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yesiamdrowning · 6 years ago
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Pare che mi sia fatto Insta*.
Se conoscete il mio vero nome lo trovate facile, se no portate pazienza... *Contenuti musicali, weird e outsiderismi vari 2 volte la settimana.
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yesiamdrowning · 6 years ago
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Stile balneare: visto che non lo fa nessuno lo faccio io. Buon ferragosto.
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yesiamdrowning · 6 years ago
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se ti dicessi che non ci sentiamo da due anni circa e che mi andrebbe di incontrarti, quanta probabilità ho di esser mandata a cagare? p.s. non sono l'anon del "ti manco?"
effettivamente fa tanto caldo quest’estate. non sapendo assolutamente chi tu possa essere, attualmente stai al 50 e 50. due anni, sicura? non mi ricordo di avere mandato nessuno al diavolo due anni fa e non sono rancoroso. diciamo che un nome però mi aiuterebbe. non hai un mio contatto dove scrivermi?
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yesiamdrowning · 6 years ago
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Ti manco?
a sapere chi sei. compro una vocale...
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yesiamdrowning · 6 years ago
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Ciao Giorgio, qui Fil di action dead mouse, orchestra di loop post-hardcore che forse conosci, forse no o forse hai voluto dimenticare. Scusami se ti contatto così - senza nemmeno sapere se ancora usi tumblr - ma il 5 aprile è uscito IL CONTRARIO DI ANNEGARE, il nuovo disco per To Lose La Track, È un brutto posto dove vivere, Floppy Dischi e Ideal Crash. Se ti va di ascoltarlo e magari di farci qualcosa, lo trovi su bandcamp, AM, Spotify o ti mando il link. Intanto grazie. Fil
ciao Fil, si mi ricordo piacevolmente di voi. quando vuoi sono qua. oppure ci vediamo a Ubertide, magari fammi sapere come incrociarci...
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yesiamdrowning · 6 years ago
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Su "piccole bugie familiari": ti seguo saltuariamente, ma apprezzo la tua preparazione e la tua scrittura; solo la rettifica che Mark Hollis arrivò alla svolta di "The Colour Of Spring" e "Spirit Of Eden" a seguito di problemi con l'eroina. Conosco i Talk Talk a occhio come te, ma questa cosa l'ho letta da qualche parte, non ricordo però dove. Ciao e continua così.
ciao, ne approfitto per ringraziare tutti quelli che ancora mi scrivono e stanno approfittando di questo periodo di pausa prolungata per leggere anni e anni di post qui du tumblr. forse saprete che da qualche tempo ho iniziato una nuova collaborazione, con rolling stone, ma non è detto che, di tanto in tanto, ritorni a scrivere anche qua...
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yesiamdrowning · 6 years ago
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vivere (è un po’ come perder tempo).
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C'è una scena di Alta Fedeltà, film del 2000 tratto dall'omonimo libro-culto di Nick Hornby, in cui Jack Black pone a John Cusack un semplice ma ineluttabile domanda per noi fissati di musica. “E' giusto o no - chiede il surreale commesso Barry - criticare un grande artista per i suoi gravi errori senili? Cosa è meglio, sputtanarsi o scomparire?”. La questione, in sintesi, è tutta qui. Nel film, il proprietario di dischi Rob Gordon glissa il quesito e il film prosegue, realisticamente, senza risposte certe. Io, ponendomi la stessa domanda alla notizia dell'uscita dell'ennesimo disco dei Bad Religion, ho provato a mia volta a trovare una valida risposta. Cinque anni fa, lo scrittore e critico musicale Carl Wilson, intervistato all'uscita del suo saggio Musica di Merda, si è lasciato andare a parole ben più accorate, che meritano d'essere quanto meno raccolte e valutate con considerazione. State attenti (ci ha ammoniti), l'invadenza più aggressiva delle tecnologie nel campo della fruizione musicale e della mentalità compulsiva nella disciplina dei ritmi di vita delle società avanzate produce dei frutti avvelenati: sta distruggendo, un poco alla volta, il senso autentico di esperienze un tempo primarie come quella dell'addio alle scene, la cui nozione ha scandito per tanti secoli la storia della musica; ci sta allontanando dal senso naturale di fine, sconnettendo il vissuto e la ragione quotidiana dei musicisti di questo angolo opulento ma egoista di mondo da una parte preziosa e anche sacrosanta dell'identità artistica, quella che rendendoli artefici completi di una propria storia e dell'epilogo di questa, rende noi partecipi del nascere e del morire delle carriere dei gruppi e dei singoli artisti, e ci consente di entrare in un rapporto integro con la finitezza del nostro tempo e la mediocrità della nostra cultura contemporanea. Perché è forse l'eterna rassicurante presenza dei vari Rolling Stones che rende più tollerabile/simpatica la trap. Altrimenti, in un mondo con Bob Dylan in pensione, ci accontenteremmo dei “Buh!” Ultimo senza battere ciglio?
