia su una casa di roccia.
Questa sua umanità estremamente evoluta assieme alla grazia santificante della vicinanza a Dio, ottenuta nel raccoglimento, rende possibile un perfezionamento che investe la duplice natura, divinizzata (grazie al distacco) e umana (grazie alla croce).
Croce
Il Mistero della Croce, già svelato nell’articolo ad esso dedicato, ci offre la chiave di lettura necessaria per risolvere quest’ultimo rebus di cui ci occuperemo, e che rivela nuovamente la superiorità dottrinale degli insegnamenti di Gesù. Uno dei Misteri della Croce più importanti, se ricordate, è che solo nella retta gestione del dolore l’uomo evolve. Più questa capacità viene affinata nell’individuo più egli evolve, fino a raggiungere il suo massimo potenziale. Il dolore è la sede di ogni virtù, ne consegue che la santificazione della parte umana avviene soltanto attraverso la Croce. Avete notato come questo aspetto sia il tratto distintivo del cristianesimo?
La santificazione della parte umana nei santi cristiani è dovuta al grande accento che si dà alla croce e questo è vero, a maggior ragione, per i Santi-vittime, la classe d’eccellenza del Maestro Divino. Per somigliare a Gesù nella perfetta umanità si deve raggiungere l’Amore perfetto, questo si ottiene col ‘vero patire’, come lo chiama Santa Veronica Giuliani, ossia con il perfezionamento del processo di trasmutazione del dolore in amore che diventa immediato. Il più alto grado di perfezione nell’Amore si può raggiungere solo attraverso questa virtù praticata eroicamente e, nel suo grado maggiore, quando si vive l’abbandono di Dio, la perdita della condizione di figliolanza non per imperfezione ma per sacrificio, a imitazione di Gesù, nella croce pura!
Abbiamo già dimostrato come vivere il dolore porti alla fioritura dell’individuo, umanamente parlando. Questo processo è dapprima semplicemente psicologico e può portare dalla distruttività alla biofilia. In questa prima fase, come già detto, si va ad espiare le proprie mancanze nella gestione del dolore. Lo stesso processo può essere portato ad un grado più alto, trasformando più velocemente il dolore in amore e sviluppando, nel contempo, virtù molto più rare negli esseri umani. Un procedimento più profondo che agisce anche a livello evolutivo. Infine, esso può essere portato a livello di santificazione umana. Cioè a un superamento di imperfezioni minime agli occhi umani, che però attua il massimo grado di evoluzione raggiungibile dalla specie.
La sofferenza è quindi prima espiazione e poi santificazione.
Tutto il processo appena descritto, nella sua interezza riguarda l’individuo, riguarda l’umanità, e può cambiare l’essere dal grado più basso a quello più alto, offrendosi a vivere la Croce. Le virtù eroiche, sono un altro tratto distintivo del cristianesimo ed è talmente incompreso da far apparire le persone più evolute della terra, gli eroi del Cristo, degli psicotici. È innegabile che leggere come alcuni santi abbiano superato eroicamente il dolore, la ripugnanza e la paura possa disturbare la nostra sensibilità ma se ne capiamo il significato evolutivo, in termini di perfezionamento e super perfezionamento dell’umanità, non possiamo certo più considerarli psicopatici. La cosa, tra l’altro, più bella da sottolineare è che le emozioni che essi combattono con pratiche coraggiose sono le emozioni che più tendono a separare gli uni dagli altri e quindi ad amare meno o a manifestare meno il proprio amore. Se per il dolore basta menzionare i penitenti di ogni sorta e i santi-vittime e se per la paura basta pensare ai martiri, per la ripugnanza ci sono esempi che superano l’immaginazione. Baciare e leccare piaghe, abbracciare lebbrosi nauseabondi, come San Francesco, assaggiare sterco o vomito per aver provato un’umana ripugnanza verso un malato, come Santa Maria Margherita Alacoque. Tutto questo non è richiesto da Dio, è l’anima individuale a volersi provare, a volersi superare umanamente e con le proprie forze a imitazione del Figlio perfetto di Dio. Non sorprende allora che questi santi, una volta usciti dalla contemplazione, si poggino su un’umanità caratterizzata dalla stoica pazienza, dall’umiltà reale, da un elevato amore al sacrificio, un considerevole trasporto alla generosità, una monumentale forza interiore, un poderoso coraggio. Superando le minime tendenze alle emozioni che separano gli uni dagli altri sviluppano qualità non tanto rare per tipologia ma per intensità eccezionale. Le virtù eroiche sono tutte a beneficio dell’altro, rappresentano un avvicinamento all’altro fatto con le proprie forze. Ed è questo il marchio inconfondibile del cristianesimo: ‘Li riconoscerete dall’amore.’
