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devota e infedele -
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aminuscolo · 2 years ago
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Specchi infranti
Ho scritto un pezzo per doppiozero ma ha suscitato contestazioni dunque lo posto qui.
Ho sentito spesso dire alle donne che sono a pezzi. Le ho viste in pezzi. E ho, davanti agli occhi, donne in pezzi al lavoro, donne in pezzi a correre. Donne in pezzi al ristorante, e donne in pezzi sul divano. Donne in pezzi truccate.
Raramente ho sentito questa espressione in bocca a un uomo. Può un uomo andare in pezzi?
Centocinque donne uccise per mano d’uomo dall’inizio del 2023. Centocinque. Centocinque donne fatte a pezzi. Può un uomo andare in pezzi?
Giulia Cecchettin, Filippo Turetta. Una nuova storia, altri nomi, un dibattito pubblico che si infiamma, molto rumore destinato a durare qualche settimana. Meccanismi di risposta primitivi: difesa del proprio pensiero già pensato; ricerca di un colpevole; denigrazione dell’avversario; rivendicazione di innocenza. C’è chi vuole accusare le donne e c’è chi pensa di evirare gli uomini; c’è chi risolve tutto con la teoria del mostro e chi impiccherebbe i genitori del mostro. C’è chi dice “a me mai”, “ma io no”, “non in mio nome”, “se l’è cercata”, “è la famiglia”, “è il patriarcato”, “è la libertà delle donne”, “siete tutte puttane”.
E soluzioni improvvisate: si tratta di fare educazione sessuale (sic); chiamare psicologi e influencer a intervenire nelle scuole è il gesto di cui abbiamo bisogno (sic); insegnare alle donne a non accettare l’ultimo appuntamento (sic); redigere un opuscoletto che aiuti noi donne a intercettare i segnali e proteggerci (sic). Perché di questo si tratta, sempre: non provocare, non esagerare, non bere, non accettare l’ultimo appuntamento, non laurearci, non alzare la voce, non truccarci se stiamo soffrendo. Ah, però si tratta pure di non sparire, altrimenti è ghosting: come potete essere così insensibili?
Elena Cecchettin prende parola, elabora il proprio lutto provando a dare un senso alla tragedia che si trova a dover attraversare: parla come sorella, come donna, come cittadina. Porta il proprio corpo, la propria voce, e quel corpo e quella voce diventano bersaglio. Violenza su violenza e ancora ci sorprendiamo. Eppure Elena Cecchettin prova a non scegliere l’odio, la via più semplice. Hannah Arendt scriveva che ognuno di noi ha il compito, a partire dalla nascita, di portare nel mondo la propria differenza assoluta, provare a pensare quel che non è già stato pensato. Assumersi la responsabilità del proprio dire, portarlo, con il corpo, in uno spazio condiviso, dove possa essere occasione di confronto. Altre singolarità, altri corpi. La politica come spazio sorgivo, esito della costruzione di questo “tra”, avendo cura del corpo dell’altro davanti a noi, della sua alterità radicale. Arendt invitava a coltivare con cura la possibilità di pensare insieme. Arendt, soprattutto, ci ha insegnato che pensare al mostro è facile, umano, ma non ci aiuta a comprendere e a ricordarci che dietro il singolare c’è il sociale. Elena Cecchettin vuole comprendere e comprendere non è perdonare, è provare a stare in una complessità e a implicarsi in questa complessità. Voler comprendere è politica.
Vorrei che si provasse ad abitare tale complessità.
Vorrei che ogni uomo fosse più capace di assumersi la responsabilità di vincere la vergogna che prova ogni volta che si trovi, in una birra con amici, a interrompere la goliardia, mostrando agli interlocutori come parlano e da dove parlano. Vorrei che ogni uomo interrogasse il maschilista che ha in sé. Vorrei che lo vedesse. Vorrei che interrogasse il da dove spiega. Vorrei che si accorgesse quanto spiega. Vorrei che si accorgesse della postura che ha quando entra in una stanza, vorrei che si interrogasse su cosa è per lui la macchina, o il lavoro. Vorrei che si domandasse che cosa ama in chi ama, vorrei che guardasse dalla finestra della propria casa la gestione domestica. Vorrei che potesse fare i conti con la vergogna, metterla in parola, vorrei che potesse sentire di non dover essere potente. Vorrei che ogni uomo non fosse tutto di un pezzo. Vorrei che sapesse (e potesse) andare in pezzi. Può un uomo andare in pezzi?