La critica musicale, almeno quella seria, è per tradizione e cultura osservatrice capillare e sensibile dei mutamenti ideali indotti dalla modernizzazione, e dei loro effetti sulle vite di chi crea o fruisce della musica: a volte dichiaratamente prevenuta, come nel caso del file-sharing, quasi mai tuttavia totalmente infondata e gratuita nei suoi rilievi. Oggi fa i conti con una società dove, per porre fine alla propria carriera, il suicidio sembra essere una valida alternativa. Tolti infatti i Fugazi, i REM, sembra oramai impossibile, se non addirittura vietato, appendere il microfono al chiodo prima del decesso. Così, il tramonto e l'abdicazione di ogni forma di etica nel rapporto artista/pubblico ne sta esaltando il ruolo e l'utilità sociale: fino a lasciarle in molte e non marginali occasioni l'esclusività delle analisi e del dissenso di fronte agli stati di cose presenti. Da qualche tempo, poi, il suo essere pare avere assunto la prospettiva e gli accenti di una vera e propria ecologia dell'ascolto contro tutti i guasti e gli arbitri del progresso (e lo stesso libro di Wilson così come Rock Til You Drop di John Strausbaugh sono lì a dimostrarlo): proprio come la materialità della natura del pianeta va sottratta all'abuso indiscriminato delle opere degli uomini, così la natura dell'ascolto va difesa dall'azione deturpatrice degli eventi della modernità. Primo tra tutti, la bulimia di esperienze musicali che, in relazione all'arroganza di non voler spendere più come un tempo per la musica, costringe i musicisti a rimandare il ritiro in eterno e gli ascoltatori attenti a vivere in un vacuum dove passato, presente e futuro si mischiano oramai indistintamente tra di loro senza alcun senso logico e contesto.   E' facile, per i giovani che abbiano fatto dell'estraneità agli insegnamenti della storia della musica il punto d'appoggio della propria formazione personale, ragazzi abituati oramai a non avere rispetto di nulla (“Ce l'hai la maglia della Ramones?“, realmente sentito dire in giro) e a ottenere tutto e subito (fosse anche il risveglio dei morti, come per l'annunciato tour di zio Frank), così come per gli adulti che si son lasciati trasportare dalla marea, sollevare fortificate barriere contro la sensatezza di simili analisi, e delle premesse che le sostengono. Così il pensiero si affolla subito di obiezioni familiari e consuete. La più celebre: “Se hanno ancora un pubblico perché devono smettere?”. Perché nessuna esperienza della nostra esistenza per quanto elementare e primaria, come quella notoria e assimilata dell'inizio e della fine, della nascita e della morte, dell'alfa e dell'omega, può sottrarsi al mutar delle condizioni sociali in cui si forma. E le condizioni sociali attuali dicono che, musicalmente parlando, chi si ferma è perduto. Anzi, se ci hai dato un taglio faresti meglio a ricominciare. Ma se i benefici dell'accelerazione e del potenziamento nella fruizione musicale sono ben noti (non per fare il Bart di turno in Santa Maradona ma, intendiamoci: non siamo più nel 500 che non succedeva mai un cazzo, ora torni a casa e scopri che è uscito un film su Burzum) non possiamo ignorarne le enormi pecche etiche e strutturali. Infatti, questo adesso può non bastare: anzi, già non basta più. E rimane, conficcata ben dentro, la sensazione che l'intuito appassionato di Wilson probabilmente al di là delle stesse intenzioni di chi lo ha concepito abbia sfiorato qualcosa di nuovo, profondo e decisivo che sta affiorando in questi anni febbrili e sospesi; qualcosa per cui non valgono le vecchie distinzioni, e che fa sbiadire ordini concettuali con i quali abbiamo avuto dimestichezza. Non è il richiamo verso lo snaturalizzarsi della vita contemporanea, a rendere così penetrante il suo richiamo, o l'esplicita denuncia nei riguardi del lato disumano dell'evoluzione del pubblico, sempre più onnivoro sempre più pretenzioso, e della relativa involuzione artistica: avevamo già sentito questi discorsi. No, è qualcosa d'altro a turbare; come la traccia di una scoperta sottesa più inquietante: se non riusciamo più a concepire la fine di una carriera, e ne stiamo rimuovendo e cancellando l'idea e l'immagine dal nostro vissuto, è perché non riusciamo nemmeno ad ammettere l'idea di morte nelle nostre vite. Viviamo cioè una costante rimozione del tempo, quando invece esso esiste, è stronzo e prima o poi finisce. Abbiamo oscurato lo specchio: al punto in cui siamo, ci rimandava a una visione insopportabilmente complicata e indecifrabile; e così ci siamo creati una sub-civiltà della ripetizione e della monotonia costante. Se no, in tutta sincerità, che motivo avremmo di pretendere ancora e ancora e ancora una volta un disco dai Bad Religion che sarà uguale a tutti gli altri dischi dei Bad Religion, ad eccezione della calvizie incipiente di Greg Graffin e Brett Gurewitz? E così, come per loro, per altre decine di artisti.