Se, come dicevamo, il distacco porta all’amore divino, nella virtù eroica è lo stesso amore umano a santificarsi.
La perfezione della parte umana è allora uno sforzo tutto umano con il quale l’anima si conquista delle medaglie al valore, evolve con la sua sola forza e solo per piacere a Dio. Le virtù che affina, in questo caso, sono conseguenza della ricerca determinata della forza che non ha ma che vuole sviluppare vincendo la sua stessa umanità. Per farlo genuinamente deve attraversare e vivere l’esperienza che scatena l’emozione, facendosi letteralmente investire dalla sensazione che desidera superare.
Questo è l’unico modo per trasformare ogni debolezza in forza autentica.
Duplice Perfezione
I santi cristiani vogliono imitare Gesù nella duplice perfezione, perché: ‘Questo è il Cristo: Dio per Natura, Santo per volontà, Uomo per Nascita. Questo è il Cristo, l’Essere perfetto in cui è una trinità di perfezioni riunite. La perfezione di Dio, la perfezione dell’uomo, la perfezione dell’anima dell’Uomo-Dio.’ (Libro di Azaria – 12 gennaio 1947). Egli fu santo non solo come Dio ma come Uomo e lo fece per sua volontà, infatti: ‘Il Padre Ss. non esercitò nessuna coercizione sul Figlio incarnato e lo trattò alla stregua di ogni altro uomo perché la sua santità di Uomo fosse reale e perfetta, e pari alla sua Santità di Dio.’ (L.d.A. 27 ottobre 46). E per arrivare alla santificazione volontaria della parte umana i Santi cristiani fanno come il loro Maestro, eroe d’amore. ‘Il vero Cristo è quello che appare vivo nel Vangelo, un gigante di mortificazione, di bontà, di altruismo, di modestia, di eroismo, di disinteresse, un eroe dell’amore e del dolore.’ (L.d.A. 24 marzo 1946).
Di solito, nell’abnegazione, l’individuo cerca il distacco da tutto poiché sopperisce alle sue mancanze grazie alla vicinanza a Dio che dona pace, forza ed ogni virtù divina e si libera così anche dal dolore. Disponendosi all’opera divina viene preso, amato e protetto dalla stessa.
Questo è sufficiente ad essere figlio di Dio. De Guibert (in ‘Theologia spiritualis acetica et mystica’) distingue infatti due classi di perfetti. Può essere annoverato tra i perfetti chi ‘ha conseguito un tale grado di abnegazione e di raccoglimento, da essere abitualmente docile alle ispirazioni dello Spirito Santo.’ Il contemplativo non brilla per la carità in tutta la sua massima espressione e ha mancanze solo per debolezza ma resta attaccato ai piedi del Padre, che adora. Un errore comune di chi raggiunge questo grado di perfezione (anche nel cristianesimo stesso sfortunatamente) è di pensare e, purtroppo, insegnare che la santità cristiana sia qualcosa di minore, riguardando la sfera umana. Ignorano che rinunciare alla pace e alla forza divina per amore degli altri e per la loro salvezza è un grado più completo di perfezione. Giungere ad essere ordinati da Gesù nel ruolo di santi-vittima fino ad essere introdotti nella croce pura è il grado massimo di perfezione. Questo è ‘l’amore perfetto! L’amore di Gesù Cristo Figlio di Dio e signore nostro. Amore che giunge al sacrificio. Amore del prossimo che giunge ad immolarsi per il prossimo.’ (L.d.A. 24 marzo 1946). La croce pura è quindi l’espressione massima d’amore perfetto che arriva a sacrificarsi per la salvezza degli altri. È, a tutti gli effetti, redenzione della specie a proprie spese.
