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#fortezza della verrucole
stilouniverse · 3 years
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La fortezza delle Verrucole in Garfagnana
La fortezza delle Verrucole in Garfagnana
di Salvina Pizzuoli    La porta di accesso La fortezza delle Verrucole si staglia nitida sullo sfondo del cielo e della valle che pare chiusa davanti agli occhi del viaggiatore con le sue mura merlate e il suo mastio, lì a pochi chilometri da San Romano in Garfagnana sulla riva sinistra del fiume Serchio: la rocca e il suo circuito di mura più in alto rispetto al borgo omonimo, un borgo munito…
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Storie di briganti
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Storie di briganti
Costa da Ponteccio, il Pelegrin del Sillico, Virgilio da Castagneto, Filippo Pacchione, Battistino e Bernardello da Magnano, nonchè Bastiano Coiaio. Questo elenco di persone non si riferisce certo a dei pii uomini di qualche ordine francescano, tutt’altro, erano fra i più spietati briganti che la Garfagnana abbia mai conosciuto. A guardare oggi la nostra valle e a coloro che la abitano è difficile pensare che la Garfagnana sia stata secoli fa terra di briganti. La pacifica gente che ora vi dimora sono i discendenti dei sopra citati manigoldi, che niente avevano da invidiare agli attuali seguaci delle associazioni a delinquere che sono in Italia. Eppure era così, così come è vero ed è giusto dire che l’apice di questo fenomeno fu toccato ben 500 anni or sono. Semmai vi fossero ancora dubbi su quanto la Garfagnana fosse una regione ostile ed al quanto difficile da gestire, possiamo citare la testimonianza di Guido Postumo, governatore della Garfagnana nel 1512. La lettera fu inviata al cardinale Ippolito d’Este:
“Quella Vostra Signoria mi mandò qua per le occurrentie de questa provincia, la quale ho gubernato cum sincera fede et non ho manchà in cosa alcuna, in modo che, o per la fatica o per altro, mi sono infirmato di una febra continua, trista, che non me movo da lecto, che invero non sono più bono per lo paese per la infermità mia, e più presto sono per nocere per la fama ch’io sia malato; et perché etiam io vado di male in pezo, et certo in pochi dì, per li gran fastidi ch’io ho da questi homini inobedienti, e per lo mal grande io ho, gie lasserò la vita, se Vostra Signoria non mi remove da qua”.
Il governatore è malato e la causa della sua malattia sono “questi homini inobedienti” e se qualora non venisse rimossò da queste terre “gie lasserò la vita“. Ma perchè eravamo così tremendi e terribili? Quali furono le cause che ci portarono a diventare dei briganti crudeli e spietati? Analizziamo allora dove ebbe origine il male. Il brigantaggio garfagnino affonda le sue radici nella povertà e nella miseria più nera. All’inizio ci fu una forte complicità fra il misero e il signore locale, un’intensa connivenza che con il tempo assunse una forza tale da vincere lo Stato stesso, tanto da permettere a questa gente di farsi leggi e regole per conto proprio. Uno stato debole dunque, che con gli anni capì che questa gente era meglio farsela (segretamente) amica, anzichè nemica… questo atto fu “la benedizione” del brigantaggio garfagnino che cominciò a spadroneggiare in lungo e largo. Qualcuno al tempo nella corte estense si accorse dell’errore e invece di battersi il petto  e recitare il “mea culpa” cercò di “lavarsi l’anima” come meglio poteva. Certe relazioni di funzionari, infatti tentarono di attribuire il fenomeno all’indole della popolazione, non accorgendosi poi che la politica che stavano portando avanti avrebbe ancor di più ingrossato le fila di questi biechi malviventi. D’altronde le tasse erano diventate altissime e cieche, e andavano a colpire proprio una popolazione già di per sè povera, la stessa amministrazione della giustizia aveva grandi lacune, si mostrava infatti forte con i deboli e debole con i forti e in più esisteva un forte pregiudizio sul garfagnino, la sua terra dallo stato stesso era considerata un territorio di serie B, abitato da semplici montanari e da ignoranti pastori, senza dire poi che la conformità della montagna era luogo ideale per imboscate e allo stesso tempo era l’ambiente perfetto per nascondersi o rifugiarsi. Insomma, nonostante qualsiasi analisi fosse stata fatta al tempo, si può dire che il gioco era fatto: da uno parte avevamo uno stato complice e dall’altra c’era un popolo scontento del proprio governo. A godere a pieno di questa situazione erano i briganti che per i popolani erano dei giustizieri e dei vendicatori di un’inetto stato, come pure dei benefattori che sapevano furbescamente ingraziarsi la gente facendo delle regalie (sopratutto cibarie)distribuendole a destra e a manca. Dall’altra parte invece quali potevano essere i vantaggi che il governo estense poteva ottenere da questi farabutti? Naturalmente l’impunità di questi ribaldi aveva un prezzo. Giust’appunto molti briganti nostrali furono assoldati come mercenari nell’esercito estense, più di una volta i briganti non esitarono a difendere le effigia ducali, come nel caso della guerra che consentì ai duchi estensi di riappropriarsi di Reggio Emilia, o perchè non ricordare di quando i briganti difesero la Fortezza delle Verrucole dagli attacchi delle truppe di Papa Leone X?
La fortezza delle Verrucole che i briganti difesero per conto degli Estensi
Mettiamoci allora nei panni di quei poveri governatori della Garfagnana che erano costretti a negoziare continuamente con il duca i margini della propria autorità. Nella maggior parte dei casi il duca invitava proprio ad una certa moderazione su questi personaggi e quando il governatore calcava (giustamente) un po’ la mano ci pensava proprio il duca in persona, come quella volta che nel 1523 il Moro del Sillico fu arrestato e poco dopo fatto evadere con la complicità delle guardie, ottenendo poi dal regnante di casa estense, prima la grazia e poi un nuovo contratto da mercenario. Malgrado questi intrighi e raggiri è giusto delineare bene la figura del brigante. Era un criminale o un Robin Hood? Per sgombrare ogni dubbio il brigante era colui che viveva di rapine, era un bandito, un masnadiere, un soldato mercenario che imperversava nella valle, ognuno nella sua zona di appartenenza.
