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Questo Uomo No.
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Contro lo stupido, ipocrita, diseducativo, violento machismo dilagante, segnalo qui ogni scritto, immagine, rappresentazione, disegno, spot, che racconta un tipo di uomo che non mi piace. A insindacabile giudizio di un "normale" uomo etero quale io sono: Lorenzo Gasparrini.Altre cose che faccio in rete. questouomono (at) gmail.com
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questouomono · 7 months ago
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Questo uomo no, #141 - Quello che secondo lui il patriarcato non esiste più
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Premessa importante: questo testo non è "contro" un ministro ignorante che dice ingiuste e violente inesattezze in una sede istituzionale intervenendo neanche di persona a sproloquiare di cose che non sa, in modo quantomeno inopportuno. Quanto successo alla presentazione della Fondazione Giulia Cecchettin in Senato è già successo innumerevoli volte, e succederà ancora per molto tempo. Questo testo è l'ennesima ripetizione di cose già sapute e stabilite scientificamente da chi studia le questioni di genere e i femminismi da decenni, e che ripete a ogni occasione perché questo è il suo lavoro: la ricerca e l'azione volte a dare strumenti per risolvere problemi sociali gravi e inderogabili e a puntualizzare concetti importanti per quella ricerca e quell'azione.
"Il patriarcato è finito nel 1975, con la riforma del diritto di famiglia" non è una opinione nuova, è una vecchia ignoranza che in molte forme diverse va in giro appunto dal 1975, sostanzialmente per due motivi. 1) Un punto temporale indietro nel tempo - il '75 è cinquant'anni fa! - fa sembrare questo argomento vecchio, datato, superato, e insieme a lui i femminismi che lo combattono. La realtà è che se intendiamo il patriarcato come modello politico-sociale che informa le leggi del nostro paese, è nel 1981 che viene abolito il delitto d'onore, è nel 1996 che lo stupro è classificato reato contro la persona e non contro l'onore. In più, se anche per le questioni di violenza possiamo fermarci al 1996, il patriarcato è presente nelle leggi del nostro paese in molti altri luoghi dei codici: le leggi sulla cittadinanza basate sul sangue sono leggi patriarcali, le leggi che regolano l'eredità sono patriarcali, la presenza nei nostri codici dell'espressione "buon padre di famiglia" con valore regolativo è patriarcato. Nel '75 sono finite tante cose nelle leggi italiane, ma il patriarcato no. 2) Il secondo motivo riguarda la strumentalizzazione del termine patriarcato, che da questione culturale si cerca di chiuderlo a questione legislativa. Questo è l'esempio di uno dei modi tipici di invalidare le critiche femministe e gli studi di genere: delimitare la complessità della parola patriarcato a un significato, a un solo ambito disciplinare. Si usa l'antropologia per dire che il patriarcato è un modello familiare ormai scomparso dalle nostre società; si usa la storia per rinchiuderlo in tempi lontani e civiltà remote; si usa l'etimologia per sostenere la sua inconsistenza, dato che la figura paterna ha perso potere rispetto a quella materna, la maschile rispetto a quella femminile; si usa la linguistica per sostenere che il termine è inadeguato alla complessità e alle trasformazioni della famiglia e della società contemporanee. E così via, pur di limitarne l'unico uso sensato in queste questioni: l'uso che ne fanno, da qualche secolo, i femminismi e gli studi di genere.
Il patriarcato è il nome di una relazione di potere tra esseri umani o tra istituzioni umane basata su valori sociali comunemente e tradizionalmente associati a ciò che, in una determinata cultura, viene considerato maschile. Questo è il motivo per cui: - il patriarcato non è un modo di "attaccare" o "accusare" gli esseri umani maschi, perché come forma di potere può essere usato (e nei fatti viene usato) da persone di qualsiasi genere; - il patriarcato non è il nome di una struttura sociale, di una relazione o di una forma espressiva (parola, locuzione, testo, opera d'arte), ma il nome del potere che viene usato - anche insieme ad altri - in quelle situazioni o in quelle espressioni. Quindi non esistono parole o azioni "patriarcali" da vietare, ma usi patriarcali di espressioni e situazioni che andrebbero evitate. - il patriarcato non è la "causa" della violenza di genere subita dagli esseri umani, ma il potere usato in tutte le forme di violenza di genere subite dagli esseri umani in maniera differente a seconda dei loro corpi e del loro genere. A questo proposito varrà la pena ricordare che questo è il motivo per cui non esiste alcuna "simmetria" tra la violenza di genere subita dalle donne rispetto a quella subita dagli uomini, e poi tra etero e non etero, e così via. Ogni particolarità di genere subisce forme di violenza di tipo patriarcale; 350 anni e più di femminismi permettono oggi di identificare e parlare con certezza di quelle subite da qualsiasi genere non sia l'uomo eterocis, mentre quest'ultimo genere continua, in tantissimi casi che capitano nella vita dei suoi membri, a non saperla neanche riconoscere, data l'assenza di una competenza diffusa proprio su questo aspetto specifico degli studi di genere: la maschilità. Ecco anche detto il perché in nessun senso il patriarcato è una ideologia, o può essere assimilato a un atteggiamento ideologico: il patriarcato è un fatto sociale esistente e funzionante nelle nostre società, e la sua esistenza è oggetto di studi e ricerche scientifiche da moltissimi anni, in tutte le sue forme (linguistiche, sociali, filosofiche, economiche, storiche). Può essere certamente ideologica, e di fatto lo è, la scelta di non occuparsene oppure sì, di non riconoscerlo oppure sì, di discuterne come fatto sociale del quale occuparsi nelle proprie vite oppure no.
Oppure ancora, come è stato fatto di recente seguendo un andazzo molto in voga tra le persone ignoranti e schierate contro i femminismi di ogni tipo, si può dichiarare che il patriarcato è finito e che ci sono in giro "solo" forme di maschilismo - ignorando il legame tra i due, che non sono sinonimi - e che la violenza di genere diffusa è dovuta anche all'immigrazione.
Dalle mie parti fare così si chiama "buttàlla in caciara", ed è il tipico atteggiamento di chi è ignorante e/o vuole ottenere credibilità e consenso spostando le argomentazioni altrove. Questo uomo no.
Probabilmente anche io, che studio queste cose a livello accademico dalla metà degli anni '90 e che da più di un decennio ne ho fatto un lavoro apprezzato e un'opera di divulgazione che ha aiutato moltissime persone, vengo considerato "ideologicamente schierato". Evidentemente, sapere le cose e usarle per il bene comune anche professionalmente adesso qualcunə preferisce chiamarlo così, sperando che ne possa rimanere fuori. Invece, anche se da diversi posizionamenti, o si conosce e affronta il problema, o si è parte del problema. Buon patriarcato a tuttə. P.S. per chi è più esigente, qui una mia bibliografia aggiornata a fine '23. Ci metto solo quello che leggo, studio e ho usato con risultati, quindi non ci sono pubblicazioni troppo recenti.
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questouomono · 9 months ago
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Questo uomo no, #140 - Deconstructing Rossano Sasso (per Federico Zappino)
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Le parole con le quali il deputato Rossano Sasso ha attaccato Federico Zappino e il suo insegnamento le trovate qui. Proviamo a capire insieme quanto il deputato avrebbe invece bisogno di seguire i suoi corsi. In tondo le sue parole, in corsivo i miei commenti.
Mi batto per una scuola migliore dice Sasso, quindi tanto per cominciare l'università non dovrebbe entrarci. Però è sbalordito del fatto che All’Università di Sassari esiste, da due anni, un corso di studi denominato “teorie di genere e queer”, tenuto da un ricercatore a tempo determinato della facoltà di Scienze Politiche, tale Federico Zappino, filosofo di estrema sinistra e attivista Lgbtqi. Qualcuno lo informi che corsi con questi argomenti se ne fanno da molti più anni in molte più università italiane, e che da altrettanti molti anni docenti italianə sono andatə in giro per il mondo a insegnare "teorie di genere e queer". Ah, e si fanno da decenni anche in molte scuole italiane, tanto per rimanere in argomento. Sasso, lei lo sapeva?
Vorrei sapere se il ministro avvalla che un insieme di teorie, prive di alcuna dignità scientifica, possano diventare una materia di esame, e se un ricercatore a tempo determinato, filosofo di estrema sinistra e attivista Lgbtqi, sia giuridicamente abilitato all’insegnamento. Sasso, se sono oggetto di corsi universitari la dignità scientifica l'hanno superata da parecchio, per questo le gerarchie ecclesiastiche si sono mosse con un contrasto politico inventato ad arte, come raccontato già un decennio fa da Sara Garbagnoli. E se Zappino è ricercatore in una università italiana non è perché estratto a sorte, ma dopo concorso pubblico per titoli ed esami. Certo che è giuridicamente abilitato all'insegnamento.
Continua Sasso: ma ciò che mi preme di più conoscere, è se il ministro condivida il fatto che sia stato elevato al rango di testo universitario, da studiare per poter sostenere l’esame, gli “Elementi di critica omosessuale” dello storico attivista Mario Mieli. Sasso, come chiunque frequenti i corsi di Zappino sa, quel libro è sostanzialmente la tesi di laurea di Mieli, sostenuta in una università giuridicamente abilitata e con relatore un professore giuridicamente abilitato. Quindi Sasso duole informarla che più testo universitario di quello non si può. Non si preoccupi, può evitare di saperlo dai corsi di Zappino: è scritto anche su Wikipedia.
Ah, tra l'altro Wikipedia contiene anche, papale papale, la frase che lei riporta come "prova" della pedofilia di Mieli, senza sapere né cosa significa quel passo né che ruolo ha nella sua costruzione teorica - né sa distinguere pedofilia, pederastia nel senso di Mieli e omosessualità. Potrebbe saperlo se frequentasse i corsi di Zappino, ma questa citazione così precisa fa nascere il sospetto che lei "Elementi di critica omosessuale" non l'abbia mai letto. E da insegnante questa cosa di parlare di libri che non si è letti per intero non si fa, vero Sasso?
Sarei curioso di capire come si svolgono le lezioni, se l’insegnamento, come temo, sia a senso unico. Chi mi garantisce che ci sia una pluralità di opinioni? Con soldi pubblici si divulga l’ideologia gender e teoria queer. Sasso, ma lei è mai stato in una università? Le lezioni non sono mica dibattiti, la pluralità di opinioni è garantita dall'ateneo, non dal singolo corso; infatti l'Ateneo ospita altri corsi sugli stessi argomenti, e con altri docenti, e con altre opinioni - come qualsiasi altro ateneo. I corsi, poi, non sono obbligatori. Zappino è lui a indottrinare gli studenti prima che lo frequentino? E come fa? oppure arrivano già indottrinati? E da chi? E, le ripeto: è da un pezzo che i soldi pubblici si usano per questi corsi, come dopotutto garantisce la Costituzione della Repubblica Italiana all'articolo 33. Sì, Sasso, è scienza. Perché se non è scienza quella di Zappino, non lo è neanche quella del Vaticano, ricordata sopra nell'articolo di Garbagnoli. Spiace.
Il film di Nando Cicero che ricordo sopra, nell'immagine, ha gli stessi anni del deputato Rossano Sasso. Forse dovrebbe concentrarsi su come quella visione della sessualità a scuola, e della scuola come luogo di una sola sessualità possibile, lo abbia involontariamente influenzato attraverso una cultura eterosessista. Nei suoi corsi Zappino si occupa anche di questo problema sociale molto grave. Gli farebbe molto bene frequentarlo.
Federico Zappino è un ricercatore fondamentale per gli studi superiori italiani, tra i pochi a occuparsi di creare un ponte tra un materialismo critico nei confronti di Marx e un pensiero queer che di materialismo ha molto bisogno per non farsi "acquistare" da un liberalismo dannoso e inconcludente. Non è obbligatorio essere d'accordo con lui, ma sono ben contento che le mie tasse concorrano a pagare il suo compenso. Quello di Sasso, meno. Questo uomo no. Qui una petizione che chiede alla ministra Bernini che Zappino rimanga dov'è, a fare il lavoro importantissimo che fa.
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questouomono · 9 months ago
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Questo uomo no, #139 - L'essenzialistə
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Si chiama essenzialismo quell'atteggiamento del pensiero che ritiene esistano le "essenze" delle cose e dei fenomeni, qualcosa che le caratterizza come tali e che è sempre superiore a qualsiasi esistenza concreta. Sono essenzialistə quelle persone che credono che esistano caratteristiche "essenziali" dell'essere uomo, dell'essere donna, di qualsiasi altra caratteristica umana possibile.
L'essenzialismo è quindi un atteggiamento tipicamente fascista, anche se professato da compagnə di ogni tipo, perché si basa su una definizione arbitraria (una qualsiasi, decisa dall'essenzialistə) che viene applicata per decidere chi è "giusto" e chi è "sbagliato", a seconda che abbia o no "l'essenza".
Gli esempi di questa forma di fascismo sono quindi innumerevoli, e spesso contraddittori. Si basano sull'avere o no certi organi sessuali, sull'usarli più o meno e in quale modo; sull'avere una determinata disponibilità economica; sull'aver fatto o no certe cose, avere letto o no certi libri, avere conosciuto o no certe persone; avere o no una determinata fede, sia essa politica, religiosa, sportiva, culturale; nascere o vivere in un determinato luogo, avere la pelle di un dato colore, parlare una o più lingue, e così via.
Per gli MRA, per le TERF, per suprematistə, razzistə e fascistə di ogni tipo, le differenze tra esseri umani si basano su caratteri "interni", stabili e immodificabili, delle singole persone. Quindi l'essenzialistə può solo ammettere l'esistenza di persone come se stessə, mentre qualsiasi altra diversità è sbagliata, traditrice, mistificatrice, infida o, come è stato detto a me, "laido" (dice il vocabolario: ripugnante per il sudiciume o la deformità, anche morale). Ed essendo un atteggiamento tipicamente fascista, è vile: raramente lo sentirete professato da qualcunə senza un richiamo a teorie, scienze, "natura" o altre forze superiori ritenute inattaccabili e insindacabili.
L'essenzialistə è quindi una persona che rifiuta la diversità umana, sotto uno o più aspetti. Questo uomo no, ma magari esistessero solo essenzialisti uomini.
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questouomono · 1 year ago
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Questo uomo no, #138 - Il poràccio
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Il poràccio è un uomo che imbratta o deturpa i luoghi come Lucha y Siesta; il poràccio è uno che attacca le associazioni di CAV con parole e notizie false. Il poràccio da sempre apprezza la strategia del vile: senza il coraggio di affrontare un pericolo, di riconoscere e ribellarsi al potere che lo domina (il patriarcato), di assumersi la responsabilità delle proprie azioni, insulta o danneggia altre persone con sfacciata protervia, nella fiducia o sicurezza di restare impunito. Salvo poi aggiungere la strategia vittimista piagnona, cioè la lamentela continua da posizioni nascoste o irraggiungibili o, appunto, poràcce.
Così il poràccio aggiunge letame al già poco piacevole olezzo della reputazione maschile, resa schifosa da secoli e secoli di sopraffazioni, ingiustizie, stragi e follie politiche contro chiunque, in un delirio di potere tipicamente maschile che viene usato - come sa bene chi lavora non "sulla violenza" ma "a contatto con i violenti" - da uomini di qualsiasi ceto, livello culturale, provenienza geografica, età.
Tutto questo mentre molti femminismi hanno fatto vedere come si lavora per la liberazione e la ricostruzione di una identità libera e non violenta per il proprio genere. (Nota per i poràcci che pensano subito a riportare qualche esempio di donna omicida: se non sapete capire cosa leggete prendetevela con la vostra formazione, non con me o con i femminismi.)
Da quando poi in Italia abbiamo alla più alta carica del potere esecutivo una donna che si fa chiamare al maschile, che pensa che la propria famiglia sia immune dal patriarcato perché fatta di donne e poi per ogni suo atto di ripicca politica chiama in causa l'assenza delle femministe, il poràccio si crogiola nell'ignoranza soprattutto del proprio genere, mentre continua a lordarlo con la sua condotta irresponsabile, tipo dare a lei della "donna con le palle" perché bullizza la controfigura di Totò mentre tace contro suoi colleghi dittatori e genocidi.
Il poràccio è così: stron2o, e questa parola gli piace tanto.
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questouomono · 1 year ago
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Questo uomo no, #137 - Quello che parla dei libri che non ha letto per dimostrare di non sapere le cose di cui parla
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Mi scuso in anticipo per la parentesi molto personale, ma certe cose fanno davvero troppo ridere e credo sia giusto farne esempio utile a più persone possibile.
Di per sé il tipo di maschilista di cui parlo non sarebbe un soggetto nuovo, rappresenta l'ennesima versione di ignorante che merita un posto nella Armata delle Tenebre. Però in questo caso mi ha molto colpito che l'ignoranza venisse proprio da una categoria alla quale appartengo: quella di chi lavora in filosofia. In più (ignoranza al quadrato?) parlando di un libro che affronta argomenti di filosofia: il mio ultimo.
Il soggetto in questione - non importa il nome come non importa il titolo del mio libro, tanto è una scenetta che puntualmente si ripete a ogni libro che tratti di problemi di genere commentato da chi lavora con la filosofia - si produce su un social in un primo commento che già da solo, secondo la nota "Lewis' Law", giustifica l'esistenza del libro stesso:
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Ovviamente non mi sento colpevole affatto, visto che descrivo semplicemente chi sono secondo concetti assolutamente non colpevolizzanti - se li si conosce e li si sa usare. Non vorrei citarmi addosso di nuovo, ma qui si legge evidentemente una coda di paglia enorme, resa rogo fiammeggiante dalla maschia immagine di un Platone intento a prendermi a pugni. Almeno forse mi riterrebbe degno dei suoi colpi; uno che scrive usando i concetti in questo modo probabilmente a Platone farebbe tanto schifo da non volerlo toccare manco per menarlo.
Ma il meglio deve ancora venire: sollecitato da un suo "amico" sui social, il nostro lascia la prova che il libro di cui parla non l'ha letto, o se l'ha letto ha capito cose che non erano nel libro ma già nella sua testa:
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Basta anche solo leggere la quarta di copertina o le bandelle del mio libro per rendersi conto che lamento proprio (tra le altre cose) il fatto che i filosofi hanno sempre messo molto poco, nel loro lavoro, del loro corpo sessuato. In più, Butler praticamente non la cito manco per sbaglio; essendo una post-strutturalista, forse "costruttivista" come viene detto ma certo non fenomenologa come lo sono io, non "uso" in nessun modo il suo pensiero.