Questi santi sono altri Cristi, altri Salvatori. La loro azione non ha limiti spazio-temporali mentre, se ricordate, il semplice contemplativo, sebbene perfetto in virtù del suo amore a Dio, ha dei limiti d’azione dovuti proprio alla carenza nell’amore.
Apriamo una piccola parentesi per una considerazione sulla notte dell’anima. Se la notte dei sensi sembra imprescindibile per arrivare allo stato di contemplazione, che tutti gli aspiranti alla perfezione devono ottenere, non tutti vengono introdotti nella notte dell’anima. Essendo, come detto, una vera e propria croce, che brucia le venialità e le imperfezioni, riguarda solo coloro che possono raggiungere un più alto grado di perfezione. Per questo è definita ‘sorte felice e fortunata’. Dio permette varie forme di tribolazione nella notte dell’anima perché sa che il praticante può sostenerle e, se vuole, superarle fino a giungere all’eroismo. La pazienza, la forza e la trasformazione del dolore in amore che qui il praticante raggiunge sono conquistate umanamente, ossia all’infuori dello stato di contemplazione.
“Nel fuoco della tribolazione l’anima diventa oro puro” (San Padre Pio).
A chiudere il cerchio delle due perfezioni ci aiuta di nuovo Azaria, dicendo chiaramente alla Valtorta che ‘ogni cristiano può essere santo: rinnegando sé stesso, ossia riformando l'io umano in un io spirituale perfetto, e amando la Croce. Senza imitazione del Divino Crocifisso non si può riformare sé stessi, e senza amore alla croce non si può operare trasformazione dell'io. Perché riformare l'io vuol dire lavorare di cesoie e di cauterio sulla pianta ribelle dell'umanità, lavorarvi non una ma cento e mille volte, perché essa è pianta ribelle’ (L.d.A. 24 novembre 1946).
Rinnegando se stesso e rinunciando alla propria volontà si spiritualizza l’essere grazie alla a vicinanza a Dio ma solo vivendo la croce, di cesoie e di cauterio, si trasforma l’io, l’ego, perché è ribelle per natura. Solo con questo duplice lavoro si rende possibile una completezza nel cammino spirituale che, in questo caso, è in parte opera divina, in parte opera umana. I santi cristiani lo sanno bene proprio per la pienezza della divinità e dell’umanità santa del loro Maestro, eroe d’Amore.
Il perfetto bilanciamento appena descritto manca in tutte le altre dottrine. Il cristianesimo offre allora un insegnamento completo per la duplice perfezione a cui aspirano gli imitatori del Cristo.
Gesù risulta essere, a ragion veduta, il Maestro Divino per eccellenza, vero Salvatore e Verbo perfetto nel rivelare la via eccelsa a Dio.
Sia lodato Gesù Cristo.
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canalsart · 4 months ago
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A Sant Cugat, el proper dilluns es porta al ple municipal el "Pla director de les arts visuals i plastiques, en el que no ha estat consultat el sector de les empreses culturals que som els galeristes ni els coleccionistes de la ciutat. Tot i ser una ciutat amb gran potencial cultural, pot ser que la gestió dels recursos no s'enfoqui adequadament cap a iniciatives artístiques. Això inclou una manca d'espais, programes o inversions en projectes a llarg termini. Espero rectificacions i pensar en un pla per la ciutat de mes de cent mil habitants.
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juliaridulaina · 5 months ago
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Ravan: mals hàbits//Ravan: bad habits//Ravan: malos hábitos
La infelicitat de la gent es tradueix en estats d’indignació. Aquests estats destil·len comportaments violents, falta d’amor als altres, manca d’autoestima.., que no deixen a ningú lliure de males experiències. Últimament he sentit més de dues vegades que la gent que surten a gaudir d’un cap de setmana.., arriben enfadats al lloc, i, se’n van enfadats del lloc quan se’n tornen a la seva…
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marssafont · 6 months ago
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RADIOGRAFIA DE L’ESTADA AL CENTRE
Conclusions
A tall de conclusió, voldria exposar que ha estat una experiència sorprenent, i al seu torn, catalitzadora de dubtes i reflexions amb relació a les formes d'educar i d'ensenyar dins el camp artístic.