Ma la mera riduzione della morte artistica a un fallimento dell'estro compositivo così come quella umana a un fallimento di una capacità terapeutica non sono la causa del male: sono solo i sintomi di un disagio e di una insofferenza che si producono in una zona molto più impegnativa e remota della nostra tendenza evolutiva. Sono i segnali che si sta oltrepassando un limite fissato, oltre il quale una reciprocità e una simmetria antiche si spezzano: dove il presente è uno stato di appagamento solo da conservare e intensificare all'infinito. In questo senso, il rifiuto collettivo della fine, l'esaurirsi della sua produttività simbolica, funzionano esattamente come una grande metafora: come metaforica era stata la sua accettazione e la sua presenza costante, quotidiana (per certi versi persino splendente) in altre epoche della nostra storia. Questo punto è stato espresso da Ozzy riunendo i Black Sabbath: “When we first formed 40 odd years ago, I had no idea we’d be here doing this”. Perché Osbourne, a differenza del suo pubblico, ha il senso del tempo. Non so voi ma io spesso mi chiedo dove siano finiti quei tempi in cui gli zii avevano visto i Cramps di supporto ai Police al Palasport di Reggio o i Pink Floyd al Canale San Marco di Venezia e i nipoti (grazie a dio) no. Perché, non fosse chiaro, è stato in quegli anni, e con quella mentalità lì, che quei gruppi sono diventati i miti che conosciamo. Nella memoria, nel passaparola di gesta epiche e discografie irripetibili che ne rafforzavano il loro fascino nella loro unicità. Nella sana invidia di non esserci stati e nel culto del ricordo di chi poteva dire il contrario. Del resto, pure Gesù se apparisse ogni dieci anni al Coachella finirebbe per fare la figura del peracottaro, figuratevi se Maynard James Keenan non corre questo rischio con i Tool. Purtroppo, il consolidarsi e il diffondersi di un'eccessiva dose di modernità come senso comune vincente rendono sempre meno credibili ipotesi come questa che pure attraverso secoli sono state rigenerate da una tradizione musicale memorabile, e hanno prodotto una straordinaria iconografia.  Ma di nuovo, forse il punto è altrove: e la tecnologia non è la vera responsabile di questa difficoltà. E' la caduta della speranza a togliere forza ed efficacia alla fantasia e all'immaginazione. In buona sostanza, mettiamo in copertina i Depeche Mode perché dei Maneskin non ci fidiamo totalmente e facciamo fatica a vederne un futuro. E' stata questa la catastrofe inaspettata e paradossale, che si è aperta proprio quando la storia sembrava consegnarci a una condizione di privilegio e di possibilità mai prima sperimentata, a inaridire sorgenti preziose della nostra fruizione. E si resta inchiodati senza alternative, senza utopie, senza futuro a un prolungamento indefinito ma proprio per questo miserevole, volgare della storia che ci è concessa di vivere, con la sua opaca abbondanza sondata da pochi e i suoi inutili privilegi. Forse è proprio da qui che si dovrebbe ripartire la lotta per ritrovare un valido e durevole futuro musicale in questo piccolo angolo di universo (almeno in apparenza) sempre più povero di talenti e ingolfato di storie già vissute.
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yesiamdrowning · 7 years ago
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piccole bugie familiari
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Quando capisci che stai maturando? In genere si è soliti accollare alla propria crescita individuale una serie di eventi dal peso specifico non indifferente. C’è chi giura di essersi sentito per la prima volta adulto quando ha chiesto alla propria ragazza di convolare a nozze. C’è chi afferma d’essersi sentito finalmente responsabile il giorno che a una fantomatica partita di calcetto, da vedere o da giocare, a seconda del racconto, ha è preferito assistere al mortifero saggio scolastico di fine anno della propria figlioletta – immortalato in un’ora e mezza di filmato traballante che nessuno ha mai rivisto. A me, molto più banalmente, succede nelle piccole cose. Mi è successo anche qualche ora fa, quando ho detto una frottola a mio nipote. Ovviamente parliamo di roba innocente, una bugia piccola e bianca detta a fin di bene, d’istinto, per timore di apparire meno stimolante agli occhi di chi credi ti veda come l’elemento più interessante della famiglia. Ma anche per legittima “offesa”, ovvero per contrastare (dov’è possibile) l’incontenibile deriva musical-culturale di un adolescente odierno che di perdersi per strada frammenti di effettivo talento per l’incuria pregressa di uno zio un po' distratto non può proprio permetterselo. Il tutto nasce da un'innocua domanda su un gruppo di famiglia di WhatsApp: “Zio, tu conosci quel tipo che è morto di cui parlano oggi?”. Il tipo di cui parla mio nipote è Mark Hollis, voce dei Talk Talk, e dimostrazione lampante che se su i social si parlasse più spesso di buona musica, magari prima dei coccodrilli, non è poi così scontato che un/a sedicenne a caso la snobberebbe sempre e a prescindere. Comunque, se un tempo probabilmente avrei fatto spallucce rilasciando un sarcastico “Mai coperti...” (sottotitolo: “Non è vero ma io con gente etichettata come new romatic non voglio averci nulla a che fare”), ora gli rispondo in un’unica tirata che sì, lo conosco come se avessimo fatto il liceo assieme e che dei Talk Talk non si vedono in giro le magliette come i Ramones o i Joy Division solo perché le copertine dei loro album sono più brutte, che la loro canzone più nota è Such A Shame, il cui video lo può trovare facile su YouTube, ma anche It’s My Life non era da meno e ne esiste una versione rifatta dai No Doubt, la cui cantante, Gwen Stefani, gli sarà anche capitata sotto il naso su qualche rivista sua o di sua mamma. Insomma, gliela vendo stra-bene. In realtà, rispetto ad altri artisti, so veramente molto poco di più di quanto gli ho detto, sia di Mark David Hollis che dei Talk Talk. A mia discolpa però posso dire che, partendo dal presupposto che in giro c’è tanta di quella