Poi vabbè, tutta la pomposa storiella su ideologia e religione rientra nella solita retorica ignorante "antigender" che come vedete è stata ben assimilata senza un briciolo di ricerca o di critica anche da chi ha una cattedra universitaria in filosofia (sì, il soggetto autore delle parole sopra riportate rientra in questa nobile categoria).
Ah, per chi se lo chiedesse: sì, il commento in cui si invoca la pistola (di altro "amico" suo di social) sarebbe da querela, ma già non ho tempo da perdere con gli ignoranti, figuriamoci con i loro amici.
Il problema non è essere d'accordo o no con quello che scrivo eh, figuriamoci. Intravedo un problema più grande nell'essere un cattedratico di filosofia e professare maschilismo ignorante senza neanche rendersene conto. Che è esattamente uno degli argomenti del mio ultimo libro.
Non posso che ringraziare pubblicamente l'autore di questa involontaria ma utile dimostrazione di quanto sostengo. Aggiungo che no, questo uomo no.
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questouomono · 2 years ago
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Questo uomo no, #136 - Quello che lui è l'erede di Giulio Cesare
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Impazza la solita inutile ipocrita polemica su un libro scritto da un generale dell'esercito e pieno delle opinioni più discriminanti che si possano immaginare. E non è difficile immaginarle, visto che buona parte dell'opinione pubblica italiana le condivide. Ovviamente "condannare" l'autore di questa autopubblicazione non serve a nulla; uno vale l'altro, e di gente che la pensa in questo modo è piena l'Italia. È molto più difficile, come diceva una nota condottiera di persone che non aveva bisogno di divisa, "chiamare le cose col loro nome".
Gli stralci del libro che i giornali fanno a gara a pubblicare non si soffermano molto a lungo nell'analisi, né il più delle volte hanno gli strumenti per farla - o il coraggio di portarla fino in fondo. Come sa bene chi lavora con le questioni di genere e le discriminazioni, l'uso violento che si fa nel libro della parola "normale" è uno degli strumenti discriminanti più noti, longevi ed efficaci: confondendo il normale con il generale (la cosa si tinge di un sinistro umorismo) i più confondono "quello che è giusto che accada" con "quello che accade più di frequente". Se lo fanno o meno in malafede è un loro problema morale, ma che questa confusione ancora regni sovrana nella pubblica opinione è un problema etico.
Prendiamo a esempio l'omosessualità. In natura le specie fanno, riguardo il genere, la qualunque: sono ormai accertate scientificamente omosessualità e transgenderismo in numerose specie; in più, per molte specie è del tutto naturale avere individui che cambiano genere durante la loro vita, anche più volte a seconda delle condizioni ambientali, come sono naturali ogni tipo di comportamento e organizzazione sociale, dalla monogamia a vita al branco indistinto nel sesso e nell'accudimento. Quindi, per quanto certamente comportamenti non generali, sono certamente naturali. Il fatto che alcuni di questi comportamenti non siano numericamente la maggioranza, in natura non conta nulla: alla natura interessa mantenere alto un tasso di diversità, quindi anche se certamente l'omosessualità (e, già che ci siamo, il transgenderismo) non è il comportamento di maggioranza, è una naturale costante presenza. Esattamente come accade nella specie umana.
La parola normale - dovrebbe bastare il vocabolario - significa invece che c'è una norma, una regola; e questa regola, com'è oramai scientificamente accertato, in natura non c'è. Nessuno nega che, per molte specie, l'eterosessualità è necessaria alla riproduzione della specie, e infatti rimane il comportamento della maggioranza; ma questa non è una regola, e soprattutto non elimina né discrimina gli altri casi riguardo il genere. In nessuna specie non umana è stato osservato accanimento di qualsiasi tipo contro gli individui non etero. Che esistano individui non eterosessuali, o che non siano interessati alla riproduzione, non ha finora mai compromesso l'esistenza di nessuna specie. Per quello che scientificamente sappiamo, le specie scompaiono per violente o coatte modificazioni dell'habitat naturale o perché altre specie (di solito quella umana) le sterminano per i loro motivi privati. Di norma in natura ce n'è una sola: preservare le diversità e farne sempre accadere un certo numero, non maggioritario ma necessario. Un po' come in quel comportamento sociale che si è inventato la specie umana e che ha chiamato democrazia.
Socialmente le norme, le regole che descrivono cosa è normale e cosa non lo è, sono invenzioni del tutto umane che cambiano molto frequentemente, come qualsiasi storico o sociologo non in malafede può confermare. Non sono affatto naturali ma sociali: vengono usate dalle organizzazioni umane, grandi e piccole, per mantenersi nel tempo. Il normale è quindi ciò che serve a preservare nel tempo un certo gruppo sociale in una posizione di potere, o quantomeno rilevante e identitaria; ignorando, più o meno consapevolmente, che la normalità cambia continuamente proprio per adeguarsi ai continui cambiamenti sociali, e che il perenne atteggiamento nostalgico di valori e mondi che realmente non sono mai esistiti è il sintomo di una completa inadeguatezza - eufemismo per ignoranza - di sé e dell'idea del mondo che si ha.
Chi pensa, com'è scritto in quel libro autoprodotto di cui in questi giorni si parla tanto, che il comportamento non etero (un esempio tra i tanti) sia non normale, mostra diverse cose: 1) ignoranza di fronte a come funziona la natura, compresa la specie umana; 2) ignoranza dei comportamenti sociali più efficaci che, in natura come nelle situazioni non naturali costruite dall'uomo, prescrivono sempre la salvaguardia delle diversità e delle differenze; 3) una sostanziale debolezza ideologica di fondo, nel sentirsi attaccati dalla presenza di queste minoritarie diversità che, pur avendo gli stessi diritti di qualsiasi altro gruppo sociale, non sono una minaccia né per la specie né per le istituzioni artificiali create dalla specie umana; 4) una profonda debolezza personale, nel creare la figura immaginaria di "eroe" di valori del passato con illustri predecessori, fingendo o non rendendosi conto che: 4a) non c'è nessun eroismo nell'appartenere alla maggioranza delle persone etero, e in più in una posizione sociale di grande rilevanza e potere; 4b) non c'è nessun eroismo nel professare "valori" antiscientifici, antistorici e antisociali come quelli descritti e sostenuti nel libro autoprodotto di cui si parla tanto; 4c) quelli di cui si parla sono "valori" che la società ha rigettato innumerevoli volte nella sua storia, essendo appartenuti periodicamente a ideologie genericamente appellabili come autoritarie (dai vari colori, dal nero al rosso al verde all'arancione) e che hanno tutte perso irrimediabilmente le loro guerre - visto che parliamo di un autore di libro che ha un altissimo grado militare - e i cui attuali esponenti politici devono continuamente fare acrobazie per non farsi rinfacciare l'adesione a quei valori - visto che un ministro di destra è stato costretto a destituire l'autore di questo libro autoprodotto e a dissociarsene pubblicamente.
Queste debolezze, queste opinioni fragili come la maschilità che le produce, sono alla base di quella imbarazzante credenza che caratterizza le persone più ignoranti e impaurite (se non in malafede) di fronte alle questioni di genere sollevate da soggettività che reclamano i loro sacrosanti diritti umani: la dittatura delle minoranze. Un ridicolo ossimoro che è la giusta sintesi di secoli di varie ideologie di gruppi politicamente o ideologicamente conservatori o reazionari, che per giustificarsi hanno sempre bisogno di raccontarsi sotto attacco di qualcosa, di instillare paure invece di diffondere consapevolezze.
In più, visto che sono soprattutto le persone più convinte di questi "valori" sostanzialmente disumani a sostenersi con serietà, è quasi inevitabile che personaggi come l'autore di questo libro autoprodotto si coprano di ridicolo: l'autore si professa infatti, tra le altre cose, erede di un Giulio Cesare che, oltre a scrivere molto meglio di lui, oltre a essere militarmente decisamente più preparato ed esperto di lui, sessualmente tutto era tranne che quello che oggi intendiamo - e l'autore del libro autoprodotto intende - con "uomo etero". Giulio Cesare probabilmente, di un uomo che professa queste opinioni deboli e ignoranti ne riderebbe di gusto, anche perché saprebbe che al rango di generale, nel suo mondo, non arriverebbe mai. Noi invece, suoi contemporanei, ce ne preoccupiamo, perché a quel rango ci è arrivato ed è ben spalleggiato da molte altre persone. Cosa che è sintomo di altri fenomeni sociali molto preoccupanti.
Questo uomo no.
P.S. per chi volesse una bibliografia in merito, può cominciare da questa. Buone letture.
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questouomono · 2 years ago
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Questo uomo no, #135 - Quello che lui vuole fare l’eroe
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Ricordo ancora i giorni seguenti alla sentenza del caso tra Johnny Depp e Amber Heard. Ingolfati dalla solita retorica scorretta e ignorante sul processo, la vittoria di Depp fu salutata da molti uomini come “la fine del #metoo”, ai quali si aggiunsero le solite voci sedicenti coraggiose di “attivisti per i diritti degli uomini”, “padri separati” e altre creature fantastiche, tutte vittime a miliardi delle ingiuste accuse di spietate donne disumane. L’esercito delle femmine accusatrici di falsità era stato definitivamente sconfitto, dicevano tutti, dal meno visibile al giornalistone più leggibile. Com’era, com’era… ah sì: “è finita la pacchia!”. Adesso che è stato un uomo, Massimo Guastini, a denunciare lo schifo di una delle migliaia e migliaia di ambienti chiusi nei quali milioni di uomini, ovunque nel pianeta, fanno sessismo esplicito e convinto sui corpi delle colleghe di lavoro, che è successo, cari uomini sofferenti di denunce false? Il #metoo è riapparso, miracolato, zombie? O forse, tra le balle che vi raccontate, c’è stata pure quella della sua fine? Perché tra gli aspetti più schifosi della vicenda - che sia chiaro, l’ennesima di una lunghissima storia, niente in sé di sorprendente né di nuovo - c’è che tutta l’importanza mediatica che sta suscitando è evidentemente dovuta al fatto che quella solita retorica vigliacca che si abbatte su qualsiasi espressione del #metoo, qui non può funzionare. Non si può dire che Massimo Guastini è la solita attricetta che cerca notorietà. Non si può dire che Massimo Guastini è una ex avida che vuole solo soldi. Non si può dire che Massimo Guastini è una femminista isterica che odia gli uomini. Non si può dire Massimo Guastini è una povera scema che non capisce le battute. Non si può dire che Massimo Guastini è una donnetta ingenua che non sa che questa roba si fa dalle scuole medie. Non si può dire che Massimo Guastini è una lesbica fanatica che fa un sesso insoddisfacente. Non si può dire che Massimo Guastini è una racchia che incolpa tutti gli uomini delle sue frustrazioni. Si diranno le solite cose che si dicono a quegli uomini - ancora troppo pochi, purtroppo - che hanno scelto di assumersi la responsabilità sociale di dare all’immagine maschile qualcosa di più del tono marrone che da secoli gli spalma addosso il sistema patriarcale. Diranno che è un traditore, un infame, perché ha violato uno spazio privato, segreto. Segreto di Pulcinella, ma tanto se lo denunciano le donne nessuno crede loro. Diranno che c’è dietro un interesse lavorativo, economico, così adesso avrà tanto lavoro da questa pubblicità “woke”, “politically correct” che si è fatto. E sì che Massimo Guastini ne aveva proprio bisogno di lavorare, poverino. Diranno che è una vendetta personale vai a sapere perché. Certo, non c’era modo migliore in cui Massimo Guastini si poteva vendicare: bruciarsi un ambiente di lavoro e prendersi carriolate di melma per settimane. Quello che non diranno è la semplice verità: che Massimo Guastini si è rotto le palle di venire messo alla pari di gente che non si rende conto della sua disumanità, e che con quella disumanità rovina la vita a donne che hanno tutto il diritto di viversela come pare a loro; che Massimo Guastini ha solo fatto quello che chi assiste a un abuso dovrebbe fare, cioè chiamarlo col suo nome; che Massimo Guastini è tra i pochi che sta dando l’occasione a una società intera di interrogarsi sui suoi distorti rapporti tra generi e di come queste distorsioni siano nocive anche nel mondo del lavoro; che a Massimo Guastini tutto andava di fare nella vita tranne che dover sembrare un eroe per colpa della merda altrui. Perché questo succede a violare apertamente e pubblicamente lo schifoso doppio standard di giudizio sociale tra gli uomini etero e qualsiasi altro genere: sembri un eroe, e invece sei solo una persona civile. Beh, che dire. Non tutti gli eroi indossano un mantello svolazzante; speriamo che almeno questi “eroi” qui abbiano gli stivali di gomma. Gli stronzi invece, uh, ce l’hanno proprio scritto in fronte, e se ne vantano pure. Questi uomini no.
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questouomono · 2 years ago
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Questo uomo no, #134 - Quello che ma quale privilegio maschile
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Di seguito una piccola guida per inespert o per stronz (o per entrambe le possibilità) che non hanno capito in cosa consiste il privilegio sociale maschile etero cisgender. Per non creare troppe difficoltà filologiche, dico che è roba codificata sostanzialmente da qualche secolo ma per comodità la prendo da un saggio del 1989 di Peggy McIntosh, disponibile in originale qui. Ovvio che qualcuno di questi privilegi sia anche di chi non è maschio bianco cisgender, ma tutti contemporaneamente lo sono solo nostri - eh, lo sono anche io. Almeno non faccio finta che non esistano.
Perché in quanto uomo sono un privilegiato? Che vantaggi ho nei confronti di una donna per solo fatto di essere un uomo etero cisgender?
1) posso essere abbastanza sicuro che quando cammino per strada nessuno mi urlerà cose contro il mio corpo o mi dirà cosa vuole farmi sessualmente 2) i miei antenati, compreso mio padre, hanno avuto più opportunità di progredire economicamente rispetto alle mie antenate, compresa mia madre 3) quando imparo a conoscere i movimenti per i diritti civili, la maggior parte dei leader di cui vengo a conoscenza sono uomini 4) se scelgo di non avere figli, nessuno metterà in dubbio la mia mascolinità 5) nessuno penserà che sono egoista se ho figli e una carriera 6) fin dalla scuola, gli sport praticati dai ragazzi sono stati oggetto di maggiore attenzione rispetto a quelli praticati dalle ragazze 7) al lavoro, posso essere abbastanza sicuro di non subire molestie sessuali 8) se faccio sesso con molte donne, è improbabile che mi chiamino "imbecille", "volgare", “put*” o un qualsiasi altro sinonimo disponibile nella lingua e nei dialetti 9) non mi si chiederà di manifestare apertamente la celebrazione della verginità fino al matrimonio 10) posso essere abbastanza sicuro che quando parlo in gruppo o in pubblico, la gente ascolterà quello che dico e crederà che io sappia di cosa sto parlando 11) ho ottenuto un lavoro, un colloquio di lavoro, una formazione o uno stage grazie a contatti personali con uomini 12) posso essere ragionevolmente certo che nelle mie relazioni intime e nella vita di tutti i giorni è improbabile che io sia vittima di violenza domestica o sessuale 13) mi sento generalmente al sicuro quando cammino da solo verso la mia auto di notte, quando faccio escursioni da solo nei boschi o in montagna, o quando cammino sulla spiaggia 14) posso accendere la TV o aprire il giornale e aspettarmi di vedere rappresentate persone del mio sesso, compresi leader politici e aziendali, atleti di spicco, star del cinema ed esperti; i miei rappresentanti eletti sono per lo più persone del mio stesso sesso 15) quando mi sottopongo a procedure mediche, assumo farmaci prescritti o ricevo altri trattamenti sanitari, posso presumere che siano stati testati e dimostrati sicuri su persone del mio stesso sesso 16) ho sentito uomini sminuire le capacità delle donne, la scrittura o la musica delle donne, l'intelligenza o la forza fisica delle donne, o fare altri commenti sull'inferiorità delle donne rispetto agli uomini - specialmente se non ci sono donne nella stanza quando lo dicono 17) so che, se voglio, posso facilmente pagare per fare sesso con le donne o per vederle ballare senza vestiti 18) ho facile accesso a immagini di donne sessualmente esplicite su Internet e in libri e film - anche immagini non consensualmente condivise 19) posso presumere che farò meno le pulizie di casa, la cucina, la cura dei bambini, il bucato o altre attività di cura rispetto alle donne della mia famiglia 20) posso vestirmi come voglio senza che le persone pensino che io voglia fare sesso con loro 21) quando faccio sesso non devo preoccuparmi di una gravidanza se non ne ho voglia 22) non ho bisogno di pensare al sessismo ogni giorno - ho il privilegio di non dover pensare al mio privilegio Lista di 35 anni fa. Potete aggiornarla, sarà un passatempo interessante - è stato già fatto molte volte, ma non voglio togliervi il piacere.
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questouomono · 2 years ago
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Questo uomo no, #133 - Quello che ha studiato tanto per poi dare la colpa alla mamma
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Immagino che in molt* avrete letto l’articolo di un noto psicoesperto a proposito del femminicidio di Martina Scialdone. Se non l’avete fatto, preparate il gastroprotettore o l’antiemetico e leggetelo pure qui.
Se il titolo vi sembra ambiguo, il cappello introduttivo - scritto evidentemente dalla redazione e non dall’autore - è perlomeno chiaro. Purtroppo già nel primo paragrafo troviamo un grave problema di comprensione del fenomeno:
È sempre così quando si parla di femminicidio. L’uccisore colloca sulle spalle della vittima tutto ciò che vi è di irrisolto nella propria esistenza, dagli eventi come quelli elencati alle falle che si aprono già all’alba dei tempi, nel contatto con la famiglia d’origine, quando prendono corpo le linee di indirizzo della personalità.
