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Archivio 25.2.23
Sentirsi reduci dai giorni.
La facilità disarmante con cui i miei vuoti mi riaccolgono, la mia memoria muscolare che si scopre intatta, il corpo che si riadatta, riprende il suo posto, si appoggia appena ad un cuscino ancora tiepido, ché forse non mancavo poi da tanto.
E’ stata una canzone, che ne ha trascinata un’altra, che ne ha scorticata un’altra, che mi ha lasciato sotto le unghie macerie di case intere.
Ne parlavo ieri, seduta in macchina in un parcheggio vuoto dopo il tramonto. Ne parlavo dentro alle mie connessioni fragili, le immagini sgranate a far da specchio alle distorsioni che mi danno forma e mi sostengono.
Una canzone ha portato per mano una porta aperta su un cortile interno nel mezzo dell’autunno, porte spalancate su aule piene di tele e pennelli, finestre sigillate di un ultimo piano che non sapevi esistesse.
Quando G. mi ci ha portata, vedevo pericoli dimenticati ovunque, aggrappati ai comodini, alle scrivanie, in quelle matite lasciate per un attimo in un libro aperto. Ché lo so che la vita è andata avanti e non tutte le cose conservano memoria ma le mie mani si fermano e trattengono spaventi.
Quando faccio la conta dei danni, metto in fila indiana tutte le cose che sono e che non dovevo, tutte quelle che sono e non potevo. E sono case vuote, cose vuote, cantine che straripano su scale in piena, soffitte polverose che, prima o poi, esploderanno. Sono i coriandoli quando è passata la festa, la tempera rappresa, i regali che non apro perchè non amo la sopresa, le candeline che non soffio se mi dimentico di respirare.
Quando ho fatto la conta dei danni e camminavo con G. in quell’ultimo piano, faccevo scorrere la mano lungo il muro del corridoio e ad ogni porta chiusa in cui inciampavo, sentivo le preghiere taciute e rimaste nell’aria. Warsan diceva “Benedici la figlia cresciuta da una voce nella testa” e io sentivo un coro di donne che danzavano in cerchio in stanze chiuse, circondate dalle ossa di coloro che le avevano fatte entrare. Benedetta sia la figlia che è figlia di una madre che ha avuto una madre, benedetta sia la figlia che ha ereditato maledizioni. E benedetti siano i padri che sono rimasti a guardare, quelli che hanno teso una mano lanciandola nel vuoto, quelli che hanno promesso appartenenza senza pronunciare alcun voto, benedetti i patti suggellati ad occhi chiusi. Benedette siano le figlie in rivolta a cui va a fuoco la pelle e benedetta quella pelle, solcata e vangata, a far casa al raccolto.
Ho chinato il capo, ho salutato le preghiere, ho portato via con me tre dizionari in una lingua che non imparerò, volevo solo una scusa per tornare, per tradire.
Benedetta sia quella voce nella testa, quella ninna nanna che ho imparato, ma non ricordo da chi.
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Diario caotico di un lutto semi inaspettato #2
Ieri parlavo con M.
Entrambe ragionavamo per ricostruire le sue esperienze di lavoro e scriverle in un modo coerente, quando ad un tratto M. mi ha guardata e mi ha detto sorridendo che sarebbe stato tutto inutile perchè lei non avrebbe potuto fare nessun colloquio di lavoro, la parola “curriculum” era già troppo difficile da pronunciare, figuriamoci “addetta al confezionamento”. Abbiamo riso insieme, facendo l’elenco delle parole complicate nella mia e nella sua lingua e i suoi occhi si spostavano da un punto all’altro del tavolo mentre acchiappavano suoni lontani per riportarli alla bocca.
Ci ho pensato per un po’.
Nella prima pagina del mio personale vocabolario di parole difficili ci sono cose come “rocambolesco”, “improcrastinabile”, “atarassia”; poi ci sono le parole difficilissime.
��Persone”
“Famiglia”
Famiglia, ad esempio, è una parola difficilissima perché si tiene dentro così tanti strati di significato da annegarci sotto eppure a volte riesce ad essere un involucro vuoto da star male.
Famiglia a volte è il tentativo scomposto di cercare un punto di incastro fra due discorsi che da una vita si limitano a scontrarsi per non cercare il coraggio di guardarsi veramente.
Ma capita che non c’è spazio e non c’è ossigeno.
