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121. (Chissà perché)
Chissà perché. Ma d’altronde ti vedo molto bene ad Ascot, che frusci di tinte e tessuti, tutta un profumo, leggera. Con la stessa lena con cui stai seduta, borchiata e distratta, anche qui, sugli scalini, non sei meno, non sei meno, che quando passa ognuno ti guarda e invidia quel tuo modo di startene posata come se quegli scalini, la pelle nera, questa strada … il mondo, il mondo fosse qui per te. E chissà perché pensavo di vederti bene molto bene anche a Tokio. Sì. Quanto saresti bella con un kimono, passi sotto un torii e sembri disegnata apposta sebbene eccentrica del posto. O mentre attraversi frettolosa un frettoloso caotico incrocio, coi tuoi bracciali che suonano e le tue unghie colorate rivali delle insegne neon e delle lacche antichissime in vetrina. E quando mangi un po’ di riso e non ne vuoi più, ora devi riposare e ti abbandoni e le nuvole ti guardano, sorridono. Del resto non staresti forse bene in Marocco? Chissà perché. Il caffettano che ti scivola addosso, il bazar respira speziato e tu spezia sorella delle altre, senza vanità, senza minor vanto. Sì. Devo ammettere che io ti vedrei bene ovunque. Poi la tv mi richiama, una pubblicità sguaiata, capsule di caffè buttate lì con malagrazia. Qui non ci staresti bene, no, qui non avresti domicilio. E sapessi come sono fortunato, che almeno così posso tenerti dentro, in quei luoghi del mondo che parlano di grazia, in quei luoghi del mio cuore che di fronte alla grazia tacciono, come sono fortunato tu ospite luminoso.
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120. (Quelle note)
Ma bastano quelle note,
bastano quelle note,
tutta la magia che ci vuole.
Il viaggio semplice e scomodo.
Da vedere attorno
semplice la terra,
senza pretese, senz’acqua,
semplice il verde di spine,
di pietre; d’arsura.
Ma bastano quelle note,
bastano quelle note,
tutta la magia che ci vuole.
Semplice il dolore, e scomodo,
il raggio senza riparo,
chiuse le bocche,
la pioggia ritrosa come fosse
cattiva,
tremano i pensieri,
tremula la visione là fuori.
Annegare in un deserto,
facile, semplice e scomodo,
l’anima chiede qualcosa,
“dammi qualcosa da vedere,
fronde morbide, un cielo colmo”,
chiede disperata,
ma la canicola tremula offende,
e l’anima offesa si ritrae,
lenta,
come dovesse morire.
Ma poi;
quelle note bastano;
tutta la magia che ci vuole.
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119. (Anima)
Per quanto tempo dovrò
piangere ancora,
per tanto tempo,
ancora,
con le lacrime spente
per terra,
l’anima piccola fiamma
d’un piccolo cero,
le gambe vuote
e il respiro,
steso come un’ombra
che non si leva,
stelo arido,
ancora mi farò sangue,
senza riposo.
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118. (Curva)
Come una curva,
giri, scivoli.
Ti seguo, mi porti.
A volte pende lenta,
non freno e
accelero, accelero;
dovrò frenare, credo,
ma ora no.
E stringi all’improvviso,
all’improvviso sali,
all’improvviso
come stambecchi spaventati.
Sempre in curva,
come il tuo sguardo.
Sempre in curva,
senza sapere quando
s’aprirà magari un pianoro,
la piccola retta
da posare gli occhi,
da vedere un minuto avanti.
Sempre in curva,
senza sapere se la strada finisca,
per il crollo malvagio,
o la slavina di fango
che non ci sarà freno;
freno a sufficienza.
Dovrei frenare credo,
ma non ora,
che mi porti come una curva,
scivoli, ti seguo,
in bilico tra traiettoria e
bordi franosi,
dolce come una cantilena,
come sonno scivola,
un’armonia,
come scivolano le ruote,
in curva,
che sentono l’attrito,
la mescola s’impunta,
e chi sono, sanno.