Vorrei che le donne si accorgessero di quanto maschilismo introiettato, di quanto potere agito, di quanta competizione, quanto odio, quanta logica patriarcale assorbita. Quanto perdersi in una gara a diventare, loro, tutte di un pezzo, invece che danzare, insieme, cucendo i pezzi staccati ogni volta con un’invenzione nuova.
È complicato, per gli uomini, fare i conti con un femminile che si emancipa. La crisi – e per fortuna – di un modello violento e verticale, quello patriarcale, ha determinato una necessità di ripensarsi che non è stata presa in carico da nessuna agenzia sociale. La cultura continua a proporre modelli di vincenti, di eccezione, di genialità, di prestazione. Tutto è competizione e il mondo è diviso in chi ce la fa e chi soccombe. Farcela a fare che cosa? È la felicità in campo?
In questo tempo di transizione, in cui il patriarcato domina ancora, ma messo in questione, il maschile non sa interrogarsi su una nuova posizione possibile, non avendo mai abitato altro che la posizione dominante.
La crisi del legame sociale è pervasiva: vivere con gli altri comporta una rinuncia, la rinuncia ad avere tutto, quale è la contropartita? Quale è il valore aggiunto che mi viene dall’altro se l’altro è un rivale e mai un’occasione? Se a scuola i genitori si preoccupano che le differenze degli altri rallentino la formazione e se contano i risultati più che la relazione? Nella crisi del legame sociale, che ha investito le famiglie, i figli sono troppo spesso il completamento narcisistico, il senso che resta quando tutto vacilla. Proteggerli dalla frustrazione, dai no, dagli inciampi: essere lo specchio che li conferma perché siano lo specchio che ci conferma. Assicurarsi il loro “funzionare” – il loro rispondere a un modello di rendimento e di successo – più che la loro capacità di “amare” – costruire legami, sopportare le differenze, smarcarsi da modelli simbiotici in cui nulla resta dell’alterità e delle differenze. Nessun spazio per fare i conti, i conti davvero, con delusione, invidia, frustrazione, aggressività, rabbia, nessuno spazio per poterle dire. Nessuno spazio per imparare ad andare in pezzi, per imparare la perdita. La psicoanalisi ci insegna come l’aggressività sia figlia della seduzione speculare: se lo sguardo dell’altro è stato lo specchio buono che ci ha rimandato una immagine amabile di noi, la sottrazione di quello sguardo porta con sé il crollo di quell’immagine. L’altro speculare è l’altro che ha nelle mani il potere di farci sentire dio o merda. Non c’è amore per l’altro nello specchio perché non c’è alterità: è la nostra immagine, in gioco. Amo te ma perché ne va di me: la tua presenza conferisce alla mia vita un senso altrimenti assente. Ecco perché non si può lasciarlo andare, ecco perché si teme il suo distacco, la sua indipendenza, la sua libertà. Ecco perché da idealizzazione a odio; da cura a rabbia cieca; da ragione di vita a persecutore cui dare la morte.
Come costruire relazioni non immaginarie? Relazioni in cui il legame si prenda carico dell’assoluta alterità dell’altro? Relazioni in cui l’altro possa andare e tornare, essere interlocutore, amante, differenza, libertà? Relazioni in cui non ne va di me, della mia individualità, ma di un tu e di un io? Come promuovere un discorso sociale in cui lo spazio sia uno spazio “tra” tutto da costruire, fatto di corpi che devono coesistere, intrecciarsi, dialogare, costruire, a partire da ineliminabili differenze?
