#Morando Morandini
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BEFORE THE REVOLUTION:
Young posh progressive
Has a crisis of belief
Seeking connection
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A Movie Dedicated To The People Of Italy
The movie that I'm thinking about on this Sunday evening is one that was written about extensively by many different writers -- first, throughout Europe, starting when it debuted at the Cannes International Film Festival in May of 1964 -- and then, here, in the U.S., when it played in theaters, starting on July 16, 1965.
Interest in this movie has continued through the decades to the present, because of the main thread of the plot. The movie is called in Italian, PRIMA DELLA RIVOLUZIONE, which translates into English as BEFORE THE REVOLUTION...
Fabrizio (Francisco Barilli), a young adult male who appears to be in his late teens, lives in the city of Parma, Italy, with his father, mother, and little brother. He is tormented by the injustices of Italian society and by corruption that too many Italians accept.
Fabrizio is a member of the Communist Party and reveres an older man named Cesare (Morando Morandini) who has taught him history, literature, and political theory, for a number of years.
Fabrizio is upset about the fact that the Party does not seem to be making any progress in bringing about a Revolution.
At the beginning of PRIMA DELLA RIVOLUZIONE, Fabrizio is urging a friend of his, another young man named Agostino (Allen Midgette), to join the Party and to introduce himself to Cesare, so that he -- Agostino -- can also learn from the older teacher who believes in the need for Revolution.
Shortly after Fabrizio and Agostino argue over what Fabrizio says are mistakes in judgment that Agostino is making, Fabrizio learns that his friend has drowned in an accident. The news affects Fabrizio deeply; he tells himself that Agostino took his life.
Fabrizio is also conflicted about two women with whom he wants to have a relationship. There's Clelia who is from Parma and there's also his Aunt, Gina (Adriana Asti), who has been living in Milan -- until recently, when she arrived in Parma.
The bulk of the plot of this 105-minute movie details Fabrizio's attempts at figuring out what his priorities are supposed to be. For me to disclose how the movie ends would be a mistake, because writer-director Bernard Bertolucci is serious about the personality details of his main characters; i.e., the way that they relate to each other, the way that they think. These details are important to Mr. Bertolucci; he wants the audience to discover these details on their own, for themselves, as they happen on-screen.
And when you -- you who are reading my words -- get to the end of the movie, I'm reasonably certain that you'll figure out that the movie is criticizing the Communist Party. The Party has no plan of action and is not communicating effectively with Fabrizio's generation.
Some sixty years later, some sixty years after PRIMA DELLA RIVOLUZIONE debuted, Italian society has changed greatly. It has become more complicated. The world, in general, has also changed, as well as Italy's relationships with other countries throughout the world; relationships between countries have become more complicated. Would an Italian man or woman in his or her 70's have any coherent advice about what the Italian government should stand for, what the government's priorities should be? Would a young man or woman in his or her 20's agree with that advice?
If any of this sounds interesting, PRIMA DELLA RIVOLUZIONE is available on DVD with English subtitles.
-- Drew Simels
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Three floors of Moretti 'film' of the season for Morandini
Three floors of Moretti ‘film’ of the season for Morandini
(ANSA) – ROME, NOV 29 – For the cover, Il Morandini 2022 has chosen the film by Nanni Moretti, Three floors. The director’s latest work is rewarded with the first page of the new edition of the Dictionary of films and television series, published by Zanichelli (27,000 films – 16,000 on paper, 27,000 in the digital version -1400 TV series, 950 short films) . Which is traditionally assigned to the…

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#cinema#critic#dictionary#director#feature film#film#home-video#Morando-Morandini#Nanni-Moretti#old#stella#television series#Work
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Cannes e dintorni - I film del festival francese a Milano dal 17 al 23 giugno
#Cannesedintorni - I film del festival francese a Milano dal 17 al 23 giugno
Riprende la stagione le vie del cinema con Cannes e dintorni – dal 17 al 23 giugno nelle sale cinematografiche milanesi. L’edizione 2017 è dedicata a Morando Morandini, il decano dei critici italiani, autore del celebre Dizionario dei film. Biglietteria: CINECARD | 27€ 6 ingressi / 48€ 12 ingressi | da venerdì 9 giugno online e Colosseo Multisala, Anteo spazioCinema, Arcobaleno Filmcenter;…
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La più bella sei tu
Fotografie di Federico Patellani
introduzione di Morando Morandini
Editrice Magma, Milano 1979, 182 pagine
euro 45,00
email if you want to buy [email protected]
L’Italia del dopoguerra, grande provincia ferita, vede esplodere i concorsi di bellezza. Nelle Miss si definiscono dei modelli femminili che il cinema italiano lancia e sfrutta nel suo boom fittizio, abilmente fiancheggiato dai settimanali a rotocalco.
Federico Patellani (1912-1977) pioniere del fotogiornalismo, è protagonista e insieme testimone critico della scoperta di stelle e meteore. La sua camera attenta ci ha lasciato memorabili sguardi, attraverso i quali - trent’anni dopo- possiamo valutare i mutamenti della condizione femminile, dello spettacolo, dell’industria culturale.... di tutta la società italiana.
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#Federico Patellani#Miss Italia#Sophia Loren#Lucia Bosé#Gina Lollobrigida#Silvana Mangano#concorsi bellezza#photography books#libri di fotografia#fashion history#anni cinquanta#fifties#fashion inspiration#fashionbooksmilano
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il Morandini 2022 - Zanichelli
il Morandini 2022 – Zanichelli
Laura Morandini, Luisa Morandini, Morando Morandini, il Morandini 2022, Dizionario dei film e delle serie televisivevai a:il Morandini 2022 – Zanichelli
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PRIMA DELLA RIVOLUZIONE
Anno: 1964 Regista: Bernardo Bertolucci Autore Recensione: Roberto Matteucci Provenienza: Italia