Tot i que al principi em va costar sentir-me relaxada, imagino que també per la posició concreta que se'ns fa adoptar, i tenint en compte que soc una observadora que necessita de passar a l'acció, ja que sento que l'observació ha d'anar acompanyada de la intervenció, per tal d'activar situacions diferents, que et facin generar més preguntes, més pensaments i comportin nous aspectes a analitzar.
Les pràctiques s'han dut a terme al Cicle Formatiu de Grau Superior de Gràfica Publicitària d'una Escola d'Art, per tant, he tingut l'oportunitat de poder entrar en contacte de manera directa amb els ensenyaments artístics, camp del qual parteixo, i que m'ha permès comparar i trobar narratives properes entre la meva experiència com a alumne d'un Cicle Formatiu, i la construcció del meu paper com a docent.
Si bé voldria exposar que ha estat una vivència curiosa, ja que malgrat presentar estudis artístics, he hagut de dur a terme intervencions en matèries per les quals no presento coneixements prou específics, cosa que m'ha portat a anar a la base d'un coneixement artístic, i he pogut clarificar que pot aplicar-se a altres espais o en altres sentits, fet que m'ha fet adonar que les arrels són sòlides, que puc confiar en mi mateixa.
Alhora, he pogut comprovar com cal estar en formació constant, no tan sols pels continguts a exposar a l'aula, sinó per les maneres en què s'estructura el currículum, per tenir present com configurar les sessions, i adequar-me al funcionament de cada centre. Alhora, fer palès que els canvis en el sistema educatiu són constants, així doncs, és important tenir aquesta capacitat d'adaptació. Saber integrar les competències i els sabers, fer ús de les graelles de programació i procurar evitar els encavalcaments, tenir en compte els objectius, els corresponents resultats d'aprenentatge, i les rúbriques d'avaluació concordants.
De forma més concreta, la pretensió se centra a posar sobre la taula la meva percepció del centre. El fet més rellevant a destacar, el voldria enfocar en l'ambient poc comunicatiu que es percep en l'àmbit docent. És tan present, que fins i tot molts dels i les alumnes se n'adonen. Es palpa manca d'organització entre les matèries i les docències d'un mateix mòdul, i això afecta directament en l'aprenentatge de l'alumnat. Tot i que penso que poden existir discrepàncies entre els i les docents, o situacions a resoldre, és important generar espais de diàleg i intercanvi per a construir un camí curricular complet, i que les matèries no se superposin.
Pel que fa a les entrevistes i converses amb la meva mentora, la Julia, he pogut observar com tot i la manca d'organització i les poques avinences que hi ha entre alguns dels membres del cos docent, hi ha alguns docents que sí que procuren tenir en compte el què es desenvolupa en altres matèries. Situen al centre les necessitats de l'alumnat. Comprenen els ritmes, i les seves classes estan dotades de recursos específics per cada situació. Les metodologies emprades són molt pràctiques, ja que es tracta d'un Cicle Formatiu, per tant, el caràcter de l'alumnat vira cap a la cerca d'espais educatius menys teòrics. Fan ús d'un enfocament educatiu basat en la recerca d'un aprenentatge efectiu i les estratègies estan ben fonamentades en la mateixa experiència, mostrant-se orientades a afavorir l'aprenentatge autònom i la confiança de l'alumne.
Per altra banda, pel que fa a l'alumnat amb el qual m'he topat, he pogut observar com és d'allò més divers segons les personalitats i les conductes. Ara bé, com que les meves pràctiques s'han concretat en un mòdul molt específic que té forces sortides laborals (no ho oblidem, es tracta de disseny i publicitat), la gran majoria són joves de divuit anys, amb els que m'he vist reflectida, ja que moltes de les inquietuds es corresponen amb les que jo tenia a la seva edat.