Fare a pezzi gli specchi è compito di ognuno di noi. Fare a pezzi gli specchi per poter andare in pezzi. E ripartire dalla vergogna, dalla fatica, dalla mancanza.
E dalla piena coscienza che siamo animali sociali: non ci si salva da soli.
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aminuscolo · 4 years ago
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l’hammam, un po’ di anni dopo.
Sono tornata all’hammam della Moschea di Parigi. La prima volta che ci sono stata avevo poco più di trent’anni, l’anno prima dei miei mesi parigini alla Biblioteca dell’Arsenale, l’anno prima dell’incontro con Perec e dell’inizio della mia analisi. La prima volta che ci sono stata ero abituata a essere nella parola d’altri, abituata a spostarmi senza sapere che cosa cercare, abituata a non conoscere né i miei “no” né i miei “sì”. Niente india, né iran, né libano né yoga. Poco cibo. Ma l’inconscio, si sa, ci precede. Stavo andando dove sarei stata. L’hammam è stato per me dei corpi. Dei corpi altri. Dei corpi diversi dal mio, dei corpi nudi che si curavano, che si toccavano, che stavano attaccati in un modo che non sapevo al volto che li abitava. L’hammam è stato il mio corpo, il mio costume tra il nudo degli altri, la mia precisione così inutile, le mie gambe altro da me. L’hammam è stato sentire, da qualche parte e in maniera confusa, che ero in guerra, sentirlo mentre una donna energica mi sfregava con un guanto di crine e il suo seno era vicino al mio e la sua parola era lontana dalla mia. L’incandescenza del mio imbarazzo esplodere davanti alla sua naturalezza. Io il mio corpo non lo abitavo: lo plasmavo, lo costruivo, lo addomesticavo.
In quel immergermi nel frigidario rotondo e poi tirarmi su per starmene nuda e sdraiata su quelle tessere minuscole di mosaico azzurro – a un passo da gambe, schiene, voci, mani, capelli, sederi, occhi di altre donne – da qualche parte e in maniera confusa ho sentito che qualcosa, impercettibilmente, si stava incrinando. Io schizzinosa, io pudica, io separata. C’era un modo di stare – l’ho sentito allora per comprenderlo poi – che prevedeva abitare il corpo, godere il corpo, consumarlo, accoglierlo, rovinarlo, perderlo, contaminarlo, sporcarlo. C’era un modo di stare che prevedeva curare quel sentire e occuparsi poco del comprendere. L’hammam è stato l’incontro con quella parola, “ingombro”, che avrei portato come primo significante per dire di mio padre. Quella parola, “ingombro”, che avrei scoperto essere entrata così tanto nella mia carne da farmi desiderare sparire, sottrarmi. Sottrarmi allo sguardo, sottrarmi alla possibilità che il corpo faccia difetto, che inciampi, che manchi. Sottrarmi a quel che il corpo dice che la parola non dice, a quel che il corpo mostra che la ragione non controlla. Sottrarsi al tremare e all’arrossire, sottrarsi a quel che non si controlla, che eccede, che devasta, che ci consegna all’altro in quel modo che, si sa, ci fa perduti.
Io e il mio corpo siamo tornati all’hammam di Parigi. Insieme. Il corpo che mi fa camminare Parigi; godere dei formaggi; desiderare le labbra di una donna o il sedere di un uomo; scegliere Perec e l’Iran, le fotografie di Schmidt e le strade di Beirut. Le braccia enormi di una donna mi hanno sfregato le gambe, la pancia e il collo, le sue parole mi hanno raccontato un pezzo della sua vita e i suoi gesti mi hanno insegnato a sfregare le sue gambe, la sua pancia, il suo collo. Il mio seno nudo non è separato dai miei occhi, non lo è dalla mia scrittura. Il mio corpo, con quel che ci sta attaccato, mi ha portato nelle strade del mondo e mi ha fatto pensare che oggi Sibilla Aleramo dovevo celebrarti così, sperando che mi si ascolti come se io sognassi.