La reggia estense di Ferrara
Tutto questo lo capì perfettamente e più di qualsiasi altra persona Messer Lodovico Ariosto, governatore di Garfagnana dal 1522 al 1525.In Garfagnana però non c’era tempo per fare il poeta, il suo compito principale fu quello di estirpare il brigantaggio da queste terre e si può dire senza ombra di dubbio che cercò di fare il possibile e anche di più per assolvere al meglio il suo dovere. Con il dovuto rispetto lo potremmo paragonare ad un Giovanni Falcone “ante litteram”, fu un’attento analista dei (mis)fatti garfagnini e delle dinamiche politiche e sociali che lo circondavano: “Ogni terra in se stessa alza le corna, che sono ottantre, tutte partite, da la sedizion che ci circonda” . Ottantatre comunità “in sedizion“, ovvero lo scontro fra le parti, è il primo e principale problema con cui si scontrò l’Ariosto al suo arrivo in Garfagnana e in una sua lettera inviata agli anziani di Lucca il poeta aveva già ben chiaro il quadro della situazione:
Ludovico Ariosto
“Di tutte queste montagne li assassini et omini di mala conditione sono signori, e non il papa, nè i fiorentini, nè il mio Signore, nè vostra Signoria”.
Significativa è la lettera che scrisse poi al Duca, è il 29 novembre 1522: “
… questo poveromo che è stato rubato, prima che sia venuto da me, è stato dal figliolo e dal nipote di Bastiano Coiaio (n.d.r: noto brigante) e da Ser Evangelista, a provare se per mezzo loro potesse riavere la sua roba, non avendo potuto far niente è ricorso da me”.
I garfagnini quindi sapevano bene e bene avevano chiaro quali erano i rapporti di forza. Rapporti che erano regolati dai leader di fazioni opposte che regnavano incontrastati per l’assenza di un’aristocrazia radicata capace di controllare il territorio. Un vuoto di potere assordante che se associato agli scarsi mezzi repressivi messi a disposizione dagli ufficiali del governo consegnò di fatto ai capi delle famiglie (di briganti) più importanti il ruolo di regolatori di conflitti e di garanti della pace. Queste famiglie costituirono con il passare degli anni una vera e propria mappa del potere, ogni famiglia era suddivisa in bande (composte più o meno da una quindicina di elementi) e ognuna di queste bande controllava una parte di territorio, naturalmente come sempre succede anche questa volta il connubio politica-potere andò a braccetto, ogni fazione era legata ad una parte politica a cui fare riferimento. Tutto questo lo svelò (proprio come fece Falcone 500 anni dopo con le cupole mafiose) Ludovico Ariosto che delineò un rigoroso quadro delle famiglie (di briganti) presenti in Garfagnana, suddividendole proprio per fazioni politiche. Esistevano quindi due parti, una denominata “italiana”, favorevole alla Chiesa e a Firenze e una cosiddetta “francese”, favorevole agli Estensi, che era tradizionalmente legata alla politica francese. La parte “italiana” era guidata da Pierino Magnano, Tommaso Micotti e Bastiano Coiaio e aveva il suo braccio armato in diverse bande, fra le quali spiccava quella del Moro del Sillico e dei suoi fratelli.
Il Sillico il paese del Moro
Altre bande armate invece erano all’interno della giurisdizione estense e sia nei territori di Firenze che in quello della Chiesa curavano gli affari delle fazioni più lontane. La parte “francese”, era altresì guidata dai Ponticelli e dai Sandonnini. Per ben capire, entrambi le parti agivano su diversi livelli, da quello puramente criminale a quello istituzionale, dove cercavano di ricoprire il più possibile cariche pubbliche attraverso una miscela di consenso e minacce. Di fronte ad un quadro generale così disperato non rimaneva che un’unica soluzione, repressione totale e così l’Ariosto scriveva: 
“Metter le mani addosso a’ loro padri, fratelli e parenti, e non li lasciare che non diano sicurtà che non torneranno li malfattori nel paese. A quelli che non hanno padre, saccheggiare le case, e poi arderle e spianare, tagliar le viti e gli arbori (n.d.r.: alberi) e distruggerli loro luoghi, ch’ogni modo non si potria trovar chi li comprasse. Poi saria bene battere per terra tutti li campanili, o vero aprirli, di sorte che potessino dar ricorso alli delinquenti et similiter le  rocche che vostra eccellenza non vuol far guardare”.
Certo, il duca nascondeva questi malfattori nelle proprie fortezze e come fare allora se oltre a questo al povero governatore venivano negati anche i soldati per attuare questo drastico piano?: 
“Io non cesso di pensare e di fantasticare come senza spesa del Signore Nostro io possi accrescere le mie forze, per fare che almeno questi ribaldi abbian paura di me”.
La richiesta di fanti fu esplicita, peraltro molto più utili di quei solo dodici balestrieri che erano a disposizione, questi fanti nei terreni accidentati e nelle profonde gole garfagnine infatti erano i più adatti, ma non furono inviati negli uni e ne gli altri. Per l’Ariosto questa mutilazione della sua autorità fu un problema non solo politico ma anche umano, senza l’appoggio del duca la sua figura perdeva di valore, essendo così alla mercè dei fuorilegge. Il suo morale era quindi “sotto i tacchi”, tanto che arrivò ad ipotizzare di fuggire di notte per trovare rifugio a Ferrara. Non lo farà, ma in una lettera del 15 gennaio 1524 fece come il suo predecessore Guido Postumo, la richiesta fu la medesima che il suo collega aveva fatto dodici anni prima:
“Se vostra eccelenzia non mi aiuta a difender l’onor de l’officio, io per me non ho la forza di farlo; che se bene io condanno e minaccio quelli che mi disubidiscano, e poi vostra eccellenzia li assolva, o determina in modo che mostri di dar più lor ragione che a me, essa viene a dar aiuto a deprimere l’autorità del magistro. Io vo’ gridare a farne istanzia, e pregare e suplicare vostra eccelenzia che più presto mi chiami a Ferrara, che lasciarmi qui con vergogna”.