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117. (Howl)
C’è un’altra parola per “conati di vomito”? Che poi non sono proprio conati. Non è esattamente quello. Qualcosa tipo “voltastomaco”. Ma neanche voltastomaco rende bene l’idea. Chissà se qualche lingua si è evoluta, chissà se qualche lingua sa. Mi piacerebbe, sì, fosse pure un suono stranissimo, difficile, ma lo imparerei. Sì. Lo imparerei e poi lo griderei, lo griderei fino a sentire la gola che graffia, che so che poi brucerà e non potrò parlare. Ma tanto una volta che avessi gridato quella parola, una volta che avessi esalato tutto il mio bruciore, non mi sarebbe più servito parlare. Avrei gridato proprio per quello, per sfogarmi e non dover parlare più. Starmene così, esaurito, consumato, senza pretese, svuotato, ecco, svuotato, svuotato dal mio vomito. Chissà. Magari non sarebbe bastato, a farmi stare bene, ma magari un po’ sì. Lasciatemi credere che almeno un po’ sì. Come quando hai un dolore, che so io, ad un dito, e tu te lo schiacci forte, perché quel dolore più forte perlomeno ti fa scordare il primo, quello che ti tiene compagnia, da troppo, troppo tempo, quello che ti fa pensare che se ne starà lì e non passerà più. O passerà, ma tardi, dopo averti consumato per bene. Troppo bene. Io non ho parole per quello che provo, in questi momenti. Quando ci si saluta ed è come morire. Quando ci si separa, perché è come morire. Non ci facciamo sempre caso - quante volte al giorno ci lasciamo? La vita è furba, forse, non vuole che vediamo troppo chiaramente. Oppure siamo noi che siamo distratti. Ma quando hai la valigia pronta, quando non stai uscendo per un caffè o per andare a comprare il pane, sembra che il rischio aumenti. Che ne sarà di me? Che ne sarà di noi? Ti ritroverò al mio ritorno? Ritroverò un sorriso o il tuo sguardo sarà rivolto ad un altro orizzonte? O sarà spento? Saranno queste radici profonde, radici che il cielo non tocca, o basterà una pioggia a togliere il velo di terra dove si sono rintanate? E quindi devi infilarti in macchina, o in qualunque altro attrezzo che ti porti via, e non è uno scherzo, devi, ora devi. Per cosa, poi? Ed ecco che dentro lo senti, quel disgusto, i conati, il voltastomaco. Come una sentenza, come un pranzo che non stai digerendo, ma ormai l’hai fatto, e senti tutto l’acido che ti si rivolta dentro, senti che non dovrebbe essere così, se ci fosse qualcuno clemente a tirare i fili. Invece devi riprendere la vita fatta di turni, e le scadenze, e la notte ed il giorno che si alternano e anche loro, a loro modo, in un certo qual modo sembra che stiano lì a timbrare il cartellino, come te. E invece la vita dovrebbe essere come un fiore che sboccia, coi petali vestiti a festa, che diventano turgidi e quando cadono lasciamo un seme nudo, ma vigoroso e pronto a ripartire, a riaprirsi per un nuovo spettacolo. E invece partire così, i petali sfioriti, ma il seme non c’è, non si vede, tutto è un grumo di fastidio e vuota mancanza.
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116. (Avenue 1)
Quella vetrina, sì,
le notizie stantie,
gli anelli di petrolio impolverati,
me la ricordo sì,
quand’era viva.
Oltre i fogli riluttanti,
sorrisi;
la ricchezza una farfalla;
e sfiorati i corpi;
medesima la voce roca;
s’offriva distratta d’abbondanza,
trasparente, ignara;
ora ricoperta chiusa abbandonata
non vuole che si guardi,
dove macerie si fanno
intonaci e memorie;
ora è vestita e pudica,
non passa lume
dalla pelle di carta,
né occhio
sul pavimento grave
nudo di passi.
Come ancora
qualcuno potesse entrarci,
l’anima giusta, consapevole,
prima che tutto si sfaccia.