“Non si può mica vivere senza Rossellini.” A Parma, nel 1940, da una ricca famiglia, nasce Bernardo Bertolucci. Suo padre è il poeta Attilio Bertolucci, personaggio con aderenze notevoli nel mondo culturale dell’epoca. Tanti parenti - il cugino Giovanni produttore e il fratello Giuseppe regista – saranno legati indissolubilmente alla nomenclatura culturale italiana di tutti i periodi. Nel 1962 a Parma il giovane Fabrizio combatte le sue utopiche idee nella confusione totale. E’ figlio di una benestante e borghese famiglia, coltiva le sue idee alla moda comuniste e rivoluzionarie. Vuole essere diverso, e finisce a non essere nulla. Questo è l’inizio del film di Bertolucci. Questa volta ci trasporta nel suo mondo, nella sua città, con la sua gente. E’ proprio la città ad imprigionarlo. All’inizio una panoramica dall’alto ci mostra case e palazzi. Pare immensa, in realtà è ancora un piccolo paese dove borghesi e contadini spartiscono lo stesso spazio. L’amico di Fabrizio, Agostino – l’attore Allen Midgette, già visto in La commare secca e successivamente con Andy Warhol – sarà la prima vittima di questa claustrofobia. Voci fuori campo, atteggiamenti teatrali, posture costruite, camera lenta e dettagliata, iconografia esacerbata sono i termini ed il linguaggio del film. La borghesia diventa una logorroica disamina del vuoto di pensiero. Gina – la giovane e bella zia di Fabrizio – ha un perpetuo blaterare senza senso, senza nessun attaccamento alla realtà. E’ completamente persa, sconfitta, nonostante la sua ricchezza. Cerca disperatamente il suo psicanalista. I monologhi sono tanti e predominanti. Le tantissime parole sono la colonna sonora delle immagini ricercate e artefatte. Ma Bertolucci ha senso poetico. Per descrivere Gina gli basta una carrellata sulle foto della sua vita. In questo banale gesto riusciamo però a leggere tutta la sua storia, la sua esistenza e le sue difficoltà. Non c’è bisogno di vuote parole, solo di silenzio. Il successivo gesto sarà capovolgerle una dietro l’altra. Questa è la borghesia di Gina e di Fabrizio. Il fiume Po è maestoso, a volte deborda come le chiacchiere. Tutti si mettono in posa teatrale, in un attimo di sospensione, attendendo l’evento che mai arriverà. Una radio illimitata racchiude lo schermo e Gina si colloca ad ammirarla con aria persa. Il lavoro è inesistente. Ma esiste Proust, Wilde, Pavese. Recitano il Manifesto, ma ignorano la vita, gli operai, i contadini. La possibile povertà non crea paura o sconfitta ma un’incredulità aristocratica all’accettazione d’eventi impossibili. Tanti di questi caratteri li ritroveremo in Novecento: sconfitti da qualsiasi parte si possa scegliere di stare. Per i figli della borghesia non c’è scampo, ma ben più grama sarà la vita dei figli dei proletari. La mano del regista è molto evidente. E’ come il fiume Po: debordante. Il suo decadentismo di un mondo utopico e finto raggiunge l’acme nel suo finale imperioso. Al teatro regio di Parma è in corso la rappresentazione del Macbeth di Verdi. Nonostante la forte sonorità e maestosità, Fabrizio è impossibilitato di liberarsi della sua condizione di alienato. Affronterà Gina e dietro il canto operistico si nasconderà. La sua strada all’indietro è già compiuta. Poco importa se non è quella desiderata. L’incapacità di esprimersi, di essere consapevole renderà impossibile qualsiasi gesto di rivoluzione, e non parliamo di proletariato o politica, parliamo di rivoluzione personali e private. Il contraltare del Macbeth è la festa dell’Unità, conclusione in questo caso dell’amicizia fra Fabrizio e Cesare – il critico Morando Morandini – suo precettore politico. I film devono essere storicizzati e osservati con gli occhi del tempo. Nonostante tutto Prima della rivoluzione sembra essere invecchiato male. Fabrizio incontrerà al cinema un amico. Un ‘’esperto’’, un critico. Lo intontirà di verbose, ridondanti, prolisse analisi fuori senso sulla capacità del cinema di esistere. Fabrizio è preso dalla sua realtà, dalla sua sfiduciata esistenza, non comprende e non gli interessa una smodata ispezione di un gesto cinematografico. Ecco, questa è la pellicola di Bertolucci, non sa liberarsi di un atteggiamento sofisticato. Nel tempo il tutto sembra una sconfitta bruciante.
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“Serviti, basta che ti sbrighi”. La divina nudità della Bardot e “Il disprezzo” (in tutti i sensi) di Godard, ovvero: ode al grande Michel Piccoli
Ma quanto sei str*nzo, Jean-Luc Godard? L’ho saputo, finalmente, quello che tutti già sapevano tranne me: tu non la volevi, Brigitte Bardot, ne Il Disprezzo! Tu volevi Kim Novak, e “per la sua docilità, passività, quella che vedi in Vertigo”! Roba da matti, la Bardot come seconda scelta, e dì un po’, scommetto che nemmeno l’hai ringraziata, la divina Brigitte, specie di averti supportato in ogni tua bizza registica, e in ogni tua stizza, Brigitte che nella sua autobiografia ammette che sul set, con te, di te, non c’ha capito nulla. Tu che la volevi eternare, marmorizzare in un solo film, il tuo film, e rinfacci pure che solo per lei per una volta ti sei degnato, sforzato di stendere una traccia di sceneggiatura, tu che non ne scrivi, non ne sai scrivere, tu che decidi cosa e come girare all’istante, sul set, dove dai indicazioni di massima e quelle sono, tutt’al più su un foglio strappato pasticci due righe al volo da decifrare al meglio. Ti dicevo, Godard, m’hai fatto perdere il filo: tu la Bardot devi incensarla, dacché è solo grazie a lei, alla sua firma su quel contratto, il 7 gennaio 1963, che il tuo Disprezzo vede la luce. È la firma della Bardot che apre il forziere dei (tanti) dollari americani, quelli dei produttori associati a Carlo Ponti, padrone dei diritti del libro omonimo di Alberto Moravia che fa da soggetto al tuo film.
*
Non c’è bisogno, che c’è da spiegare, va bene, lo dico, ma non è una scusa valida che nemmeno Carlo Ponti voleva la Bardot: lui spingeva per Sophia Loren, ovvio, in coppia con Marcello Mastroianni, certo, ma poi alla fine se n’è fatto niente, e non so quanto c’entri tu, il tuo caratteraccio, fatto sta che Loren e Mastroianni firmano per De Sica, e girano Ieri, Oggi, Domani, e tu, Godard, guarda il calendario: hai fissato l’inizio delle riprese, mancano 3 settimane, e sei ancora senza protagonista maschile! Inutile insistere con gli americani, inutile piangere soldi, sì, è vero, se li prende gran parte la Bardot, il nome che attira in sala è il suo, mica il tuo, tu che frigni “per me restano 200 mila dollari”, dimmi: quando tale cifra per fare un film l’hai vista o la rivedrai? O.k., 9 anni dopo, per Tout Va Bien, ma non ora, ora che quella che hai sono spicci per arrivare a chi vuoi, cioè a Frank Sinatra. Dio mio, Godard, ma hai una fortuna sfacciata: per te firma Michel Piccoli. Godard, però, come sei svelto a cambiar faccia! Piccoli, ti sbrighi a lisciartelo, e infatti, cos’è che rimarchi? Ciò che di lui scrivevi, nel 1958, sui Cahiers du cinéma: “In Raffiche sulla Città di Pierre Chenal, tutte le sequenze con Michel Piccoli sono ammirevoli”.
*
Basta ciance, Godard: facciamo questo film, e che ogni attore reciti nella sua lingua madre, affinché ci sia “smarrimento e estraneità, da naufraghi del mondo occidentale”. E Fritz Lang può parlare sia tedesco che inglese. Decida lui, veda lui, tu non fai altro che magnificarlo, “Lang è la Storia del cinema, la classicità”, ma Godard, non l’hai capito che Mister Lang ti odia, Lang sta qui per soldi, solo per soldi, e lamenta che gli hai affidato il ruolo di un fascista. E poi, Godard, tu cerchi di ignorarlo, ma c’è il problema Jack Palance. Godard, ascolta: Palance è sempre ubriaco, non è in sé, sarà il caso di sostituirlo? No: di sostituti non se ne parla. Mi hanno detto che il fotografo per la Bardot sul set, l’unico da lei ammesso, è l’ex di tua moglie Anna Karina. Che non è più tua moglie, lo so, ma è palese quanto a te roda la situazione, d’altra parte, il film è una risposta a Anna, un attacco a Anna, Bardot è Camille e Camille è Anna Karina: siamo alla terza settimana e tu alla Bardot fai indossare quella parrucca nera, quel caschetto nero, identico al caschetto-cult di Anna Karina in Questa è la mia vita. Vuoi che non se ne accorga nessuno? E Michel Piccoli, cioè Paul, sei tu, mio caro Godard: Paul sei tu, in quel pop di appartamento bianco e non rifinito, gli insulti che a Bardot e Piccoli fai tirare addosso… sono i tuoi con la Karina prima che vi mollaste. Cioè, ti mollasse lei. Piccoli è te, te come ti muovi, vesti, fai, te con quel sigaro, quel cappello… chi vuoi far fesso, Godard? Siamo alla scena della Bardot nuda a prendere il sole: quel libro adagiato sulle sue natiche, credi basterà a fermare la censura?