Chiunque abbia un minimo di pratica con le dinamiche di violenza sulle donne e di femminicidi non può non rilevare tre gravi inesattezze già in questa prima frase. 1) Nulla è “sempre così” quando si tratta di femminicidio: non esiste alcuna regola certa, né alcuna costante, a parte la vittima, altrimenti non sarebbe quel grave problema sociale che è e lo si sarebbe risolto da tempo 2) molti femminicidi sono stati commessi da uomini che non avevano nulla “di irrisolto nella propria esistenza”, anzi erano colti ricchi benestanti e del tutto soddisfatti della loro vita - il problema semmai era la vita di chi era loro accanto 3) le “linee di indirizzo della personalità” non dipendono affatto solo da “la famiglia d’origine”, come ben sanno non solo tanti psicoespertə davvero espertə, ma anche tantə natə e cresciutə senza famiglia eppure senza alcun problema di “personalità”.
Se già non bastassero queste gravi inesattezze, il nostro psicoesperto passa subito a mettere nel mirino il colpevole di ogni femminicidio - evidentemente è sempre lui il colpevole, perché ha detto prima che “è sempre così quando si parla di femminicidio”, e cioè “un bambino viziato”:
Gli ex bambini viziati rappresentano un pericolo costante per le donne e per le relazioni in genere, poiché negli anni della formazione dello stile di vita sono stati indotti a sentirsi il centro del mondo, così diverranno pessimi cooperatori, ragione per la quale tutto ciò che riguarda la loro vita sociale tenderà a funzionare in modo distorto.
Se questa opinione sui vizi dell’infanzia può essere largamente condivisa tra le chiacchiere alla “signora mia dove andremo a finire”, in bocca a uno psicoesperto chiamato da un grande network televisivo a esprimere una opinione su un grave fenomeno sociale suscita quantomeno inquietudine, e una solenne inca22atura in chi davvero esperto di queste cose lo è. 
Prima di tutto non esiste alcuna categoria scientifica né demografica chiamata “ex bambini viziati”: ma cosa vuol dire? Il “vizio” cui abituare un bambino cambia enormemente a seconda del livello economico, culturale, sociale dell’ambiente nel quale cresce. Come riconosco un “vizio”, e come un “viziato”? Quello che per uno può essere vizio, per un altro è necessità, o semplice normalità. Poi “sentirsi il centro del mondo” è un’altra indicazione vaga e ambigua: il più amato dei bambini può tranquillamente sentirsi il centro del mondo senza essere viziato. Stiamo forse parlando di un problema di autostima, di educazione al rispetto di sé? Ma queste parole nell’articolo non ci sono. Perché un esperto usa termini vaghi e non li spiega? Forse perché non ha idea del fenomeno sociale di cui sta parlando, e quindi prende la spiegazione che preferisce e la usa come il grigio, che va bene su tutto? 
Poi parte un paragone senza capo né coda con il mondo aziendale:
Quando un ex bambino viziato si trova a capo di una qualche organizzazione lavorativa o di altro genere, quei tappeti rossi li pretende, caricando sui sottoposti, soprattutto su quelli meno disposti a iscriversi al programma di beatificazione quotidiana, gravami supplementari, come se il lavoro non fosse già abbastanza afflittivo.
In che senso il paragone sta in piedi? Non mi pare che i tanti “ex bambini viziati” che lo psicoesperto dice di aver incontrato a capo di aziende e organizzazioni abbiano ucciso dipendenti e sottopostə che non corrispondevano ai suoi desideri e alle sue aspettative. Invece i femminicidi ammazzano le donne che non corrispondono alla loro idea di donna. Forse per lo psicoesperto la differenza non conta, ma ho la presunzione di credere che per chi teme di venir ammazzata invece la differenza sia importante. E vorrebbe leggere qualcosa in proposito, invece di paragoni insulsi.
Purtroppo, per una sorta di perversa complementarità, nella vita sentimentale gli ex bambini viziati trovano spesso udienza presso ex bambine che si percepirono poco considerate, altro fenomeno esteso, poiché in famiglia, soprattutto quando ci sono fratelli maschi, un chilometro è più lungo da percorrere per le femmine.
Oh, finalmente una cosa sensata - peccato che serva da premessa per una classica mostruosità:
Quando un simile incastro si realizza tra un uomo e una donna, può funzionare nel tempo solo se le parti in commedia vengono rispettate, ossia se la donna accetta di perpetuare stato di fatto.
E te pareva che non era colpa di lei! Perché ovviamente lei “accetta di perpetuare lo stato di fatto” proprio così: “ciao sono un ex bambino viziato che vuole comandarti a bacchetta ed essere accontentato in tutto, sennò ti ammazzo, accetti?” “Sì, visto che sono una ex bambina poco considerata”.
Attenzione perché lo psicodribbling il nostro esperto lo mette in atto anche dopo: prima finge di andare nella direzione giusta (”creature femminili” è da brivido, ma non c’è bisogno di andare per il sottile di fronte a tanta roba come questa):
La terribile fine della giovane Saman Abbas, così come quella di Martina Scialdone nonché di mille e mille altre creature femminili, si spiegano all’interno di questa barbara logica, che ritiene scontata l’inferiorità della donna e il conseguente diritto di possesso da parte del maschio. Ma il femminicidio è solo la quota più evidente, perché tragica, di una questione assai più vasta, avvelenata da un rovesciamento di valori arbitrariamente deciso dai maschi, con la complicità dei loro educatori.
Poi scarta nella consueta direzione maschilista, andando in gol: indovinate chi sono “i loro educatori”?
quelle mamme che continuano imperterrite a fare da complici alla parte sbagliata, contribuendo a renderla sempre più immatura e tossica.
Quindi prima è lei che accetta di accoppiarsi con l’ex bambino viziato, ma prima ancora è la mamma dell’ex bambino viziato a essere complice del futuro femminicida.
Il link all’articolo è lì, potete rileggerlo. Avete letto un accenno al ruolo dei padri? Avete letto un richiamo al ruolo di responsabilità che il genere maschile dovrebbe assumere nei confronti di una società che ancora produce modelli maschili “viziati”? Avete letto un minimo accenno al ruolo di altri agenti educativi importantissimi, come la scuola, i media, i giochi, le organizzazioni sportive e ricreative, la rete di assistenza pubblica a giovani in situazioni critiche, emarginatə, abbandonatə?
No, non l’avete trovato. E questo lo ha scritto uno di quelli bravi eh. Figuratevi gli altri. Questo uomo no.
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questouomono · 2 years ago
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Questo uomo no, #132 - Quello che non riconosce un ca22o neanche quando glielo mettono davanti
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Finalmente nessunə parla più della vicenda Tate-Thunberg, e quindi possiamo tornarci per mettere qualche punto più sicuro e solido del polverone di chiacchiere alzato in quell’occasione.
La maggior parte degli uomini e delle donne sanno riconoscere una “dick pic” solamente se c’è mostrato un pene. Quando si tratta dell’aspetto simbolico, del famoso dicorso fallocentrico, “fallogos” diceva qualcunə, all’improvviso quel pene pare diventare invisibile. Eppure c’è, è lì in bella mostra; ed è un peccato che soprattutto molti uomini non lo sappiano vedere, perché è quello che condiziona le loro vite. Chi soffre per la simbologia machista delle dimensioni del pene dovrebbe prendersela con persone come Tate, non con persone come Thunberg. Questo uomo no.
Non si tratta affatto, come moltə superficiali hanno detto, dello stereotipo “macchinone che compensa il pene piccolo” ma di chiamare le cose col loro nome, che come diceva Rosa Luxemburg è il primo atto rivoluzionario. La risposta di Thunberg non alimenta le ansie (personali o sociali) legate alle dimensioni del pene o alle disfunzioni erettili, ma ne indica chiaramente le cause: la cultura machista di gente come Tate causa quell’ansia e veicola quella violenza sui corpi maschili, non l’ambientalismo o il femminismo. Thunberg ha nominato quello che ha visto. Perché tanti e tante non lo hanno visto?
Non esistono espressioni sempre e assolutamente sessiste o sempre e assolutamente discriminanti, altrimenti dovremmo impedirci di usare tantissime espressioni del linguaggio confidenziale e intimo, autorizzando forme di censura - anzi, censurandoci da solə. Una espressione è sessista, fa body shaming, quando usa il potere sessista o il potere discriminante del body shaming. Tate ha fatto sessismo e body shaming parlando delle sue auto, cioè del suo potere maschile datogli dal denaro e dai suoi simboli, per farsi beffe di una donna più giovane e molto meno ricca e dei suoi discorsi sociali. Thunberg ha risposto nominando il potere che Tate stava usando, e dicendogli che su di lei era inefficace. Poi ne ha dichiarato l’assoluta miseria, raccomandandogli di “farsi una vita”. Espressione che, per certi versi, è ben più violenta di qualsiasi discriminazione - eppure, non ha scandalizzato nessunə.
Non sto certo dicendo che è sempre lecito rispondere con le stesse armi, ma che le stesse armi non hanno lo stesso significato se a usarle è chi opprime o chi resiste. Lo strumento può essere lo stesso, ma il potere - quindi il significato del gesto o dell’espressione - non è affatto lo stesso. Discutere sul significato dell’espressione, sul suo etimo, dell’uso più o meno letterale, e mai del potere che veicola o del posizionamento che ha espresso, significa essere ignoranti dei più elementari meccanismi sessisti e discriminanti.
Ignoranza che - anche questa - va chiamata così, perché questo è il suo nome: se sei un uomo che, di fronte allo scambio comunicativo tra Tate e Thunberg, se la prende con lei parlando di sessismo e body shaming, significa che tu hai un’idea del tutto sbagliata di cosa siano sessismo e body shaming - oppure non ne hai alcuna idea proprio. Nessunə è obbligatə a saperne qualcosa, ma se ti si fa notare che non ne sai, stacce.
A proposito di ignoranza: un’altra lacuna che mi è apparsa subito notevole soprattutto da parte di tantə psicoespertə che hanno commentato la faccenda è quella relativa alla condizione di Thunberg. Il suo essere autistica avrebbe dovuto suggerire che è una persona che non usa le parole come le persone neurotipiche, né le percepisce allo stesso modo. Il suo rapporto con l’ipocrisia, con la menzogna, con l’umorismo, con la popolarità sono del tutto particolari, e invece non se n’è fatto menzione. Tuttə lì a commentare il suo uso del “dick”, pochissimə a parlare di quello di Tate. Eppure era già lì ben visibile prima che Thunberg lo nominasse. Questo uomo no.
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questouomono · 3 years ago
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Questo uomo no, #131 - Quello che come femministə dovremmo essere contentə comunque
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Una persona su Twitter ha scritto una cosa più o meno uguale a questa:
Sarebbe stato bello - pur nella differenza di opinioni politiche - vedere più persone rallegrarsi per il primo presidente del consiglio donna. Con Giorgia Meloni nasce anche il femminismo a corrente alternata.
e non contento di ricevere sonore pernacchie in risposta, ha anche replicato stizzito, poco tempo dopo, che
Quindi mi pare di capire che il femminismo, a queste latitudini, non consista nel battersi per la parità dei diritti, ma per la parità dei diritti di chi condivide il pensiero femminista.
immaginando, suppongo, di dire una cosa molto intellettualmente stimolante come la precedente.
Come al solito, non importa affatto chi sia ad aver scritto questa roba; importa che sia un pensiero largamente condiviso tanto da essere tranquillamente scritto su un social network da chi in vita sua non s’è mai occupato di femminismi, questioni di genere, parità - ma si sente comunque autorizzato a dire queste cose. Pensiero ripetuto in parole diverse molto spesso, quindi vediamo di capire perché sono del tutto sbagliate.
“il primo presidente del consiglio donna”
Casomai “la presidente” - se proprio vorresti vedere più persone rallegrarsene, almeno nominala correttamente. Ma vabbè. Questo pensiero è: non importa cosa pensa o di quale pensiero politico si fa portatrice, bisognerebbe rallegrarsi della sua nomina a prescindere, perché è la prima donna in quella carica pubblica. A me questa felicità per la “prima volta” di qualcosa in assoluto mi ricorda quel dubbio primato/disvalore molto patriarcale che è “la prima volta”: perché celebrare di ogni cosa “la prima volta”, a prescindere da tutto il resto? È un valore di per sé? Non si capisce. Nel 2022 dovremmo essere abbastanza maturə da sapere che non basta essere primə per avere raggiunto realmente qualcosa. Il perché è spiegato ampiamente dall’ultima parte del primo tweet: 
nasce anche il femminismo a corrente alternata.
Meloni sarebbe il primo caso (anche qui) nel quale il femminismo si contraddice, perché ora che una donna è arrivata al massimo grado del potere politico esecutivo si sarebbe realizzato uno degli obiettivi femministi, e invece tantə femministə si lamentano.
Chi si è datə la briga almeno una volta in vita sua non dico di studiare, ma perlomeno informarsi sommariamente sui femminismi, saprebbe benissimo due cose: 1) i femminismi sono tanti e molti sono inconciliabili, quindi il femminismo nella sua complessità è pieno di contraddizioni, come nei secoli si sono sempre contraddette altre filosofie e pratiche di vita, e di questa diversità fa una ricchezza, gestendo i conflitti teorici e pragmatici; 2) nessun femminismo ha mai sostenuto che basta essere donna per essere espressione di un potere politico non patriarcale, di donne maschiliste patriarcali e sessiste ne è piena la storia e la contemporaneità.
Quindi non si capisce perché - se non perché lo dice una persona profondamente ignorante di cosa siano i femminismi - si dovrebbe essere allegri per una “prima volta” come questa. Probabilmente si tratta della stessa pretesa “felicità” espressa da altre persone in maniera più precisa e sottile - anche questa maniera letta in diversi modi sui social network - sostenendo che
si care amiche, il tetto di cristallo lo ha sfondato lei! Non  è una opinione, è un fatto. Ci piaccia o no.
Purtroppo “soffitto di cristallo” (non “tetto”, ma vabbè) è una espressione tecnica ben precisa che definisce un ostacolo sociale ai vertici di ogni organizzazione piramidale di potere (partito, azienda privata o pubblica, apparato statale) invisibile ma efficace nel fermare le donne in posizioni lontane da quel vertice. Non viene infranto da una sola donna che arriva in cima; e c’è da dubitare che una donna che pubblica senza consenso materiale video sullo stupro di un’altra donna e che si fa fotografare - immaginando di essere spiritosa - con due meloni davanti ai seni, sia effettivamente intenzionata a ridurre quel soffitto in pezzi. Una effettiva modifica degli strumenti culturali e politici di organizzazione del potere permetterebbe a tutte le donne di arrivare ai vertici di quelle strutture di potere - quello sì che sarebbe sfondare il “soffitto di cristallo” - ma mi pare che siamo ben lontani dal vederlo accadere. Anche perché - come detto sopra - Meloni sarà la prima in Italia, ma nel mondo no. E laddove è già successo da un pezzo un evento simile alla sua elezione, non mi pare che i problemi di parità di genere nei ruoli di potere si siano risolti. Spiace ma, a proposito di fatti che piacciano o no, l’unico fatto è che c’è poco da stare allegri. Quel soffitto è ancora lì, solido come prima.
Tornando al nostro stizzito su Twitter, l’acidità della sua seconda battuta,
la parità dei diritti di chi condivide il pensiero femminista
implica un’altra ignoranza: l’elezione di Meloni e la sua eventuale nomina a Presidente del Consiglio non dice nulla sui diritti - quelli già c’erano, sono scritti nella Costituzione. Che sia la “prima volta” è un fatto culturale e non di diritto, perché il diritto a esserci una Presidente del Consiglio esiste da quando è in vigore la Costituzione. In realtà, quella frase nasconde un’amara quanto precisa verità: se non condividi - perché le conosci o perché ne hai fatto pratica, o entrambe le cose - le basi del pensiero dei femminismi, è chiaro che tu ne dica solo cretinate, a tutte le latitudini. Ed è chiaro che proprio a causa di questa ignoranza si scambi un’analisi precisa che esprime insoddisfazione politica per una contraddizione ideologica. 
“De te fabula narratur”, carə ingnorantonə di contraddizioni e di soffitti.
Personalmente non mi cambia nulla che ci sia una donna al vertice del potere politico esecutivo, se le sue idee politiche sono quelle di Meloni. Non sarei più allegro neanche per l’elezione di una persona femminista al vertice del potere politico esecutivo; lo sarei per una diffusa consapevolezza femminista in milioni di cittadinə capaci di fare molte scelte femministe nelle loro vite, e non solo nella cabina elettorale. La prima cosa forse causerebbe la seconda - la seconda sicuramente causerebbe la prima e molte altre cose di cui essere allegrə.
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questouomono · 3 years ago
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Questo uomo no, #130 - Deconstructing un altro libro scəmo
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Come avevo detto a proposito  del  primo  libro  scəmo,  non ce la faccio a tacere su quest’altro. I due sono legati apparentemente solo per scelta dell’autore del secondo, che cita il primo, ma in realtà per la paurosa inconsistenza delle argomentazioni di entrambi, come vedremo più avanti. In effetti è di questo che a me urge parlare, chi lo ha scritto non ha la minima importanza - nel senso che di attacchi personali non so che farmene quando li ricevo, figuriamoci se perdo tempo a farli. Non citerò il nome dell’autore, è irrilevante anche se non andrebbe dimenticato. Però parliamo non, come nel primo caso, di un testo espresso fatto male e redatto peggio, ma di un saggio per Einaudi uscito in una collana piena di testi fantastici e interessantissimi. Ci vedo un grado superiore di gravità, considerato anche che persone che stimo lo hanno recensito non dico bene, ma sicuramente senza rilevarne le assurdità. Veniamo al dunque, e parliamo più specificatamente delle cose molto discutibili scritte in Così non schwa, Einaudi, 2022.