Aquest fet m'ha portat a reflexionar, a prendre consciència de com, sovint, és vital l'escolta activa cap als i les alumnes. Observar com són i comprendre les inseguretats i les realitats que es viuen amb aquesta edat, i quina és la millor manera d'exposar els continguts a classe, per tal de tenir-los en compte, i que l'experiència educativa tingui sentit per a ells i elles.
Encara que no sigui una comesa fàcil, crec que he tingut la fortuna d'haver topat amb una docent que és capaç de portar-ho a la praxi, o si més no, té totes aquestes consideracions presents. És molt conscient de què fa i com ho fa. Respectant els "tempos" dels i les alumnes, fent de les seves classes quelcom inclusiu, i sabent que a vegades es poden cometre errors en el procés, però l'important és aprendre'n i saber reconduir les situacions.
Potser en el fons, i mirant amb retrospectiva tot plegat, he pogut adonar-me de com n'és de vocacional aquesta professió. Tot i la manca de recursos, i la poca consideració cap als estudis artístics, hi ha persones que s'esforcen dins d'aquest sector. Que busquen que l'aprenentatge sigui enriquidor, i tenen cura de tot allò que es produeix dins de l'aula.
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tastatast · 10 months ago
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EL SERVEI DELS PEIXOS
Sóc partidària de cuinar el peix sencer. Però després d’haver cuinat, servit i menjat una bona varietat de peixos, tant a casa com als restaurants, trobo que el servei que es fa dels peixos, sobretot quan es tracta de peces senceres, s’ha de replantejar seriosament arreu. Evidentment, parlo de peces senceres cuinades per tal de respectar al màxim el producte i aplicar-li el just i necessari per a potenciar les seves característiques emmascarant-lo el mínim possible. És a dir, no parlo de plats de peix on el cuiner vulgui deixar empremta del seu estil a la recepta ni vulgui remarcar la seva autoria.
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Primer de tot, ensenyaria prèviament la peça que s’anés a cuinar i a servir. Personalment, veig molt més clarament la frescor d’un peix en cru, observant la vermellor de la ganya, la brillantor dels ulls, la lluentor de la pell, l’estat de les aletes, etc., que no pas un cop cuit on, amb una mica de manya, es pot corregir o suavitzar la manca de frescor. 
Però, més que portar una safata amb el peix a la taula del comensal i passejar-lo per tot el restaurant, canviant-lo de safata i perdent part de la mucositat que desprèn la seva pell, alterant la humitat i la temperatura, etc., tindria un espai on deixaria els peixos exposats sense malmetre’ls, a l’inici del servei i prou o, directament, portaria el comensal al lloc on el restaurant manté el peix des que el rep fins que el cuina. És a dir, dedicaria un espai i un moment a l'acte de la tria i selecció. Convidaria el comensal a aixecar-se, en cas que ho desitgés, per a triar l’exemplar que preferís: li donaria la possibilitat de poder triar, explicant-li les varietats de peix, els orígens, el pes aproximat de cada un, etc. perquè fos ell, veient l’estat de cada un i les seves preferències, que elegís l’exemplar. A més, trobo que aquest moment, a part de generar confiança i mostrar total transparència per part del restaurant, també seria una bona ocasió per a mantenir una mínima conversa i poder explicar el relat i la filosofia de la casa vers el tractament del peix. Un d’aquells moments entranyables en el que els clients podem parlar amb el cuiner, el maître, el propietari, el familiar, el cambrer o aquella persona del restaurant que té el bagatge i el coneixement pel qual els visitem.
Feta aquesta breu introducció, prosseguiré a explicar com crec que s’hauria de servir el peix.
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EL SERVEI
Primer de tot, cal tenir present que els peixos no acostumen a ser simètrics. Per tant, preguntaria als comensals quina part prefereixen:  la part de dalt o la part de baix (en el cas dels peixos plans com els llenguados, els rèmols, els turbots, etc.), si prefereixen la part del llom o de la ventresca o si prefereixen la part de més arran del cap o de la cua. 