*
Monsieur Godard, complimenti, ce l’hai fatta: il film è finito. Ponti e gli americani l’hanno visto, e sai che dicono? Che non va bene. Per la Bardot. È troppo poco nuda. Che si fa, Godard? Si richiama Brigitte, la si spoglia, si girano le scene di nudo che quei pornomani della produzione vogliono: la prima, lei nuda, la metti a letto con Piccoli, e le metti in bocca quel dialogo assurdo, assurdo per chi ignori le tue intenzioni, Godard, che la Bardot qui è statua di se stessa, glaciazione del suo mito, trasfigurazione della sua supposta idiozia. Si capirà, Godard? O mugugneranno per lei che si offre e da dietro a Piccoli, e per quel “serviti, basta che ti sbrighi”? Non faranno storie nemmeno se la rispogli, e la mostri nuda contornata di bianco? E ancora di lato e ancora di nudo questa volta immaginato, questa volta censurato, nella scena in cui Brigitte si riveste, dopo essersi venduta a Palance. Godard, senti… c’è da andare a Roma. Ti aspetta Moravia, ti aspetta un casino: Ponti, del tuo film, sai che ha fatto? Lo ha cambiato: lo ha tagliato, ristampato, risuonato, ne ha tolto dialoghi, scene, il finale è montato ma al contrario, il finale non c’è! Godard, aspetta a esplodere, perché… non so come dirtelo, ma… Ponti lo ha doppiato! Adesso parlano tutti italiano, e Camille non si chiama più Camille ma Emilia, e i titoli di testa da te parlati non ci stanno più! Godard, hai ragione: è lesa maestà. Alto tradimento dell’originale. Uno scempio di celluloide senza attenuanti.
*
Bravo, Godard, in conferenza stampa ti sei fatto valere: gliene hai dette, a tutti, e hai preteso e ottenuto il ritiro della tua firma dal film. L’hanno barrata sui manifesti! T’importerà un fico secco, ma per la critica il film è un flop totale. Morandini dice che “Il Disprezzo di Godard è la più acuta stroncatura sia mai stata scritta sul Disprezzo di Moravia”. Salvano solo Michel Piccoli. È morto da poco, e tutti a necrologicamente sottolineare che sei stato tu, Godard, col tuo Disprezzo, a dargli identità di attore. Tu, Godard, che a Piccoli preferivi quello spelacchiato di Sinatra! E lo dici senza vergogna. Quando dirai che Piccoli è stato l’unico su quel set a non darti il più piccolo problema, a piacerti e farsi piacere, tanto che siete diventati veri amici, e l’hai richiamato per il tuo Passion? Amico di un musone come te. Come sei irritante, Godard! E come diavolo sai farti amare, in ogni tuo film, dall’inizio di una fine…!
Barbara Costa
I VIRGOLETTATI SONO PRESI DA:
Alberto Farassino, Jean-Luc Godard, Il Castoro, 2002
Morando Morandini, Jean-Luc Godard alla ricerca di Omero, Le Ore, n.47, 28 novembre 1963
*In copertina: Brigitte Bardot e Michel Piccoli sul set de “Il disprezzo”, 1963
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29 mag 2020 17:36
WALTER TOBAGI: UNA STORIA ORDINARIA DI VIOLENZA ROSSA – IL GENERALE DALLA CHIESA SOSTENNE CHE “TRA I SOSTENITORI DEL COMMANDO DELLA ‘BRIGATA XXVIII MARZO' CHE LO UCCISE C'ERANO DEI GIORNALISTI”. MARCO BARBONE, FIGLIO DI UN DIRIGENTE EDITORIALE DELLA SANSONI, GRUPPO RCS. E PAOLO MORANDINI, FIGLIO DI MORANDO, CRITICO CINEMATOGRAFICO DEL GIORNO. ANCHE FERRUCCIO DE BORTOLI HA PARLATO DI "ZONA GRIGIA…"
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Massimiliano Scafi per “il Giornale”
Cinque colpi di pistola, sparati da un gruppo di ragazzi della buona borghesia milanese. Storia ordinaria di violenza rossa, roba di quarant' anni fa, un agguato contro un giornalista di una sinistra diversa, liberale, e il Corriere della Sera che rimane sullo sfondo. La Federazione della stampa e il Comune oggi gli hanno dedicato una panchina della memoria. Ma perché lui?
Perché Walter Tobagi?
Semplice. «Perché era un democratico - spiega Sergio Mattarella - un riformatore, e questo risultava insopportabile al fanatismo estremista».
Insomma, «rappresentava ciò che i brigatisti volevano cancellare, un giornalismo libero e senza stereotipi».
Anni duri. Tobagi indagava in quel mondo, sosteneva che i terroristi «non sono samurai invincibili», però spesso trovavano sponde anche nei quotidiani. Racconta il suo amico fraterno Massimo Fini: «Walter ed io, con Franco Abruzzo, spezzammo il fronte socialcomunista che reggeva il sindacato. Per noi liberali e socialisti, quella con la destra di Autonomia fu un' alleanza dolorosa ma necessaria. Lui divento il presidente dell' Associazione lombarda dei giornalisti e da quel giorno, per una certa sinistra vicina al Pci, siamo diventati i nemici.
Walter subì minacce per questo». Un clima che, secondo il Psi dell' epoca, unito al profilo professionale di Tobagi e al suo modo di scavare nell' eversione, ha favorito la sua morte.
L' estremismo, l' editoria, i contrasti in redazione, il partito armato. Bettino Craxi ci vedeva un nesso stretto. Carlo Alberto dalla Chiesa, in un' intervista a Panorama, sostenne che «tra i sostenitori della Brigata XXVII c' erano dei giornalisti».
Due dei membri del commando appartenevano in qualche modo all' ambiente. Marco Barbone, figlio di Donato, dirigente editoriale della Sansoni, gruppo Rcs. E Paolo Morandini, figlio di Morando, critico cinematografico del Giorno. Che dire poi della rivendicazione?
Troppo precisa, troppo piena di particolari della vita professionale di Tobagi per non destare sospetti. Anche Ferruccio de Bortoli ha parlato di zona grigia. «Il terrorismo si nutri dell' ignavia di parte della cultura, del giornalismo che ne subirono il fascino perverso».
Anni terribili. Walter Tobagi oggi avrebbe 73 anni e, secondo molti, sarebbe stato il direttore perfetto per il Corriere. Invece era il bersaglio perfetto, come tanti altri personaggi moderati, di frontiera: Giugni, Casalegno, Bachelet, Biagi. Resta, dice ancora il capo dello Stato, «il simbolo di un giornalismo che non si piega». E una panchina.
LA PREFAZIONE DI FERRUCCIO DE BORTOLI AL VOLUME SU WALTER TOBAGI
Ferruccio De Bortoli su Facebook
La mia prefazione per il volume "Poter capire, voler spiegare. Walter Tobagi quarant’anni dopo", a cura di Giangiacomo Schiavi, in edicola da mercoledì 27 maggio con il «Corriere»
Quando venne ucciso, Walter aveva 33 anni. Oggi ne compirebbe 73. Sei più di chi scrive. Che cosa avrebbe fatto se la sua vita non fosse stata lasciata lì, sull’asfalto bagnato di via Salaino, a Milano, in un freddo e piovoso 28 maggio del 1980? Me lo sono chiesto tante volte.