I problemi cominciano già nell’introduzione (pp.3-11). L’idea di un linguaggio inclusivo è presentata come “seducente”, ma ci viene detto in fondo a p.3 che “il problema è: con quali strumenti? attraverso quale percorso? per mano di chi? E soprattutto: a quale prezzo?”. Chiunque faccia della formazione sul linguaggio inclusivo (come ad esempio il sottoscritto) sa rispondere tranquillamente a tutt’e quattro le domande senza provocare scandalo alcuno - c’è un’abbondante letteratura in merito. Il vero problema è che nel testo si identifica la questione “linguaggio inclusivo” con la questione “schwa”, e quindi nel libro non risponderà a nessuna delle quattro domande, perché parlerà solo dello schwa e praticamente mai del linguaggio inclusivo. Anzi, di una supposta equazione che li rende la stessa cosa, che è un vero e proprio grave fraintendimento, farà uno dei perni della sua argomentazione. A p.4 c’è un’altra confusione, che sarà un altro dei leitmotiv del libro: leggiamo che “le lingue sono organismi vitali che rispondono a bisogni pratici più che etici”. Ora, sarà che vengo da studi di filosofia, ma per me l’etica è una cosa del tutto pratica. Quindi “pratico più che etico” è una espressione che non ha senso; ma si chiarirà più avanti dov’è l’errore di fondo. Tanto la frase successiva è ancora peggiore: “[le lingue] devono garantire una comunicazione fluida ed efficace prima di farsi veicolo di istanze simboliche e identitarie”. Ora, per quello che mi risulta da alcuni manuali di linguistica - che tra l’altro più avanti saranno anche citati - e dalla mia preparazione in filosofia del linguaggio, è impossibile che usare la lingua non comporti anche (né prima né dopo) istanze identitarie e simboliche. La lingua che usiamo, in qualsiasi uso, dice anche chi siamo e a quale simbolico ci riferiamo. È un’acquisizione di base di praticamente qualsiasi teoria linguistica sensata: nell’usare una lingua noi diciamo anche chi siamo e come vediamo il mondo. Perché spingersi nell’introduzione ad affermare una cosa così forte, che la lingua prima deve avere un valore strumentale di efficacia e “fluidità” (non meglio definita) e dopo, in minore importanza, deve servire a dire chi siamo? Anche questo si capirà più avanti, ma sarebbe stato opportuno giustificare quella che non è affatto una pacifica acquisizione.
Intanto a p.5 si chiarisce in parte un fraintendimento precedente, peggiorandone il senso: “le buone pratiche, ove fondate su un nemmeno troppo implicito ricatto morale, rischiano di convertirsi in cattive regole”. Ah, ecco, si trattava di morale e non di etica - due cose molto diverse e che non sono affatto sinonime. In che consisterebbe questo “ricatto morale” individuato? Ci viene spiegato - o almeno si prova a farlo - a p.6, una pagina quasi interamente presa da un’unica frase di 21 righe. Meno male che era importante la “fluidità” della lingua.  Da “nondimeno il libro...” a “...i loro presupposti” sono anticipate in sintesi le ipotesi e le tesi del testo, tutte basate su fondamentali errori (cito in questo elenco tutte parole del testo):
(1) esiste una ampia fetta di individui che si riconoscono in valori progressisti che nei loro comportamenti sono certamente inclusivi - peccato che queste definizioni siano autoattribuite senza la minima spiegazione;
(2) questa fetta aborre l’ipocrisia pelosa di chi non vuole né il linguaggio inclusivo né i diritti per chi lo reclama - peccato che non ci verrà detto come viene svolta questa pratica di aborrire;
(3) questa fetta però è affezionata a una idea democratica di lingua - ma non ci verrà detto perché e percome altre idee non sono democratiche;
(4) questa fetta quindi ritiene sproporzionata e fuori fuoco l’attenzione data “al linguaggio” (il testo dice così, non alla lingua) come principale luogo di conflitto e rivendicazioni - peccato che non verrà detto sulla base di cosa;
(5) questa fetta è stufa di sentirsi definire gruppo conservatore e privilegiato - peccato che finora si sia descritto esattamente così proprio in questa lunghissima frase, e continuerà a farlo lungo il testo;
(6) ed è stufa di sentirsi definire così “per il solo fatto” di ritenere le soluzioni proposte sbagliate e pretestuose le ragioni di quelle soluzioni - senza spiegare perché questo “solo fatto” non sarebbe bastevole.
Se avete avuto l’impressione che la voce in questo testo che vorrebbe parlare dello schwa forse non ha capito alcune cose fondamentali sullo schwa e sulla questione sociale che c’è dietro, l’impressione vi sarà confermata a p.7, dove si dimostra che il libro ha esso delle intenzioni del tutto “fuori fuoco”: si dice che “le disuguaglianze risiedono essenzialmente nelle cose: nei diritti negati, nelle discriminazioni, nel gender gap, nella cronica mancanza di donne in posizioni apicali, nel sessismo quotidiano. La lingua è, il più delle volte, un sintomo”.
Quindi abbiamo un testo che vuole sostenere ancora (nel 2022) che la lingua (o il linguaggio? Nella pagina precedente si diceva così, altra sinonimia errata?) non è una delle “cose” che provoca disuguaglianza, al massimo è un sintomo. Infatti, poche righe dopo si dice chiaramente le azioni sui sintomi “non rimuovono la patologia”. È a questo punto già evidente che il testo manca del tutto la comprensione della questione relativa alla proposta dello schwa: rimuovere la patologia sociale della mancata presenza e rappresentazione nella lingua di un gruppo di parlanti che non si identifica nei generi femminile e maschile. Questo è un problema sociale, non linguistico; questa è una patologia sociale, non un sintomo; e sono cose chiare da decenni, c’è una vasta letteratura. Quella “fetta di individui” descritta prima non lo sa? Forse è a causa di questa ignoranza che le si dice di essere conservatrice e privilegiata.
Il seguito dell’introduzione dimostra che si tratta proprio di una particolare forma di ignoranza. Nelle pp.8 e 9 viene descritta “una battaglia” tra “i si-schwa” e “i no-schwa” che raccoglie esattamente tutto quello che il gruppo di studiosi e studiose che parla sensatamente dello schwa tenta da anni di evitare: l’appiattire il discorso sul linguaggio inclusivo allo schwa, e il replicare con contributi del tutto inutili a questo appiattimento - che in realtà nessuno vuole imporre, al contrario di come viene descritto in questo testo. La completa miscomprensione della questione è testimoniata dal testo nel modo in cui si conclude l’Introduzione, a p.11: si dovrebbe spiegare a chi non fa parte di questo dibattito (”l’amplissima maggioranza del Paese”) che “la vera posta in gioco” secondo questo libro è “la pretesa di far combaciare il codice linguistico con quello etico, l’idea che la lingua debba essere al servizio delle identità”, “la centralità stessa, nel discorso pubblico, dell’elemento identitario, proposto come paradigma morale assoluto”. Pensare che la questione dello schwa riguardi queste emerite cretinate appena elencate è esattamente l’errore che fanno ancora molti addetti ai lavori che non vogliono documentarsi sui problemi sociali che portano a proposte e tentativi come quello dello schwa. Pensare che da questa idea distorta in partenza si possa “fornire una mappa alternativa per affrontare il problema” (p.11), come pretenderebbe di fare il testo, è una pia illusione.
Sinceramente mi sarei aspettato, nell’introduzione di un libro che affronti anche polemicamente la questione dello schwa, almeno un riferimento a quel testo del 1975 (avete letto bene, millenovecentosettantacinque) della linguista Robin Tolmach Lakoff, Language and Woman’s Place, nel quale non solo si dimostrava quanto il linguaggio (e la lingua) fossero strumenti e istituzioni attive per ribadire distinzioni e gerarchie secondo genere, classe, potere sociale e politico (altro che sintomi), ma che gli strumenti di un qualsiasi possibile linguaggio inclusivo dovessero essere tre:
a) non imporsi per regola o legge - e infatti lo schwa è ancora solo e soltanto una proposta;
b) dare altre possibilità - e infatti lo schwa è proposto non come sostituzione obbligatoria, ma come alternativa possibile;
c) “make receiver feel good”, ossia salvaguardare sempre il disagio del destinatario della comunicazione - motivo per cui chi usa e propone lo schwa fa domande sulla denominazione preferita da chi interloquisce, e non “pretende” nulla.
Già venire a conoscenza di queste poche semplici cose avrebbe smorzato molto gli inutili fastidi di quella “ampia fetta di individui”, che saranno pure “progressisti” ma che, almeno per ora, sembrano mancare delle basi necessarie anche solo per cominciare una discussione sullo schwa. Ma è solo l’introduzione.
Il primo capitolo si apre con quello che dovrebbe essere un “riassunto delle puntate precedenti”, “per spiegare cosa sia lo schwa e per quale motivo sia diventato così importante”. Purtroppo non c’è nulla del genere: da pp.13 a pp.17 c’è solo il riferimento a un libro di Gheno, a uno di Sabatini (oltre alle Raccomandazioni) e una brevissima spiegazione del segno schwa, il tutto condito da un umorismo tipo: “ha l’indiscutibile fascino dell’eleganza, come tutte le cose che sanno di erudito e ricercato” - la classica ironia da fetta di individui progressisti e inclusivi, no?
La già scarsa e manchevole storia dello schwa proposta passa proprio alla finzione quando si racconta, da p.18 che “nei mesi seguenti” (al 2019) usano o dichiarano di voler usare lo schwa la casa editrice effequ, il comune di Castelfranco Emilia, il liceo Cavour di Torino, Murgia e Tagliaferri, Starnone. Fino a qui la storia, ancorché manchevole della giusta parte iniziale e di una spiegazione sociale dell’uso dello schwa, perlomeno sarebbe esatta. Poi a p.19 troviamo lo stesso macroscopico errore dell’altro precedente libro  scəmo: vengono presi a esempio di uso dello schwa i famosi verbali del Miur.
Io speravo sinceramente che dopo la magra figura precedente questa cosa venisse capita: quei verbali sono il perfetto esempio di come non va usato lo schwa: portarli a esempio significa, per l’ennesima volta, non aver capito niente. Portare poi come citazione il precedente libro  scəmo, di cui ho già dimostrato ampiamente la nullità scientifica ed etica, sa quasi di presa in giro del lettore.
Presa in giro che viene sancita dall’assurda descrizione dell’uso pernicioso dell’espressione “linguaggio inclusivo” che (pp.19 e 20) sarebbe “ormai assurta a locuzione-incantesimo”. Mentre il sottoscritto lavora da anni con aziende private e pubbliche che si sono date serie direttive di uso e rispetto del linguaggio inclusivo - e non usando lo schwa, ma lavorando alla costruzione di un intero ambiente linguistico non discriminatorio, altro che “egemonia sui significanti” - questo testo si autodefinisce una “mappa” e tiene fuori interi continenti importanti. In più si diverte a spacciare banale benaltrismo, ancorché erudito come quello del passo citato a p.20, di  Mattazzi, e sparando fandonie tipo “l’uso dello schwa, che del linguaggio inclusivo è diventato una specie di sineddoche” (p.21). Lo è diventato solo nell’opinione di chi non sa niente né di schwa né di linguaggio inclusivo.
Se fino adesso si poteva avere solo il sospetto di avere a che fare con un testo scritto (ed editato, vedremo poi) da chi di questioni sociali di genere non sa nulla - e che quindi non ha capito di base la questione dello schwa - l’inizio del capitolo 2 fuga ogni dubbio. Viene ricordato il testamento olografo di Amelia Vigorita,  riportato  in  una  raccolta, dove questa vedova, nello spartire il suo patrimonio, si definisce “padre di famiglia”. Il testo racconta di questa definizione dicendo “il ritratto folgorante di una famiglia patriarcale divenuta giocoforza (e temporaneamente?) matriarcale”. Basterebbe questa frase per chiudere il testo, non leggere avanti e avere la prova provata che chi lo ha scritto (ed editato) non ha la benché minima idea di cosa siano le questioni di genere.
La vedova si è espressa molto correttamente: la famiglia non diventa matriarcale perché la comanda una donna, lo diventerebbe se la sua struttura di potere, la sua gerarchia, non fosse verticistica come qualsiasi struttura di potere patriarcale. Visto che è proprio lei a raccontare che ha letteralmente preso il posto del marito, la struttura non è cambiata, la famiglia è rimasta del tutto patriarcale - e lei correttamente nel testamento si definisce padre di famiglia, avendo assunto quel ruolo. La differenza tra ruoli di genere e identità di genere è l’ABC di quello che dovrebbe sapere chi si occupa di genere - e chi si mette a scrivere libri sullo schwa.
Partendo da presupposti così ignoranti e manchevoli, il resto è del tutto farlocco. Non esiste alcun “dolo antifemminista” nelle parole della vedova, quindi l’argomentazione di p.24 è completamente insensata - oltre che paternalista nei toni. Anche, come si fa successivamente, inserire il tema delle “dissimmetrie semantiche e dissimmetrie grammaticali” (Sabatini) non ha alcun senso, perché il problema che l’uso dello schwa vorrebbe significare non è una dissimmetria semantica, ma una assenza semantica. Ci sono gruppi sociali che non mancano solo del significante, ma pure del significato - nella lingua italiana non ci sono. Partire in quarta con la storiella che “le battaglie sui significanti sono molto più popolari” ratifica che di quelle battaglie sociali non si è capito nulla: a nessun gruppo che non si riconosce nel maschile o nel femminile importa niente del segno usato, loro vogliono esistere nella lingua. Lo sanno benissimo che serve (p.25) “smontare l’impalcatura del nostro pensiero, e ci vogliono generazioni”, perché è quello che hanno insegnato tanti femminismi a proposito di queste lotte sociali - quelle cose che evidentemente “l’ampia fetta di individui progressisti” non vuole proprio imparare.
Che la mancanza di preparazione sia proprio su questi argomenti viene dimostrato alle pp.26-28, dove incredibilmente si cercherebbe di argomentare che il maschile non marcato, cioè che “il maschile comprende/implica il femminile” (p.27) non costituisce un problema, una forma di privilegio, ed è privo di conseguenze sociali. Questo non cancella donne (e altri generi) dal discorso, ma “al massimo nascondendole un po’ [...] senza generare disparità di trattamento tangibili (né dimostrabili) nella vita reale”. Questo testo pare scritto negli anni ‘50. Non solo si ignora il lavoro di Lakoff ricordata prima, ma anche quello di Suzette Haden Elgin, Luce Irigaray, Deborah Cameron, Janice Moulton, Penelope Eckert, Sally McConnell-Ginet, Mary Kate McGowan... e se non si può chiedere a chiunque di essere aggiornati sugli studi specifici, basterebbero quei sani classici del pensiero femminista a proposito del sessismo nel linguaggio per evitare di dire castronerie.
A p.28 si sostiene che “il fatto che anche nei bandi di concorso compaia il maschile non marcato non significa che gli uomini abbiano un qualche vantaggio competitivo rispetto alle donne”, scambiando completamente la causa con l’effetto; alla fine di p.29 si sostiene l’impossibilità di fare a meno non dell’opposizione marcato / non marcato, ma - secondo la scuola di Praga - della asimmetrica distribuzione dei significati. Quindi non avrebbe senso chiedere di non dire più ‘quanto sei alto?’ con ‘quanto sei basso?’ perché “le gerarchie di questi opposti non sono reversibili”: “alto può includere il concetto di basso ma non viceversa. La stessa cosa accadrebbe se decidessimo di sostituire il maschile non marcato con il femminile non marcato” segue l’esempio - davvero edificante - di Beatrice Venezi che può farsi chiamare “direttore” ma Riccardo Muti mai “direttrice”.
Se non è ignoranza crassa questa, non so quale sia. Qui si è completamente perso - e di nuovo, e ancora - il motivo sociale della questione schwa: il fatto che il maschile - sia il marcato che il non-marcato - hanno un valore sociale, gerarchico e “politico” superiore per una precisa gerarchia culturale - il patriarcato - che anche così esprime il suo potere di cancellare la presenza di altri generi. Questa ignoranza è talmente accecante che neanche citando il lavoro di Chiara Cettolin (pp.30 e 31) il testo sembra capire dove sta il problema, concludendo allegramente e spensieratamente che “evidentemente non è tanto e solo questione di desinenze, ma di stereotipi, di imprinting culturali, di maggior presenza e visibilità degli uomini nel discorso pubblico” (p.31). E CERTO CHE È QUESTO IL PROBLEMA, ED È PER QUESTO CHE GRUPPI DI PARLANTI USANO LO SCHWA: PER NON FAR PESARE PIÙ QUESTA PRESENZA NEL DISCORSO PUBBLICO. Non si tratta affatto, riguardo il problema delle disparità di genere e della invisibilizzazione di interi gruppi, di “chiedere a una desinenza di risolverlo” (p.32) ma di segnalarlo, di farlo presente, di renderlo vivo come la comunità di parlanti che ne soffre. Sostenere la cretinata “qui ho scelto di usare il maschile non marcato, più per ragioni di leggibilità che di principio” significa non aver capito che, come sostengono anche quelle studiose citate sopra e come hanno capito quelle autrici e autori citatə ancora più sopra, LA LEGGIBILITÀ È UN POTERE LEGATO AL GENERE - IL MASCHILE È IL GENERE TROPPO PIÙ “LEGGIBILE” DI TUTTI GLI ALTRI, ecco perché a qualcunə è venuto in mente di usare lo schwa anche per iscritto. Non per fare dispetto alla “ampia fetta di individui progressisti”, dei quali non importa proprio un bel nulla e chi soffre ogni giorno per non sentirsi, leggersi e pronunciarsi nella lingua nella quale vive. A proposito di privilegi, secondo chi ha scritto (p.33) “non esiste, allo stato attuale, soluzione più economica, più efficace, più salomonica e più inclusiva del maschile non marcato”, per poi concludere (p.34) “il patriarcato, insomma, c’è ma non si vede. Non nella morfologia, almeno”, di cosa starebbero parlando quei gruppi che provano a usare lo schwa? Non del privilegio di quella “fetta di individui” di sostenere su un saggio edito da Einaudi queste gravi e ignoranti stupidaggini?
Le pagine 34 e 35 continuano con il solito assurdo paragone con la lingua inglese, dal quale si conclude che ovviamente va tutto bene così; non si vede come poter concludere altro, non avendo considerato le differenze sociali e storiche delle società anglofone, che i problemi di rappresentanza nella loro lingua ce l’hanno eccome, altro che le chiacchiere riportate sul they. Ci sarebbe da ridere, se non fosse tragica, la conclusione autoironica di p.36, nella quale si lancia un anatema contro “l’idea che ogni gruppo sociale (o frazione di gruppo sociale) abbia diritto di costruirsi un codice su misura a cui gli altri dovrebbero fare la cortesia di attenersi”. Che è esattamente quello che il gruppo sociale degli uomini bianchi etero ha fatto negli ultimi secoli, e non solo nel linguaggio e nelle lingue - cosetta che andrebbe tenuta in considerazione, se si vuole fare un libro sullo schwa, no?