Francesco Saverio Sipari (politico, poeta e scrittore del XIX secolo) parlando del brigantaggio in generale ebbe a dire che tale fenomeno si sarebbe esaurito con la rottura dell’isolamento delle regioni dimenticate, che in buona parte era dovuto dall’assenza di una rete infrastrutturale adeguata, di strade, di ferrovie e sopratutto d’istruzione. Così fu per la Garfagnana, man mano che i secoli passavano la valle cominciò ad aprirsi al mondo e più si apriva e più i briganti sparivano. Così il libro vinse per sempre sullo schioppo…
Bibliografia
Dalla corte alla selva e ritorno: Ariosto in Garfagnana La Garfagnana: relazioni e conflitti nei secoli con gli Stati e i territori confinanti. Atti del Convegno tenuto a Castelnuovo di Garfagnana, Rocca Ariostesca, 9 e 10 settembre 2017, a cura di G. Bertuzzi, Modena, Aedes Muratoriana, 2018
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Storie di briganti
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Storie di briganti
Costa da Ponteccio, il Pelegrin del Sillico, Virgilio da Castagneto, Filippo Pacchione, Battistino e Bernardello da Magnano, nonchè Bastiano Coiaio. Questo elenco di persone non si riferisce certo a dei pii uomini di qualche ordine francescano, tutt’altro, erano fra i più spietati briganti che la Garfagnana abbia mai conosciuto. A guardare oggi la nostra valle e a coloro che la abitano è difficile pensare che la Garfagnana sia stata secoli fa terra di briganti. La pacifica gente che ora vi dimora sono i discendenti dei sopra citati manigoldi, che niente avevano da invidiare agli attuali seguaci delle associazioni a delinquere che sono in Italia. Eppure era così, così come è vero ed è giusto dire che l’apice di questo fenomeno fu toccato ben 500 anni or sono. Semmai vi fossero ancora dubbi su quanto la Garfagnana fosse una regione ostile ed al quanto difficile da gestire, possiamo citare la testimonianza di Guido Postumo, governatore della Garfagnana nel 1512. La lettera fu inviata al cardinale Ippolito d’Este:
“Quella Vostra Signoria mi mandò qua per le occurrentie de questa provincia, la quale ho gubernato cum sincera fede et non ho manchà in cosa alcuna, in modo che, o per la fatica o per altro, mi sono infirmato di una febra continua, trista, che non me movo da lecto, che invero non sono più bono per lo paese per la infermità mia, e più presto sono per nocere per la fama ch’io sia malato; et perché etiam io vado di male in pezo, et certo in pochi dì, per li gran fastidi ch’io ho da questi homini inobedienti, e per lo mal grande io ho, gie lasserò la vita, se Vostra Signoria non mi remove da qua”.
Il governatore è malato e la causa della sua malattia sono “questi homini inobedienti” e se qualora non venisse rimossò da queste terre “gie lasserò la vita“. Ma perchè eravamo così tremendi e terribili? Quali furono le cause che ci portarono a diventare dei briganti crudeli e spietati? Analizziamo allora dove ebbe origine il male. Il brigantaggio garfagnino affonda le sue radici nella povertà e nella miseria più nera. All’inizio ci fu una forte complicità fra il misero e il signore locale, un’intensa connivenza che con il tempo assunse una forza tale da vincere lo Stato stesso, tanto da permettere a questa gente di farsi leggi e regole per conto proprio. Uno stato debole dunque, che con gli anni capì che questa gente era meglio farsela (segretamente) amica, anzichè nemica… questo atto fu “la benedizione” del brigantaggio garfagnino che cominciò a spadroneggiare in lungo e largo. Qualcuno al tempo nella corte estense si accorse dell’errore e invece di battersi il petto  e recitare il “mea culpa” cercò di “lavarsi l’anima” come meglio poteva. Certe relazioni di funzionari, infatti tentarono di attribuire il fenomeno all’indole della popolazione, non accorgendosi poi che la politica che stavano portando avanti avrebbe ancor di più ingrossato le fila di questi biechi malviventi. D’altronde le tasse erano diventate altissime e cieche, e andavano a colpire proprio una popolazione già di per sè povera, la stessa amministrazione della giustizia aveva grandi lacune, si mostrava infatti forte con i deboli e debole con i forti e in più esisteva un forte pregiudizio sul garfagnino, la sua terra dallo stato stesso era considerata un territorio di serie B, abitato da semplici montanari e da ignoranti pastori, senza dire poi che la conformità della montagna era luogo ideale per imboscate e allo stesso tempo era l’ambiente perfetto per nascondersi o rifugiarsi. Insomma, nonostante qualsiasi analisi fosse stata fatta al tempo, si può dire che il gioco era fatto: da uno parte avevamo uno stato complice e dall’altra c’era un popolo scontento del proprio governo. A godere a pieno di questa situazione erano i briganti che per i popolani erano dei giustizieri e dei vendicatori di un’inetto stato, come pure dei benefattori che sapevano furbescamente ingraziarsi la gente facendo delle regalie (sopratutto cibarie)distribuendole a destra e a manca. Dall’altra parte invece quali potevano essere i vantaggi che il governo estense poteva ottenere da questi farabutti? Naturalmente l’impunità di questi ribaldi aveva un prezzo. Giust’appunto molti briganti nostrali furono assoldati come mercenari nell’esercito estense, più di una volta i briganti non esitarono a difendere le effigia ducali, come nel caso della guerra che consentì ai duchi estensi di riappropriarsi di Reggio Emilia, o perchè non ricordare di quando i briganti difesero la Fortezza delle Verrucole dagli attacchi delle truppe di Papa Leone X?