Famiglia può essere un fare insieme che sembra chiudersi nei confini delle mille mail che scrivo sotto dettatura per tutte le pratiche e i documenti da sistemare, assicurazioni da chiudere, contratti da recidere, intestazioni da cambiare; le macerie di una vita in potenza da raccogliere, catalogare e archiviare, ogni angolo nella sua cartelletta accuratamente etichettata, quello che è stato, quello che non può più.
Famiglia è cercare di evitare lo schianto frontale con la sequenza esatta dei “sarebbe stato”, sentendo che a volte la tentazione di lanciarsi senza protezione contro i fari accesi è terrificante. E’ tirare il freno della conta dei danni che si accumulano sempre più alti e precari. Mi cadranno tutti in testa, non mi salvo manco coi tacchi.
Famiglia è una parola difficilissima perché ogni suo componente la pronuncia in una lingua diversa e la spiega in una vita diversa e quando uno manca non so cosa diventa. Quando uno manca, alcune storie vanno avanti mentre una narrazione si cristallizza, perde la sua direzione, si appiattisce come accessorio delle altre. Quando uno manca smette di costruire per sè e resta per sempre in relazione agli altri. E come vanno avanti le relazioni quando l’altro polo è una foto, un messaggio sgrammaticato, un vocale che non so riascoltare? Come vanno avanti quando camminano su occasioni perse, conversazioni mai fatte, domande in silenzio? Famiglia mantiene tutte le sue lettere? perde una vocale? perde il respiro?
Il mio personale vocabolario di parole difficili è un album di foto sfocate con le teste a metà. Non c’è un ordine, non c’è didascalia. Ci sono istantanee mescolate, dove il senso, a volte, è in quello che manca.
Voglio imparare il francese.
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Diario caotico di un lutto semi inaspettato #1
Ho la strana ed irritante abilità di svegliarmi esattamente cinque minuti prima che suoni la sveglia. La prima sveglia, ad essere precisi. La sveglia puntata mezz’ora prima di quella vera.
Ho anche la strana ed irritante abilità di svegliarmi almeno 5 volte a notte, tutte le notti, prima dei cinque minuti prima della prima sveglia.
Mi alzo che già ho lavorato sei ore.
R. invece la notte gioca a far la guerra.
Prima di lui non avevo mai dormito con qualcuno il cui sonno fosse un campo minato di tali dimensioni, di sicuro più grande del letto. Mi viene da buttarmici dentro, fargli schermo con le mani, spingere via tutti i rottami che colleziona sotto le coperte. Ma poi mi fermo a guardarlo, semplicemente. Le pupille che rincorrono chissà cosa sotto alle palpebre chiuse, il respiro irregolare.
Finchè respira, mi dico, va tutto bene.
Da quando il giorno quattro ha iniziato a scandire i mesi, faccio pensieri cretini che mi si appiccicano dietro la fronte, soprattutto la mattina. Mi preparo sempre prima che R. si svegli, faccio un giro attorno al letto e gli do da uno a tre baci sulla guancia prima di uscire. Devo, penso. Se non lo faccio e poi esco e poi lui muore è colpa mia? Piantala piantala piantala, mi dico sottovoce. Tre volte, sennò non vale.
Ora che viviamo insieme, prima di andare a dormire lui va a chiudere la porta chiusa. “Siamo al sicuro anche stasera?”, “Si!”, “Bene!”. Sorridiamo piano, lui colto in flagrante mentre inventa nemici, io a esorcizzare il suo bisogno di ordine e confine. Ho sempre guardato con curiosità a quegli strani rituali con cui addomestica il caos, pensando di comprenderli solo perché ho letto dei libri, pensando di esserne al riparo poiché la loro logica mi è chiara. Eppure, quando lo guardo mentre esco, non riesco più a non chiedermi se lo rivedrò la sera e a maledirmi per quanto sono melodrammatica e ad imbarazzarmi perché so che sono sincera. Corro giù per cinque piani di scale, fingendo di esser già una e mi allontano rapida con una concentrazione che non mi appartiene.
Il giorno quattro scandisce i mesi e con loro il ritmo incomprensibile con cui si muove il mio tempo, una lunghissima collana di prime volte senza. Conto quelle già superate, il primo mio compleanno, il primo Natale, il primo anno nuovo, e mi torturo facendo l’elenco di quelle a venire. Sento la lentezza infinita dei giorni che si attaccano uno all’altro, tutto il peso del vuoto che cerco di colmare mangiando un sacco di dolci, i messaggi che non posso cancellare nè rileggere, i ricordi che non voglio e che ho il terrore di lasciare andare.
Intanto continuo a dare un bacio sulla guancia a R. prima di uscire, che con la fortuna non si può scherzare.