musica che alla fin fine chiunque si perde più o meno volontariamente qualcosa per strada, non ho mai studiato a fondo i Talk Talk perché (oltre ad avere magari un altro tipo di ascolti) quando mi sono trovato a parlare di loro, quelli che sono stati i miei interlocutori per tanto tempo me ne hanno parlato in un modo per nulla allettante. Che poi era su per giù questo. Alla domanda: “Che genere fanno?” la risposta era “Non lo so, è difficile da inquadrare, è rock ma molto intellettuale”. Che già mi stanno tre volte più sul culo di prima che lo dicessi. Che poi sostanzialmente è perché, con una definizione tale, mi fai venire in mente gente con l'occhialino e l'attitudine di Carlo Verdone versione Iris Blond and the Freezer. Che poi, ovvio, non corrisponde alla realtà dei fatti manco di striscio - grazie a dio - ma intanto hai fatto allontanare di due metri e mezzo la mia voglia di approfondimento. Ma questo non lo posso di certo dire a mio nipote. Per lui serve una versione dopata, carica di un'indagine che neanche Focus. Anche se Mark Hollis non era un tossico, non soffriva di nessun tipo di disturbo bipolare della personalità, non era sposato con una modella/influencer e, soprattutto, era atletico come potrebbe esserlo Tim Roth con le orecchie a sventola e i capelli sempre ricadenti sugli occhi. Mission: Impossible. Insomma, rischio di perderlo nuovamente nei meandri di chi sa quale patacca post-moderna coi tatuaggi sulla faccia. Per fortuna, nel corso degli anni, ho conosciuto estimatori di Mark Hollis e dei Talk Talk anche al di fuori della cerchia di intellettualini universitari che te ne parlano aggiustandosi gli occhiali col dito medio - tra cui un nutrito gruppo di più o meno insospettabili musicisti. Gente che ha contribuito a creare nella mia mente un piccolo Best Of (che non necessariamente corrisponde a un Greatest Hits) della band. Così gli spiego subito che con i gesti e l'attitudine tutt'altro che tradizionali per una rockstar, l'aria un po' timida di chi, se lo si paragona a Morten Harket, è fatto di tutt'altra pasta, il cantante dei Talk Talk, più che un fascinoso idolo androgino come moda dell'epoca, era un raffinato musicista tra avanguardia, pop e nuovo rock. Anche se all'epoca venne etichettato come promessa dei “nuovi romantici” e persino come  “icona dance”. Mark Hollis ha cominciato la sua singolare carriera dalle ceneri dei Reaction, duo punk composto col fratello Ed che incuriosì  la Beggars Banquet Records, etichetta della madonna con gente come Gun Club o The Fall nel suo catalogo, ben prima che quel fenomeno chiamato new wave esplodesse in tutte le sue declinazioni. E' solo nel 1982, però, che il gruppo trova spazio e attenzione, anche se più come fenomeno di costume che come un originale progetto musicale. L'ingombrante presenza infatti di Colin Thurston, già produttore dei Duran Duran, fa si che i Talk Talk per due anni siano soltanto una variante di quella corrente romantica, soltanto forse meno frivola. Dopo un paio di dischi in quella direzione, The Party's Over e It's My Life, i Talk Talk sono già una band passata dal riempire a malapena gli ottocento posti del Piper Club ai quattromila posti del Tenda Strisce. Ed è qui che Hollis, toccato l'apice e firmato il contratto con la EMI, rivela la sua personalità mandando, se si può dire, tutto in vacca. Con The Colour Of Spring, svoltando verso atmosfere sonore complesse e raffinate, immaginando un pop elegante e ai confini più con la psichedelia che con la dance, semmai con la trance, certa ambient e avanguardia, lontano anni luce da tutti gli stereotipi “romantics” - a meno che i fan dei Wham! non fossero soliti leggere Tennessee Williams (Life Is Whyt You Make It) o Charles Dickens (Time It's Time). Sarà quella la strada spianata per il successivo Spirit Of Eden, in pratica un album slowcore-inside senza saperlo (I Believe In You), dove la miscellanea si amplia ancora (suonano ben 17 musicisti, tra cui oboe, clarinetto, fagotto, violino, corno e dio solo sa che... più un intero coro!) verso il jazz, la musica da camera, minimalismi free-form e quindi verso un clamoroso insuccesso commerciale. Il successivo Laughing Stock, infine, per molti anticiperà il concept di fondo di tanto post-rock (After The Flood, New Grass e Ascension Day). In realtà il pubblico aveva già assistito a trasformazioni importanti e in corso d'opera, basti pensare a Tin Drum dei Japan prima del David Sylvian solista, ma la vicenda di Mark Hollis fa più scalpore perché ancora più estrema. Un salto nel vuoto che lo porta dalla in classifica con tre singoli contemporaneamente al nulla cosmico – e una rivalutazione a posteriori, visto che in un primo momento le bocciature fioccarono da ogni parte. La lezione che ne possiamo trarre tutti è la bellezza di una dimensione comunicativa meno immediata, forse, ma più profonda. Meno facile e che non sempre riesce a tutti. Il difetto maggiore che si riscontra è infatti di solito una certa monotonia data dalla voglia di apparire a tutti i costi “intelligenti”, una singolare piattezza di sonorità e di atmosfere che non si attutisce nemmeno chiamando in causa fior fiori di musicisti (chi ha detto Robert Fripp?). Mark Hollis con i Talk Talk, e poi con la sua carriera solista, è riuscito ad evitare tutto questo. Centellinando poi sempre di più le sue uscite (a volte anche sotto pseudonimo) fino a scomparire. Diventando una sorta di (inconsapevole) outsider, senza bisogno di essere svitato come Brian Wilson o incomprensibile (almeno ai più) come Frank Zappa. Destando ammirazione e curiosità tanto negli UNKLE – con i quali collaborò in un brano - quanto in Robert Wyatt - di cui co-produsse la raccolta complementare alla biografia di Marcus O'Dair. Saluto mio nipote e gli dico che, se butta un occhio la prossima volta che passa dalla Feltrinelli, un disco dei Talk Talk è facile che lo riesca a trovare a meno di 5€. Potrebbe farci un pensierino. Può essere si tratti solo da una delle miriadi di raccolte uscite negli anni, ma chi ben comincia è a metà dell’opera.  