La fortezza delle Verrucole che i briganti difesero per conto degli Estensi
Mettiamoci allora nei panni di quei poveri governatori della Garfagnana che erano costretti a negoziare continuamente con il duca i margini della propria autorità. Nella maggior parte dei casi il duca invitava proprio ad una certa moderazione su questi personaggi e quando il governatore calcava (giustamente) un po’ la mano ci pensava proprio il duca in persona, come quella volta che nel 1523 il Moro del Sillico fu arrestato e poco dopo fatto evadere con la complicità delle guardie, ottenendo poi dal regnante di casa estense, prima la grazia e poi un nuovo contratto da mercenario. Malgrado questi intrighi e raggiri è giusto delineare bene la figura del brigante. Era un criminale o un Robin Hood? Per sgombrare ogni dubbio il brigante era colui che viveva di rapine, era un bandito, un masnadiere, un soldato mercenario che imperversava nella valle, ognuno nella sua zona di appartenenza.
La reggia estense di Ferrara
Tutto questo lo capì perfettamente e più di qualsiasi altra persona Messer Lodovico Ariosto, governatore di Garfagnana dal 1522 al 1525.In Garfagnana però non c’era tempo per fare il poeta, il suo compito principale fu quello di estirpare il brigantaggio da queste terre e si può dire senza ombra di dubbio che cercò di fare il possibile e anche di più per assolvere al meglio il suo dovere. Con il dovuto rispetto lo potremmo paragonare ad un Giovanni Falcone “ante litteram”, fu un’attento analista dei (mis)fatti garfagnini e delle dinamiche politiche e sociali che lo circondavano: “Ogni terra in se stessa alza le corna, che sono ottantre, tutte partite, da la sedizion che ci circonda” . Ottantatre comunità “in sedizion“, ovvero lo scontro fra le parti, è il primo e principale problema con cui si scontrò l’Ariosto al suo arrivo in Garfagnana e in una sua lettera inviata agli anziani di Lucca il poeta aveva già ben chiaro il quadro della situazione:
Ludovico Ariosto
“Di tutte queste montagne li assassini et omini di mala conditione sono signori, e non il papa, nè i fiorentini, nè il mio Signore, nè vostra Signoria”.
Significativa è la lettera che scrisse poi al Duca, è il 29 novembre 1522: “
… questo poveromo che è stato rubato, prima che sia venuto da me, è stato dal figliolo e dal nipote di Bastiano Coiaio (n.d.r: noto brigante) e da Ser Evangelista, a provare se per mezzo loro potesse riavere la sua roba, non avendo potuto far niente è ricorso da me”.
I garfagnini quindi sapevano bene e bene avevano chiaro quali erano i rapporti di forza. Rapporti che erano regolati dai leader di fazioni opposte che regnavano incontrastati per l’assenza di un’aristocrazia radicata capace di controllare il territorio. Un vuoto di potere assordante che se associato agli scarsi mezzi repressivi messi a disposizione dagli ufficiali del governo consegnò di fatto ai capi delle famiglie (di briganti) più importanti il ruolo di regolatori di conflitti e di garanti della pace. Queste famiglie costituirono con il passare degli anni una vera e propria mappa del potere, ogni famiglia era suddivisa in bande (composte più o meno da una quindicina di elementi) e ognuna di queste bande controllava una parte di territorio, naturalmente come sempre succede anche questa volta il connubio politica-potere andò a braccetto, ogni fazione era legata ad una parte politica a cui fare riferimento. Tutto questo lo svelò (proprio come fece Falcone 500 anni dopo con le cupole mafiose) Ludovico Ariosto che delineò un rigoroso quadro delle famiglie (di briganti) presenti in Garfagnana, suddividendole proprio per fazioni politiche. Esistevano quindi due parti, una denominata “italiana”, favorevole alla Chiesa e a Firenze e una cosiddetta “francese”, favorevole agli Estensi, che era tradizionalmente legata alla politica francese. La parte “italiana” era guidata da Pierino Magnano, Tommaso Micotti e Bastiano Coiaio e aveva il suo braccio armato in diverse bande, fra le quali spiccava quella del Moro del Sillico e dei suoi fratelli.
Il Sillico il paese del Moro
Altre bande armate invece erano all’interno della giurisdizione estense e sia nei territori di Firenze che in quello della Chiesa curavano gli affari delle fazioni più lontane. La parte “francese”, era altresì guidata dai Ponticelli e dai Sandonnini. Per ben capire, entrambi le parti agivano su diversi livelli, da quello puramente criminale a quello istituzionale, dove cercavano di ricoprire il più possibile cariche pubbliche attraverso una miscela di consenso e minacce. Di fronte ad un quadro generale così disperato non rimaneva che un’unica soluzione, repressione totale e così l’Ariosto scriveva: 
“Metter le mani addosso a’ loro padri, fratelli e parenti, e non li lasciare che non diano sicurtà che non torneranno li malfattori nel paese. A quelli che non hanno padre, saccheggiare le case, e poi arderle e spianare, tagliar le viti e gli arbori (n.d.r.: alberi) e distruggerli loro luoghi, ch’ogni modo non si potria trovar chi li comprasse. Poi saria bene battere per terra tutti li campanili, o vero aprirli, di sorte che potessino dar ricorso alli delinquenti et similiter le  rocche che vostra eccellenza non vuol far guardare”.
Certo, il duca nascondeva questi malfattori nelle proprie fortezze e come fare allora se oltre a questo al povero governatore venivano negati anche i soldati per attuare questo drastico piano?: 
“Io non cesso di pensare e di fantasticare come senza spesa del Signore Nostro io possi accrescere le mie forze, per fare che almeno questi ribaldi abbian paura di me”.