Il capitolo finisce, ovviamente, con la spruzzata finale di quel colonialismo culturale che a questo punto non poteva mancare: il consiglio paternalista che “il riconoscimento morfologico delle persone non binarie [è] abbastanza marginale rispetto al vero traguardo, che è un riconoscimento sociale compiuto e definitivo della categoria”. Che, amicə non binariə, secondo questo testo dovrete riuscire a ottenere evidentemente senza potervi neanche nominare come volete.
Il capitolo terzo comincia proponendo una “analisi costi-benefici” dello schwa. Il paragone è presentato così: “gli interventi sulla morfologia e l’ortografia di una lingua sono equiparabili a grandi opere”. Invece no: le grandi opere sono decisioni di chi è al potere, lo schwa è la proposta di una minoranza senza potere, quindi il paragone è assurdo e malevolo. Questo basterebbe a buttar via tutto il capitolo, ma perché perdersi altre chicche argomentative come il tentare di far passare lo schwa come una imposizione (pp.40 e 41), cosa che non è mai stata e mai potrebbe essere; oppure l’idea altrettanto falsa che il suono dello schwa in italiano non esista - cosa corretta tecnicamente, ma che fa finta di non sapere che milioni di parlanti italiano lo usano e lo conoscono, visto che fa parte di notissimi dialetti diffusissimi da personalità dello spettacolo e dei media in generale. Il meglio arriva però alle pp.43 e 44. Si racconta che in un podcast dedicato al film Matrix Murgia e Tagliaferri hanno usato il maschile parlando dei fratelli Wachowski prima della loro transizione, poi il femminile per il periodo successivo del loro lavoro. Troverete scritta la seguente mostruosità: “ci si sarebbe potuti aspettare che Murgia e Tagliaferri utilizzassero lo schwa per sottolineare l’identità fluida dei due registi diventati registe. Invece le due autrici non se la sono sentita [...] forse spaventate dall’effetto di irriducibile alterità che quella pronuncia avrebbe prodotto”.
Qui io mi chiedo perché non sia intervenuto unə editor, come deve accadere in questi casi, a chiedere l’immediata correzione di questa paurosa mancanza di competenza. È un altro esempio sbagliato di come non va usato lo schwa: chi ha scritto il testo vorrebbe dimostrare la mancanza di coraggio in chi lo sostiene, ma ignorando come andrebbe usato, mostra tutta la sua incompetenza. In questo caso lo schwa non c’entra nulla: le donne trans si nominano di solito tranquillamente al femminile perché sono donne. In più non parliamo certo di sconosciute, è noto come vogliano essere chiamate le sorelle Wachowski. Come può venire in mente di dire che andrebbe usato lo schwa, se non perché dello schwa non si è capito nulla, e nessuno vicino a noi ha saputo consigliarci per evitare di vedere stampata una figuraccia simile?
Poco dopo un altro strafalcione incredibile: asserire che Gheno “ha registrato l’audiolibro del suo Femminili singolari usando il suono neutro dove necessario, ma agendo all’interno di un contesto di persone che usano lo schwa”. Chiunque può constatare che l’audiolibro è pubblicamente in vendita, ma di quale contesto si parla? Non si capisce davvero a cosa ci si riferisce, se non alla sterile polemica seguente (da p.44 a p.46) tutta costruita sul nulla precedente, che culmina con l’ennesima assurdità: “nella fattispecie si tratterebbe in sostanza di ripristinare un terzo genere - il neutro”. ESATTAMENTE LA COSA CHE LE PERSONE NON BINARIE NON VOGLIONO, perché essere non binariə non significa riconoscersi in un altro genere, ma non riconoscersi in quelli vigenti. Altra prova d’ignoranza degli argomenti di base: confondere il desiderio di sottrarsi alla codificazione come volontà di imporre una nuova codificazione.
Continuando a credere a questa assurdità, il testo va avanti con un inutile sproloquio contro il neutro fino a p.52, dove ritorna - forse per mancanza di argomenti? - la storiella del verbale di concorso universitario, verbale che com’è ormai arcinoto non può essere usato come esempio di confusione alla quale porta lo schwa, dato che in quel verbale lo schwa è usato scorrettamente, non certo come richiesto da chi lo propone. Giudichereste efficace un attrezzo per incidere il legno dopo che qualcuno ve lo ha mostrato usandolo come frullatore? No, ma pare che invece per lo schwa si possa fare. Dopo altri esempi scorretti che quindi non dimostrano niente, il libro riporta l’opinione in merito di De Santis, che “osserva con amara ironia la disinvoltura con cui, in questa storia, chi si fa le regole da sé stabilisce per sé anche le eccezioni”. Evidentemente si riferisce proprio a libro che stiamo esaminando.
Non contento delle precedenti esibizioni d’ignoranza, il testo continua a sciorinarne: p.56, “è tutto da dimostrare che la desinenza del maschile non marcato costituisca effettivamente un privilegio”, specie se ti sei perso gli ultimi tre secoli e mezzo di femminismi; p.58: “davvero per un individuo non binario l’identità di genere è più importante di tutte le altre identità che lo compongono’”, sì davvero, specie se si trova sempre circondato da gente che pensa di sapere “davvero” cosa è più importante per lui; sempre a p.58 lo schwa sarebbe “proposto per neutralizzare le differenze di genere”, certo come no, è proprio quello che vogliono fare chi lo usa: sparire nell’indistinto, visto che nella lingua è già molto presente...
Come nelle migliori occasioni, non poteva mancare l’esempio biografico: l’aver assistito in una scuola a un dibattito sul linguaggio inclusivo organizzato da studenti. Si narra che viene posta una giusta domanda: a proposito della opportunità di chiedere alle persone con cui si parla con quale pronome vogliono essere nominate, non è già questo “l’indizio della presenza di un bias mentale?”. Una persona minimamente informata sull’argomento avrebbe risposto: “certo, e non solo, è molto di più: è l’indizio che si vuole costruire una cultura del consenso malgrado quel bias mentale, che metta al centro le identità scelte e non quelle imposte da una evidenza percettiva distorta da molti altri bias mentali in azione nella nostra cultura” - ricordate il “make receiver feel good” sopra? Invece il testo se la prende con questo domandare il pronome come un “mettere sé, il proprio corpo, la propria identità davanti a tutto”. E questa sarebbe la fetta d’individui progressista.
Di quanto progressismo c’è nel testo abbiamo testimonianza anche nel capitolo 4, un lungo panegirico pro domo sua degli esperti di questioni linguistiche, costruito molto artatamente. Le pp.60 e 61 presentano erroneamente il problema della provenienza dal basso o dall’alto della questione schwa come rigidamente diviso in due blocchi - lo stesso modo di fare sbagliato tipico delle discussioni in rete che qui si pretenderebbe di confutare, e invece lo si adopera. A p.62 veniamo a sapere che i sì-schwa “dimenticano che a dare risonanza pubblica alla questione non sono state le piazze o un’improvvisa e diffusa voglia di schwa, ma una microbolla di intellettuali e militanti che ha, per così dire, adottato la causa facendone una sorta di bandiera ideologica”. L’ignoranza alla base di questa fantasiosa ricostruzione dei fatti data per buona senz’altri riferimenti che la propria voce sta appunto - e di nuovo - nella storia della proposta dello schwa, che esiste e viene usato da molti anni precedenti l’esistenza di qualsiasi “microbolla”. Se non si vuole ammettere questo - cioè la pratica di numerosi parlanti che vivono su di sé un grave problema sociale - si continua a usare il pretesto della ideologia dei pochi per farsi gli affari propri.
Uno degli affari propri portato avanti nel capitolo è il consueto lamentarsi (p.63) del discredito degli esperti, dato il proliferare “di coloro che, senza essere propriamente degli addetti ai lavori, si sentono autorizzati a dire la loro su com’è o come dovrebbe essere fatta la lingua che parlano”. Premesso che sto ancora aspettando la stessa verve di questi esperti su tante altre questioni linguistiche nelle quali però non gli si tocca il privilegio, rimane il fatto che andrebbe discusso, visto che ormai siamo al penultimo capitolo, di che cosa si deve essere esperti per parlare di schwa. Questo sarebbe il problema da esaminare.
Invece assistiamo - a proposito di “ipocrisia pelosa”, ricordate? - all’eterna lotta tra il bene e il male, raccontati a p.64 come Crusca contro Google oppure “personalità di spicco della nostra accademia” contro Vera Gheno. Questo modo di procedere porta, come di consueto, a bollare come incredibile quello che invece altrove è realtà: si dice (p.65) che “per molti di loro [i sì-schwa] il linguaggio inclusivo non può essere solo una scelta individuale, ma dovrebbe costituire un obbligo esplicitamente normato” dimenticando che proprio in molte prestigiose accademie (non italiane, ma evidentemente il paragone con l’estero si usa solo quando fa comodo) questo è realtà da un pezzo e di schwa o di linguaggio inclusivo non è ancora morto nessuno. L’esempio portato da Johnny Bertolio viene denigrato (p.65 e 66) mentre invece è il cuore del problema da affrontare; se ne capisce così poco che (nota 3 a pagina 66) si prende a esempio di accademico che ha subito un trattamento ingiusto a proposito di nominazione corretta uno come Jordan Peterson.
Jordan Peterson - un altro caso in cui tutta una squadra di persone intorno a un testo edito come questo mostra davvero di non sapere nulla. Come puoi portare a esempio positivo, in un testo che vorrebbe parlare di temi sociali e di inclusività, di antisessismo e linguaggio, un soggetto come Jordan Peterson?
Questa stessa scelleratezza è quella che fa asserire - seriamente! - che “in questo momento non c’è settore di ricerca più florido [...] di quello degli studi di genere” (p.66), mentre nella realtà che evidentemente la “fetta di individui progressisti” non conosce affatto si contano sulla punta delle dita i corsi universitari che se ne occupano, si lotta per ottenere gli scarsissimi finanziamenti, esistono sparuti dottorati e pochissimi master. Il problema da affrontare sarebbe che parlarne da ignoranti e privilegiati porta a credere che il “dibattito culturale più mainstream [...] sul linguaggio inclusivo e sul politicamente corretto” (p.66/67) sia veramente un dibattito e sia veramente culturale. La statistica sulle tesi di laurea presentata come prova che se ne parla tanto (p.67) dimostra quanto chi studia vorrebbe parlarne e farne la propria ricerca - speranze per ora frustrate - e non che “l’Inquisizione, diciamo, era un’altra cosa”.
Infatti: era qualcosa di simile a chi, come ci viene raccontato da p.67 a p.69, vede un problema sociale che non sa né capire né affrontare, e per paura di perdere potere e visibilità - perché non gli va di rimettersi a studiare - s’inventa che non solo esiste il fronte compatto e unitario dei “sì-schwa”, ma che questo vorrebbe “imporre non tanto lo schwa in sé, quanto la cornice morale e filosofica di riferimento” (p.67), che poi viene sintetizzata in quattro fandonie che si pretende di aver dimostrato nelle pagine precedenti; che invece sono solo la versione scritta degli argomenti fantoccio usati per non occuparsi seriamente del problema sociale testimoniato dallo schwa, visto che non si vuole ammettere di non averne le competenze.
Giustamente il capitolo si chiude con una speranza: “meglio dunque stare zitti [quindi scrivere un libro per Einaudi è il modo in cui la “fetta di individui progressisti” tace] e aspettare che la febbre dello schwa faccia il suo corso. Nella speranza che, prima o poi, si torni a parlare d’altro” (p.72). Io non so se a quella fetta conviene parlare d’altro: a me, per esempio, piacerebbe cominciare a parlare della ignoranza di tanti linguisti, filosofi, accademici citati qui riguardo le questioni di genere. Perché a questo punto del libro è già chiaro che le sorelle Wachowski ne sanno molto di più di loro.
Dulcis in fundo, si dice, ed è confermato da questo libro, che all’inizio del quinto e per fortuna ultimo capitolo ci regala tre pagine di gratuito razzismo spiegando perché (p.73-75) l’accanimento contro la n-word è sbagliato. “La parola n [nel testo è scritta per intero e in corsivo] rimane un termine denotativo, che serve semplicemente a designare le persone con la pelle scura”. Non è il caso di commentare, anche perché a p.76 ritorna la solita obiezione dell’uomo della strada “a che scopo sostituire le parole [...] se le intenzioni rimangono le stesse?” che butta al secchio decenni di studi di filosofia del linguaggio e femminismi a proposito di intenzioni, espressioni, condizionamenti... ma che ce frega, noi siamo la “fetta di individui progressisti”, quindi dato che esistono i titoli razzisti di ‘Libero’ (p.76 e 77), che senso avrebbe non usare quelle parole? Tanto “le classi dominanti troveranno sempre modo di mascherare il loro razzismo” (p.77) quindi la lotta per avere una lingua meno razzista (e sessista) non serve a niente, no? La tipica escalation argomentativa dell’ignoranza non finisce qui, mancano le decisive tappe che non ci vengono certo risparmiate: proporre alternative al linguaggio discriminante “permette ai fascistoidi di ogni risma di fare i martiri della censura” (p.78), anche se da tempo si è capito che non si tratta di censura; si cita però, a proposito di fascismi, la “soglia di decoro e rispetto oltre la quale è bene non avventurarsi” (p.78); e “non bisogna dimenticare”, mi raccomando, che “certe parole smettono di essere parole per convertirsi a tutti gli effetti in atti performativi” (p.79), che è esattamente quello che da decenni si dice della n-word, della p-word e di tutti i riferimenti ai soli due generi della nostra lingua. Il problema è proprio che sono atti performativi, quindi hanno una enorme importanza nella vita delle persone, mentre il testo ha appena cercato di dimostrare, per quasi cento pagine, che invece sono chiacchiere inutili e manipolate da oscure figure per fini poco chiari.
Ci avviciniamo alla fine, e partono i fuochi d’artificio - come se quelli sparati finora fossero poco spettacolari: a p.80 ci si richiama comicamente a un  articolo  di  De  Mauro che sarebbe stato meglio, a questo punto, farsi spiegare che non era il caso di usarlo visto quello che dice; poi ci viene portato l’esempio di Walter Siti, che non si capisce perché dovrebbe aver ragione a portare avanti, ancora nel 2022, la differenza tra sostanza e forma che evidentemente non ha capito neanche lui; si dice ancora la cretinata che il lavoro su linguaggio inclusivo consisterebbe in un sollecitare “la rimozione di ciò che è cattivo” (p.82) mentre invece si tratta di un’assunzione collettiva di responsabilità; e poi parte l’ovvia tirata contro la versione ignorante della questione “politicamente corretto” (p.82 e seguenti) mostrando per l’ennesima volta che chi ha lavorato al testo manca di parecchie competenze proprio nelle questioni che il testo voleva affrontare.
È inutile soffermarsi sulle pagine finali, riassunto di quanto detto prima con altre citazioni insensate. Mi raccomando però di tenere a mente, nel caso aveste comprato il libro, i nomi contenuti nei ringraziamenti. Sicuro riverranno fuori dietro, accanto o sotto l’ennesima cretinata scritta o detta a proposito di questioni di genere, linguaggio, poteri discriminanti.
Dei quali si parla sensatamente altrove, non in questo testo.
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questouomono · 3 years ago
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Questo uomo no, #129 - Quello che siamo tutti sulla stessa barca
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Ricomincio ad andare, ogni tanto, quando posso, sulla spiaggia, e ricomincio ad assistere a quelle scene di ordinario razzismo che si consumano lì, continuamente. Chi sta comodamente a prendere il sole mercanteggia l’acquisto di qualcosa con il nero o la nera che passano tra gli ombrelloni, evitando accuratamente di accorgersi delle innumerevoli differenze in azione in quel banale rapporto solo apparentemente commerciale. Ieri l’ultima schifosa battuta sentita ad alta voce: “no scusa, dieci euro non te li posso dare, non è che noi pure possiamo spendere tanto, c’abbiamo problemi anche noi, ti vorrei aiutare ma è così, in fondo siamo tutti sulla stessa barca”.
Siamo sulla stessa barca? Davvero?
Alika Ogochukwu su quale barca era?
Sulla sua barca è stato possibile che un tizio, per un motivo qualsiasi ma certamente sbagliato e ingiusto, ha potuto ammazzarlo di botte davanti a decine di persone che per lunghi minuti hanno assistito alla sua aggressione senza impedirla, senza coinvolgere i loro corpi - erano su un’altra barca? - in quella lotta per lui mortale.
Sì, lunghi minuti. Perché per ammazzare qualcuno di botte ci vuole tempo. Ci vogliono molti colpi, colpi che fanno male, che provocano dolore, lamentele, urla; colpi che fanno un rumore molto particolare, distinguibile e riconoscibile, di carne che si illividisce, di ossa che scricchiolano, di arti che si afflosciano. Suoni e rumori che molti hanno sentito, e che adesso porteranno con sé per sempre - o forse dalla barca di Alika non viene nessun suono?
Sì, lunghi minuti, come anche si vede dalle riprese fatte dalle persone presenti. Che non sono intervenute con i loro corpi in mezzo ai due corpi in lotta, ma hanno fatto intervenire le loro telecamere. Quello che succede alle persone quando una telecamera si frappone tra i corpi e la realtà lo disse già Walter Benjamin in un saggio scritto quasi novant’anni fa. Il titolo era lungo e buffo, sicuramente qualche volta vi avrà fatto sorridere. È un saggio difficile da leggere, lo so, ma anche perché è difficile superare l’abisso di indifferenza che quelle parole di Benjamin descrivono spalancarsi tra noi e le vite che riprendiamo con una telecamera.  
Su quale barca era Walter Benjamin? Ah, già. La telecamera di Alika, come volevasi dimostrare, se l’è presa il suo aggressore.
Alika Ogochukwu è stato ucciso dal razzismo, perché non era sulla stessa barca di chi aveva intorno, anche se viveva sullo stesso marciapiede, nelle stesse strade della stessa città, nello stesso paese. Come non lo sono tuttə i neri e le nere italianə per nascita e cultura; come non lo sono tuttə i neri e le nere che passano per questo paese per andarsene in un altro ma rimangono qui imprigionati da una burocrazia razzista; e quellə che rimangono anche non volendo, allora rubano il lavoro o sono put****, o tutt’e due.
Razzismo e sessismo e tutte le altre forme discriminatorie sono quelle che producono quelle opportunistiche metafore, quelle immagini così poetiche e piene di violenta indifferenza che servono a uccidere e a non sentirsi complici di chi uccide. “La stessa barca”, “il mercato”, “l’amore”, “il destino”, “la provvidenza”, “la passione”, “il raptus”, “la politica”... uh, quante barche.