Due anni prima, quando Sandro Pertini venne eletto alla presidenza della Repubblica, nel veemente discorso inaugurale del settennato disse che al suo posto avrebbe dovuto esserci Aldo Moro, assassinato dalle Brigate rosse pochi mesi prima. Tobagi sarebbe stato un ottimo direttore del «Corriere della Sera» e avrebbe potuto ripercorrere, sul versante cattolico e socialista, la traiettoria che segnò, dal lato liberale e repubblicano, la carriera politica di Giovanni Spadolini, primo presidente del Consiglio non democristiano nel 1981.
Walter era un moderato per cultura ed educazione. Arrivò al successo professionale in un’epoca di estremismi ciechi. Anche tra i suoi colleghi. Sbagliò secolo. Quel figlio del Novecento si sarebbe trovato maggiormente a suo agio oggi e avrebbe ricevuto consensi trasversali in questo nostro tempo. Un tempo nel quale una figura come la sua — analista senza pregiudizi della società e interprete delle sue viscere — è rara e preziosa. Ci mancano i tessitori inclusivi, i compositori di frammenti sparsi, gli esploratori degli umori nascosti. Lui lo era. Tobagi, nei miei ricordi personali, aveva un carattere dolce. Era sempre disponibile. Con tutti.
Anche e soprattutto con i colleghi più giovani, inesperti e percorsi (io per primo) da troppi fremiti ideologici. Un carattere dolce, certo, ma inflessibile sui principi di onestà e rettitudine che già allora apparivano non così diffusi (ma poi sarebbe stato peggio). Era un mediatore raffinato ma, nello stesso tempo — facemmo parte insieme dell’organo sindacale del «Corriere» — un negoziatore abile e risoluto. Un leader dalla forza tranquilla. Non aveva bisogno di alzare la voce per farsi ascoltare.
In questi anni la sua figura professionale e umana ci ha accompagnato nella vita di tutti i giorni. È stato per me come avere un angelo custode. Ho visto crescere e affermarsi i figli, di cui Walter sarebbe stato fiero. Benedetta, all’epoca dell’assassinio, aveva tre anni.
Ha seguito le orme del padre ed è autrice di libri di successo. Come mi batte forte il tuo cuore (Einaudi) è un bellissimo ricordo. Luca, il figlio maggiore, è uno dei più apprezzati analisti finanziari e asset manager. Come il padre (ha il suo stesso modo di intercalare il discorso, il medesimo uso dei tempi lunghi) ama e sa scrivere.
Ha tre figli. Stella, la mamma e vedova di Walter, li ha accuditi ed educati con silenziosa determinazione, superando anni di grande dolore e difficoltà. La sua voce al telefono conserva i tratti giovanili. Il suocero Ulderico, ex ferroviere e padre di Walter, quel mercoledì di maggio, arrivò sul luogo del delitto. Gridò: «Figlio mio». Tentò di nascondere alla nuora la vista del marito sbattuto sull’asfalto. Un gesto che non avrei più dimenticato.
Fabio Felicetti, nell’edizione del «Corriere» del giorno successivo, scrisse un pezzo asciutto e privo di retorica. La penna di Walter era schizzata via dal taschino, l’ombrello caduto, la mano sembrava ancora muoversi. Il direttore Franco Di Bella e il suo vice Gaspare Barbiellini Amidei, affranti e disorientati. Gli sguardi increduli e addolorati del questore Antonio Sciaraffia e dell’editore Angelo Rizzoli. E noi, suoi colleghi, eravamo lì. Impietriti. Sperduti.
Quante volte ci era capitato di assistere a una scena del genere. In quegli anni era la normalità. Quasi ogni giorno al mattino squillava il telefono in redazione. Un attentato, una bomba o, come si diceva con termine bruttissimo, una «gambizzazione».
Noi cronisti uscivamo, ci precipitavamo sul posto. Routine. Ma quella volta sotto il lenzuolo bianco, sporco di sangue e intriso di pioggia, c’era un nostro collega e amico. Mi vergognai del cinismo e del distacco di quelle troppe altre volte.
Come si scrisse allora, Tobagi era caduto sulla frontiera della lotta al terrorismo che insanguinò quegli anni. La violenza politica sembrava un male inestirpabile. Dilagante. Anche grazie a una diffusa zona grigia di accondiscendenza borghese alla protesta con le armi. Come se fosse lo Stato a produrre quell’eruzione di violenza e non a subirla. Tobagi però non fu un eroe civile (definizione che non gli sarebbe piaciuta). Bensì un combattente della normalità del dovere. Walter cadde mentre andava, privo di qualsiasi scorta, a prendere la propria auto. Meta: via Solferino, la sede del «Corriere».
Altri persero la vita allo stesso modo, continuando a vivere come ogni comune cittadino: alla fermata dell’autobus, al rientro a casa o dopo aver accompagnato i figli a scuola. Nella ripetitività dell’agenda quotidiana, nel rispetto dei propri impegni lavorativi e familiari.
Eppure erano tutti, come Walter, soldati civili schierati lungo un’invisibile trincea della legalità. Sapevano di essere esposti. Non se ne curarono. Non pensarono a sé stessi. Nelle retrovie qualcuno tifava per l’eversione o, più subdolamente, se ne lavava le mani.
Il terrorismo degli anni di piombo si nutrì a lungo dell’ambiguità iniziale di partiti e sindacati, dell’ignavia di parte della cultura e del giornalismo che in qualche caso ne subirono il fascino perverso.
L’attacco estremista allo Stato democratico si concentrò soprattutto sui moderati, sulle figure cerniera tra classi e correnti ideologiche. Bersagli scomodi perché non facilmente individuabili come nemici del proletariato. E Tobagi, come Carlo Casalegno, Vittorio Bachelet, Ezio Tarantelli, Massimo D’Antona, Roberto Ruffilli, Marco Biagi e altri, era uno di questi.
Walter cercò di capire fino in fondo le ragioni intime della violenza estremista, le cause sociali, le derive dei movimenti, le personalità contorte dei leader. Ma, così facendo, li mise a nudo nelle proprie contraddizioni. Non erano «samurai invincibili». Tutt’altro, erano fragilissimi.
Tigri di carta, come si diceva nella retorica antimperialista. Erano persone accecate dall’odio ideologico anche se mossi da una perversa idealità rivoluzionaria. La verità su quella stagione di sangue non ce l’hanno raccontata tutta nemmeno oggi. Tobagi li mise, con i suoi articoli, sul lettino dello psicanalista o davanti allo specchio non deforme della propria devianza criminale e della propria residua coscienza. Ribaltarono il lettino, ruppero lo specchio e lo crivellarono di colpi.
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Comienza en Barcelona el Festival de Cine LGBTI, dedicado este año a Cuba
Filmoteca de Cataluña (Foto: Pedro M. González)
BARCELONA, España.- Dedicado este año a Cuba, que compite con varios documentales de corto y largo metraje, una película y otros materiales de muestra, se inicia esta noche en la Filmoteca de la ciudad condal la decimoséptima edición del Festival de Cine LGBTI que visibiliza a la comunidad gay-lésbica del país y el mundo.