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115. (papa lézard)
A pancia in su e con le zampe aperte. Come avesse la pancia piena, dopo aver mangiato. Come stesse sognando, con una specie di sorriso sul muso. Chissà che sognava, come un bambino felice. Era schiacciato dalla coda in su. Chissà come aveva fatto, a girarsi così. Forse s’era accorto all’ultimo momento, forse con la coda dell’occhio aveva visto la ruota e il balzo non era stato sufficiente. Era stato sufficiente soltanto a lasciarlo in quella posizione, a pancia in su, squadernato manco fosse in un erbario. La pressione lo aveva appiattito ed in un certo senso lo aveva preservato. Qualche particola sbavava appena dai bordi, ma per il resto era rimasto intero, come un disegno per un qualche atlante. Papà lucertola, e le sue scaglie verde chiaro brillante, ancora lucide sotto al sole. Quasi una madreperla, sotto al sole. Ne aveva fatto, di figliate. Ne aveva fatte fare, per la precisione. Tutte con quella strana striatura nera, una ciglia un’unghia nera, appena sopra l’occhio, per tutti i suoi discendenti e forse da chissà quanto prima di lui, in chi lo aveva figliato. Era un bravo combattente, ne aveva viste, aveva raggiunto l’età matura. Non era rimasto in nessun artiglio, in nessuna bocca affamata, eppure quei bordi erbosi e i campi appresso ne erano pieni. Era stata una macchina a ucciderlo, era successo, chissà perché. Se c’era una colpa, se poteva stare più attento, se neanche una piccolissima distrazione, neanche la più minima distrazione, neanche quella avrebbe dovuto permettersi. O forse non c’era una ragione, era andata così e basta, come vanno così tutte le cose, così e basta. E come vanno tutte le cose altre ruote lo avrebbero offeso, o i becchi delle gazze, o le ore sotto al sole. La sua livrea ancora così intatta si sarebbe sbriciolata, sfaldata, crepata in mille schegge, sparita dopo non essere stata pi�� che una macchia. Senza rispetto, senza ritegno. Le macchine gli sarebbero ripassate sopra senza neanche pensarci, a chi era stato, a tutte le sue cacce, i suoi momenti. Senza neanche poterci pensare. Le gazze se ne sarebbero fregate, non aveva alcuna importanza. E anche queste parole che parlano di lui alla fine si sbricioleranno, magari vivranno anche meno, di lui. Era così scivoloso, questo pensiero, questi momenti che non si riuscivano in alcun modo a fermare, che c’erano sì, ma appena un attimo, appena forse poco più, che le dita non erano appiccicose affatto per niente. Speravo che ci fosse almeno qualche momento, per papà Lucertola, dove fosse salvo, fosse salvo lui e magari anche io. Un momento, magari un giorno, magari una parola, ma non riuscivo a pensarci più di tanto, a quadrare. Forse m’importava pure poco, alla fine. Mi bastava guardarlo, sognarlo, saperlo, seguire il suo contorno con la testa e con tutto quello che io ero, qualunque cosa fosse.
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114. (Un granello)
Ancora uno,
ancora uno.
Dipinta così,
giorno dopo giorno,
sogno dopo sogno.
Uno strato sull’altro,
lucido brillante,
duro ciascuno,
come un osso,
che con questa carne
scalfirne alcuno no.
Un fastidio,
un dolore,
lo scorpione che punge,
la punta d’una selce,
un granello di te,
era,
e poi.
Ogni lamina lucida
ricca si nutriva
di quella che copriva,
alle vene preziose sotto
le sue sommava,
e così una sull’altra,
giorno dopo giorno,
sogno dopo sogno,
tu come una perla.
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113. (Leggerezza)
Quanto leggera.
Una foglia?
Il passo d’un insetto,
sul braccio che dorme?
Quanto leggera,
da non dirsi che c’è,
eppure eppure
senza equivoci aggrappata,
luce d’un lume che
senza tocco imbianca,
leggera leggera.
Velo mosso, sulla balconata,
sulla riva di scirocco,
lieve la piega,
appunto d’un sospiro appena
viva.
Quanto leggera sei,
che quasi non ci sei,
fuggente inquadratura,
eppure eppure
di quella goccia in fiato
che spenga la fiammella
o che l’accenda
così leggera tu.