La richiesta di fanti fu esplicita, peraltro molto più utili di quei solo dodici balestrieri che erano a disposizione, questi fanti nei terreni accidentati e nelle profonde gole garfagnine infatti erano i più adatti, ma non furono inviati negli uni e ne gli altri. Per l’Ariosto questa mutilazione della sua autorità fu un problema non solo politico ma anche umano, senza l’appoggio del duca la sua figura perdeva di valore, essendo così alla mercè dei fuorilegge. Il suo morale era quindi “sotto i tacchi”, tanto che arrivò ad ipotizzare di fuggire di notte per trovare rifugio a Ferrara. Non lo farà, ma in una lettera del 15 gennaio 1524 fece come il suo predecessore Guido Postumo, la richiesta fu la medesima che il suo collega aveva fatto dodici anni prima:
“Se vostra eccelenzia non mi aiuta a difender l’onor de l’officio, io per me non ho la forza di farlo; che se bene io condanno e minaccio quelli che mi disubidiscano, e poi vostra eccellenzia li assolva, o determina in modo che mostri di dar più lor ragione che a me, essa viene a dar aiuto a deprimere l’autorità del magistro. Io vo’ gridare a farne istanzia, e pregare e suplicare vostra eccelenzia che più presto mi chiami a Ferrara, che lasciarmi qui con vergogna”.
Francesco Saverio Sipari (politico, poeta e scrittore del XIX secolo) parlando del brigantaggio in generale ebbe a dire che tale fenomeno si sarebbe esaurito con la rottura dell’isolamento delle regioni dimenticate, che in buona parte era dovuto dall’assenza di una rete infrastrutturale adeguata, di strade, di ferrovie e sopratutto d’istruzione. Così fu per la Garfagnana, man mano che i secoli passavano la valle cominciò ad aprirsi al mondo e più si apriva e più i briganti sparivano. Così il libro vinse per sempre sullo schioppo…
Bibliografia
Dalla corte alla selva e ritorno: Ariosto in Garfagnana La Garfagnana: relazioni e conflitti nei secoli con gli Stati e i territori confinanti. Atti del Convegno tenuto a Castelnuovo di Garfagnana, Rocca Ariostesca, 9 e 10 settembre 2017, a cura di G. Bertuzzi, Modena, Aedes Muratoriana, 2018
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L'epico medioevo: famiglie, guerre, alleanze
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L'epico medioevo: famiglie, guerre, alleanze
Sarò subito chiaro fin dall’inizio con il mio caro lettore, l’argomento che affronteremo riguarda la Garfagnana medievale, e la storia medievale come ben si sa, in barba agli insigni storici pluri laureati, e di una noia terribile, sopratutto se spiegata così: “Rispetto al passato, ora si fa un uso più consapevole di termini quali “feudalesimo”, “signoria” e “territorialità” per illuminare l’enorme complessità dei veri rapporti di potere. La questione dell’incastellamento rientra perfettamente nella dinamica discussa. Il risultato è un quadro interpretativo estremamente efficace come modello globale, sebbene di per sé sia ormai troppo complesso per tenerlo a mente nella sua interezza per più di pochi minuti”
Cosa, che, come ??? Per l’amor di Dio, tanto di cappello all’illustre professore che avrà affrontato così il tema della Garfagnana medievale a un folto pubblico di altrettanti illustri professori; ma la storia, se si vuole che la gente “comune” si appassioni anche al proprio passato va esposta in maniera totalmente diversa, specialmente su argomenti che hanno una maggior difficoltà di comprensione. Si, perchè il medioevo era un intersecarsi di famiglie, discendenze, guerre, alleanze in cui uno difficilmente riesce a raccapezzarsi. Basta guardare la Garfagnana…Gherardinghi, Suffredinghi, Rolandinghi… no, non è uno scioglilingua, erano le potenti famiglie medievali che avevano in mano tutta la valle. Insomma, capirete voi… comunque niente spavento, proverò a raccontarla io, alla mia maniera, un po’ di storia medievale garfagnina… con una raccomandazione però, non fate leggere questo articolo a qualche storico che “qui novit omnia” (ovverosia: che tutto sa), toglierebbe l’amicizia a voi e a me taccerebbe di superficialità e faciloneria (però alla fine qualcosina avrete capito)…
La rocca di Trassilico (foto di Daniele Saisi)
Comunque sia; siamo in quei tempi che il valore della persona si misurava con la forza, la Garfagnana medievale era la mecca ideale per ogni avventuriero, d’altra parte i Longobardi erano caduti e la definitiva vittoria dei Franchi, nuovi regnati d’Italia, aprì nuovi scenari in tutta la Valle del Serchio (e in Italia in genere), ecco che allora per la prima volta la Garfagnana venne divisa in svariati territori con al comando potenti famiglie feudali comandate da personaggi come Gherardo di Gottifredo, dal quale derivano appunti i Gherardinghi, signori di Verrucole; Vinildo di Froalmo signore di Careggine; Ugolinello capostipite dei nobili di San Michele; tal Donnuccio dei Porcaresi signore di Trassilico e un non meglio identificato Cellabarotti signorotto con possedimenti in Castelnuovo, questi (insieme ad altri) faranno il bello e cattivo tempo in Garfagnana. “I lor” signori arrivarono un po’ tutti alla spicciolata fra il settecento e l’anno mille, videro che qui c’era “buono” e dissero -C’è mio !!!- , spesso non dissero nemmeno niente e in maniera spiccia istituirono posti di blocco, pretesero obbedienza e imposero pedaggi, gabelle e contributi e… il garfagnino? Il garfagnino provò ad alzare la cresta… e il risultato? Nessuno, prevaleva la legge del più forte, pagare e silenzio, così il solco fra la misera gente e il potente di turno diventava sempre più profondo: il signorotto chiuso nel suo castello  e “il povero Cristo” a patire la fame.
Castiglione Garfagnana
Dal castello allo stemma il passo fu breve e quindi ogni stemma un castello e una storia diversa, anche se in linea di massima l’aspirazione di ogni feudatario locale era quella di non avere contatti con il prossimo, se non unicamente in funzione di difesa; difatti in mancanza di guerra le occupazioni maggiori di queste famiglie erano sostanzialmente tre: la caccia (lo svago preferito), la “pappatoria” e…la riscossione dei tributi. A rompere le uova nel paniere ai signorotti ci pensò Federico Barbarossa: il feudalesimo quello piccolo e spiccio era in crisi, l’imperatore aveva spazzato via tutti i potenti di Toscana, era il tempo delle riforme, il Papa rivendicava le sue terre e lui aspirava a un impero universale conteso proprio al papato stesso …Insomma era venuto il tempo di affilare le armi, non per la caccia stavolta, ora bisognava affilarle per le guerre.