Hasta el próximo 29, y durante diez días, el evento acogerá también a más de medio centenar de audiovisuales procedentes de otras regiones además de las autónomas.
El programa inaugural estará dedicado a debatir sobre transfobia que se aún se respira en este revuelto puerto del mediterráneo, y tendrá un panel de expertos integrado por Mercè Meroño, Fina Campas, Fabiola Llanos, Morando Morandini, Gherardo Morandini y la presencia de Carmen de Mairena.
Se tiene previsto para mañana 20 de octubre la acreditación oficial y la ceremonia de apertura a las 9:30 p.m. en la Sala Laya, con la película cubana Santa y Andrés (Carlos Lechuga, 2016), que ha sido censurada y nunca exhibida en su país y cuenta una historia de intolerancias y prejuicios no solo de índole sexual, sino social y política, sobre la cual se teje una retorcida historia de amor.
Se trata de dos personajes ricamente conformados que integran la galería de ilustres seres humanos en nuestro cine. La película parece hibridar en un contexto ficcional a dos intelectuales coetáneos y “desviados” del proceso revolucionario: Delfín Prats y Reinaldo Arenas.
Otro largometraje, pero esta vez en el género documental, es Villa Rosa (Lázaro G. González, 2016), que nos ubica en Caibarién, humilde poblado de pescadores al centro-norte del país, el que organiza anualmente un carnaval acuático por parte de la activa comunidad gay residente allí, oportunidad que aprovechó el joven director junto a sus guionistas para investigar y revelar criterios y experiencias de muchos de los lugareños, acerca de su vida en ese sitio.
En realidad la indagación del filme trasciende el hecho puntual para abordar el asunto mucho más allá del contexto, partiendo de los diversos puntos de vista que, según las personas llamadas a concurso, sus profesiones y niveles culturales, van tejiendo un mapa de la diversidad sexual, su historia (macro y micro) así como sus accidentes, desde lo específico y local a lo nacional. Sin que falte el aporte inusitado de una población mayoritariamente hétero y respetuosa.
Otro documental del mismo realizador de Villa Rosa es Máscaras (2015) que trata tema y protagonista similares y que le sirvió de tesis periodística para graduarse de la FCOM, se exhibirá el domingo 22 a las 6:30 p.m.
Cartel del evento (Cortesía)
Pequeños filmes prosiguen este sendero de indagación en identidades alternativas y disidentes: Luxemburgo (Fabián Suárez, 2016) sigue la relación fallida entre un hombre obeso, gay y soñador, y un guardia de seguridad de la primera fábrica de McDonalds que se abriría en Cuba. Machismo, doble moral y homofobia teñida de pragmatismo e insensibilidad, caracterizan este acercamiento a una zona de la sociedad cubana, sin dejar de apuntar a aspectos universales.
Por último, el corto documental Batería (Damián Sainz, 2016) visita desde la cámara el interior de una antigua fortaleza militar en ruinas, en las afueras de La Habana, adonde acuden homosexuales no solo en busca de sexo, sino también de un refugio emocional detrás de sus muros y escombros. Estimable ensayo sociocultural que aboga por el testimonio no solo a nivel de imagen sino también sonoro, para trazar una cartografía de espacios representativos de la periferia a la que es relegada la comunidad diversa en Cuba, abocada no solo a la marginalidad sino al peligro, a pesar de lo cual muchos logran erigir un digno y hasta hermoso albergue.
Para el Domingo 29 está prevista la ceremonia de clausura a la misma hora que la apertura, pero en la Sala Chomón.
Comienza en Barcelona el Festival de Cine LGBTI, dedicado este año a Cuba
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Three floors of Moretti 'film' of the season for Morandini
Three floors of Moretti ‘film’ of the season for Morandini
(ANSA) – ROME, NOV 29 – For the cover, Il Morandini 2022 has chosen the film by Nanni Moretti, Three floors. The director’s latest work is rewarded with the first page of the new edition of the Dictionary of films and television series, published by Zanichelli (27,000 films – 16,000 on paper, 27,000 in the digital version -1400 TV series, 950 short films) . Which is traditionally assigned to the…

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Sabato 22 aprile 2017 dalle ore 10 alle ore 17 Fondazione Cineteca Italiana inaugura "La Biblioteca di Morando" uno spazio speciale dove immergersi nella lettura e nello studio del cinema dedicato al grande critico cinematografico Morando Morandini, la cui vasta biblioteca (composta da oltre tredicimila volumi, lettere, fotografie, faldoni di appunti a partire dal 1952) è stata donata dalla famiglia alla Cineteca di Milano. http://ift.tt/2oRYhRo
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Sarà che sono invecchiato di botto, ma stento a riconoscermi. Mi viene in mente Baudelaire, quando ormai trafitto dal rincoglionimento, passando davanti a uno specchio si toglieva il cappello e salutava la sua immagine senza riconoscerla.
Morando Morandini intervistato da Antonio Gnoli su Repubblica
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A Morando Morandini
Vi confido che la fine della gran parte delle mie solipsitiche (leggi: nascoste) visioni cinematografiche coincide molto spesso con la lettura del relativo commento morandiniano: per farmi la bocca buona, diciamo. Sempre che sia possibile, visto che la mia copia del suo dizionario è un tantino obsoleta, e comincia ad avere ingiallimenti sugli angoli della carta. Come si conviene, ha un numero molto elevato di chiose, di croci, di cerchiature, di scarabocchi. Relativamente a ciò, Morandini, credo di averlo mandato superbamente a quel paese diverse volte: manco del buon gusto e della gran cultura che contraddistingue il suo pensiero, e dunque a me tanti brutti film piacciono. Abbiate pietà di me! In compenso, apprezzo sinceramente il fatto che di "Jackie Brown" abbia scritto bene, anzi l’abbia considerato cinematograficamente più degno dei due cult tarantiniani per eccellenza: anche per un critico, ho notato, è cosa niente affatto scontata. E per citare proprio il commento a quel film, anche di Morandini, oggi, si può dire che "a modo suo, è già un classico". Vorrei, un domani, avere un briciolo delle sue conoscenze, il suo dono della sintesi soprattutto, e il suo spirito critico, e la sua verve. Non scriverò un dizionario, certo, ma almeno per soddisfazione personale.
Nel frattempo, questo mio inutile ricordo lo voglio coronare con alcuni dei commenti critici a sua firma che adoro: fra quelli letti per ora, i più cattivi, i più accaniti: ossia, un po' tutti quelli sui film di George Pan Cosmatos, regista che io trashamente parlando adoro (non potete capire, è una droga: tenetelo a mente). Non sono certo i commenti più profondi ed acculturati, ma sono francamente fra i più divertenti. Ecco che cosa aveva pensato Morandini di: Rambo 2, Cobra, Shadow Program.
Rambo 2 - La vendetta • Sceneggiato da S. Stallone con James Cameron, autore di una 1ª sceneggiatura che fu assai rimaneggiata. Mentre è ai lavori forzati, John Rambo ottiene la libertà anticipata a condizione che torni in Vietnam per liberare i prigionieri americani ancora chiusi nei campi. Seguito fumettistico in cui, scomparsa ogni ambiguità, si mette l'accento su una forma di patriottismo fanatico, facendone un veicolo di propaganda per la politica del presidente Reagan che ne approfittò subito (La prossima volta manderò Rambo). Il suo vero contenuto è la rilucente massa muscolare di Stallone.
