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A ROSE PALE && DYING.
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☽ ˚⋆ la poesie est dans la rue〝 黑夜.// 25 · berlin //
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uniposcautumn · 10 months ago
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CHRONICLES of a PAINTER. ♯1
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come shove me over the edge, 'cause my head is in overdrive. i'm sorry, but it's too late, and it's not worth saving, so come rain on my parade. i think we're doomed, and now there's no way back.
Berlin, DE // year 2017
Nell'oscurità incipiente, le luci dell'atelier erano ancora accese, fioche, delineando le forme indistinte degli arredi. L'aria era densa, impregnata dell'odore acre della pittura, dell'umidità stagnante che sembrava trattenere i suoni, come se ogni parola o movimento fosse imprigionato in quel silenzio opprimente. L'atmosfera sembrava stringersi attorno a lei, comprimendola, rendendo ogni respiro più difficile. Seduta su uno sgabello di legno, fragile come un uccellino in gabbia, la giovane aveva lo sguardo fisso sulla tela, ma i suoi occhi erano privi di vita, assenti.
Ogni pennellata era un atto meccanico, vuoto, un riflesso condizionato piuttosto che un'espressione creativa. Le mani tremavano impercettibilmente mentre stringevano il pennello. Il respiro era lieve, spezzato, appena percettibile nel silenzio circostante. Ogni muscolo del corpo, dalla schiena irrigidita fino ai piedi sospesi a pochi centimetri da terra, era teso, contratto in una tensione costante che le scivolava sotto la pelle, insinuandosi nelle ossa. La libertà di espressione, il volo dell'immaginazione, le erano stati sottratti. Lì, davanti alla tela, non era più una creatrice, ma un'opera in divenire, modellata non dalle proprie mani, ma da un potere esterno, oscuro.
Dietro di lei, il professore. La sua presenza era opprimente, quasi tangibile. Lo sentiva muoversi, sebbene non lo vedesse. Il suo sguardo la trapassava la schiena come lame invisibili, perforandola senza pietà. Non serviva girarsi per sapere che lui la stesse osservando, giudicando, pesando ogni sua decisione. Autumn era abituata a quegli sguardi freddi, analitici, ma la paura, quella non se n'era mai andata; era lì, sempre pronta ad emergere, un demone sottile che le stringeva il cuore ogni volta che percepiva un suo movimento, ogni volta che sentiva il fruscio dei suoi passi sul pavimento.
Quella sera, però, qualcosa dentro di lei si era mosso. Un impulso istintivo, quasi incosciente. Una pennellata oltre i confini imposti. Un tocco di colore diverso, un'esplosione improvvisa in quella prigione fatta di rigore e controllo. Forse l'aveva fatto senza pensarci, forse era stato un atto di ribellione silenziosa, ma il risultato era lì, tangibile, sul bianco della tela. Un'imprudenza.
L'aria sembrava essersi fermata. La giovane sentì l'inconfondibile rumore delle scarpe dell'uomo avvicinarsi, lentamente, con la calma glaciale di un predatore che ha già intrappolato la sua preda. Ogni passo risuonava nelle sue orecchie come un colpo di martello, scandendo il tempo che si accorciava inesorabilmente.
Il terrore le serrava la gola, facendole trattenere il fiato. Sentiva il battito del cuore accelerare, pulsarle nelle tempie, così forte da offuscare i suoi pensieri. Gli occhi fissi sulla tela, sperando invano di trovare un nascondiglio in quella superficie vuota. Ma non c'era scampo.
«Non è quello che ti ho insegnato. Che stai facendo?» La sua voce squarciò il silenzio come un coltello, tagliente e sibilante. Non era un grido, non aveva bisogno di urlare per farle capire il peso della sua collera. Quelle parole caddero su di lei come una sentenza, un'accusa che non lasciava spazio a repliche. Il pennello le scivolò dalle dita, cadendo a terra senza fare rumore, come se anche l'oggetto avesse timore di infrangere quella quiete minacciosa. Non osava alzare lo sguardo. Un tremito leggero le percorse la schiena, le mani si strinsero in grembo come a cercare conforto l'una nell'altra. Il respiro era irregolare, troppo veloce, ma cercava di controllarlo, di non farsi notare, come se l'immobilità potesse salvarla da quello sguardo che ora le bruciava dietro le spalle.