Fortezza di Mont’Alfonso Castelnuovo Garfagnana (tratta da serchioindiretta.it)
il castello di Gallicano
La rocca di Camporgiano
D’altronde la Garfagnana era un boccone ghiotto, stretta fra due catene di montagne era, ed è un orto chiuso e stuzzicava desideri di conquista, ed ecco allora che dalle montagne circostanti come lupi famelici si affacciarono i modenesi, i lucchesi  e perfino da Pisa e da Firenze si scomodarono, non sembravano però venuti in vacanza, infatti il problema è che tutti questi erano armati fino ai denti, dapprima però un po’ tutti fecero gli gnorri e poi con la solita scusa vecchia di milioni di anni: “siamo venuti per proteggere… (o sennò salvare, o al limite vendicare…)”, giù botte da orbi, se poi durante la guerra capitava qualcosa da mettere “al sicuro” che male c’era, un souvenir non si rifiutava mai, uno rubava e l’altro parava il sacco. E chi la faceva la guerra per difendere il proprio castello? Direte voi l’esercito con a capo il signorotto locale…giusto per metà…bisognava infatti vedere l’esercito da chi era composto. L’esercito era fatto dalla gente comune che abitava all’interno del feudo, d’altra parte se i signori del luogo permettevano ai cittadini di abitare dentro le mura del proprio castello per proteggersi, dall’altra gli stessi cittadini dovevano ricambiare con un servizio di leva obbligatorio, che in barba al servizio militare odierno poteva arrivare anche con l’obbligo di guerreggiare fino al settantesimo anno d’età. In caso di guerra bella tosta allora ci si rivolgeva ai mercenari, ma quelli costavano e il popolo la guerra la faceva gratis. Sicuramente i Gherardinghi (signori di San Romano, Naggio, Vibbiana, Pontecosi, Sillico e chi più ne ha ne metta…)  non ne fecero uso intorno al 1170, quando tali signorotti si scocciarono dei lucchesi e preferirono ad essi i pisani; la pronta minaccia dei lucchesi di demolire castelli e casati ribelli fece ben  presto ritornare sui suoi passi la nobile famiglia che in men che non si dica giurò stabile fedeltà alla città delle mura ottenendone così anche il perdono. Se magari si fosse speso qualche soldino il destino (forse) sarebbe stato diverso. I mercenari , o meglio i soldati di ventura di scrupoli ne avevano pochi e combattevano esclusivamente per il bottino conquistato e per soldi, il tutto era regolamentato da cotanto contratto, dove si stabiliva i termini d’ingaggio: il numero dei soldati da assumere e anche la durata dell’impegno.
San Michele (foto di Davide Papalini)
Per capirsi bene oramai la guerra in Garfagnana era diventata un occupazione alla stregua del come andar per funghi e le nobili casate garfagnine secondo le convenienze sia alleavano a destra o a manca come se niente fosse, fulgido esempio i Suffredinghi, loro possedevano un vasto territorio che comprendeva la Cune, Chifenti, Borgo a Mozzano, Fornoli, Corsagna e arrivava ad avere possedimenti fino a Gorfigliano e Careggine e giustappunto per continuare a mantenere la loro egemonia su tali terre dovevano appoggiarsi a dei potentati ben più forti che loro stessi e allora ci si “imbarcava” in guerre sanguinarie come quella fra Lucca e Pisa, una guerra che protrasse per tutto il XII secolo e che nel 1149 li vide protagonisti insieme ai lucchesi all’assedio del castello di Vorno presieduto dai pisani, dopo otto mesi d’assedio finalmente la tanto sospirata vittoria che portò a radere al suolo il castello…
Isola Santa villaggio medievale
Nel 1170, gli equilibri erano cambiati e come banderuole al vento ecco che i Suffredinghi si alleano con Pisa nella difesa del castello di Castiglione posseduto a sua volta dai Gherardinghi suddetti, in sostanza sfido chiunque a capirci qualcosa, quello che però è evidente (e che ha poco bisogno di comprensione) è il capire che queste guerre erano veramente cruente, violente e spietate, basta vedere le armi con cui venivano combattute. L’arma più importante era la spada, compagna fedele più che di una moglie, tant’è che veniva tramandata da generazione in generazione ed era sostanzialmente lo strumento che ti poteva salvare la vita, subì importanti modifiche con il correre degli anni e se prima era larga e a doppio taglio, nel tempo e con il diffondersi di armature più spesse divennero lunghe sottili in modo che potessero penetrare nelle fenditure delle armature stesse. In questi ci si poteva difendere con lo scudo, che oltre a parare i colpi era un segno distintivo, dal momento che sopra vi erano disegnati i simboli del casato o il simbolo del cavaliere. Micidiale era la balestra, precisa, potente, usata sopratutto all’interno dei castelli, anche l’arco era una terribile arma, la sua freccia poteva essere scagliata fino a trecento metri di distanza e perforare tranquillamente una corazza di maglia, gli arcieri erano dei veri e propri atleti, scoccare una freccia richiedeva forza e l’allenamento doveva essere costante, l’arciere poi era tenuto in grande considerazione poichè non potendo portare lo scudo era il bersaglio preferito degli avversari. Diciamo che queste elencate erano armi professionali, ma come abbiamo letto spesso (e non volentieri) combatteva anche la gente comune che abitava all’interno del castello e allora il garfagnin-soldato si armava con quello che trovano per casa e la scure (o il pennato) che normalmente era adibita al taglio della legna per il fuoco di casa si trasformava in arma micidiale, così come la mazza che aveva la potenza di sfondare armature e sopratutto di aprire teste come noci di cocco.