Cobra • Dal romanzo Fair Game di Paula Gosling. Marion Cobretti, in arte Cobra, fa parte della “zombie squad” (squadra gasati) di Los Angeles che dà la caccia a maniaci sanguinari, assassini psicopatici e a una setta di fanatici sciroccati che vogliono rigenerare l’Occidente corrotto. Parla poco, ma sentenziosamente (”Tu sei la malattia, io sono la cura” oppure “Qui la legge si ferma e comincio io”) e ne ammazza cento. Narrativamente: un caso di cretinismo premeditato. Ideologicamente: al livello più basso della pornografia violenta. Stilisticamente: in linea con l’estetica convulsa del videoclip. Scritto da S. Stallone. Dallo stesso romanzo fu poi tratto nel 1995 Facile preda.
Programma segreto • Mentre il presidente degli USA sta per varare un programma che prevede un ingente taglio alle spese militari, muoiono assassinati i componenti di un Centro governativo di ricerche sociali. Bobby Bishop (C. Sheen), uno del Centro, sospetta un complotto, guidato da una talpa di estrema destra, annidata nella Casa Bianca. Ha due alleati: una sua vecchia fiamma (L. Hamilton) e il suo paterno superiore (D. Sutherland), ma sono affidabili? Inetto, insulso, inverosimile thriller politico, scritto male e girato peggio. Sheen passa da uno stunt all'altro con una faccia espressiva quanto il dorso di una pala. Tra i comprimari si fa notare, come politico sudista, lo scrittore G. Vidal.
#morando morandini#morandini#2015#cinema#obituary#commiato#dizionario del cinema#il morandini#zanichelli
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Fellini tradito: il Fulgor restaurato “è l’immagine delirante di un bordello parigino”. Il ‘j’accuse’ di Guaraldi, editore felliniano (mandato ignobilmente al macero)
Grattacielo di Rimini. 35 anni fa. Su quella specie di cementificato dito medio in faccia al progresso accade l’evento. Epocale. A una certa ora un raggio laser compone la scritta “Grazie Federico!”. Quella non è una scritta. Si tratta di spago chirurgico. Il segno visibile urbi et orbi che la ferita tra Rimini e il suo concittadino maximo, Federico Fellini, è sanata. 35 anni fa. Anteprima mondiale di E la nave va… film di onirica prepotenza – scritto, cioè, in trio, da Fellini, Tonino Guerra e Andrea Zanzotto – al Grand Hotel di Rimini. Fellini, sornione, nell’amataodiata Rimini, abitata dagli odiati e sbertucciati riminesi – si dice che il genio facesse ingresso di notte, nella città malatestiana, a far ciao ciao all’amico di sempre, Titta Benzi, per poi scappare tra le poppe di Roma – ritorna, ci sta a stappare amarcord.
35 anni fa Mario Guaraldi progetta la prima mondiale di ‘E la nave va…’, riconciliando Fellini con Rimini
Protagonista del progetto planetario, l’editore Mario Guaraldi. Intorno all’evento fu edito un libro da collezione, per La Casa Usher, Fellini della memoria, “una comune testimonianza di affetto”, “gioco delle fantasie e delle sottigliezze”, “non libro” bensì “cronaca di un lungo ‘viaggio per mare’” (così Guaraldi), con contributi aurei di Umberto Eco (che in Theut, Fellini e il Faraone paragona Federico a Proust e ne parla come dell’uomo “vissuto per redimere il cinema”), Enrico Ghezzi, Morando Morandini, Brunello Rondi, Sergio Zavoli. Ora, come si sa, la ri-apertura del cinema Fulgor, dopo troppi anni, 35 anni dopo, per i 98 anni di Fellini (il 20 gennaio), dovrebbe essere il sigillo ultimo sul rapporto ricomposto tra Rimini e il suo titano, la prima nota di un progetto – plurifinanziato dal Mbact, per 9 milioni di euro – che riguarda anche il castello del Malatesta, Castel Sismondo, intitolato Museo Fellini. Beh, a Guaraldi, l’editore di Fellini, il progetto non piace niente. Il Fulgor restaurato, ha scritto Guaraldi in una lettera pubblica, “è l’immagine delirante di un bordello parigino di fine secolo, un trine di dorate vulve chippendale su fondo oro”, frutto delle “fantasie senili di un celebre scenografo forse tanto sopravvalutato quanto certamente sovrappagato” (trattasi di Dante Ferretti, scenografo tre volte Premio Oscar). In sostanza, “Il Fulgor attuale mi pare davvero il tradimento massimo e ingiustificato della ‘povera’ sala cinematografica celebrata da Federico”, per non parlare del futuro, futuribile Museo Fellini “carcerato nell’ex galera di Castel Sismondo… inciuci malatestiani, improvvisazioni felliniane!”. Il punto profondo, però, non è un restauro opinabile. “Il fatto è che si è ragionato sui contenitori senza pensare ai contenuti, una cosa pazzesca”, mi dice Guaraldi, contattato nella sua dimora a Covignano, la ‘Casa dell’Editore’. In effetti, han pigliato i soldi per il fatale Museo Fellini senza uno straccio di comitato scientifico. “Guarda, è da sei anni che ho proposto al Comune di Rimini di rilevare tutte le mie opere felliniane, cedendo la gestione agli amministratori pubblici”. Invece? “Invece sono stato preso per i fondelli. Dell’opera di Fellini, evidentemente, importa a nessuno”. Per capirci. Al di là di una vasta messe di libri esegetici ‘felliniani’ – dal Fellini del giorno dopo di Tullio Kezich alle Fellinerie di Paolo Fabbri al centrale Il cinema di Federico Fellini di Peter Bondanella – Guaraldi è l’editore di due progetti fondamentali per capire Fellini. Intanto, il libro ‘monstre’ La mia Rimini, in italiano, inglese e francese, con testi di Fellini, Sergio Zavoli, Piero Meldini e un mucchio di altri, un vero e proprio compendio di ‘romagnolità’ felliniana, una specie di enciclopedia fellinesca. Poi, è il fautore de Il libro dei miei sogni, la versione digitale, plurilingue, commentata, del libro dei sogni di Fellini, “fonte inesauribile di ricerca per i futuri cultori della psicologia del profondo ma soprattutto per gli appassionati di cinema”.
‘La mia Rimini’: indispensabile enciclopedia felliniana. Snobbata dagli amministratori
Va detto che Guaraldi fu pure artefice di una avveniristica versione in 3D dei materiali felliniani, allo scopo di proiettarla nell’aereoporto di Rimini – intitolato a Fellini – prima che questo implodesse. Esito: “sono arrivato a offrire tutti i miei materiali gratis, ormai sono vecchio. Niente da fare. Eppure, quando i soldi arrivano dallo Stato si trova sempre il modo di usarli”. L’idea, insomma, è spudoratamente pubblicitaria. Basta dire al mondo che Rimini si occupa di Fellini (e il messaggio è stato recepito, visto che il New York Times ha indicato tra le 52 mete da visitare nel 2018 anche Rimini, proprio per la riapertura del Fulgor), pure se è una mezza verità, sotto il fumo manca l’arrosto, sotto il vestito è il niente. “Fellini mi porta sfiga, lo so. E so anche che tutti sperano che schiatti presto, prima o poi capiterà. Ma io l’ho detto al Sindaco di Rimini: non accetto onori postumi né l’intitolazione di una piazzetta, ho dato istruzioni che al mio funerale un coro di pernacchie sommerga i politici di questa città”. Immagine felliniana, non c’è che dire.
Davide Brullo
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Lettera aperta alla città
Caro Direttore,
Essere profeta è un bel guaio.