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yesiamdrowning · 7 years ago
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Lars Von Trier sì, Lars Von Trier no. Pare che abbia scritto questa (assai) discussa disamina sul nuovo The House The Jack Built per Rolling Stone Italia. Se vi va, buttateci un occhio e fatemi sapere che ne pensate tra i commenti.
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yesiamdrowning · 7 years ago
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Cosa leggi in questo periodo?
La Trilogia della Città di K di Agota Kristof...
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yesiamdrowning · 7 years ago
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Ciao drò , mi sto appassionando alla musica blues e jazz ma non so proprio da dove iniziare , potresti consigliarmi qualche libro su questi generi ? Da una tua vecchia lettrice
senza ombra di dubbio Natura Morta Con Custodia Di Sax di Geoff Dyer. Buona lettura..
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yesiamdrowning · 7 years ago
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Ma tu non eri quello che faceva trattati filo-socio-antropologici sull'uso/abuso dei social media, chat e simili? E dopo tutto ciò, dopo anni, ti trovo su whatsapp? Alla fine, dai, forse sei umano anche tu :)
beh, conta: se non sei già un mio parente o amico stretto e quindi tra i miei contatti, saresti il mio credo massimo nono o decimo contatto. Se ti vuoi fare avanti..
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yesiamdrowning · 7 years ago
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Ciao, posso chiederti cosa hai studiato, qual è stato il tuo percorso per arrivare a scrivere per vivere ? Tra parentesi complimenti, amo i tuoi articoli e sopratutto la tua scrittura.
liceo classico, poi lettere e filosofia. Grazie per i complimenti e ne approfitto per dirvi che se latito da un po' di tempo, da un bel po' in verità, è perché ho ripreso a scrivere, su una nota rivista mensile. Ma mai dire mai..
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yesiamdrowning · 7 years ago
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cabine.
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Le cose cambiano, come diceva il titolo di un film di David Mamet, alcune volte invece “Le cose finiscono”, e quando succede è brutto, semplice così.
Solamente se le cose in questione ti piacciono, ovviamente, ma se si tratta di qualcosa di fastidioso, tipo Love, una porcheria di film porno-psicologico argentino di qualche anno fa, che ebbe pure la pretesa di uscire in 3D in seno a non so quale turbe di Gaspar Noé, il cui unico pregio è quello appunto di finire, vi assicuro che è una cosa positiva. Durante una proiezione serale per fuggire da una casa ancora sprovvista di allaccio a internet, ho lottato per sfuggire all'abbraccio di Morfeo raggiungendo una pressione cardiaca stabile sui valori del geco: undici/quaranta.
Quando però a finire sono le storie d'amore, non c'è “d'altro canto” che tenga, il bicchiere non è né mezzo pieno, né mezzo vuoto, il bicchiere non c'è più e basta.
La mia prima ragazza era una studentessa universitaria dai capelli ricci di un castano scuro teso al rosso, un colore mai più visto in natura, che ricordava il pelo di certi felini e che una volta qualcuno mi definì tipico delle ragazze trasteverine d'un tempo. Andavo al liceo, quindi facevamo quello che fanno di solito un'universitaria e un liceale con una casa libera, e poi ogni tanto studiavamo. Durante l'inverno trascorso con lei, mi portò per la prima volta all'estero in treno, che non è proprio come raggiungere una meta in aereo, è qualcosa che riempie tutti i sensi e ti si piazza lì per sempre. Le sarò estremamente grato per questo.  
Quando, sulle note di “Andrea” di De Andrè (Andrea aveva un amore, riccioli neri / Andrea aveva un dolore, riccioli neri) le sorrisi dal bancone del negozio di dischi dove lavoravo come garzone di bottega, non prestai molta attenzione alle parole, altrimenti avrei letto tra le righe la profezia, ossia la promessa di dolore che i suoi riccioli mi avrebbero causato. Qualche anno dopo se ne andò a proseguire gli studi a Napoli, da un “amico”, un tizio più grande di me, inevitabilmente più ricco e con un'apparente brillante carriera davanti a sé nel campo medico o dietetico o entrambe le cose, fascista da fare schifo. Lasciato per un uomo pieno di autostima, con le sopracciglia di una ballerina classica e simpatie per la destra più radicale, una variante che per mia grande fortuna non è mai diventata una costante tra le mie ex.