Tu in che barca stai?  
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questouomono · 3 years ago
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Questo uomo no, #128 - Quello che “Pasolini era contro l’aborto”
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Puntualmente, più o meno bilanciando malafede e ignoranza, la propaganda antiabortista tira fuori l’argomento che sarebbe secondo loro uno dei più decisivi e dirimenti: “anche Pasolini era contro l’aborto”, frase a effetto che secondo questa propaganda dovrebbe mettere a tacere la questione, dando ragione a chi vuole vietare l’aborto sempre e comunque. Purtroppo, come vedremo, questo argomento dimostra solo il punto di partenza di questo tipo di propaganda: ignoranza, malafede, oppure entrambe contemporaneamente.
Non c’è niente di misterioso, basta conoscere la storia e leggersi i documenti originali, facili da trovare per chiunque frequenti quei luoghi pubblici e gratuiti che sono le biblioteche e le emeroteche. Io mi limito a riportare quello che è scritto lì, a raccontare quello che è successo nella realtà, non nella propaganda. Il 1975, anno del famoso articolo di Pasolini, comincia con il clima del dibattito pubblico riguardo l’aborto già molto caldo, alimentato da polemiche pubbliche già cominciate da almeno cinque anni; qualcosa va raccontato, come premessa doverosa, per capire forza e limiti della “opinione” di Pasolini. 
Raccogliendo istanze e spinte già ben visibili da anni, nell’aprile ‘70 nasce il Movimento di liberazione della donna (MLD), legato la partito radicale, che nel suo documento istitutivo recita al punto 2, come obiettivo, “la liberalizzazione e legalizzazione dell’aborto, senza distinzione di stato civile e di stato di necessità medica, nonché la creazione di apposite struttura sanitarie che  possano fare dell’aborto legalizzato una effettiva facoltà alla portata di quante scelgano di usufruirne”. Dopo un anno di lavori, alla fine del febbraio ‘71 il congresso nazionale del MLD annuncia un disegno di legge a iniziativa popolare per depenalizzare l’aborto, che era ancora un reato secondo il codice penale fascista in vigore. A marzo la Corte Costituzionale, con una sentenza, dichiara illegittima la propaganda anticoncezionale, un’altra misura prevista dal codice penale fascista; Elvira Banotti pubblica un’inchiesta sull’aborto clandestino (La sfida femminile), un libro-denuncia che racconta la diffusione capillare delle pratiche di aborto clandestino (ferro da calza o stampella e decotto di prezzemolo) tra tutti i ceti sociali. Il 5 aprile ‘71 “Le Nouvel Observateur” - anche in Francia l’aborto è reato - pubblica un manifesto, Je me suis fait avorter, firmato da 343 donne che confessano di aver abortito; tra le altre, Simone De Beauvoir, Marguerite Duras, Catherine Deneuve. Due settimane dopo lo fa anche “Stern”, con un analogo manifesto firmato da 375 donne. Nell’estate del ‘71 il MLD organizza una manifestazione a Roma in Piazza Navona; la militante radicale Matilde Maciocia racconta pubblicamente di aver abortito a vent’anni, già madre di una figlia, mentre il marito era ancora studente universitario.
Inizia anche, molto complessa, la discussione tra i collettivi femministi. Spicca l’analisi di Carla Lonzi e del gruppo Rivolta Femminile che non vede nella legge una reale soluzione, perché se non cambia il carattere patriarcale e repressivo dello Stato, una legge che regoli l’aborto non farà che ratificare la colonizzazione dei corpi delle donne dalla parte dell’uomo. La vera libertà non sarà mai la legalizzazione dell’aborto ma lo sganciamento della sessualità femminile dalla riproduzione. Così in Sessualità femminile e aborto del luglio ‘71:
“Per il piacere di chi sono rimasta incinta? Per il piacere di chi sto abortendo?” Questo interrogativo contiene i germi della nostra liberazione: formulandolo, le donne abbandonano l’identificazione con l’uomo e trovano la forza di rompere un’omertà che è il coronamento della colonizzazione.
Nella eventuale legge che legalizza l’aborto Lonzi vede sostanzialmente la conferma di quella sessualità autoritaria e riproduttiva che è l’inizio di ogni oppressione sessista. La liberazione sarà il godimento sessuale autonomo e non riproduttivo.
Questo, come tanti altri, è uno dei punti di complessità del fronte femminista italiano, che si divide su questioni essenziali e non più trascurabili dal grande pubblico, anche se gli vengono tacitate e nascoste. Non può essere contenuta, invece, l’eco del “processo di Bobigny” che travolge l’Italia come già successo in Francia. Nel febbraio ‘73 Michèle Chevalier e Gisèle Halimi, protagoniste di quella vicenda, sono ospitate in un dibattito tenuto all’università di Roma organizzato da “Il Manifesto” e dal Movimento femminista romano (MFR); il giorno dopo il quotidiano pubblica una lettera aperta scritta da Luciana Castellina con un titolo che è, proverbialmente, tutto un programma: L’incapacità di affrontare la questione femminile è una spia dei limiti storici del movimento operaio. Manco a dirlo, pochi giorni dopo anche l’Italia ha il suo Bobigny, cioè il processo a Gigliola Pierobon. Il tribunale condanna Pierobon per l’aborto ma dichiara estinto il reato; durante il processo Alma Sabatini, esponente del MFR, si autodenuncia per il reato di aborto, insieme a molte altre donne arrivate a Padova che denunciano anche lo Stato per strage e la Chiesa di complicità in quella strage.
Il dibattito pubblico non può essere più controllato, l’aborto è un tema costante di discussione pur nella drammaticità politica di quegli anni, Nel ‘73 esce Dalla parte delle bambine di Elena Gianini Belotti, nel ‘74 Noi e il nostro corpo, il testo del Boston Women’s Health Collective che è il primo testo in Italia di educazione sessuale femminile. Nascono immediatamente numerosi gruppi di self help femminili in tutta Italia, nel settembre ‘73 è già nato il Centro d’Informazione sulla Sterilizzazione e l’Aborto (CISA) per iniziativa, tra le altre, di Emma Bonino; questo centro organizza voli per Londra e l’Olanda per ottenere un aborto sicuro ed economico. Il CISA porta in Italia la pratica del “metodo Karman”, meno invasivo e doloroso del “classico” raschiamento. Il primo ginecologo che lo pratica, Giorgio Conciani a Firenze, viene arrestato il 10 gennaio 1975, e saranno arrestati anche esponenti del partito radicale: Spadaccia, Bonino, Faccio. Il 12 gennaio cinquemila donne scendono in piazza a Firenze protestando al grido “Fuori le donne che hanno abortito, dentro Fanfani [Democrazia Cristiana] e tutto il suo partito”. Altra posizione rilevante è quella delle donne del Collettivo di Via Cherubini (Milano) che elabora e pubblica un documento intitolato Noi sull’aborto facciamo un lavoro politico diverso, nel quale l’aborto legale è chiaramente definito “una risposta violenta e mortifera al problema della gravidanza” e nel quale si stigmatizza la presenza maschile nelle manifestazioni, i quali chiedono l’aborto libero “su un corpo che non è il loro”.
Bene, è in questo clima incandescente da anni e complesso di posizioni ben distinte anche tra i femminismi italiani che Pasolini si esprime, in tre articoli, due sul “Corriere della Sera” e uno su “Paese Sera”. Il 19 gennaio 1975 sul “Corriere della Sera” esce Sono contro l’aborto, articolo ancora oggi interessante (grazie soprattutto al fatto che nel frattempo i passi avanti sono stati davvero pochi) e che contiene questo passo:
La mia opinione estremamente ragionevole è questa: anziché lottare contro una società che condanna l'aborto repressivamente, sul piano dell'aborto, bisogna lottare contro tale società sul piano della causa dell'aborto, cioè sul piano del coito. Si tratta - è chiaro - di due lotte 'ritardate': ma almeno quella 'sul piano del coito' ha il merito, oltre che di una maggiore logicità e di un maggiore rigore, anche quello di un'infinitamente maggiore potenzialità di implicazioni. C'è da lottare, prima di tutto contro la 'falsa tolleranza' del nuovo potere totalitario dei consumi, distinguendosene con tutta l'indignazione del caso; e poi c'è da imporre alla retroguardia, ancora clerico-fascista, tutta una serie di liberalizzazioni 'reali' riguardanti appunto il coito (e dunque i suoi effetti): anticoncezionali, pillole, tecniche amatorie diverse, una moderna moralità dell'onore sessuale, ecc. Basterebbe che tutto ciò fosse democraticamente diffuso dalla stampa e soprattutto dalla televisione, e il problema dell'aborto verrebbe in sostanza vanificato, pur restando, come dev'essere, una colpa e quindi un problema di coscienza.
Pasolini si professa cattolico e quindi contro l’aborto, e identifica chiaramente questa posizione come “un problema di coscienza”; ma questo problema e questo credo non gli impediscono certo di centrare il problema sociale, quello di una mentalità retrograda “clerico-fascista” - quindi perfettamente identificata nella Chiesa e nelle ideologie di destra - che ha investito nel sesso tutto un arsenale di moralismi i quali, impedendo una serena vita sessuale a chiunque, di fatto è la causa degli aborti, che quindi sono un effetto di quella mentalità “clerico-fascista”. E questo già basterebbe a chiarire l’ipocrisia e la malafede di chi sintetizza la sua posizione con “Pasolini è contro l’aborto”.
La polemica però è solo all’inizio. Il 25 gennaio 1975, su “Paese Sera”, Pasolini fa uscire un altro articolo, scritto come una lettera al direttore, nel quale risponde a qualche critica che gli è arrivata per l’articolo precedente; anzi, vere e proprie accuse. Ecco un passaggio molto chiaro, e molto tristemente attuale:
Il suo collaboratore Nello Ponente altro non fa che pronunciare nei miei riguardi tale condanna: egli mi accusa di fronte a una «comunità» - la «comunità» degli intellettuali di sinistra e dei lavoratori - e mi accusa per un «reato di opinione». La mia opinione, nel caso specifico, è che considero l'«aborto» una colpa. Ma non moralmente, questo non può essere nemmeno discusso. Moralmente non condanno nessuna donna che ricorra all'aborto, e nessun uomo che sia d'accordo su questo. Ne faccio e ne ho fatto una questione non morale ma giuridica. La questione morale riguarda solo gli «attori»: è una questione tra chi abortisce, tra chi aiuta ad abortire, tra chi è d'accordo con l'abortire e la propria coscienza. Dove io non vorrei certo entrare. [...] Non c'è nessuna buona ragione pratica che giustifichi la soppressione di un essere umano, sia pure nei primi stadi della sua evoluzione. Io so che in nessun altro fenomeno dell'esistenza c'è un'altrettanto furibonda, totale, essenziale volontà di vita che nel feto. La sua ansia di attuare la propria potenzialità, ripercorrendo fulmineamente la storia del genere umano, ha qualcosa di irresistibile e perciò di assoluto e di gioioso. Anche se poi nasce un imbecille.
Anche in questo caso la posizione di Pasolini mi pare un pochino più complessa di “è contro l’aborto”. Pochi giorni dopo, il 30 gennaio 1975, sul “Corriere della Sera” Pasolini ritorna sull’argomento rispondendo a Moravia che lo accusava di varie cose. Riportiamo questo solo stralcio:
Tu dici che la lotta per la prevenzione dell'aborto che io suggerisco come primaria, è vecchia, in quanto son vecchi gli «anticoncezionali» ed è vecchia l'idea delle tecniche amatorie diverse (e magari è vecchia la castità). Ma io non ponevo l'accento sui mezzi, bensì sulla diffusione della conoscenza di tali mezzi, e soprattutto sulla loro accettazione morale. Per noi - uomini privilegiati - è facile accettare l'uso scientifico degli anticoncezionali e soprattutto è facile accettare moralmente tutte le più diverse e perverse tecniche amatorie. Ma per le masse piccolo-borghesi e popolari (benché già «consumistiche») ancora no. Ecco perché io incitavo i radicali (con cui è avvenuto tutto il mio discorso, che solo appunto visto come un colloquio con essi acquista il suo pieno senso) a lottare per la diffusione della conoscenza dei mezzi di un «amore non procreante», visto (dicevo) che procreare è oggi un delitto ecologico. 
Questi tre scritti sono letti anche da Carla Lonzi, alla quale, più che giustamente, non va giù che le femministe siano nominate solo nel primo articolo - andate a leggere per credere - come parte di quelle persone “radicali” impegnate a riflettere su altro. Non le va giù perché non è vero: Pasolini in questo si conferma un uomo e un cattolico del suo tempo. Per quanto intelligente e lucido e in anticipo sui suoi contemporanei, sui femminismi è largamente disinformato. Infatti Carla Lonzi, già dopo il primo articolo di Pasolini, manda al “Corriere della Sera” una copia del suo Sessualità femminile e aborto scritto anni prima, e che contiene tutti gli argomenti di Pasolini; ma il giornale la ignora. Lei allora scriverà direttamente a lui, facendogli notare che il problema del patriarcato lo aveva già ben sviscerato Rivolta Femminile, indicando la liberalizzazione dell’aborto come l’ennesimo atto del patriarcato, necessario alla sua sopravvivenza. Ma Pasolini non le risponde. “Il fratello continua ad arrivare prima della sorella a farsi ascoltare”, chioserà Lonzi in quei giorni.
Quindi ancora oggi in tema di di aborto, con tutto il suo essere uomo e cattolico, il contributo di Pasolini, a distanza di tanti anni, continua a essere molto prezioso perché complesso: la sua posizione di uomo e di cattolico non gli impediva di distinguere la causa dall’effetto, e di inquadrare l’aborto come un dramma personale conseguenza di una serie di gravi mancanze sociali, e ben si guardava dal condannare moralmente chiunque ne fosse coinvolto, al di là delle proprie convinzioni. 
Invece, sinceramente, credo che Pasolini ne capisse per esempio più di calcio che di femminismi. Malgrado avesse tempo e modo per informarsi e praticare entrambi, sul calcio ha scritto di più e più sensatamente. Gli va dato atto di una grande onestà intellettuale: con quel “noi privilegiati” detto in faccia a Moravia non si è mai professato fuori dalle dinamiche patriarcali.
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questouomono · 3 years ago
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Questo uomo no, #127 - Quello che non fa due più due
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Avrei potuto fare quattro post, ma sono pigro. Meglio un solo video.
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questouomono · 3 years ago
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Questo uomo no, #126 - Deconstructing il libro scəmo
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Spero sia l’ultima volta che mi occupi di chi se la prende con lo schwa senza capirci nulla. Ma so già che non sarà così.
È stato messo in vendita dallo stesso promotore di una petizione inutile, e di post sui social ancora meno utili di quella, anche un libro nel quale si prova ad argomentare più distesamente quelle inutili argomentazioni già affrontate “contro lo schwa”. Sì, avete capito, quello con un insulto specista nel titolo (e non è neanche la prima volta), segno che la civiltà e il rispetto per chi non ha il potere di farsi rappresentare in tutti i canali di comunicazione è davvero un problema complicato da affrontare.
Cominciamo con due parole sul libro in sé. Per 9 euro si acquistano numero 76 pagine stampate, impreziosite da una quarta di copertina ricopiata da altri testi dell’autore facilmente reperibili in rete. Di queste 76 pagine, quelle effettivamente scritte con del testo sono 68, di cui 29 solo di citazioni - testuali o grafiche. In totale l’autore ha quindi scritto 39 pagine, poco più della metà di quelle acquistate, manco fosse un’antologia. Questo produce un costo netto di 23 centesimi a pagina scritta dall’autore. Se questo fosse il prezzo di “1Q84” di Murakami nell’edizione Einaudi, il romanzo dovrebbe costare 253 euro invece di 26. Va bene, diranno i soliti pignoli, però quello è un romanzo. Giusto: considerando quindi un saggio, come “Il mostruoso femminile” di Sady Doyle, questo dovrebbe costare 58 euro invece che 18. Se proprio vogliamo fare un paragone tra “libri piccoli”, prendiamo un competitor: “La lingua che cambia” di Manuela Manera, con quella proporzione, dovrebbe costare 13,50 euro invece di 6. Diciamocelo: a quel prezzo per pagina, dovremmo aspettarci dei signori contenuti, roba da stupire per capacità argomentativa e profondità d’analisi, SPOILER invece no.
Il libro comincia (p.5) con una citazione di Pirandello che dimostra che lo scrittore siciliano ne aveva già capito di più di chi lo cita a sproposito: la novella Acqua amara narra appunto di come i generi subiscono i condizionamenti di potere della società. Esattamente la lezione che si dovrebbe imparare prima di parlare di linguaggio inclusivo, un problema sociale prima che linguistico. Invece il nostro autore, parco di parole sue, a questa prima citazione ne fa seguire un’altra, di Gheno e Faloppa, dove i due dicono testualmente che lo schwa “è una delle soluzioni proposte per creare una lingua più inclusiva”. Una delle tante proposte e non imposte. Inizia finalmente l’autore a scrivere di suo, e si lamenta che i due non abbiano “il fegato di andare fino in fondo”: veramente stanno avanzando una proposta, mica sono in finale di doppio misto a Wimbledon. Che vorrebbe dire “andare fino in fondo”? E che lo farebbero per “dare il contentino ai genderless”? Ora, a parte che i genderless sono solo una parte di chi si dichiara non etero, quindi solo uno dei gruppi sociali interessati al linguaggio inclusivo, sarebbero parecchio innervositi dal “contentino”: loro vogliono vedersi rappresentati nella lingua che parlano per avere un’esistenza decente e priva di oppressioni nella società, altro che “contentino”. E siamo solo a pagina 5.
A pagina 6 l’autore cita quello che ormai è un luogo comune, la “folle deriva del politicamente corretto: l’adozione dello schwa come antidoto indottrinante al binarismo di genere”. A parte che poteva chiedere a chi lo ha proposto parecchi anni orsono se la intendeva così, visto che il promotore originale, Luca Boschetto, poi lo cita (a sproposito). Ma poi: è una proposta, come detto sopra, non una “adozione”; non può essere alcun “antidoto” perché il binarismo non può certo essere eliminato, va solo accostato ad altre possibilità; quindi di “indottrinante” non c’è nulla, perché nessunə vuole sostituire un indottrinamento - il binarismo escludente - con un altro indottrinamento - l’indefinito obbligatorio. Infatti non si capisce chi sarebbero, poche righe sotto, i “seguaci” che “vorrebbero mettere il bavaglio a chiunque osi contraddirli”. La loro è una proposta, vogliono togliere il bavaglio, e non metterlo a chicchessia!