Poco più di diciotto anni fa, recensendo un ridicolo “pellegrinaggio in 13 tappe” nei luoghi di Amarcord (la quinta tappa era sotto il gran culo bronzeo della statua ai caduti, in Piazza Ferrar) scrivevo :”ci mancava solo l’odierna comparsata strapaesana a colmare la misura del kitch”. Ma mi correggevo subito e aggiungevo: “Temo che non ci sia limite al peggio: a quando le palle di vetro con la neve, o i portachiavi con l’effige di Fellini, o una griffe di sciarponi rossi?”. Ora, mentre tutti tessono giustamente le lodi dell’efficientissimo Sindaco Gnassi e nessuno ricorda i guai fatti dai sindaci e dagli assessori precedenti con la finta Fondazione Fellini; e tanto meno rimpiange il vuoto pneumatico dell’era Ravaioli, è un fatto che il dna degli inciuci e gli errori di quegli anni lontani li si ritrova ahimè inevitabilmente nei connotati dei frutti giunti finalmente a maturazione.
In versione digitale, griffato Guaraldi, con la cura di Paolo Fabbri, l’abbecedario onirico di Fellini: interessa a qualcuno?
Sicché il Fulgor restituito alla città, che “ammireremo” coi nostri occhi sabato prossimo (prenotando per tempo la “visita” guidata”), affidato alle fantasie senili di un celebre scenografo forse tanto sopravvalutato quanto certamente sovrappagato, è – se possibile – ancora peggio delle temute palle di vetro con la neve rutilante dentro. È l’immagine delirante di una bordello parigino di fine secolo, un trine di dorate vulve chippendale su fondo oro che nella fantasia di Dante Ferretti vorrebbero rappresentare la creatività erotica e barocca di Federico Fellini (già teorizzata dall’ex “curatore della memoria” del Maestro Gianfranco Angelucci : “la f..a è il perno della creatività felliniana”); e diventa un tripudio del kitch riminese, la rivincita del “cattivo gusto” per quegli stessi che sbadigliano a morte guardando Amarcord e gli altri capolavori del Maestro. Che palle, ‘sto Fellini! Il Fulgor attuale mi pare davvero il tradimento massimo e ingiustificato della “povera” sala cinematografica celebrata da Federico: perché la povertà disadorna di quella sala risuonava della ricchezza della sua fantasia almeno quanto la ricchezza barocca della sala odierna fa risaltare solo la povertà di idee che ci sta dietro!
No, non credo proprio che Federico sarebbe contento di questo “regalo” della sua città. Credo anzi che questo sia l’ “inferno” immaginario in cui lo abbiamo recluso. Così come si è progettato di carcerare il suo “Museo” nell’ex galera di Castel Sismondo… Inciuci malatestiani, improvvisazioni felliniane! Quante storie potrei raccontare ai riminesi sulle collocazioni fantasticate per il Museo Fellini! Personalmente, a fine carriera come sono, spero solo che la brava Elena Zanni , gestrice del Fulgor, possa far “dimenticare” il cattivo gusto della sala con la qualità delle future programmazioni.
Mario Guaraldi
PS Chi volesse documentarsi sulle diatribe che hanno accompagnato la vita della Fondazione Fellini e i suoi annessi e connessi, sarò lieto di aprire i miei archivi Fellini dal 1983 ad oggi…
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26 nov 2018 09:54
VITA, PENSIERI E RACCONTI DI BERTOLUCCI: ‘’QUANDO PROIETTAI ‘NOVECENTO’, ALLA FINE DEL PRIMO TEMPO PAJETTA MI ABBRACCIÒ. POI, VEDENDO LE IMMAGINI DELLA LIBERAZIONE IN CUI MOSTRAVO ANCHE IL LATO OSCURO, SI ALZÒ FURIOSO E SE ANDÒ GRIDANDO. AMENDOLA DISSE CHE ERA BRUTTISSIMO, VELTRONI…’’ - FRASI: ‘I CRITICI SONO ALPINI DI PIANURA’ (IL PADRE ERA UN CRITICO CINEMATOGRAFICO). ‘LA LUNGHEZZA DI UNA GONNA, SOPRA O SOTTO IL GINOCCHIO, A VOLTE È PIÙ IMPORTANTE DI UN’IDEA DI SCENEGGIATURA’
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Biografia di Bernardo Bertolucci
Da www.cinquantamila.it, sito a cura di Giorgio Dell'Arti
Parma 16 marzo 1941. Regista. Debuttò nella regia con La commare secca (1962). Poi: Prima della rivoluzione (1964); Partner (1968); Strategia del ragno (1970); Il conformista(1970); Ultimo tango a Parigi (1972, il film di maggior successo assoluto nella storia del cinema italiano con circa 14 milioni di spettatori, compresi quelli della riedizione Titanus dell’87.
Fece epoca soprattutto la scena in cui Marlon Brando, per favorire una penetrazione anale in Maria Schneider, ricorre all’aiuto del burro (vedi sotto); Novecento (Atto I e II, 1976); La luna (1979); La tragedia di un uomo ridicolo (1981); L’ultimo imperatore (1987, vincitore di nove Oscar); Il tè nel deserto (1990); Piccolo Buddha (1993); Io ballo da sola (1996); L’assedio(1998); The dreamers (2003); Io e te (2012, dal romanzo di Niccolò Ammaniti). «Io spero sempre che i miei film non vengano compresi fino in fondo».
• Vita Figlio del poeta Attilio e di Ninetta Giovanardi, nata in Australia da mamma irlandese e padre ingegnere parmigiano costretto a emigrare (era la fine dell’Ottocento) per ragioni politiche. Fratello del regista Giuseppe. «Ha vissuto fino a 12 anni in campagna, in una casa che “da quando è morto mio padre non ho più il coraggio di rivedere”. Arrivato a Roma, nuovi amici, nuovo quartiere borghese – Monteverde vecchio –, nuova casa al quinto piano in via Carini. “I miei genitori hanno costruito un incantesimo, nel quale mi sento tuttora immerso. Anche per questo, forse, non sono mai diventato padre”. Il rito di iniziazione alla regia ha luogo proprio in via Carini. È domenica pomeriggio, alle tre, ora del riposo.
“Avevo quattordici anni, vado ad aprire, vedo un giovane vestito a festa, con un ciuffo strano. Chiedo: cosa vuole? E lui: cerco Attilio Bertolucci, sono Pier Paolo Pasolini. Mi spavento, gli dico di aspettare, lo lascio fuori, chiudo il portone. Vado da mio padre e gli racconto: c’è un tipo strano, ho paura che sia un ladro. E papà: ma no, è un poeta, fallo entrare”. Pier Paolo porta sua madre Susanna ad abitare al primo piano di via Carini e Bernardo – da giovanissimo aspirante poeta – scende le scale di corsa per far leggere le sue creazioni all’amico più grande» (Barbara Palombelli).
• «Quando avevo 17 anni, sempre sul portone di via Carini, un giorno Pier Paolo mi chiede: vuoi fare il mio aiuto-regista in Accattone? Io ribatto: ma non lo so fare, e lui a me: nemmeno io. In quel periodo, ho assistito all’invenzione del cinema, giorno per giorno, una scuola unica».
• Il padre fu uno dei primi critici cinematografici italiani. «Mi ricordo che, doveva essere il 1949 o il 1950, andava a vedere quei film americani di guerra. Poi tornava a casa e faceva una cosa incredibile. Telefonava al giornale. Si faceva passare lo stenografo e dettava tutta la sua recensione al telefono, senza esitazioni. Senza averla scritta prima. Dopo se la faceva rileggere e cambiava al massimo due parole».