Il silenzio che seguì le sue parole fu più pesante di qualsiasi altro suono. Avvertiva la sua ingombrante presenza dietro di sé, sentiva il suo respiro calmo, controllato, eppure carico di qualcosa di ineluttabile, come una tempesta in arrivo.
«Ti ho fatto una domanda.» La voce era più fredda, più vicina. Il brivido le corse lungo la schiena come una scossa elettrica. Sapeva che non avrebbe potuto ignorarlo ancora. Sapeva che non c'era alcuna via di fuga.
«Io...» Le parole le morirono in gola, soffocate dal nodo che le comprimeva la voce. Non riusciva a parlare. La sua mente era affollata di pensieri, di paure, e nient'altro riusciva ad emergere. Le parole che avrebbe voluto dire erano bloccate da quel terrore paralizzante che le comprimeva il petto. Il respiro si fece affannoso, ma tentò di nasconderlo; cercava di mantenere una calma apparente, benché fosse ben cosciente che non le avrebbe comunque salvato la pelle. Non c'era scampo.
E poi, sentì la presa. Forte, improvvisa, brutale. Le dita dell'uomo le afferrarono i capelli, tirandoli all'indietro con violenza. Il suo corpo si sollevò dallo sgabello, costretto a piegarsi in sua direzione. Un gemito soffocato le sfuggì dalle labbra, ed il dolore si irradiò dalla nuca fino alle tempie. Gli occhi si spalancarono per lo shock, e il cuore sembrò fermarsi per un attimo eterno.
«Rispondi.» La sua voce adesso era solo un sibilo, ma carica di una violenza trattenuta, un odio che non aveva bisogno di gridare per essere percepito. Il suo respiro sul collo, caldo e soffocante, unito alla stretta ferrea della sua mano che continuava a stringerle i capelli come se volesse strapparglieli via le fecero venire la nausea.
Tentò di parlare, ma le parole non volevano uscire. Le lacrime le riempirono gli occhi, bruciando ai lati di essi come sale su una ferita aperta, ma non poteva permettersi di piangere. Non davanti a lui. L'umiliazione, il dolore, la paura si stavano mescolando in un vortice che la trascinava sempre più giù, fino a farle mancare il respiro.
«Mi dispiace...» riuscì a sussurrare infine, la voce spezzata, strozzata dalla paura e dal pianto trattenuto. Sperava che quelle parole fossero sufficienti, sperava che bastassero per placare la sua ira. Ma sapeva che non sarebbe stato così.
L'uomo non disse nulla. Per un attimo sembrò addirittura che la morsa si allentasse, ma fu solo un'illusione. In un istante, la presa si fece più forte, e con uno strattone brutale le fece piegare la testa all'indietro. Il dolore così intenso da farle sfuggire un grido soffocato, ma abbastanza forte da riecheggiare tra le pareti della stanza. La sua voce, bassa e fredda, si fece ancora più vicina, ormai solo a qualche millimetro dal suo orecchio.
«Credevo fossi la mia piccola artista, invece sei solo una delusione.»
Poi, il silenzio.
La mano che fino a un attimo prima la teneva prigioniera si ritirò, lasciandola cadere in avanti come una bambola rotta. Il corpo della giovane si piegò su se stesso, le spalle scosse dai singhiozzi che finalmente riuscivano a liberarsi. Ma non c'era conforto in quelle lacrime. Solo vergogna. Umiliazione. E una sensazione di impotenza che la paralizzava.
Sentì i passi del professore allontanarsi, il rumore della porta che si chiudeva, lasciandola finalmente sola in quella stanza vuota. Ma la solitudine non portava con sé sollievo; solo un vuoto opprimente che sembrava risucchiarla, soffocandola ancor di più.
//
La pioggia cadeva leggera sui tetti di Berlino, un suono costante che si mescolava al brusio della città. Autumn camminava velocemente tra le strade umide, le braccia strette intorno al corpo, cercando di trattenere il tremito che ancora la scuoteva violentemente dall'interno. Il peso dell'incontro con il professore gravava su di lei come una cappa di piombo. Ogni passo che faceva sembrava trascinarla più in basso, in un abisso dal quale non riusciva a vedere una via d'uscita.