L’hammam è carne e ragione, l’incontro con quell’altro che avrei poi cercato ancora e ancora. L’altro che mi fa vedere quello che non vedo, l’altro che mi sovverte, che mi rigira, che mi porta ogni volta da capo, ogni volta a dover smettere la paura, ogni volta a dover ridere del pudore, ogni volta a spostare la soglia di bello, brutto, schifo, amore. Ogni volta il ricominciamento, ogni volta lo sforzo infinito di rovesciare il mio mondo, il mio mondo di privilegi e di punti ciechi, il mio mondo che è il terreno dove non posso smettere di camminare.
Tornerò all’hammam di Parigi. E che dirò di questa me quarantenne che scrive di tutto questo come a doversi dare - ancora e ancora - un pizzicotto per sapere di esistere?
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aminuscolo · 4 years ago
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maternità. o forse no.
Quando mi aspettava dissero a mamma che sarei stata idrocefala. Non ho mai indagato troppo l’esito di una tale malattia, non credo che si sopravviva molto, dopo. Mi sono chiesta più volte come avesse vissuto mamma quei mesi restanti, quel tempo di attesa non più attesa. O forse ancora attesa? Non posso domandarlo a lei, cosa ne sa. Sono nata io, le misure della testa normali, quarant’anni fino a qui. Come può, mia madre, ricordare il tempo prima, così falsato da un tale esito? Ricorda l’ostinato desiderio, papà che misurava la pancia e diceva che si erano sbagliati, papà che misurava la pancia e diceva “eh beh se non si sono sbagliati ne faremo un altro”. Ma il dolore lo ha cancellato: funziona così l’esistenza. Cancella o si incista, a seconda di che cosa? È una domanda che mi faccio spesso cui non so rispondere.
Io credo che sia da qualche parte in questa domanda la mia vocazione alla psicoanalisi. Voglio consegnarmi a sapere che non avrò risposta, al mio buco.
Trisomia 21. A me invece hanno detto queste parole. Questo sappiamo tutti cos’è, non dobbiamo andare a indagare troppo. Sindrome di down. Quando ero piccola “down” era un insulto: chissà come lo permettevamo. Ora no. Trisomia 21. Io che con la disabilità ci lavoro, io che so che non c’è la sindrome di down ma ci sono Giulio, Lara, Margherita, ho pensato: “sono dolcissimi”. Poi mi sono ricordata che non si deve pensare così, ma l’ho pensato lo stesso.
Però, mamma, io ho abortito. Sono passati quarant’anni e la medicina non sbaglia e te lo dice prima il tuo destino, quando ancora sei in tempo per scegliere. E io ho voluto sapere, ho voluto sapere anche se la ginecologa mi diceva che la villocentesi era rischiosa per il feto, e che insomma avevo quarant’anni. Ho voluto sapere e ho cambiato ginecologa. Ho voluto sapere anche se mi hanno detto che era messo in una posizione strana e la villocentesi era molto pericolosa. Ho voluto sapere. Correrò il rischio, ho detto. Poi ti ritrovi su un tavolo operatorio che non sembra il tavolo di marmo di quella piccola storia ignobile, ma pare più un’opera avveniristica. E vedi quella lampada ovale sopra di te, senti le voci, ti dicono: hey sei troppo lunga. Sistemano il tuo corpo, lo sollevano, alzano le tue gambe, le annodano con una benda nera ai ganci, annodano pure il braccio ad un cuscino e dal braccio la flebo. L’altro braccio lo stringono alla camicia, quella camicia un po’ larga che si annoda alle spalle, e passa sopra il tuo seno e arriva dall’altro lato, fissato perché non cada. Sembra una camicia di forza: “è perché tu non ti faccia male”. Chissà se dicono così anche ai matti. Anche matti non si usa più e anche con loro ci lavoro. I matti: Luca, Antonio, Rossana. Il tavolo, dunque, gli attrezzi, il verde, le cuffie, la plastica, le mascherine. Poi un’iniezione e tutto quel ‘lungo’, tutti quei centoottanta centimetri per sessanta chili di corpo, si addormentano in pochi secondi, solo il tempo di pensare: “cosa mi sta succedendo, che sensazione bellissima”. Ti risvegli e non senti niente, non sei