• Quindicenne, con una 16 mm presa in prestito, girò i suoi primi cortometraggi: La teleferica, storia di tre bambini che si perdono nella foresta, e Morte di un maiale, unico piano sequenza all’interno di un mattatoio.
• A 21 anni vinse il Viareggio opera prima con una raccolta di toccanti liriche intitolata In cerca del mistero. Poi si decise per il cinema.
• «Eravamo all’inizio degli anni Sessanta. Con Glauber Rocha avevamo deciso di chiamare i nostri film “i miura”. I miura sono una razza di tori dalla pelle durissima. Non solo la spada del torero non riusciva a entrare nella cervice. Ma si diceva che neppure una zanzara poteva entrargli nel buco del culo. Nelle sale dove davano i nostri film nessuno entrava. Nessuno andava a vedere i nostri miura. Poi ho avuto un senso di soffocamento. E mi sono detto: “Voglio sentire il pubblico”. Voglio che la gente entri a vedere i miei film. E nel 1970 mi sono ritrovato a fare Strategia del ragno. E poi Il conformista, sentendomi un po’ come un traditore dei princìpi che fino a quel momento mi avevano formato. Era il passaggio dalla pura espressione alla comunicazione».
• «Quando Sergio Leone mi chiamò per sceneggiare C’era una volta il West (era il 1967, ndr), la prima cosa che mi chiese era come sparassi. Se impugnassi la pistola solo con una mano o se le usassi tutte e due. A me sembrò un marziano, ma aveva ragione lui: bisogna credere in quello che si fa» (a Paolo Mereghetti).
• Dopo la scomparsa di Maria Schneider (il 3 febbraio 2011), è tornato a parlare più volte della scena di sesso anale in Ultimo tango a Parigi per cui lei non l’aveva mai perdonato: «Sì, sono stato colpevole per la Schneider, ma non potranno portarmi in tribunale per questo. L’idea è venuta a me e a Brando mentre facevamo colazione, seduti sulla moquette. A un certo punto lui ha cominciato a spalmare il burro su una baguette, subito ci siamo dati un’occhiata complice. Abbiamo deciso di non dire niente a Maria per avere una reazione più realistica, non di attrice ma di giovane donna. Lei piange, urla, si sente ferita. E in qualche modo è stata ferita perché non le avevo detto che ci sarebbe stata la scena di sodomia e questa ferita è stata utile al film. Non credo che avrebbe reagito allo stesso modo se l’avesse saputo. Sono cose gravi ma è anche così che si fanno i film: le provocazioni a volte sono più importanti delle spiegazioni» (a Silvia Fumarola). [la Repubblica 18/11/2013]
• Dal 19 febbraio 2008 ha una “stella d’oro” sul marciapiede delle star, la Walk of Fame dell’Hollywood Boulevard di Los Angeles davanti al Chinese Theatre, premio che fu assegnato, tra gli italiani, a Rodolfo Valentino, Anna Magnani, Arturo Toscanini, Enrico Caruso, Sofia Loren.
• Nel 2007 fu premiato a Venezia con un super Leone d’oro («non è alla carriera, odora di prepensionamento, ma per il 75° compleanno della Mostra»).
• Nel 2011 a Cannes ha ricevuto la Palma d’oro alla carriera («La dedico agli italiani che hanno la forza di indignarsi»).
• È stato presidente della giuria alla 70esima edizione del Festival di Venezia.
• Nel 2000 fu operato per quella che sembrava una banale ernia del disco, da lì ne conseguirono altre quattro operazioni alla colonna vertebrale. Dodici mesi a letto, la depressione, poi la riabilitazione. Da anni è costretto a muoversi su una carrozzina. «Ho imparato ad accettare questa mia nuova condizione. Da allora è diventato tutto più facile. E ho ripreso a fare film. E ho capito che fare film è la sola terapia». [Alessandro Piperno, Cds 14/10/2012]
• È sposato con l’inglese Claire Peploe, regista e sceneggiatrice. Non ha figli. «Può darsi benissimo che il mio desiderio di paternità si materializzi nei miei film».
• Critica «Il suo è un cinema sotto la costellazione Marx-Freud-Verdi. Ama gli attori e sa sceglierli. Ama le scene di ballo e pochi come lui sanno far danzare la cinepresa su un dolly. Sa coniugare Proust al culatello, Hopper e Magritte al melodramma di Giuseppe Verdi. Bertolucci è un regista creolo» (Morando Morandini).
• «Ho capito che non riuscirò mai a eguagliarlo, perché viene da una cultura diversa dalla mia, suo padre è un poeta e lui stesso ha pubblicato delle poesie, è stato allevato con una coscienza politica, al contrario di me, che sono cresciuto in una casa dove non c’erano libri...» (Martin Scorsese).
• Frasi «I critici sono alpini di pianura».
• «È come se il mestiere di cineasta appartenesse a un’altra epoca come i lavori che scompaiono, tipo il sellaio. Credo che il lungometraggio, la forma film, abbia imboccato una strada di inesorabile declino, un po’ come quello che è successo con l’opera lirica».
• «A un certo punto è avvenuto in me un grande cambiamento. Mi è sembrato che i film che noi andiamo a guardare invece guardino noi».
• «Arriverei a dire che la lunghezza di una gonna, sopra o sotto il ginocchio, a volte è più importante di un’idea di sceneggiatura».
• «Quando finisco un film nuovo, provo un senso di pienezza a dir poco imbarazzante, che cerco di nascondere a tutti gli altri che si salutano con i visi tristi. Senti il bisogno di nasconderlo e di esorcizzarlo. Pensa che l’ultimo giorno di lavorazione di Io e te ho chiesto di essere truccato da donna. Alla fine sembravo una vecchia bagascia giapponese. Poi ho detto a tutti: “Vedete? Sono come Sean Penn. Più mi trucco più divento virile”» (ad Alessandro Piperno). [La Lettura 14/10/2012]
• Politica «Prima proiezione del mio Novecento, un film in cui raccontavo una saga familiare a partire dalla nascita del comunismo in Emilia Romagna. Eravamo nel 1976, in pieno compromesso storico e mi sembrava di dover celebrare un rito, pensavo di rendere omaggio alla storia del Pci. Paese Sera, quotidiano comunista romano, organizzò un dibattito con lo storico Paolo Spriano e Giancarlo Pajetta.
Alla fine del primo tempo, Pajetta, entusiasta, mi abbracciò. Poi, vedendo le immagini della Liberazione, in cui mostravo anche le vendette private, i processi popolari contro i fascisti, si alzò furioso e se ne andò gridando: mi rifiuto di partecipare. Giorgio Amendola disse che il film era bruttissimo. La Fgci di Walter Veltroni, invece, mi appoggiò.
Da allora, la mia tessera del Pci, presa nel 1969 contro l’estremismo filocinese dell’estrema sinistra, proprio nel momento in cui ci fu la rottura del partito con il gruppo del Manifesto, si è andata via via scolorendo... Alla metà degli anni Ottanta ho smesso di rinnovarla, non ero un militante, ho iniziato a vivere più all’estero che qui. Oggi, mi pare di non avere più trasporto politico per nessuno: salverei proprio soltanto Veltroni, perché è capace di guardare al futuro senza dimenticare le radici in cui tutti amiamo riconoscerci».
• Vizi «Sono ateo, grazie a Dio. Come diceva Buñuel».
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