Raggiunse il suo appartamento senza ricordare come ci fosse arrivata. Le mani le tremavano mentre cercava le chiavi nella borsa, e quando finalmente riuscì ad entrare, si richiuse la porta alle spalle con un senso di sollievo che però durò ben poco. L’oscurità la accolse, ma non vi trovò conforto. Si spogliò meccanicamente, lasciando cadere distrattamente i vestiti sul pavimento mentre si dirigeva verso il bagno. Sentiva la necessità di lavarsi, di scrollarsi di dosso quella sensazione di sporco che sembrava avvolgerla. Accese l'acqua calda e si infilò sotto la doccia, sperando che il getto violento potesse finalmente cancellare la memoria di quelle mani, di quello sguardo.
Il volto che la fissava dallo specchio non le apparteneva più. Autumn non si riconosceva in quegli occhi spenti, gonfi di lacrime trattenute, nelle labbra tremanti che sembravano ormai incapaci di formare parole. C’era qualcosa di estraneo, di infranto, e l'immagine che il vetro rifletteva non faceva altro che amplificare quel senso di perdita. Quella non era più la ragazza che sognava di fare dell'arte la sua vita. Quella era solo il guscio di essa, una creatura silenziosa e svuotata, plasmata dal dolore. Il vapore caldo della doccia ancora aleggiava nella stanza, appannando lo specchio ed avvolgendola in una cappa soffocante. Il suo corpo, ormai asciutto ma ancora teso, era scosso da piccoli brividi, come se il freddo l'avesse invasa fino alle ossa; un freddo che non proveniva da fuori, ma dall'interno. Si sentiva ancora sporca, contaminata, come se quel tocco, quelle mani, avessero lasciato un'impronta indelebile.
Aveva passato ore sotto l'acqua bollente, sfregando con violenza la propria pelle finché questa non era diventata rossa, irritata, dolente. Ma nessuna quantità di sapone, nessuna quantità d'acqua sarebbe bastata per rimuovere la sensazione che le si era cucita addosso come un abito realizzato su misura. Marchiata, segnata per sempre. Il professore non era più lì, non fisicamente. Eppure, il suo sguardo, il suo respiro, la sua presenza permeavano ancora ogni angolo del suo essere. Il terrore che aveva provato nel laboratorio non l'avrebbe mai davvero abbandonata. Le si era infilato sotto la pelle, come veleno, strisciando attraverso ogni poro, ogni fibra del suo corpo.
Autumn fissò il riflesso della sua schiena, visibile nello specchio, osservava i segni rossi sul collo, i capelli che le ricadevano sulle spalle, ancora umidi. E non erano i segni fisici a tormentarla. Era quella mano invisibile che ancora sentiva affondare nella sua nuca, la stretta brutale, la prepotenza. Il suono della sua voce fredda, la violenza nascosta sotto un'apparente calma che l'aveva fatta tremare sino nel profondo. Si era sentita una bambina, fragile, impotente, incapace di opporsi. L'immagine riflessa davanti a sé non era solo quella di una ragazza spezzata, ma di una vittima, qualcuno a cui era stata sottratta la propria dignità, il proprio controllo. E quella consapevolezza la stava lentamente distruggendo. La sua mente cercava disperatamente una via di fuga, ma ogni tentativo sembrava riportarla sempre nello stesso punto: al ricordo di quel momento, di quella paura paralizzante.
Le lacrime tornarono a scendere, stavolta senza alcuna resistenza. Non c'era più nulla da trattenere, non c'era più alcun controllo da mantenere. Si lasciò andare, piegandosi in avanti, il viso nascosto tra le mani, mentre il suo corpo veniva scosso da singhiozzi disperati. Ogni respiro era un affanno, un fallimentare tentativo di trovare dell'aria fresca, un sollievo che però non arrivava mai. Ma non era solo la paura, non era solo il terrore che la consumava. Era anche la rabbia. Rabbia per non aver reagito, per non aver trovato la forza di opporsi, per essersi lasciata sottomettere così facilmente. Ogni fibra del suo corpo urlava indignata per quella sottomissione, per quel tradimento a se stessa.