più in una sala operatoria ma in un corridoio. Non sai quanto tempo sia passato non sai nemmeno se è passato del tempo. Un po’ brucia, come una cistite. Il tuo corpo, dopo quattro mesi di un seno enorme e di una pancia che è ancora la tua senza essere propriamente la tua, sembra tornare in sé. Non è uguale a lui ma è più lui di prima. E hai pianto così tanto nelle settimane precedenti che ti svegli e piangi di meno. La psicologa ti dice le fasi della depressione che attraverserai e tu la lasci parlare perché sai che no, non sei depressa. E che sei fortunata perché non pensi che esistano fasi, ma pensi che ad Anna accadrà qualcosa e a Livia qualcosa di diverso. Ma sei stanca, di sentire troppe parole che non dovresti sentire, di sentire che non riesci a rispondere e che invece dovresti per altre che non sapranno farlo e che non sapranno nemmeno andare oltre. Sei arrabbiata, ma sei più occupata a aver cura di te, a pensare che a mamma non glielo dirai, non le hai detto ancora niente, del resto. Non le hai detto che eri incinta e non le hai detto che hai avuto paura. Forse puoi raccontarti che lo hai fatto perché qualcosa in te conosceva il destino, ma credo sia più perché aspettavi di poterle dire un luminoso senza ombre. Ma, forse, la maternità (o no), insegna che un luminoso senza ombre non esiste. E insomma non c’è più niente, nel tuo corpo. Eppure c’è il tuo corpo.
La storia più bella che sono riuscita a raccontarmi è che mi sono fatta carico io del dolore destinato a lei. A te regalano spettri, mamma, io mi prendo la realtà. E poi tu sei stata madre così tanto, così bene, che questa storia a me pare funzionare alla perfezione. Me la scrivo così, in testa. Incistarsi o cancellare, è tutto qui no? Cristina Campo scriveva che sperare non è aspettare un evento, chiedere che sia proprio quello il suo esito, ma che esiste una fiducia più grande, un affidarsi che racchiude tutti gli eventi e ne supera il significato. L’arazzo, quel concorrere di ogni elemento a un disegno che non conosciamo. C’era una lettera di Manganelli a Lietta che diceva qualcosa di simile, l’opera di un ago che ci muove e che conosce l’intero tappeto avendo termini di giudizio che a noi sfuggono. Devo ritrovarla, mamma. Questo te lo racconto. Come se mi fosse venuto in mente per un motivo diverso. La verità è fatta così, credo, quella possibile per noi.
Oggi Milano è luminosa.
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aminuscolo · 5 years ago
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Gli uomini ai quali parlo non sanno, quando dicono che hanno l'impressione di discorrere con me da pari a pari, quanto eccheggi penosa in fondo al mio spirito quella dichiarazione, a quale insolvibile dramma essa mi richiami. Per conquistare questa necessaria stima dei miei fratelli, ho dovuto adattare la mia intelligenza alla loro: capire l'uomo, imparare il suo linguaggio, è stato allontanarmi da me stessa. In realtà rifletto la vostra rappresentazione del mondo, aprioristicamente ammessa, poi compresa per virtù di analisi. Queste parole e questi nomi che voi mi avete insegnato a operare, questi concetti che devo presentarvi nei contorni esatti che voi amate, questo cozzo tra il mio ritmo interno e il ritmo delle forme da voi trovate. Come liberarmi? Bisognerebbe che mi ascoltaste come se sognassi. 
sibilla aleramo
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aminuscolo · 5 years ago
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Per chi ha la fortuna di avere una casa, e di poterci stare in questo momento, sono giorni in cui si prende contatto con un nuovo modo dello spazio e del tempo, o così mi sembra. Oggi guardavo i boccioli in fiore sul mio balcone e pensavo che sembra quasi uno scherzo che tutto questo accada mentre là fuori la primavera esplode, come se qualcosa ci dicesse che non è vero che si sta fermando tutto, ma che anzi, semplicemente non siamo noi i protagonisti.