Una sera mi chiamò a casa, non esistevano i telefonini allora o comunque io non ne possedevo certo uno, per dirmi che era finita, che “una pausa” sarebbe stata solo illusoria e poi riagganciò, ma come sempre succede in questi casi dalle parti dell'adolescenza e, qualche volta, anche molto più in là con gli anni, a me non bastava, volevo che mi spiegasse bene il motivo, dove avevo sbagliato.  
L'unica alternativa a un improbabile viaggio a Napoli con la macchina che non avevo, era chiamarla a casa del “amico”. Era sera, faceva freddo e la pioggia iniziava a cadere. Ok, forse non è vero che stesse iniziando a piovere e francamente non ricordo le minime di quell'anno, ma che fosse buio lo ricordo bene perché la cabina vicino la vecchia farmacia dei Promontori aveva sempre la sua bella lampadina guasta e, dall'imbrunire in avanti, comporre i numeri di telefono aveva a prescindere un qualcosa di tragico e parigino in sé. Rispose lui, qualche istante di silenzio ed ecco la voce della mia neo ex-ragazza.
Le chiesi cosa stesse succedendo, cosa avessi fatto, volevo capire perché fosse tutto finito. Mentre parlavo già sapevo che qualunque risposta sarebbe stata ancora più definitiva della sua telefonata precedente, ci sono errori che si imparano mentre li stai facendo. Chiedere alla tua ragazza quelle che sono più a fondo le ragioni per cui ti sta mollando è una di quelle genialate che solo i maschi sono in grado di concepire. A loro basterebbe mollarti, tu vuoi che infieriscano. Così, mentre lei si prodigava in un elenco capillare di tutti i miei difetti e di tutte le mie mancanze, vere o presunte, io mi ricordai di un vecchio concerto con una vecchia canzone di Paolo Conte che ben presto divenne una delle mie preferite del suo repertorio, mai approfondito in verità.  Blue Haways dal album Paris Milonga del 1981. Una delle canzoni con il titolo più storpiato di tutte quelle che io possa ricordare: Blue Hawaii, Blue Haway, Blu Away... se vi capita di cercarla in rete c’è da divertirsi. Le prime parole già spiegano tutto.   “Cercavo una donna / e ho trovato una commedia” Sono aggrappato alla cornetta di un telefono pubblico, illuminato dalle luci delle macchine che mi hanno aiutato a comporre il numero in una notte buia e (forse) fredda. Come un naufrago in mezzo alla tempesta, a cercare di capire perché che non si spiegano, lei è a pochi chilometri di distanza, ma lontanissima nel tempo e nello spazio. La sua voce è sempre più lontana, dice cose che ovviamente non capisco, che ovviamente non vorrei sentire. Se veramente avesse piovuto, la pioggia me la vedo cadere di sbieco, frustare la cabina, colpire i vetri e scendere come ruscelli verticali, come lacrime. Aumentando il suo battito, fino a coprire la voce di lei, sempre più flebile. Nella mia testa ancora Conte, che mi bisbiglia ora come allora all'orecchio con quella sua voce da crooner navigato: “Si, tu parlavi difficile/ Come fa l'Europa quando piove e si ritorna a dipingere / le isole del sogno Io non sapevo risponderti / perché ascoltavo la pioggia”
Dopo quella telefonata ci sentimmo un altro paio di volte, poi non ebbi più sue notizie, fino a una manciata di anni fa. Ci incontrammo sulla metro B e fu bello ritrovarla con quei suoi capelli strani come le donne trasteverine di tanti anni fa. Lei mi raccontò tutto quello che aveva fatto in quel'arco di tempo, io, col solito fairplay che mi contraddistingue da sempre, le chiesi che fine avesse fatto il fascio. Lei mi disse che l'aveva lasciato poche settimane dopo quella nostra telefonata, ribadendo il concetto dell'inutilità della chiamata. Lo avessi saputo in tempo reale, probabilmente sarei corso a Napoli pure in bicicletta, e le avrei attaccato una prosopopea infinita sui “ben ti sta” e sul “tempo che aggiusta le cose” che (probabilmente) me l'avrebbe fatta perdere del tutto, e invece mi sorpresi quasi indifferente, felice di quel incontro fortuito, e nulla più.
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yesiamdrowning · 7 years ago
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NEWS: Ieri è sbucato un nuovo post, buona lettura… Sono sempre disponibili: SITO: vedi le ultime novità. ARCHIVIO: vedi tutti i post pubblicati fin’ora ASK: chiedimi e dimmi quello che ti pare. RANDOM: ogni click un vecchio post a caso, Buona lettura!
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yesiamdrowning · 7 years ago
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dopodomani smetto.