Suposant que es tracti de 2 comensals, el repartiment equitatiu és més o menys factible, però si fossin 3 o més, el panorama encara es complicaria més. A l’hora de dividir un peix, no tothom pot menjar el mateix ni de totes les parts. Algú menjarà la part del llom més gruixuda, un altre la part més prima i de més cap a la cua, etc. Dividir equitativament un peix és pràcticament impossible o, si més no, molt entretingut, cosa que, si es du a terme, acaba refredant tant la vaixella com el peix. Per tant, un cop emplatat i amb el seu propi suc per sobre (mai oli que no ha passat per la cocció conjunta amb el peix per no emmascarar-lo d’aromes foranes), li aportaria un toc d’escalfor deixant-lo un instant al forn. 
També preguntaria al comensal si vol les parts que generen controvèrsia (pell, cap, cua, aletes, espines, fetge, ous, gònades, bufeta natatòria, cor i tota mena de triperia) que, pel que sembla, fins i tot a restaurants tan especialitzats com l’Elkano, on se suposa que la persona que hi va és un gastrònom a qui li agrada el peix i que sap menjar i gaudeix menjant, aquestes parts segueixen sent totes menys els lloms, com si encara estiguéssim als anys 60, quan només se servien i es valoraven els lloms.
Per últim, suposant que volguessin les parts “difícils”, la casquería marina, directament sense ni preguntar-ho, serviria el peix, com a mínim, en 2 serveis. Primer, els lloms (evidentment, amb la pell, però vist el panorama, més val recalcar-ho) a filets i tot el que es pot menjar amb coberts, mantenint la resta en un forn o en algun lloc on es pogués mantenir la resta del peix calent sense seguir-lo cuinant excessivament per tal de no alterar ni la textura ni el punt de cocció. A més, serviria els lloms amb la pell tocant el plat, és a dir, amb la carn cap amunt per poder-li tirar els sucs i aquests puguin penetrar el peix deixant-lo ben hidratat i sucós i no pas al revés, tirant-los per sobre la pell impermeable.
Després, serviria cap, cua, espines i tot el que trobo que s’hauria de menjar amb les mans, tal com s’ho devien menjar els pescadors a les barques (i a les cases particulars) i deixar-se estar de cànons protocol·laris que van sorgir a posterior en contra del plaer gustatiu per adoptar normes d’elegància i refinament establertes.
Si es poguessin fer 3 serveis, serviria abans les espines i deixaria el cap pel final. Les espines, tant si són cruixents com si agafen una mica de la pell del peix i, per tant, greix i gelatina, perden aquestes textures de seguida i el repòs no les afavoreix. En canvi, deixaria el cap pel final perquè el cap sí que agraeix el repòs i, al ser més gran, fins i tot, un punt més de cocció que el llom. En aquest segon i/o tercer servei, és imprescindible deixar, també, un plat net i buit on poder-hi anar deixant les espines un cop xuclades i no haver-les de tenir al plat d'on s'està menjant.
A no ser que fos un exemplar de més de 3 kg (per tant, amb un cap excessivament gran) o que la relació que hi hagués entre els comensals no fos de confiança, ni tan sols faria l’especejament del cap, sinó que deixaria que fos un dels comensals (el que el preferís) qui l’anés desgranant, descobrint, assaborint i repartint amb la resta de la taula o no, quedant-se’l tot per ell. El fet d’emplatar les diferents parts del cap (ulls, careta, llavis, galtes, clatell (cogote), llengua, brànquies, cervell, papada (parpatana, cocotxes)…) el trobo un fals luxe que va en detriment del gust. El trobo tan terrible com si el cambrer rebentés el rovell d’un ou ferrat o rebentés un ou poché. O és que quan et serveixen una cuixa de pollastre, de guatlla o de qualsevol au amb os ve el cambrer a treure’t la carn que hi queda més enganxada? Trobo que el luxe, precisament, és permetre aquest punt d’intimitat i gaudi que s’estableix entre el cap del peix i el comensal. I no pas que el cambrer tregui un ull i el serveixi en una cullera o lluiti per extreure el cervell del peix, deixant tots els sucs que se’n desprenen en un plat de servei que anirà directe al rentavaixelles amb tota l’essència marina. 