L’altro giorno abbiamo pubblicato su Doppiozero una poesia di Mariangela Gualtieri, Nove marzo duemilaeventi. Quei versi, di commovente bellezza, sono stati ripresi, letti, ripetuti, tradotti. Il dire aperto e delicato e poetico parlava di un sentire comune, in un momento grave che è anche uno stato di eccezione che accomuna il vissuto di molti. Livella tante differenze (anche se in realtà dovremmo ben tenere a mente che ne livella soltanto alcune).
Mariangela Gualtieri nel suo scrivere ci ricorda sempre che siamo creature nel Tutto, e qui scrive che “non siamo noi che abbiamo fatto il cielo”. Suggerisce però che possano venirne pepite d’oro da questo tempo strano.
“Dovevamo fermarci insieme”.
E allora la domanda che mi sono fatta riguarda proprio questo fermarci, la nostra capacità di non “portarci avanti”, di non usare il tempo; questo tempo in più che sempre domandiamo e che ora forse ci fa quasi un po’ paura. Abbiamo il timore che ci si spalanchi davanti come una voragine di non senso. Il lavoro certo, quando può, se può, continua. Io insegno, le lezioni sono on line. Però non tutto “funziona”: intanto non siamo certi che tutti avranno un dispositivo, una connessione adeguata. Ma non è solo questo: è proprio che anche nel dispiegarsi delle lezione un attimo siamo in video, poi qualcuno scompare, la conversazione si fa singhiozzo, entra, rientra, riesce di nuovo, insomma viene alla luce che l’insegnamento non è solo un passaggio di informazioni, e trovo importante abitare con loro l’inciampo, questo tempo altro, questo provare a tenere una posizione che dica la nostra presenza in un’incertezza, in cui a volte il loro sapere può venire in soccorso al nostro: Prof! Giri il tablet. Forse dovremmo ricordarcelo anche in classe un po’ di più che c’è un loro sapere che può venire in soccorso al nostro: non lo facciamo nell’abitudine di un operare, che è l’abitudine di un funzionare.
E intanto, là fuori, facciamo esperienza di una polis-pianeta in cui scorpriamo che tutto è legato: anche di questo ce ne accorgiamo solo ora, e in modo ancora troppo confuso. E paradossalmente la responsabilità grande cui siamo chiamati come specie, ora, sembra essere quella di stare fermi. Con i familiari, nel tempo domestico. Fatta eccezione, ovviamente, per chi, tra noi non è affatto nella propria casa e nell’attesa, ma anzi, lavora senza nemmeno poter interrogare lo smarrimento per salvare più vite possibili.
Noi, tutti gli altri invece, sembra che: facciamo bene se non facciamo nulla. E quasi, allo stesso tempo, nessuno può fare a meno dello stare fermo degli altri. Sembra un messaggio – ovviamente è una lettura un po’ forzata – che prende in giro il come ci siamo pensati fino a qui.
E in quegli spazi dove il tempo può continuare a scorrere allo stesso modo, negli spazi virtuali dell’informazione, le notizie, il ritmo, e il rumore, sembrano quasi aver subito un’accelerata, o forse ce ne accorgiamo di più per contrasto. O forse, ancora, davvero moltiplichiamo il dire per timore, moltiplichiamo il vuoto. Insieme allo stare fermi, potremmo allora pensare a un po’ al silenzio così come lo mette a tema Chandra Livia Candiani nel suo libro. Scrive che imparare a stare e assaggiare l’assenza è un dono. Fingere che non chiami, riempire ogni attimo con distrazione, è, invece, farsi a pezzi. Sappiamo prendere sul serio questo tempo fragile? Candiani scrive: Ti prego, morte, non lasciarti addomesticare, continua a farmi assoluto male.