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27.10.18
Scrivo sempre quando a Milano piove. È una forma di casa che non mi aspettavo e che, per quanto precaria, disegna una sagoma di rifugio per quando mi sento una nomade costretta al viaggio.
Gli occhiali mi scivolano dal naso di continuo. Mi hanno seguito dal giorno dopo la laurea, in cinque case diverse, sei lavori diversi, chilometri in auto a ricorrere un'idea di futuro che non si sarebbe realizzata.
Ho uno spazio vuoto dentro che si sta allargando. Sono alta un metro e sessanta scarso, mi inghiottirà.
La ragazza al tavolo di fianco mette in fila indiana le briciole di pane.
Ottobre sotto la pelle.
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Incontrarsi, un po’ per caso. Condividere angoli di vita insieme, cambiarsi a vicenda, imparare sempre, non arrendersi.
Domani per tre di voi la vita ricomincia da capo, e tre di noi resteranno qui a sperare che sia l’ultima ripartenza.
Grazie di tutto, kudà!

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6.10.18
Milano è in uno di quei giorni. È inizio ottobre e l’autunno scalpita. Fuori scende una pioggerellina leggera, quasi impercettibile, e il cielo grigio allunga le facciate dei palazzi verso il marciapiede bagnato.
Sono seduta nel cafè all’angolo fra via Broggi e via Morgagni. Il mio tavolo, di legno chiaro, è appoggiato ad una finestra molto ampia e continuo a perdermi osservando le persone correre sotto l’acqua, che si sta facendo più intensa, disegnare una ragnatela di traiettorie disordinate e confuse.
Il proprietario di questo piccolo locale è canadese e molti dei clienti, per qualche motivo, sono per la maggior parte stranieri. Mi sento come sempre circondata dalle parole sconosciute degli altri che mi permettono, ancora una volta, di isolarmi nella strana bolla di tranquillità del mio taccuino.
Ilaria è partita stanotte e ora si troverà probabilmente in qualche punto indefinito fra Bruxelles e il Nord Africa. Bea ha già iniziato a mettere via le sue cose liberando spazio. La vita si muove veloce, senza aspettarmi.
I prossimi mesi saranno complessi, dovremo costruire nuovi equilibri che ci permettano di respirare senza esserne troppo consapevoli.
Alla radio stanno passando American Tune, di Simon & Garfunkel, che mi ricorda lunghi viaggi in auto e risvegli fra le braccia di qualcun altro; giganti del passato talmente alti da gettare ombre lunghi anni in mezzo alla mia vita.
I clienti vanno e vengono, a ondate, come il silenzio.
“May I sit here?” mi risveglio dalle mie allucinazioni alla finestra, “Yes, of course, take a seat”. Il mio compagno di tavolo si porta addosso un cappotto di solitudine evidente. Ci tiene a farmi sapere che al caffè del Guatemala preferisce quello etiope. Non ho idea di cosa stia parlando. Io sono italiana, l’unico caffè che conosco è quello che ordino al bar senza pensarci. Mi sto perdendo qualcosa?
Le foglie coprono le auto parcheggiate, una ragazza in strada ride all’improvviso, ho dei granelli di zucchero sotto le dita, meravigliosa e temuta solitudine.

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Non ho lavato i piatti, non ho pulito i libri. Ho lasciato tutto com'era, prima di te. E ora che non mi rimproveri più Faccio ammenda col mio volto Per tutto questo freddo. E ancora ti stupisci se pianto sicomori in giardino. Ti stupisci se interro i miei germogli senza una carezza. Se faccio buche e mi ci addormento dentro Solo per sentire la terra che mi disegna un corpo. Ma ho spremuto tutto di me Gli occhi, i seni, i sogni Per dar loro da bere. E guardami ora. Fermo lì, col mio nome sotto ai piedi. Guardami.
Sto sbocciando.
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3.10.18
Ho aperto gli occhi al rumore di Bea che, tuffata nel suo armadio nel buio – l’unico dell’appartamento – cerca una felpa sufficientemente pesante per la giornata. Sono le 8:20 e sono in ritardo. A quanto pare la mia sveglia ha suonato più volte senza che io me ne accorgessi, tenendo sveglia Ilaria in una delle rare mattine in cui avrebbe potuto dormire più a lungo.
“Le ho detto che se voleva ti svegliava lei, io non ci pensavo nemmeno”. Bea sta arrancando per rifare il suo letto sfruttando lo spiraglio di luce che entra dalla porta socchiusa mentre Ilaria, ostinata, sta ancora provando a riaddormentarsi nel letto sopra di lei.