Sollevò lentamente lo sguardo verso lo specchio, fissando la propria immagine per un lungo, doloroso istante. Il suo riflesso la guardava indietro con occhi vuoti. Lì, non vi era più nulla di lei; qualcosa negli ingranaggi interni si era spezzato irrimediabilmente. Sentiva di aver perso il controllo, di aver perso sé stessa. L’unica cosa che riusciva a vedere in quel volto era la debolezza, la paura, ed il marchio indelebile di quell’uomo; il suo professore.
Poi, un pensiero improvviso, oscuro, la colpì. I capelli. I suoi lunghi capelli castani, quelli che lui aveva afferrato con tanta brutalità, quelli che erano stati il simbolo della sua sottomissione. Erano loro la causa del suo dolore, che stavano mantenendo sanguinolenta la ferita di quel momento.
Lentamente, come in un sogno, come se il suo corpo si muovesse in autonomia senza il controllo della sua mente, Autumn si spostò verso il cassetto accanto al lavandino. Le mani le tremavano mentre lo apriva, rovistando tra gli oggetti in cerca di ciò che sapeva avrebbe trovato.
Un paio di forbici.
Le dita si chiusero attorno al metallo freddo, e per un attimo, il solo contatto con quell'oggetto sembrò darle una sorta di controllo, un barlume di speranza. Si alzò lentamente, riportando lo sguardo allo specchio, fissando ancora una volta quella chioma scusa che le ricadeva sulle spalle. Le forbici erano pesanti nella sua mano, eppure in quel momento sembravano l'unica via percorribile, l'unica soluzione a quel dolore che non riusciva a dissipare.
Le avvicinò ai capelli, esitante. Il cuore le batteva forte nel petto, la mente cercava di razionalizzare, di convincerla che non avrebbe risolto nulla, che era solo un gesto disperato. Ma quel pensiero fu presto soffocato dalla rabbia, dalla disperazione. Aveva bisogno di liberarsi, di tagliare via quella parte di sé che era stata violata.
Con un movimento deciso, tagliò la prima ciocca. Il rumore delle lame che affondavano nei capelli risultò soffocato, ovattato, come se tutto stesse accadendo in un'altra dimensione, lontano da lei. Un pezzo cadde a terra, scivolando via come un peso morto, e con esso anche un pezzo di lei stessa. Il taglio non era perfetto, non era regolare, ma non le importava. Continuò a tagliare, ciocca dopo ciocca, con una frenesia crescente, come se ogni colpo potesse cancellare la sensazione di quelle mani, di quel potere che lui aveva ingiustamente esercitato su di lei.
I capelli si ammucchiarono rapidamente nel lavandino e sul pavimento, e con essi la sua vecchia immagine, quella ragazza fragile e distrutta che era stata fino a quel momento. Quando si fermò, ansante, le forbici le caddero dalle sue mani tremanti, rimbalzando sul pavimento con un suono secco, metallico. Si guardò nello specchio, il viso segnato dalle lacrime, i capelli ora corti, irregolari, cadenti appena sotto il mento.
Non vedeva più il riflesso di prima, ma era indubbiamente sempre lei.
Il dolore era ancora lì, insopportabile, ma almeno, per un momento, le pareva di aver fatto qualcosa, seppur insignificante, per riprendersi una minima parte di sé. Ma l'illusione durò solo un istante. Il freddo delle mattonelle sotto i piedi la fece rabbrividire improvvisamente, e la realtà la colpì come un pugno in pieno viso.
Si lasciò cadere a terra, le ginocchia contro il petto e le mani ai lati della testa. Non c'era via di fuga. Aveva tentato di prendere il controllo, ma a che pro se ormai aveva perso tutto?
Il bagno era immerso in un silenzio pesante, interrotto solo dai singhiozzi soffocati di Autumn, un rumore che sembrava venire da un pozzo buio e senza fondo. Anche il rumore della pioggia, fuori, sembrava lontano, come se l'intero mondo avesse smesso di esistere, lasciandola sola nella sua sofferenza.
E così rimase rannicchiata su se stessa, intrappolata in quel circolo vizioso di disperazione che sembrava non avere fine, desiderando solo che tutto tacesse, che il dolore sparisse, e che quel giorno potesse essere cancellato per sempre.
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