Ci sarebbe ancora tanto da raccontare e le vicende del medioevo garfagnino naturalmente non si limitano a queste “due righe”, il discorso è molto più ampio e (se ben illustrato) affascinante,  ma l’aver dato le luci della ribalta a questo periodo storico poco amato e complesso farà sicuramente si, che qualche lettore si appassioni a queste periodo storico poco conosciuto e questo per me  sarà come aver vinto la più grossa battaglia che qualsiasi altro cavaliere in arme possa aver vinto nel lontano medioevo.
    Bibliografia
“Castelli, rocche e fortezze narrano la storia della Garfagnana” Gian Mirola
Savigni, Raffaele (2010) L’incastellamento in Garfagnana nel Medioevo: castelli signorili, villaggi fortificati e fortezze. In: Architettura militare e governo in Garfagnana. Atti del Convegno tenuto a Castelnuovo di Garfagnana, Rocca ariostesca, 13 e 14 settembre 2009. Biblioteca / Deputazione di storia patria per le antiche provincie modenesi. Nuova serie (187). Aedes Muratoriana, Modena, pp. 7-51.
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L'epico medioevo: famiglie, guerre, alleanze
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L'epico medioevo: famiglie, guerre, alleanze
Sarò subito chiaro fin dall’inizio con il mio caro lettore, l’argomento che affronteremo riguarda la Garfagnana medievale, e la storia medievale come ben si sa, in barba agli insigni storici pluri laureati, e di una noia terribile, sopratutto se spiegata così: “Rispetto al passato, ora si fa un uso più consapevole di termini quali “feudalesimo”, “signoria” e “territorialità” per illuminare l’enorme complessità dei veri rapporti di potere. La questione dell’incastellamento rientra perfettamente nella dinamica discussa. Il risultato è un quadro interpretativo estremamente efficace come modello globale, sebbene di per sé sia ormai troppo complesso per tenerlo a mente nella sua interezza per più di pochi minuti”
Fortezza delle Verrucole
Cosa, che, come ??? Per l’amor di Dio, tanto di cappello all’illustre professore che avrà affrontato così il tema della Garfagnana medievale a un folto pubblico di altrettanti illustri professori; ma la storia, se si vuole che la gente “comune” si appassioni anche al proprio passato va esposta in maniera totalmente diversa, specialmente su argomenti che hanno una maggior difficoltà di comprensione. Si, perchè il medioevo era un intersecarsi di famiglie, discendenze, guerre, alleanze in cui uno difficilmente riesce a raccapezzarsi. Basta guardare la Garfagnana…Gherardinghi, Suffredinghi, Rolandinghi… no, non è uno scioglilingua, erano le potenti famiglie medievali che avevano in mano tutta la valle. Insomma, capirete voi… comunque niente spavento, proverò a raccontarla io, alla mia maniera, un po’ di storia medievale garfagnina… con una raccomandazione però, non fate leggere questo articolo a qualche storico che “qui novit omnia” (ovverosia: che tutto sa), toglierebbe l’amicizia a voi e a me taccerebbe di superficialità e faciloneria (però alla fine qualcosina avrete capito)…
La rocca di Trassilico (foto di Daniele Saisi)
Comunque sia; siamo in quei tempi che il valore della persona si misurava con la forza, la Garfagnana medievale era la mecca ideale per ogni avventuriero, d’altra parte i Longobardi erano caduti e la definitiva vittoria dei Franchi, nuovi regnati d’Italia, aprì nuovi scenari in tutta la Valle del Serchio (e in Italia in genere), ecco che allora per la prima volta la Garfagnana venne divisa in svariati territori con al comando potenti famiglie feudali comandate da personaggi come Gherardo di Gottifredo, dal quale derivano appunti i Gherardinghi, signori di Verrucole; Vinildo di Froalmo signore di Careggine; Ugolinello capostipite dei nobili di San Michele; tal Donnuccio dei Porcaresi signore di Trassilico e un non meglio identificato Cellabarotti signorotto con possedimenti in Castelnuovo, questi (insieme ad altri) faranno il bello e cattivo tempo in Garfagnana. “I lor” signori arrivarono un po’ tutti alla spicciolata fra il settecento e l’anno mille, videro che qui c’era “buono” e dissero -C’è mio !!!- , spesso non dissero nemmeno niente e in maniera spiccia istituirono posti di blocco, pretesero obbedienza e imposero pedaggi, gabelle e contributi e… il garfagnino? Il garfagnino provò ad alzare la cresta… e il risultato? Nessuno, prevaleva la legge del più forte, pagare e silenzio, così il solco fra la misera gente e il potente di turno diventava sempre più profondo: il signorotto chiuso nel suo castello  e “il povero Cristo” a patire la fame.
Castiglione Garfagnana
Dal castello allo stemma il passo fu breve e quindi ogni stemma un castello e una storia diversa, anche se in linea di massima l’aspirazione di ogni feudatario locale era quella di non avere contatti con il prossimo, se non unicamente in funzione di difesa; difatti in mancanza di guerra le occupazioni maggiori di queste famiglie erano sostanzialmente tre: la caccia (lo svago preferito), la “pappatoria” e…la riscossione dei tributi. A rompere le uova nel paniere ai signorotti ci pensò Federico Barbarossa: il feudalesimo quello piccolo e spiccio era in crisi, l’imperatore aveva spazzato via tutti i potenti di Toscana, era il tempo delle riforme, il Papa rivendicava le sue terre e lui aspirava a un impero universale conteso proprio al papato stesso …Insomma era venuto il tempo di affilare le armi, non per la caccia stavolta, ora bisognava affilarle per le guerre.