Mi trascino in bagno, la finestra è aperta e lascia entrare un’aria inaspettatamente fredda. L’inizio di un’emicrania mi accompagna in cucina dove, appesa al frigo, sta la prima foto di noi tre nomadi dopo un anno e mezzo di improbabile convivenza. La piccola polaroid è un meraviglioso disastro: il mio volto è spaventosamente al centro, con un mento – spero – poco veritiero nella sua estensione, Ilaria sta in mezzo con un’espressione da adolescente arrabbiata e Bea, semplicemente tagliata, fa capolino sulla sinistra con mezza fronte e un occhio. Ho disegnato a penna il resto del suo volto.
“Questa foto rappresenta esattamente la mia presenza in questa casa”, dice, e la sua assenza continua a parlare per lei.
Un giorno scriverò di Bea. Le scriverò attorno, perché 16 mesi non sono stati sufficienti per trovare neanche una piccola porta verso di lei. Non ho potuto fare altro che osservarla da fuori, cercando di non soffrire troppo per il freddo.
La mia vita sta per cambiare ancora e, come sempre, non mi ha chiesto il permesso.
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30.9.18
Sono in viaggio verso Bologna su una punto bianca ammaccata, colma di attrezzi agricoli, felpe, tabacco, foglie e terriccio. Ho passato la notte a San Giovanni, un paesino abbandonato del ferrarese, e ora percorro quella che sembra una lunga e interminabile linea retta d’asfalto dove “la tristezza piove dal cielo e le nutrie abbaiano dai campi”, per citare il mio compagno di viaggio.
M. con i capelli bruciati da troppe esalazioni di acido peracetico e gli occhi di chi non dorme da mesi sentendo di poterlo fare, guida annoiato su questo grigio e monotono taglio in mezzo ai campi coltivati.
"E il bello è che qui anche la terra è vergognosa, veh. Neanche un pomodoro riusciresti a cavarci fuori! E hai presente le cimici di ieri? Cosa credi che mangino quelle? divorano tutto, immaginati che pacchia”. M. fissa la strada implorando per un'accenno di curva, “qui quelli messi meglio sono alcolizzati, almeno loro hanno trovato un modo per chiudere gli occhi".
Il paesaggio è piatto e secco, case sparpagliate qua e là sono quanto di più lontano dall'atmosfera bucolica che ci si immagina quando si pensa alla campagna. In questo angolo di Italia tutto sembra immutabile, un luogo che trattiene il respiro e non trova tregua dal silenzio. La scuola ha chiuso, le poste sono chiuse, la pompa di benzina è in disuso. Restano un mini market decadente e una piccola osteria che serve allo stesso tempo colazioni e super alcolici e raccoglie probabilmente tutta l'immobile catastrofe dei suoi clienti, dal momento che anche il prete se n'è andato poco tempo fa, lasciando la chiesa disabitata a vegliare sul niente.
Sfrecciamo veloci vicino all’unica industria della zona che ha da poco delocalizzato all’estero la sua prouduzione, aggiungendo così un’altra schiera di padri disoccupati alla porta dell’osteria.
M. è in uno stato indefinibile. Rincorre interminabili impegni di lavoro per colmare la desolazione di una stabilità che non gli serve a nulla. Mi racconta di aver ricominciato a fare il pendolare da Bologna, a un’ora e mezza di strada, pur di trovare la sensazione di avere relazioni umane attorno a sè. L’azienda gli paga la casa ma sembra aver chiesto in cambio tutto il tempo necessario a farlo sentire una persona. Il suo appartamento è disabitato, impersonale. Le sue cose sono raggruppate in un mucchietto disordinato. La cucina è inutilizzata.
M. è sempre brillante, acuto, pronto a dare un senso profondo ad ogni piccolo passaggio della sua vita, ma oggi mi trasmette la sensazione di un vaso che è tracimato da tempo e che non si arrende a tutto quello che ogni giorno continua a perdere; sento la sua stanchezza, il suo disordine, quella mente che non smette di riflettere se non per un paio d’ore a notte. Lo abbraccio, senza muovermi verso di lui.
Guardo fuori dal finestrino mentre cerco di ricordare la prima volta che l’ho incontrato, ma gli anni che hanno segnato la nostra relazione si dispiegano all’indietro in tutte le direzioni e si avviluppano a ricordi che entrambi cerchiamo di tenere lontani.
Ci scattiamo la prima foto assieme dopo 10 anni. Dicono tutti che sembriamo fratelli, e in effetti, in un modo tutto nostro, lo siamo davvero.
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