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Mentre scrivo gira la notizia che, alle cinque date annunciate, il Fabrique di Milano ospiterà per altre due notti J-Ax e i redivivi Articolo 31. In poche parole, circa 2O mila persone avrebbero già deciso di pagare un obolo non leggero (45€ sui canali ufficiali) per festeggiare i 25 anni di carriera dell’ex di Fedez. “Non voglio prendere per il culo nessuno“, aveva messo le mani avanti J-Ax nel solito slang da finto trasgressivo e finto giovane - inconsciamente ammettendo che da solista col cavolo sarebbe riuscito a riempire San Siro. Poi il colpo di genio: dopo la pietra tombale (”E’ la fine per gli Articolo 31, non c'è possibilità di riunirci”), riciccia gli Articolo 31 come mia madre i broccoli. Promesse di rapper. Fiumi di parole, olio bollente che per anni si erano versati addosso Alessandro Aleotti da Milano col fu Vito Perrini da Bollate, reciproche accuse di verginità perdute, di astuzie di bassa lega, di carriere mandate in vacca per la grana e basta, senza sottrarsi a meschinità personali di stampo piccolo borghese.
Eppure.
Sbagliavano entrambi. Perché, a essere un po’ onesti, di purezza negli Articolo ce n'era poca fino dall'inizio, in quei primi Anni 9O quando il rap, perfino quello “spaghetti”, poteva sembrare una faccenda con qualche velleità contenutistica, nell’Italia ancora ebbra di Lambade. Non l'epica stradaiola degli Stati Uniti, d'accordo, ma insomma quella periferica senza i romanticismi delle Pausini, del disagio senza le derive dei Ramazzotti, di motivi per fare e supportare l’embrionale hip-hop culture volendo non ne mancavano neppure qui, nella provincia dell'impero. Non per loro però. Non per gli Articolo che da subito ne fecero un pretesto, un trampolino per “fare soldi per fare soldi per fare soldi”: nome farlocco (non esiste nessun Articolo 31 in Irlanda che parli di libertà d’espressione), spigoli smussati e filastrocche che potevano suonare figliocce del gioco sui piatti del giradischi, del freestyle, l'improvvisazione dei versi, per una platea già meno hip e sempre più pop adolescenziale - allora non esisteva l'etimo “bimbiminchia”. Hip-pop dove il gioco della battuta sconcia, “Dai tocca qui”, del citazionismo rétro spicciolo, “Oh mamma mi ci vuol la fidanzata”, era losco perché non serviva a nobilitare composizioni originali ma a riempirle di esche per fare abboccare quanti più pesci possibili. Così, in un parallelismo ittico, laddove in America si usava la tecnica col vivo, dove l’esca adoperata è una sola ma viva e di qualità, per far avvicinare un numero limitato di pesci ma di razza; gli Articolo usavano la tecnica del palamito: con esche di ogni risma fatte con pesci vivi e morti, molluschi e perfino vermi e crostacei. Così, negli stessi anni, se dall’altra parte dell'Oceano si campionavano brani di scuola Motown Records o di jazzisti minori come Jimmy McGriff o Freddie Hubbard, gli Articolo buttavano sul piatto uno swingetto noto alle mamme e piacevole per le figlie e il gioco era fatto. “Massimo risultato col minimo sforzo”, si diceva allora. (Fino a climax come quello della “Maria”, innocuo inno pro-canne per ragazzetti benestanti che faceva ridere/piangere tutti gli altri che erano appena usciti dai cult eroinomani di Carboni, Masini, Alice, e in cui poteva cascar giusto qualche pretino di quartiere che, ritenendola pericolosa, si metteva a polemizzare con i due che non cercavano altro. Seguito a ruota dal mantra di “Domani Smetto”, ennesimo crogiolo di luoghi comuni per pseudo-ribelli e dichiarazione d’intenti in salsa pop-punk come da cliché del tempo (a.D. 2OO2: annus orribili in cui sdoganammo Sum 41, Avrile Lavigne, Good Charlotte, etc.) che adombrò solo gli ultimi quattro che dagli Articolo 31 si aspettavano chissà quale botta di reni. Intramezzati da “Senza Filtro”, film che li vedeva come protagonisti e non si vergognava d’essere brutto purché bastevole per intortare orde di under 18.) Nonostante ciò, il successo arriva, in forma di Festivalbar e tv pressappochista, dove i due baldi giovani si presentavano al meglio delle loro possibilità: J-Ax di una goffagine imbarazzante in completi due volte più grandi di lui e nemmeno un etto dello stile di uno Shakur, bastoni da passeggio tenuti con l’eleganza di Gargamella e bandane per camuffare la calvizie imminente; Dj Jad di spalla, a scratchare in playback e fare breakdance come chiunque dopo una birra di troppo. Su tutto: i giochi di parole scontati, le rime da SMS, quella spocchia da lingua di fuori, quel bullismo idiota da schiaffo del soldato, da finti-uomini che indisponeva anche un dinosauro come Celentano che li definì “ragazzini che rompono i coglioni col rap”. Lui che il rap se l’era inventato ancora prima di sapere si chiamasse così, nel 1973 e senza rompere i coglioni a nessuno. Altra manna dal cielo! Altro buzz, altre ospitate in programmi da Non è la Rai in su,  dove si presentano già pronti alla ballata adolescenziale. E così finiscono per essere sempre più ospiti, personaggi televisivi a tutto tondo che rapper,  fino a rendersi conto che non c'è più acqua nel loro mare. Difatti si mollano.