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112. (Un'ora qualsiasi)
C’era il vento d’Aprile;
leggeri si svolgevano fantasmi,
ma luminosi, come quell’ora,
lievi come un velo nel tè,
le lame inguainate;
c’era un cane che correva,
anche lui come un
riflesso del sole, un
festone apparecchiato,
chissà da chi;
seduto io,
e mi bastava.
Il verde pioveva,
piovevano chiome spesse,
altre d’impalpabili piccole
faci bianche;
il respiro preciso,
l’occhio accogliente,
sulla terra le dita.
A quell’ora sconosciuta
l’anima mia risolta
s’appellava,
dell’alimento pieno
l’anima mia risolta
filtrava il suo;
non mendico, ormai,
le ombre acquattate,
quel fiato d’Aprile e il mio
mi bastava.
E tu.
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111. (Hallucinatio)
La neuropsicologia dell’allucinazione,
fuori.
Qui è fame, è sete,
è il gioco insopportabile,
la mannaia mette fretta,
sopra,
e sotto dovrei resistere,
vero?
E allora allucinare viaggiare così.
Voglio contorni spessi,
costole d’un mosaico,
tessere che schifino il tempo.
E voglio contorni sfumati,
quanto basti
che un sogno si trasformi
appena nell’altro appetito.
E non svegliarmi.
D’una scena nell’altra annegare,
perse le parole, la memoria,
fino al mio canto zittito,
dimenticato svanito dalla notte.
La neuropsicologia dell’allucinazione,
fuori,
allucinare qui
risponde salvezza.
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110. (Abbastanza)
In realtà,
non è mai abbastanza.
Ecco l’oscena promessa,
la bocca scivolosa,
l’occhio arcuato:
che sia abbastanza,
che basti e basta.
Riempire la sozza latrina,
tacciano i tafani impudenti,
spaccare l’otre rugoso,
schiantarsi dal volo immaturo,
sotto la pressa infine voi tutti,
sentire, sapere, pensare,
questa l’oscena promessa
al dolore clamante.
E in realtà
non è mai abbastanza:
è solo il malevolo gioco
della bocca scivolosa,
dell’occhio arcuato.
Soltanto riempirne la greppia,
solo gonfiarne la spuma,
una nuova lezione,
è questo soltanto.
E noi mendicanti,
inesperti, ignari,
laceri ispidi di sfregi,
noi che vorremmo pur
chiudendo gli occhi non vedere,
che per non sentirlo, il masso,
allora schiacciaci,
che non ti senta più.
Come se fosse abbastanza.
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109. (Periferia)
Strana, questa periferia.
Due angoli più in là,
sulle vie tracciate dall’uso,
nell’ora dello spasmo trionfante,
in ordinata processione
una macchina dietro l’altra
non prega che si sfili.
Dentro quel ferro scuro
crucci della notte
e della sera prima
e dei passi non fatti ancora.
Così già consumato svolto,
quel ferro m’affatica.
E ora
che meraviglia mai è,
quest’approdo, dimenticata via,
che poco più in là senz’aria
ogni foglia appassiva?
Ferme le ruote,
fermo l’occhio che
finalmente tutto guarda.
Avrei una parola, ora,
se qualcuno passasse;
e se danzassi,
degno sarebbe il palco;
e potrei sentirlo, il tuo fiato,
d’arancia e cannella,
che mormora, e nutre.