Fortezza di Mont’Alfonso Castelnuovo Garfagnana (tratta da serchioindiretta.it)
il castello di Gallicano
La rocca di Camporgiano
D’altronde la Garfagnana era un boccone ghiotto, stretta fra due catene di montagne era, ed è un orto chiuso e stuzzicava desideri di conquista, ed ecco allora che dalle montagne circostanti come lupi famelici si affacciarono i modenesi, i lucchesi  e perfino da Pisa e da Firenze si scomodarono, non sembravano però venuti in vacanza, infatti il problema è che tutti questi erano armati fino ai denti, dapprima però un po’ tutti fecero gli gnorri e poi con la solita scusa vecchia di milioni di anni: “siamo venuti per proteggere… (o sennò salvare, o al limite vendicare…)”, giù botte da orbi, se poi durante la guerra capitava qualcosa da mettere “al sicuro” che male c’era, un souvenir non si rifiutava mai, uno rubava e l’altro parava il sacco. E chi la faceva la guerra per difendere il proprio castello? Direte voi l’esercito con a capo il signorotto locale…giusto per metà…bisognava infatti vedere l’esercito da chi era composto. L’esercito era fatto dalla gente comune che abitava all’interno del feudo, d’altra parte se i signori del luogo permettevano ai cittadini di abitare dentro le mura del proprio castello per proteggersi, dall’altra gli stessi cittadini dovevano ricambiare con un servizio di leva obbligatorio, che in barba al servizio militare odierno poteva arrivare anche con l’obbligo di guerreggiare fino al settantesimo anno d’età. In caso di guerra bella tosta allora ci si rivolgeva ai mercenari, ma quelli costavano e il popolo la guerra la faceva gratis. Sicuramente i Gherardinghi (signori di San Romano, Naggio, Vibbiana, Pontecosi, Sillico e chi più ne ha ne metta…) non ne fecero uso intorno al 1170, quando tali signorotti si scocciarono dei lucchesi e preferirono ad essi i pisani; la pronta minaccia dei lucchesi di demolire castelli e casati ribelli fece ben  presto ritornare sui suoi passi la nobile famiglia che in men che non si dica giurò stabile fedeltà alla città delle mura ottenendone così anche il perdono. Se magari si fosse speso qualche soldino il destino (forse) sarebbe stato diverso. I mercenari , o meglio i soldati di ventura di scrupoli ne avevano pochi e combattevano esclusivamente per il bottino conquistato e per soldi, il tutto era regolamentato da cotanto contratto, dove si stabiliva i termini d’ingaggio: il numero dei soldati da assumere e anche la durata dell’impegno.
San Michele (foto di Davide Papalini)
Per capirsi bene oramai la guerra in Garfagnana era diventata un occupazione alla stregua del come andar per funghi e le nobili casate garfagnine secondo le convenienze sia alleavano a destra o a manca come se niente fosse, fulgido esempio i Suffredinghi, loro possedevano un vasto territorio che comprendeva la Cune, Chifenti, Borgo a Mozzano, Fornoli, Corsagna e arrivava ad avere possedimenti fino a Gorfigliano e Careggine e giustappunto per continuare a mantenere la loro egemonia su tali terre dovevano appoggiarsi a dei potentati ben più forti che loro stessi e allora ci si “imbarcava” in guerre sanguinarie come quella fra Lucca e Pisa, una guerra che protrasse per tutto il XII secolo e che nel 1149 li vide protagonisti insieme ai lucchesi all’assedio del castello di Vorno presieduto dai pisani, dopo otto mesi d’assedio finalmente la tanto sospirata vittoria che portò a radere al suolo il castello…
Isola Santa villaggio medievale
Nel 1170, gli equilibri erano cambiati e come banderuole al vento ecco che i Suffredinghi si alleano con Pisa nella difesa del castello di Castiglione posseduto a sua volta dai Gherardinghi suddetti, in sostanza sfido chiunque a capirci qualcosa, quello che però è evidente (e che ha poco bisogno di comprensione) è il capire che queste guerre erano veramente cruente, violente e spietate, basta vedere le armi con cui venivano combattute. L’arma più importante era la spada, compagna fedele più che di una moglie, tant’è che veniva tramandata da generazione in generazione ed era sostanzialmente lo strumento che ti poteva salvare la vita, subì importanti modifiche con il correre degli anni e se prima era larga e a doppio taglio, nel tempo e con il diffondersi di armature più spesse divennero lunghe sottili in modo che potessero penetrare nelle fenditure delle armature stesse. In questi ci si poteva difendere con lo scudo, che oltre a parare i colpi era un segno distintivo, dal momento che sopra vi erano disegnati i simboli del casato o il simbolo del cavaliere. Micidiale era la balestra, precisa, potente, usata sopratutto all’interno dei castelli, anche l’arco era una terribile arma, la sua freccia poteva essere scagliata fino a trecento metri di distanza e perforare tranquillamente una corazza di maglia, gli arcieri erano dei veri e propri atleti, scoccare una freccia richiedeva forza e l’allenamento doveva essere costante, l’arciere poi era tenuto in grande considerazione poichè non potendo portare lo scudo era il bersaglio preferito degli avversari. Diciamo che queste elencate erano armi professionali, ma come abbiamo letto spesso (e non volentieri) combatteva anche la gente comune che abitava all’interno del castello e allora il garfagnin-soldato si armava con quello che trovano per casa e la scure (o il pennato) che normalmente era adibita al taglio della legna per il fuoco di casa si trasformava in arma micidiale, così come la mazza che aveva la potenza di sfondare armature e sopratutto di aprire teste come noci di cocco.
Ci sarebbe ancora tanto da raccontare e le vicende del medioevo garfagnino naturalmente non si limitano a queste “due righe”, il discorso è molto più ampio e (se ben illustrato) affascinante,  ma l’aver dato le luci della ribalta a questo periodo storico poco amato e complesso farà sicuramente si, che qualche lettore si appassioni a queste periodo storico poco conosciuto e questo per me  sarà come aver vinto la più grossa battaglia che qualsiasi altro cavaliere in arme possa aver vinto nel lontano medioevo.
Bibliografia
“Castelli, rocche e fortezze narrano la storia della Garfagnana” Gian Mirola
Savigni, Raffaele (2010) L’incastellamento in Garfagnana nel Medioevo: castelli signorili, villaggi fortificati e fortezze. In: Architettura militare e governo in Garfagnana. Atti del Convegno tenuto a Castelnuovo di Garfagnana, Rocca ariostesca, 13 e 14 settembre 2009. Biblioteca / Deputazione di storia patria per le antiche provincie modenesi. Nuova serie (187). Aedes Muratoriana, Modena, pp. 7-51.
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