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aminuscolo · 5 years ago
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ci sono tante cose che ho seguito sulla depressione nell’ultimo tempo, volevo metterle insieme ed è complicato, perché è qualcosa che tocca l’intimo di così tante persone e delle volte il sapere sulla pratica clinica appare troppo violento rispetto alla pratica stessa.
Nella pratica raggiungi i nodi, rettifichi la tua posizione.
Il sapere è spietato, soprattutto perché la psicoanalisi prima e più di tutto chiama alla responsabilità soggettiva. E ci sono verità che noi non vogliamo proprio sapere.
Del resto io, con Foucault, credo che non si dia verità se non come coincidenza tra parole e atti, e dunque ci sono parole che arrivano prima della possibilità degli atti, e che verità potrebbe mai essere questa per un soggetto?
Lacan ci parla di depressione come viltà morale. Come accettare questa dimensione di volontà? Come accettare che qualcuno mi dica che voglio restare lì, proprio lì, dove soffro? Credo che questo sia il grande scandalo della pulsione di morte, ma insieme credo che sia essenziale percorrerla, provare a sentire quanto il dolore sia ricco di un godimento mortifero. Il soggetto è arroccato alla propria sofferenza. Essere là dove qualcosa ci paralizza e dove insieme niente mi costringe a assumermi la responsabilità del mio desiderio. Che è pure possibilità di fallire.
Il soggetto depresso cerca di evitare di rapportarsi alla castrazione, e dunque si tratta di non fare i conti con il fatto che non c’è garanzia al proprio e all’altrui desiderio. Mi inchiodo alla perdita per non sopportare la vitalità del desiderio che non è mai dove lo si mette, e rispetto cui nessuno mi è garante. Degli altri si guarda il coraggio che hanno nel provarci, nella vita. Ecco perché la depressione si annoda così fortemente all’ideale dell’io, ed ecco perché esplode in un tempo di imperativi narcisistici – e non quel narcisismo femminile cui Lou Salomé ci educa.
E del resto, in questa definizione che ci disturba, ci è detto che una via di uscita è possibile. Qualcosa è nelle nostre mani.
Ci provo, dunque, come qualcosa che restituisco, che indago, parole di professionisti che ascolto e rispetto a cui mi indirizzo. La premessa al discorso sulle depressioni contemporanee – lato nevrosi, nel caso di psicosi si parla di melanconia, ma non ne scriverò qui per ora – è una premessa sui nuovi sintomi, che hanno un rapporto con l’oggetto che è un rapporto di dipendenza. Al cuore della depressione è dunque, mi pare di aver capito, una impossibilità di accogliere la mancanza. Ecco perché quasi tutti i sintomi oggi contengono una dimensione depressiva: ci è impossibile separaci dall’oggetto perduto, ci è impossibile il lavoro del lutto, ci è impossibile non rispondere a questa spinta al riempimento compulsivo che è spinta all’ideale. Siamo in un tempo maniacale, del tutto e subito, dell’impossibile differita della realizzazione del desiderio, dell’impossibile coraggio in assenza di garanzie. (“bisogna rinuciare al godimento per ritrovarlo sulla scala rovesciata della legge del desiderio”, scrive Lacan.)
Come ho compreso che presunzione e inadeguatezza si annodano, così mi pare di aver capito che depressione e narcisismo si guardano. La rottura di ogni legame, come la perdita di un lavoro, come ogni perdita, contengono una quota di smacco narcisistico, poiché ognuno di questi aspetti implica un rispecchiamento. All’origine è una fragilità dell’immagine. Non posso recuperare l’immagine di me, un’immagine che mi sostiene, se l’Altro mi fa cadere, se qualcosa mi parla – il lavoro perduto o un abbandono – della mia inadeguatezza.