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108. (Qui)
E non c’era fretta, per quello che dovevamo fare. Una goccia, poi un’altra, e poi un’altra ancora. Lo stesso meccanismo fosse stato un sorso, casomai. E non c’era fretta perché non c’era paura. L’assolato paesaggio, il pomeriggio quasi d’un deserto, le macchine stanche, la condensa sul boccale che scendeva, goccia dopo goccia. E non avrei potuto concepire un qualcosa di bello, che avesse fretta. Ma che volesse camminare, questo sì. Sapendo che non avrebbe visto tutto, fino a questa sera, forse non avrebbe visto neanche la fine, di questa strada, forse già arrivare all’angolo sarebbe stato abbastanza, fino a quella insegna rossa, per un occhio così così appassionato. E non c’era fretta e dispiaceva persino, che il tempo scorresse in fretta, quando c’era tanto da tenere in bocca, tutte le tinte di quell’umore da farsi passare sulla lingua, e ripassare, e imparare e aspettare, oh sì, anche aspettare, era tutto così delizioso, quando non c’era fretta. Slow down, baby, slow down. Non c’era fretta quando un figlio cresceva, non c’era fretta quando una pesca si tingeva di rosa, quando lo zucchero si caricava fino a farsi tentazione per un becco assetato, non c’era fretta in una carezza che cercava, cercava, cercava e alla fine, sì, alla fine sì, non c’era fretta per una scorza verde fatta poi tronco, d’una chioma bellissima, alla cui ombra sedersi e ascoltare, ascoltare ogni storia del vento, che tante ne aveva da raccontare, e in una sola volta non ce l’avrebbe fatta, e anche se ce l’avesse fatta non ci sarebbe stato gusto. Non c’era fretta, c’era solo il gusto, e il gusto voleva tempo, il sole che scaldasse la pelle, che dal bluastro tremore passasse alla tiepida pace, che dopo un’onda ne venisse un’altra, che tornasse a dire alle gambe distese che non era finita, che potevano ascoltare, senza fretta.
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107. (Zucchero)
E a quelli che non ci credono,
ma che m’importa?
Zucchero.
Sì, qualche granello bianco,
quello sì.
Piccoli cubetti bianchi,
di quelli sì,
potrebbero dipingersi figura.
E potrebbero raccontarne,
e potrebbero infine dirne
come di sale,
o d’inetta insipida sostanza.
Ma di vero che può dire chi
mai
l’ha tenuto in bocca?
Chi mai l’ha sciolto
in tutto il suo languore
fino all’intestino
e fin dentro,
fin nei minimi rivoli,
fino a ritornare sulla pelle?
A quelli che non ci credono,
che di parole fanno fanfare,
quelli che niente sanno,
ma che m'importa?
Come potrei persino aiutarli,
d'una pietra
che in tasca non hanno,
che mai pietra hanno toccato?
Io che
di quella pietra ho tutto,
tranne parole,
io il rovello,
io che
il sapore m’è chiaro più del giorno,
che dei tuoi occhi
di te
tutto so lo zucchero?
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106. (Buio)
Quanto può essere buio il buio,
stasera, mi domando.
Me lo sento in bocca,
sai?
Sulla lingua un liquido tappeto,
prima di saperlo s’è fatto già cemento,
ha preso il collo,
certamente la schiena,
chiuso mi tace
e mi porta via, sento,
come fosse il giorno di ieri
che fugge, sento,
impossibile, così impossibile,
non dico con le dita, con la punta,
me nemmeno i pensieri ce la fanno.
Buio senza.
Profondissimo, e sprofonda.
Senza colture, senza parole.
E allora abbracciami,
stringimi,
e soffocami, se vuoi.
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105. (Corri)
E allora corri.
Un’onda che non corra, mai.
Mai un’erba che non spinga, nel blu,
e un pesce? Mai.
Sebbene con le gambe rotte,
sebbene rigaglie l’anima,
corri, il vento non aspetta.
Nel freddo immenso non aspetta Marte,
nessun pianetucolo,
non aspetta il tuo fiato,
la luce, dio santo, la luce,
la luce sommerge e non aspetta.
Alcun poeta non ha aspettato a morire,
non ha aspettato il tuo amore,
non aspetta la spina, il cardo,
non aspetta il bosco
e a rompere il guscio,
solo un folle, solo un folle aspetta.
E quindi corri,
confonditi con l’orbita imponente,
con le lacrime,
del tuo passo le tempie percuoti,
rombo che altro non senta,
sulla strada di ruote impietose,
sul sentiero che la pioggia cancella,
tra vuoti occhi e vuote bocche corri,
tra occhi e bocche che trafiggono corri,
dimentica,
così forte corri che tu dimentichi.
Che tu solo corra.
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