Dopo un po’ di pagine occupate dalla inutile ricopiatura dei famigerati verbali, pietra dello scandalo di cui ho già parlato qui e qui, il nostro autore si lancia in un'invettiva a dir poco assurda. Prima, a p.16, descrive questi verbali come “risibili”, “senza la minima coerenza”, scritti come “solo un ignorante patentato”, e aggiunge alla sua opinione quella di Claudio Marazzini, il quale pure lui parecchio confuso fa lo stesso errore di chi lo cita. Cioè chiama “seguaci” quellə che non lo sono affatto, e poi - nella sua citazione - si dà anche lui la proverbiale zappa sui piedi, perché parla dello schwa come di qualcosa “usata a caso” e che ha come risultato ”“oscurità comunicativa”. La zappa sta nella pagina seguente, la 18, dove lo stesso autore dei verbali, Decastri, ammette di non avere “avuto sufficienti competenze” nell’uso dello schwa. Infatti è verissimo: nessuno che lo sa usare lo adopererebbe in quel modo, come nei verbali riportati. Quindi il problema non è lo schwa, ma questo particolare uso ignorante ammesso dallo stesso autore dei verbali. Proprio per questa ammissione le metafore usate dall’autore del libro a p.18 non hanno senso: non è possibile che “se un giorno qualcuno decidesse di redigere un atto…in emoji, o in volgare duecentesco” o con “bimbominkiate” allora “nessuno potrebbe più obiettare alcunché”, in quanto questi non sono usi votati all’inclusività ma anzi all’esclusività, e poi perché usare emoji o volgare duecentesco scorrettamente li renderebbe incomprensibili anche a chi di solito li usa. Una proposta va usata bene per vedere se è efficace; criticarne un uso scorretto non ha senso, perché quell’uso dice qualcosa sull’incapacità di chi lo ha fatto - che infatti l'ha ammessa - e non sulla validità della proposta stessa. Prima usiamola bene, poi vediamo se è efficace o no.
L’argomentazione insensata dell’autore del libro va avanti a p.19, perché in virtù dell’uso sbagliato in quei verbali se ne deduce che “tutti e 5 i membri della Commissione…siano portatori di identità non binarie” - cioè proprio il contrario del motivo per cui si propone lo schwa! Questo servirebbe a distinguere le differenze, non a uniformarle; l’errore di Decastri è appunto quello di aver usato il segno ə in maniera sconsiderata, come se servisse a non far distinguere le persone con generi diversi le une dalle altre. È giusto criticare questo uso scorretto, ma questa - l’autore non se ne è neanche reso conto - è un’ottima difesa dello schwa: se non lo sapete usare non lo usate, nessuno vi obbliga. I due commissari sono sono “birichini” (p.20) come sottolineato con un infantilismo vagamente sessista, ma semplicemente incapaci di usare lo schwa.
Eppure il nostro autore gli strumenti per capire come stanno le cose li avrebbe. Cita lui stesso il lungo editoriale della rivista Menelique dove viene spiegato nel dettaglio perché la rivista ha deciso di usare lo schwa: “vogliamo provare a risolvere due questioni (che alla fine sono una questione sola): l’uso o meglio il sopruso del cosiddetto maschile sovraesteso e l’incapacità della nostra lingua di parlare di persone che non si identificano in generi binari” (p.21). È un problema politico, psicologico se volete, esistenziale addirittura, ma non linguistico. Alle persone citate non gliene può importare di meno di imporre un uso linguistico, loro vorrebbero prima di tutto usarlo per loro stessə. “È una scelta di cui non solo non neghiamo ma anzi rivendichiamo l’orizzonte politico” (p.22) - più chiaro di così. E c’è di più: questə che sarebbero i fantomatici “seguaci” si danno pure una bella regolata: “Cercheremo inoltre di limitare quanto più possibile l’uso dello schwa, preferendogli altre costruzioni e espressioni di genere neutro, ma lo sfrutteremo ogni volta che sarà la nostra migliore alternativa” (p.23). Questi sarebbero i terribili “seguaci” dello schwa? Quelli pronti a farne a meno ogni volta che è possibile? A proposito di fegato, ma quello di sostenere certe cose dove lo si è trovato?
Il secondo capitolo si apre anche questo con una citazione, di Di Rollo presa da un testo curato da Maria Serena Sapegno, Che genere di lingua. Sessismo e potere discriminatorio delle parole. Finalmente una fonte; il problema è che il nostro autore non ne comprende granché e si lancia in un discorso che non centra il punto. Mentre infatti nella citazione ci sono solo 3 parole su 66 che presentano la scelta “i/e” alla fine di parola per indicare maschile e femminile insieme, con la solita tecnica retorica nota come signora mia dove andremo a finire l’autore snocciola due pagine infarcite di secondo lui inevitabili conseguenze dell’uso dello slash tra parole intere e simboli usati male - ma non aveva finito il capitolo precedente stigmatizzando gli usi scorretti? Poi li fa lui? Mah. Ad ogni buon conto, da linguista il nostro autore si fa spalleggiare da due nomi della disciplina come Feltri e Soncini (pp.28 e 29), citati nei loro cazzeggi ameni, scorretti quanto i famigerati verbali del povero Decastri. Non appena riprende la penna lui, il nostro autore si contraddice: parla di chi “pretende di riformare la lingua italiana a suon di e rovesciate” - pretesa mai avanzata da chicchessia - e straparla addirittura di una “pressione esercitata sui cisgender dai non-binary (transgender, genderfree, genderfluid…)” che se non fosse un tragico travisamento della realtà farebbe ridere tutto il mondo LGBTQI+. Uno dei picchi di meravigliosa autoironia del testo lo troviamo alla fine di pagina 29: “Una cosa è chiedere al nostro interlocutore di venirci in qualche modo incontro, con le forme e le parole più adatte e rispettose possibili… un’altra cosa è pretendere che le norme linguistiche di un’intera comunità nazionale soggiaciano alla prepotenza di pochi” - EH? Ma se è quello che da anni i “pochi” chiedono appunto con lo schwa, il venirsi incontro - ma quale prepotenza? Esercitata con che, con quali mezzi, con quali poteri? Quello di sei verbali scritti male? A coronare questa a dir poco fantasiosa visione delle cose arrivano le truppe cammellate: stavolta viene citata Cristiana De Santis e il suo “mitico” pezzo su treccani.it dove, per chi non se lo ricordasse, vengono appunto citate creature fantastiche (saranno forse questi gli “altri animali” del titolo?) come la “forzatura del sistema” consistente nello scegliere di cambiare una desinenza e la sua terribile conseguenza: “ci esilia dalla comunità più ampia di parlanti” (p.31).
Ricapitoliamo: una minoranza di genere non si sa con quali poteri forzerebbe la maggioranza etero a diventare una minoranza di parlanti che si esilia dalla maggioranza dei parlanti. Trame che manco Star Wars - e sempre per 9 euro 76 pagine eh, ve lo ricordo, malgrado in fondo a pagina 31 ci venga detto che “un principio regolativo cardine nel funzionamento di una lingua è il risparmio” - ecco, potevate pensarci prima di decidere il prezzo di copertina.
Deciso a farci capire quanto ne sappia poco anche di meccanismi umoristici e ironici, da pagina 32 parte l’invettiva anti-schwa basata su una evidente antipatia che il nostro autore nutre per il suono di certi dialetti, introdotta da una battuta (?) sul suono di un “colpo di glottide” che in tedesco sarebbe molto brutto da sentire: “ascoltate l’effetto che fa, poi ne riparliamo”. Ne parliamo subito: l’effetto di un suono della lingua tedesca all’orecchio di un parlante italiano non sarà certo piacevole, come lo è per chiunque un suono indistinguibile perché non capito. Tirar fuori il discorso del “suona male” nel 2022 ce lo possiamo aspettare da un incompetente commentatorə da social, non da un professore di linguistica con cattedra. Ciascuno avrà pure i suoi gusti, ma scientificamente le affermazioni tipo “l’italiano è musicale” fanno ridere e basta. Non fanno ridere affatto invece le allusioni a Lino Banfi o Diego Abatantuono, alle parlate dialettali dei loro personaggi, a proposito dello schwa: a parte la nullità scientifica di un’argomentazione del genere (come doveva suonare l’italiano del milanesissimo Manzoni quando decise di sciacquare i panni in Arno?) mettersi a fare paragoni regionali tra i suoni sa di discriminazione - infatti i paragoni sono solo con i suoni dialettali del Sud, dove la schwa viene usata tranquillamente nella pronuncia e i parlanti non hanno problemi a comprendersi. Il colmo dell’infondatezza, nello specifico, si raggiunge da p.33 in poi, quando parte un apparentemente documentatissimo paragone con quanto successo nella lingua francese; si chiamano a documentare quanto accaduto, a p.38, le parole del “ministro dell’Educazione nazionale”, di una storica e di un critico letterario. Premesso che si parla sempre e solo di “documenti ufficiali”, con tutte le riserve del caso usabili come già detto sopra, rimane l’assurdità di paragonare problemi sociali e le loro conseguenze linguistiche per un’altra lingua: ma che senso ha? Infatti la pagina di Wikipedia francese Langage inclusif en français riporta la vicenda a una dimensione più sensata di come parzialmente descritta da questo libretto. Il ministero è intervenuto solo e soltanto sul punto mediano, vietandolo, dopo che un uso molto diffuso si è rivelato inefficace. Non ha detto nulla invece sul trattino mediano, usato anche nei cartelli stradali; e ovviamente non ha dedotto da ciò un pericolo per la lingua francese, ma ha solo prescritto definitivamente una soluzione dimostratasi non adatta. Quello che sarebbe giusto è lasciare che lo schwa faccia lo stesso percorso d’uso tra i parlanti, e poi decidere - senza dare retta a libretti sconclusionati.
C’entra poco anche il paragone con la Svezia, a p.40, perché lì le decisioni dello Stato sono prese e accettate in tutt’altro modo rispetto ad altri paesi; lì dove è stato deciso di introdurre un pronome personale neutro, è anche il paese nel quale le autorità hanno deciso da un giorno all’altro (3/9/1967) di passare dalla guida a sinistra alla guida a destra. Ogni cultura, così come ogni lingua, ha anche le sue abitudini politiche e il suo rapporto con l’autorità. I paragoni stanno a zero. Malgrado ciò, il nostro autore pensa bene di introdurre, per dimostrare non si sa bene cosa, il solito esempio scorretto: una email indirizzata a lui che voleva essere scritta in un linguaggio inclusivo usando lo schwa e invece scritta da chi evidentemente non sa come va usato. Neanche l’autore ha chiaro questo uso, infatti cita a p.42 un noto articolo nel quale si dice “io non sono un asterisco”, cosa che non ha chiesto nessuno e col linguaggio inclusivo correttamente usato c’entra poco. Passando di palo in frasca, un po’ come in tutto il libretto, a p.42 ritorna l’argomento vagamente discriminatorio del suono dei dialetti italiani, e poi il capitolo si chiude non con il botto, ma con due. A p.43 troviamo il classico treno che passa e che viene inesorabilmente perso: “il genere grammaticale è una cosa, il genere naturale un’altra”. Genere naturale? Questo strafalcione dimostra in quali argomenti il nostro autore è debole, e dire che glielo si sta dicendo da un po’; però poi ci pensa lui a prodursi in un altro strafalcione, associando a p.44 compare Turiddu, per la cronaca sicilianissimo protagonista della Cavalleria rusticana, l’identità sarda riconosciuta dall’uscita in -u. Sulle questioni di genere s’era capito che era debole, ma almeno sui dialetti…
Il nuovo capitolo, tutto hybris e vanvera, si apre a p.45 con la convinzione che a questo punto il lettore non abbia capito la sostanziale nullità di questa argomentazione, ancorché inframezzata da inutilità varie, dato che il nostro la ripete: “le strutture grammaticali…non possono assecondare…le fisime di chi pretende…cambiamenti d'emblée" e a questo punto anche il più stolido degli astanti lo ha capito: non sono fisime ma sacrosanti diritti, e comunque nessuno ha preteso niente e tantomeno d'emblée. Due pagine dopo si capisce che il ritorno dell’argomentazione sbagliata era la premessa all’ormai consueto capovolgimento di frittata: dopo due pagine di citazioni di non specialisti che dicono cose ovvie - non sbagliate - sulla lingua e il suo funzionamento, quello che parla di lingua scəma con una notevole faccia tosta dice che “due piani vanno tenuti ben distinti: uno ‘strutturale’ (tecnico-linguistico) e l’altro ‘sovrastrutturale’ (socio-culturale)” - esattamente quello che lui finora non ha mai fatto, usando insensatamente il primo contro il secondo. Infatti le pp.48 e 49 sono fatte da citazioni di chi parla del piano “socio-culturale”, ponendo problemi che andrebbero risolti altrimenti che con libretti irosi e inutili. Paura dei cambiamenti sociali, diritti umani, sperimentazione a scuola, lotta alle discriminazioni - cose delle quali il proposto uso dello schwa può essere un sintomo, uno strumento o un luogo di discussione, ma non un problema. Lo diventa quando se ne riportano solo usi sbagliati tanto per tirare l’acqua al proprio mulino, come si ricomincia a fare da p.50. Dopo tre pagine di citazioni di usi scorretti del linguaggio inclusivo e quindi non pertinenti a nessuna argomentazione, l’autore se la prende con una commentatrice della “sua” petizione, Costanza Jesurum, definendo contributo ipocrita la sua osservazione, quella che indignarsi sommamente per una proposta che al più è innocua e che comunque, se non usata, non avrebbe conseguenze, significa avere poco senso del pudore. E qui viene fuori il problemone del nostro, già sottolineato: non che esistano soggettività non nominate dalla lingua che loro stesse usano, ma no, chisseneimporta se questa gente soffre inutilmente: la cosa grave sono “scellerati usi inclusivi finiti in documenti ufficiali di pubblica fruizione”, altro signora mia dove andremo a finire. Di argomenti risibili e infondati si riempiono le pagine fino alla 57: iniziamo con una excusatio non petita, “ho fondato il movimento Omofobi del mio Stivale” (fatevi due risate andandone a vedere l’attuale presenza), poi il solito assurdo “saremmo costretti ad assecondare i capricci di chiunque accampasse diritti nei fatti di lingua”, poi l’esempio insensato di Timothy Morton, che davanti alla suo diritto di essere correttamente nominato come non binary ha trovato una giornalista poco competente che ha usato lo schwa senza sapere come si fa (per l’ennesima volta un esempio di uso scorretto, esempio che è scorretto usare). Poi si finisce in bellezza con il solito finto argomento: dopo aver lodato l’idea di una “terza opzione” in lingua tedesca per gli annunci di lavoro, si cita un caso di studenti puniti per non aver usato la terminazione inclusiva nei loro elaborati rispetto a chi li ha usati - cosa grave, se fosse accaduta. A dire che non si sa se è vero lo scrive lui stesso. Probabilmente per riprendersi da questa assurdità, il nostro si produce in un’altra figura retorica tipica di chi non ha argomenti: dopo due notizie notevoli (Apple introduce lo schwa nei suoi sistemi operativi, Murgia e Tagliaferri stampano da Mondadori un “romanzo” con lo schwa), si sbeffeggia un gruppo facebook di sostegno all’italiano agènere che ha “la bellezza di 54 membrə”. Un po’ meno di chi usa prodotti Apple e dei numeri di vendita di Murgia e Tagliaferri. Chissà che effetto si voleva ottenere.
Il successivo, per dir così, capitolo (ben 4 pagine) vorrebbe probabilmente dare delle indicazioni di tipo storico da contrapporre all’odierna imposizione dello schwa, inventata dall’autore e dai suoi sodali. Per far questo ci s’inventa (p.59) che lo schwa significherebbe la scomparsa di un femminile che ha fatto tanta fatica a venire usato e per dare prova delle scarse argomentazioni dei “sostenitori” dello schwa (?) viene proposto un brano preso nientepopodimeno che da Radio Deejay - testata competente e nota in tutt’altro. A proposito di gente che non ha “il fegato di”.
Alla fine il nostro vuole proprio fare nomi e cognomi delle persone con cui se la prende - peccato che non cambi la sostanziale nullità delle sue argomentazioni. Prima con Murgia (pp.62 e 63) lui prende come proposta linguistica la sostituzione di patria con matria, seguendo un proposito filosofico di cambiamento di prospettiva riguardo il luogo natale e cosa vi si impara - tutto sfuggito al nostro difensore dell’italiano, al quale comunque importa solo che Murgia usi lo schwa, punto e basta. Poi se la prende con Vera Gheno, la quale commentava un pezzo di Feltri costruito con le stesse sviste usate qui anche in questo libretto, e che vengono al solito del tutto fraintese come fossero prescrizioni per ottenere “un caos completo” (p.65). Che si stia parlando di possibilità da lasciare ai parlanti non viene proprio minimamente considerato; meglio passare al solito paragone internazionale insensato, criticando il singular they inglese non si capisce bene a partire da quale assunto (p.65). Attenzione però al barlume di sensatezza con il quale si apre p.66: “Bisogna però valutare caso per caso. Chi sperimenta la vera sofferenza di una scelta che gli è costata enorme fatica, e pone al contempo un problema che necessita di una risposta linguistica (non saprei però dargliela, pur sforzandomi), merita il massimo rispetto”. Quindi, attenzione: dopo pagine di argomentazioni nulle, il nostro ammette finalmente che lui la risposta al problema di chi non si vede rappresentato nella lingua che parla non ce l’ha. Ha solo tante chiacchiere da fare perché ha trovato lo schwa usato male in un verbale di commissione per l’abilitazione a professore ordinario, questo sì, ma una risposta per chi pone un problema sociale non ce l’ha. Gli altri non possono fare proposte né provare a usarle, ma lui una risposta a soggettività oppresse anche dalla lingua non ce l’ha. Lo schwa è scemo e ridicolo, ma lui una risposta non ce l’ha. Che ha allora? Ha quella cosa che gli fa elogiare le parole di Jonathan Bazzi (riportate per ben tre pagine, da 66 a 68), di per sé del tutto condivisibili, ma disprezzare quelle di una utente sotto pseudonimo, dislessica, che argomenta le stesse cose condivisibili usando lo schwa. Come si chiama contrapporre uno scrittore professionista a una utente anonima? Esatto, quella cosa lì. Chiude il libro la ormai consueta accoppiata di strafalcioni: un accenno alla proposta originale di Luca Boschetto, il primo a pensare allo schwa come soluzione per chi non si riconosce nel binarismo e a proporla pubblicamente, trattato come un “informatico” (?) senza dare conto del suo impegno pluriennale e della sua esperienza di attivista, e la chiusura con uno strafalcione peggiore del già citato Turiddu: “lo schwa farà la fantozziana fine della corazzata Potëmkin”. A parte il fatto che il film di Ejzenštejn è unanimemente considerato un capolavoro assoluto della storia del cinema (e la scena della scalinata di Odessa torna sinistramente d’attualità in questi giorni), quella fantozziana - basterebbe Wikipedia anche in questo caso - è una parodia: Salce, regista di quel “Fantozzi”, non poté ovviamente utilizzare spezzoni dell’originale, quindi rigirò la scena sulla scalinata della GNAM di Roma, usò dei filtri per invecchiare le immagini, cambiò i nomi del regista ("Serghei M. Einstein") e del film, che divenne La corazzata Kotiomkin. Le parodie, come le citazioni, bisogna saperle fare. Come anche i libretti polemici che si vorrebbe ironici e sono solo ignoranti.