DJ Jad rientra nel suo brodo primordiale, ogni tanto azzarda qualcosa ma non decolla manco per finta; Ax, più scaltro, avvia una carriera di giudice ai talent, prima come ospite poi da titolare, fa l’opinionista (pure politico), la stellina pop fuori tempo massimo (qualcuno prima o poi scriverà qualcosa sulla supposta bellezza di Alessandro e io correrò a leggerla perché non sono mai riuscito a spiegarmela) e ritrova una seconda, lucrosa giovinezza prima da solo e poi di fianco al giovane-sul-serio Fedez, quasi un emulo. Si sbiadisce così del tutto qualsiasi illusione underground coi due che in perfetta sincronia con il tempo macinano affermazioni sempre più annacquate, un po’ filosofi un po’ immaturi, senza neppure darsi la pena di nascondere la contraddizione. Il botto arriva a  San Siro, la scorsa estate: l'apoteosi di una pianificazione riuscita benissimo. Ma quello è il canto del cigno, già annunciato. "Italiana" non bissa "Vorrei Ma Non Posto" (in termini commerciali mainstream è un vero e proprio flop, con meno della metà delle copie downlodate) e le carriere dei rapper diversamente ribelli, quelli che appena possono si riproducono e si fanno l'attico coi giardini pensili, dura finché c'è da difendere il fatturato rap in crescita se no si ferma. Allora cosa di meglio che rispolverare la vecchia ragione sociale con la scusa di un qualche anniversario a caso? “Non voglio prendere per il culo nessuno”. Sarà.
Le date sono scritte in agenda: cinque per tastare il terreno, al quale pare se ne stiano aggiungendo altre a testimonianza che lo stratagemma ha funzionato. Pienone assicurato, canteranno pure “Voglio una Lurida” facendo finta che ci sia mancata sul serio. Così ci sarà qualcun altro che finirà per credere alla favoletta che l'hip hop in Italia sia nato con J-Ax e DJ Jad. Peccato che sia un falso come le treccine che si attaccava alla pelata Ax tormentato da irrisolte turbe tricologiche. E non si tratta di fare i duri e puri, si tratta di sapere la storia. Gli Articolo 31 (sup)portavano un rap (già) edulcorato e monetizzato da Claudio Cecchetto via-Jovanotti (lo strobazzatissimo ”Strada di Città” fu prodotto da Franco Godi, un creatore di jingle pubblicitari). Ma questo non vuol dire che non c'erano stati tentativi di rap che partiva e sperimentava dalle basi (e dai centri sociali, non dai microfoni di Radio Dee Jay). 1985: Fresh Press Crew. 1986: Raptus. 1988: Devastatin Posse. Ma a parte nomi e date, c'è un dato di fatto ineluttabile e che andrebbe detto senza vergogna da chi di dovere: quando uscirono, si era tutti d'accordo che fossero “Merda”. Quasi subito estromessi dal giro dei puristi, in fama di arrivisti, i due era dato per certo che recitassero e i loro pezzi erano fonte d'imbarazzo per chi seguiva la scena, non solo per gli amanti di altri generi. Erano, senza se e senza ma, l’equivalente pantomima di Steve Rogers che scimmiottava il sound alla Vasco con “Alzati la Gonna”. Non gli davi quattro lire, ai 31, e la gente che li ascoltava era la stessa che ascoltava gli 883. Gli altri, né i primi né i secondi, si asoltavano “Straniero Nella Mia Nazione” dei Sangue Misto o “Terra di Nessuno” degli Assati Frontali o “Rappesaglia” in cassetta di Lou X. Ora, come siamo arrivati a dovergli pure dire grazie, è la dimostrazione che J-Ax è riuscito a prenderci per il culo tutti.
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yesiamdrowning · 7 years ago
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last night a book saved my life.
|libri belli per notti brutte|
La Vita Oggi di Anthony Trollope Sallerio Editore, 2O1O Pubblicato nel 1875, questo di Trollope è il suo libro più voluminoso. L’edizione italiana, in due parti vendute assieme in un’elegante confezione, per poco non raggiunge le 12OO pagine. Tuttavia, non disperate. La suddivisione in capitoli, rigorosamente in numeri romani, arriva alla  C - che sta per cento. Quindi, è facilmente intuibile che per ogni capitolo ci aggiriamo attorno alle 1O pagine. Il che, oltre a rendere la lettura meno ostica per chi è poco avvezzo ai libri che superano la sessantina di paggine, trasforma tutto dopo lo scoglio delle prime cento/duecento pagine in una sorta di serie tv ante litteram. La stessa rapidità di esecuzione che di solito spinge il telespettatore e/o l’internet-nauta a vedere una puntata dopo l’altra, fino a fare nottata, dietro un telefilm (mentre scrivo mi viene in mente Peaky Blinders) potrà essere che la ritroviate affascinate nella storia di Trollope. Ma non è soltanto questo l’elemento di contemporaneità. La Vita Oggi è un’ambiziosa satira sociale abientata negli anni 7O del 18OO, dove il protagonista truffaldino e con un passato oscuro, August Melmotte, presto si tramuta in scusa per sbugiardare la realtà di quegli anni, attraverso il volto, più o meno perbene, delle decine di co-protagonisti che un narratore onnisciente analizza in ogni afratto delle situazioni, delle vicende e degli stati d’animo. Così ne viene fuori il ritratto pungente di una società profondamente malata, sia sul piano economico, etico e morale, ma pure su quello intellettuale e giornalistico. Imbrigliata nelle proprie ipocrisie e nei propri giochi di potere. Una società che molto rappresenta quella che è la nostra vita oggi.
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