Una altra qüestió és la vaixella. És importantíssim que estigui calenta. Tant la plata o safata on serveixen el peix quan el treuen del forn, de la brasa o de la planxa per portar-lo sencer a taula i fer el repartiment davant del comensal, com el plat individual on el cambrer serveix finalment el peix. Per descomptat, tots dos plats haurien d’estar calents i s’haurien de servir sortint d’aquests armaris que escalfen o d’una salamandra, d’un llum o d’on fos. A més, hauria de tenir una mida i estabilitat suficients com per poder tallar el peix amb comoditat. I, per l’amor de Déu, el plat hauria de ser blanc, el protagonista és el peix, ni el cuiner ni l’artista de torn que hagi volgut pintar una ceràmica. 
Pel que fa als coberts, sempre serviria forquilla, ganivet i cullera. Ni ganivets de Laguiole per tallar bous, ni ganivets-pala que no tallen, ni les pinces d’El Bulli. I recalco, cullera.
Finalment, enlloc de portar una tovalloleta de mans d’aquestes cítriques i pudents o l’alternatiu bol amb aigua i llimona que sempre arriben tard, quan ja has embrutit el tovalló, serviria, des del primer servei, una glaçonera (amb aigua i gel) amb peu i el típic lito o una tovalloleta, al costat de cada comensal, per anar-se rentant les mans quan aquest ho desitgés. Enlloc de sevir les tovalloles de mans que ens donen al principi de l’àpat, quan ja venim nets i pentinats de casa o acabem de venir del lavabo precisament de rentar-nos les mans, serviria la tovalloleta en aquest moment, molt més necessari.
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LES CONCLUSIONS
Amb tota aquesta reflexió sobre el servei, el que vull deixar palès és que el punt final, el moment del servei i el consum del producte, moltes vegades, queda descuidat. És com servir un gran vi massa jove, a mala temperatura i en una copa inadequada o de mala qualitat o és com servir un formatge mal afinat. Tant d’esforç i coneixement per part del productor, tant d'esforç per part del cuiner adquirint un bon producte i cuinant-lo per tal de fer-lo lluir al màxim i, després, a l’últim moment, s’espatlla per una qüestió de servei, per deixadesa, per desconeixement, per no haver-s’ho plantejat mai, per una qüestió econòmica o per un descuit del cuiner o del cambrer.
Evidentment, tants caps, tants barrets i, al que a un li pot agradar, a un altre li pot semblar un sacrilegi. I, evidentment, hi ha una fina frontera entre el que és correcte o incorrecte i el que és una mania o una preferència. Però trobo que fer el servei d’una peça sencera d’un peix és tota una cerimònia que necessita temps, coneixement, pràctica i molt de respecte i que els restaurants no acaben de fer-ho prou correctament ni amb les bones maneres amb les que es podria arribar a fer. Requereix un ritual i tota una cerimònia que es podrien arribar a exaltar molt més, fent allò que tant busquen ara de les “experiències immersives” i fent, fins i tot, tot un menú del servei d’un peix, és a dir, "el menú del rap", "el menú de l'escórpora" o "el menú del mero", per exemple, tal com fem el magnífic menú de la becada a Ca l'Enric. Només que s’inclogués un brou a l’inici i unes postres poc dolces i una mica enginyoses, també de peix, ja el tindríem i seria un menú 100% d'un peix i ben minimalista. Amb les escates mateix, en aquests temples del producte, no n'acostumen a fer res quan, simplement ben fregidetes, són ben bones i poden aportar un toc cruixent a unes postres làctiques o a base d'alguna fruita ben refrescant. Però bé, deixaré aquests desitjos i peticions per a un altre escrit.
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Carola Sitjas i Bosch.
______________________________________________________________
Traducción automática del artículo en castellano
Automatic translation of the article into English
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amateurchefstuff · 11 months ago
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radioactivesweet · 5 years ago
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shoujogalaxy · 5 years ago
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ridingthewhitechocobo · 6 years ago
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groupie-loveee · 6 years ago
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