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questouomono · 3 years ago
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Questo uomo no, #125 - Quello che inventa 10 motivi che non esistono
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Che sia chiaro fin dall’inizio: se torno a scrivere a proposito di chi attacca lo schwa e il suo uso tra ə parlanti italianə non è per difendere quel segno dell’alfabeto fonetico: difenderlo è qualcosa di cui non si ha alcun bisogno, come non c’è alcun bisogno di attaccarlo. Poi ə parlanti decideranno da solə, nel tempo e con l’uso, cosa farne, e nessun filosofo attivista “pro” né nessun italianista ordinario “contro” potrà farci molto.
Quella che difendo è la mia intelligenza, stanca di leggere insulsaggini e falsità a proposito non di una questione linguistica - che diciamocelo, non interessa più di tanto, dato che non esiste se non nella mente di chi l’ha inventata - ma della importantissima questione sociale che ne è all’origine, e della quale moltə linguistə, ancorché cattedraticə, continuano a dimostrare di non saperne né capirne granché. E questo lo fanno mentre diffondono testi che sono, a mio parere, veri e propri abusi: certamente della pazienza di chi legge e ne capisce, probabilmente - è quello che provo a sostenere qui - di un potere che evidentemente vacilla paurosamente. Paurosamente per loro che lo detengono, e che reagiscono, per esempio, con post su facebook deliranti quanto la famosa petizione. Divertiamoci con il contenuto di uno di questi post.
Il post oltre a contenere chiacchiere e offese gratuite elenca una decina di “ragioni” per fare a meno dello schwa. Comincio a decostruirle dalla numero 2, poi alla fine sarà chiaro perché.
2. Impulso alla generalizzazione (gratuita). Nei sei verbali i cinque Commissari hanno utilizzato gli schwa in modo indiscriminato, in riferimento a se stessi e ai candidati esaminati, come fossero tutti portatori di identità non binarie.
Questo “impulso alla generalizzazione” esiste solo nella mente di chi, per esempio moltə italianistə, di questioni di genere non sanno nulla. Generalizzare è un tipico errore di chi non è molto ferrato in questi argomenti, e infatti l’errore segnalato, “come se fossero tutti portatori di identità non binarie”, è tipico di chi non ha capito a che serve lo schwa; infatti lo scrivente il suddetto verbale non lo è, come ha ammesso anche lui. Si tratta di un banale errore d’inesperienza, non di un “impulso” connaturato all’uso o a chi usa lo schwa, anzi in realtà è l’opposto.
3. Natura destrutturante dell’innovazione. Lo schwa non è un semplice neologismo. È un corpo estraneo che viola irrimediabilmente le regole ortografiche e fono-morfologiche della nostra lingua, e immetterlo in un documento prodotto da un’amministrazione centrale dello Stato pubblico è un precedente di una gravità inaudita. Autorizza chiunque, d’ora in poi, a redigere un atto pubblico in emoji o in volgare duecentesco, o magari a disseminarlo di ke, xké o qlc1 (invece di che, perché e qualcuno).
L’inconsistenza di questa “ragione” appare evidente anche ai non specialisti di linguistica: di “corpi estranei” la lingua ne presenta costantemente, e la violazione delle regole, insieme all’immissione di “corpi estranei”, è esattamente quello che rende una lingua viva - me lo ricordo ancora dall’esame di Filosofia del linguaggio fatto con De Mauro, che aveva nei testi d’esame anche il manuale di Raffaele Simone, dove tutto ciò si può ancora leggere comodamente. Il paragone con gli emoji (che, al contrario dello schwa, non indicano l’emergenza di un problema sociale) e col volgare duecentesco (che rappresenta un corpo sociale ormai inesistente) lascia il tempo che trova, e non impressiona davvero nessunə. Sulla questione “atto pubblico” tornerò più sotto, perché è la più interessante.
4. Disorientamento normativo. Gli “sperimentatori” dello schwa, coscienti dell’impossibilità di spalmarlo in un testo in maniera uniforme e sistematica, predicano regole grammaticali “elastiche”. Nella trascrizione di un’intervista al Corriere della Sera (14 novembre 2021) l’eco-filosofo americano Timothy Morton ha reclamato, per rispetto della sua identità non binaria, la giusta marca di genere, e l’intervistatrice l’ha così riportato nel testo come filosof*. Un qualunque nome – in italiano – si porta però dietro i necessari accordi grammaticali (fra articoli, preposizioni articolate, pronomi, aggettivi e participi passati), e poteva uscirne, al limite, una premessa all’intervista di questa destabilizzante fattura: Lə filosofə non binariə americanə Timothy Morton è statə irremovibile, ha voluto che ci rivolgessimo a ləi come stiamo facendo.
Continua in questo punto 4 a dimostrarsi l’insipienza dello scrivente: come nel caso precedente, è stato chi ha scritto l’articolo a non capire dove fosse il problema, e ha usato una trascrizione che infatti altre esperienze editoriali più informate non hanno usato, come nel libro “Il mostruoso femminile” di Jude Ellison Sady Doyle, che ha preteso lo stesso trattamento di Morton, ed è stato risolto decentemente e non come nel caso citato. La “soluzione” proposta dallo scrivente definita “destabilizzante” è invece solo ignorante di come andrebbe usato lo schwa - ma di questa ignoranza ce ne eravamo già accorti.
5. Illegittima pretesa di una minoranza. Una cosa è chiedere al nostro interlocutore di venirci in qualche modo incontro, con le forme e le parole più adatte e rispettose possibili, se ci siamo scoperti portatori di un’identità non binaria, un’altra cosa è pretendere di metter mano alle norme linguistiche di un’intera comunità nazionale perché soggiacciano alla volontà di pochi.
Questa, da tempo, è la panzana più grossa: non c’è nessuna minoranza che pretende nulla - come potrebbe, da minoranza? Nessunə italianista ha finora spiegato come si attuerebbe questa pretesa, se non col fumoso riferimento al “politicamente corretto” che ormai fa ridere pure chi lo propugnava anni fa. Il distinguo fatto poi è l’ennesima prova d’ignoranza: chi usa lo schwa non chiede nulla all’interlocutore, sta presentando la sua soggettività; sta alla volontà di chi lo vede usato usarlo o meno a sua volta, senza alcuna pretesa. E quella volontà - quindi quella dei molti - non può costringerla nessunə.
6. Estensione all’italiano parlato. Trasferire lo schwa al parlato, stante la limitazione posta al suo utilizzo (la posizione finale), renderebbe di fatto improbabile o impossibile, nel “dialettizzare” l’intera penisola (lo schwa, pur presente anche in altre aree, ha una sua particolare consistenza nell’area geografica compresa fra l’Abruzzo, il Lazio a sud di Roma e il calabrese dell’area di Cosenza, opponendo l’Italia meridionale e mediana al modello normativo tosco-fiorentino), la comunicazione interpersonale.
Aridàje co’ ‘sta 'storia. A parte il manco troppo nascosto razzismo interno in questa cosa sostenuta pure nella famosa petizione, ma possibile che chi scrive queste cose non si accorga della palese contraddizione? Se lo schwa fosse una “dialettizzazione”, allora vuol dire che lo schwa esiste già nel parlato di tantə italianə, quindi l’operazione sarebbe analoga a quella celebre manzoniana, al noto risciacquo in Arno. Non sarebbe una opposizione questa come non lo è stata quella, la quale non è stata affatto un “modello normativo” perché - come ricordato sopra nel testo di Raffaele Simone - la norma dev’essere accettata dai parlanti, e manco Manzoni avrebbe potuto farci niente, se le sue scelte non fossero piaciute e non avessero avuto successo. Lui non aveva alcuna garanzia come non ce l’ha chi usa lo schwa; si sta cercando di capire qual è una soluzione possibile, e non è meno impossibile questa “dialettizzazione” come non lo era quella di un romanziere milanese che scelse un particolare dialetto fiorentino. Non aveva certezze lui come non ne ha adesso chi sta usando schwa, asterischi o altre forme per esprimere una esigenza sociale e umana: vedersi e sentirsi rappresentatə nella lingua che parla, nella comunità nella quale vive. Questo è il problema, non lo schwa.
7. Cancellazione dei femminili. Se l’unanime volontà dei membri della Commissione universitaria era di dare cittadinanza, nei loro verbali, anche al genere femminile, evitando il maschile sovraesteso, sarebbe bastato riferirsi ai candidati e alle candidate, agli autori e alle autrici, e così via, o si poteva parlare di persone e chiuderla lì. Plurali inclusivi come autorǝ o coautorз, anziché contrastare davvero i maschili autori e coautori, spediscono di fatto in soffitta i femminili autrici e coautrici.
L’unica soffitta è quella polverosa della mente che scrivendo questo punto 7 non si è accorto di ripetere l’errore del punto 4 e del punto 3: se chi ha usato lo schwa in quel verbale non lo sa usare - ed è palese che non ne capisca niente di come andrebbe usato, perché quel verbale fa ridere pure i “sostenitori” dello schwa - è inutile insistere con quell’esempio. La “cancellazione dei femminili” esiste solo nella mente delle persone che non hanno capito cos’è e come andrebbe usato lo schwa. Già che ci siamo, possiamo grazie a questo punto 7 aggiungere all’elenco degli ignoranti dello schwa, a italianistə impreparatə pure le femministe radicali, che di loro vedono cancellazioni del femminile anche dove al femminile non ci stava pensando proprio nessunə. Chi vuole usare per sé o per altre il femminile può continuare a usarlo tranquillamente - sulla questione “volontà” vedi sopra il punto 5.
8. Aggravamento di disturbi nell'apprendimento linguistico dei più fragili. Il 4 maggio 2021 il ministro francese dell’Educazione nazionale, Jean-Michel Blanquer, ha inviato una circolare ai direttori amministrativi centrali, ai provveditori agli studi e al personale ministeriale per vietare alcune forme inclusive colpevoli, specie ai danni di allievi dislessici, di complicare la lettura dell’idioma nazionale.
A parte che dei problemi di dislessia sono capacissime di parlarne le persone direttamente coinvolte e non hanno bisogno di difensori, com’è accaduto qui in Italia a proposito di decisioni scellerate nei loro confronti a proposito della vita scolastica che fanno, nessuno minimamente preparato su questi argomenti userebbe per sé l’esempio di una decisione ministeriale pure di un altro paese. Per parlare di “aggravamento di disturbi nell’apprendimento linguistico” ci dovrebbero essere sperimentazioni sullo schwa e articoli scientifici su queste sperimentazioni; in assenza di entrambi, stiamo parlando del proverbiale fumo della pipa.
9. Danni ai pubblici doveri di trasparenza linguistica. Nel 2017 un’altra circolare francese (22 novembre), diramata dal primo ministro Édouard Philippe, aveva invitato i membri del governo a rinunciare all’écriture inclusive, nei documenti ufficiali destinati al pubblico, per non pregiudicarne l’intelligibilità e la chiarezza.
Come si disse già nel 2017 a proposito della decisione citata, si tratta del classico esempio politico di petizione di principio: è almeno ipocrita, se non in malafede, appellarsi a una scarsa intelligibilità di una novità linguistica: in quanto tale, è ovvio che sia ancora non nota ai più. Il che può essere un motivo per bandirla dai documenti pubblici almeno finché non sia di uso corrente - ma sulla questione “documenti pubblici” stiamo per tornare tra poco - ma questo sensato avvertimento non può essere esteso a qualsiasi uso in qualsiasi tempo, altrimenti si sta proibendo un uso linguistico per legge, cosa che - sempre com’è scritto nel sopracitato manuale di linguistica di Raffaele Simone, uno certo non favorevole allo schwa - è una emerita grave stronzata linguistica.
10. Aumento del disordine prodotto dalla moltiplicazione delle marche di genere, per una proliferazione ormai incontrollata: Car* collega, Caro/a collega, Car@ collega, Caro-a collega, Caro(a) collega, Carx collega, Caro.a collega, Caro·a collega, Car’ collega, ecc. Al plurale? Car* collegh*, Carə colleghə, Cary colleghy, Carei colleghei, Carie colleghie, Carз collegз, Caru tuttu, ecc.
Altra ipocrisia: il “disordine” citato sarebbe tale rispetto a quale “ordine”? Le famose regole d’uso də parlanti, che, come dice anche la Crusca, nessuna autorità può imporre? Quelli sono tentativi come nella lingua viva ce ne sono continuamente; producono “disordine” solo nelle menti che vogliono imporre un solo ordine. Quanto queste menti sono di linguistə, la cosa si fa parecchio ridicola. Per fortuna, com’è evidente da anni, ə parlantə se la cavano tranquillamente e senza gridare allo scandalo del disordine.
1. Serio pericolo di un’“ufficializzazione”. Lo schwa, semplice (ǝ) e “lungo” (з), è stato accolto in sei verbali redatti dalla Commissione per l’Abilitazione Scientifica Nazionale alle funzioni di professore universitario di prima e seconda fascia del Settore concorsuale 13/B3 – Organizzazione Aziendale. Entrambi i segni compaiono anche nei giudizi collegiali sui candidati, e in quelli formulati singolarmente dal Presidente, dal Segretario e da un terzo membro dei cinque commissari (qui, però, in un unico caso, con riferimento a un solo candidato: «Professorǝ Associato»). Importare lo schwa in un testo “codificato” – un libro, un documento o un articolo di giornale – è un’aberrazione linguistica. Fra i precedenti la campagna inclusiva promossa da Valeria Filì, dal 2019 delegata del Rettore dell’Università di Udine per le Pari Opportunità («Cresce per tutt* e con tutt*. Uniud è inclusiva»), e il tentativo di adozione dello schwa da parte del comune di Castelfranco Emilia, nella comunicazione social, nella primavera del 2021. Ivan Scalfarotto, sottosegretario di Stato al Ministero dell’Interno, nel rispondere di recente a due interrogazioni, ha sostenuto l’adozione dello schwa inclusivo da parte di Castelfranco Emilia dichiarando che lo schwa sarebbe il frutto naturale di una direttiva, emanata dal Dipartimento della Funzione Pubblica della Presidenza del Consiglio, sulla semplificazione del linguaggio amministrativo, il che, ovviamente, non può essere (“Un candidato al concorso per professori associati e ordinari, se autore di lavori realizzati con altri, è tenuto a indicarne con precisione le pagine”, diventerebbe, se si adottasse lo schwa: “Un candidatə al concorso per professor3 associat3 e ordinar3, se autorə di lavori realizzati con altr3, è tenutə a indicarne con precisione le pagine”).
Oh, attenzione perché qui comincia il divertimento vero. Un passo indietro sarà necessario per capire cosa davvero c’è in gioco in questo punto 1. La petizione “contro lo schwa” è stata scritta e lanciata il 25 gennaio 2022. A quella data, com’è facile controllare, sono stati già scritti, editati, stampati e letti in Italia diversi libri contenenti il carattere schwa. A quella data, inoltre, com’è facile controllare, sono stati già scritti, editati, stampati e letti in Italia diversi articoli di giornale e di rivista contenenti il carattere schwa. A tutto il 25 gennaio 2022 le occorrenze dello schwa in testi online, tra blog e social, non si contano più: la discussione su questo segno esiste online da anni (almeno sette, a mia memoria era il 2015) in circoli, gruppi e associazioni di vario tipo che ne parlano e lo usano abitualmente, diffondendone la conoscenza a un numero sempre più vasto di persone, da anni. Inoltre, questo stesso punto 1 fa riferimento ad atti pubblici e politici di un anno fa e di tre anni fa.
Bene: quand’è che il nostro difensore della lingua sguaina la spada santa e chiama a raccolta tutti i fedeli dell’italiano puro per andare a difendere il tempio di Gerusalemme dall’abominio degli infedeli sostenitori dello schwa? Quando lo legge in un verbale di abilitazione scientifica per professori ordinari, un documento burocratico letto sì e no da una ventina di persone, tra uffici pubblici e diretti interessati alla vicenda, nel 2022. I quali tra l’altro - va detto per onestà intellettuale - non hanno affatto protestato di non aver capito cosa ci fosse scritto.
Perché tutta questa cagnara solo ora? Perché proprio questa paginetta di verbale è il casus belli e non le migliaia di pagine già esistenti? Perché proprio a questo documento si tiene così tanto? Dov’era, cosa faceva, cosa leggeva, di cosa si occupava il nostro condottiero in difesa dell’italiano, in questi anni? È o non è allora una misera storia di potere personale? È o non è allora una banale vicenda di boria offesa? 
Aə posterə l’ardua sentenza; loro avranno deciso in merito allo schwa senza tutta questa inutile caciara, ma preoccupandosi delle persone che soffrono nel parlare e scrivere una lingua nella quale le loro soggettività non esistono. 
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