Non ho, perché nessuno all’origine mi ha sostenuto nella mia immagine allo specchio – uno sguardo sufficientemente buono –, il modo di fare i conti con un “me” che non sia il “me ideale”. Questo all’origine è determinante. Spesso nei vissuti dei soggetti depressi c’è un evento nella storia infantile in cui il soggetto è stato lasciato cadere: ha dovuto affrontare una perdita e non è stato aiutato a simbolizzare il lutto, è rimasto solo rispetto a un evento traumatico, oppure lo sguardo di una madre depressa non ha saputo aiutarlo a costruire un’immagine di sé sufficientemente solida, e così il bambino prova, per sopperire, a costruirsi delle identificazioni riparatorie; ma sono spesso fragili, nascono sulla spinta dell’ideale, e sono proprio queste a cadere nel momento in cui una nuova perdita si affaccia alla vita adulta.
Nel momento in cui il soggetto che si è costruito su identità immaginarie fragilissime incontra qualcosa che rompe l’immagine narcisistica perfetta, ideale, maniacale, che si era costruito, cade in depressione. Sono identificazioni fragili, non sono il risultato dello sguardo dell’Altro amorevole, ma sono un modo che il soggetto costruisce per rispondere a uno sguardo dell’Altro che è mancato. Nessuno sguardo ha umanizzato, non c’è stato uno sguardo che non ha chiesto l’ideale e ha accolto il soggetto con la sua mancanza.  
Le depressioni hanno a che fare con la morte e con la perdita, ma il soggetto depresso, che pure è nel dolore, contrariamente a quanto sembra, non tratta la perdita. Sono soggetti mortificati e tuttavia Freud ci dice che il soggetto è alle prese con un lutto ma non è assolutamente al lavoro.
Questa è la grande caratteristica della depressione: il soggetto non sta lavorando per superare la perdita, non sta elaborando il lutto, si è bloccato, incistato, nel tempo della perdita.
Freud ci dice, in Lutto e melanconia (1915) che il lavoro del lutto è un lavoro che si fa in due tempi: rimemorazione, è un tempo necessario, il soggetto ricordando parla dell’oggetto perduto e scarica parte del dolore attraverso la rimemorazione. Il soggetto soffre a ricordare ma se lo fa cuce la ferita, crea qualcosa su quel buco, buco in cui, senza questo tempo, cadrebbe. Si piange, e così l’investimento d’amore, o di desiderio, si separa da quell’oggetto. A questo primo tempo segue il tempo dell’oblio, che prepara lo spazio perché un altro investimento libidico sia possibile. Implica due cose, che il soggetto accetti la caduta della propria immagine ideale che l’oggetto perduto gli garantiva, e che accetti di investire su un nuovo oggetto vivo e dunque imprevedibile. In assenza di garanzia.
Il soggetto depresso evita questo tempo di elaborazione, per via della pulsione di morte evita di elaborare la perdita, quindi c’è una volontà inconscia del soggetto di evitare le conseguenze della perdita e dunque proprio quello smacco narcisistico di cui si è detto. Non elaborare la perdita è poter rimanere agganciato all’ideale, che cadrebbe se si accettasse il lutto. Il soggetto nella depressione rimane bloccato in un lavoro di lutto che non avviene, agganciato all’istante della perdita, senza perdere l’oggetto. I ricordi rimangono incollati, non si dimentica per evitare la mutilazione che avverrebbe dimenticando e perdendo l’oggetto. Cerca di evitare l’attacco alla propria integrità.  
Dove rimane imbrigliato il soggetto depresso? Nell’identificazione con l’oggetto perduto o nella rimemorazione di una storia che nel ricordo diventa la storia più bella della propria vita, o di un lavoro che certo lo metterebbe al riparo dall’idea della propria insufficienza. Se avrò successo, se l’Altro mi guarderà, allora la depressione scivolerà via. Ecco perché i soggetti depressi hanno l’altro volto, quello maniacale, quello che li impegna e li muove con una determinazione verso il desiderio e l’ideale, ma sulla scia di visioni megalomaniche, che crollano nell’impatto con la realtà. Ed ecco perché i social network sono così spietati in questo tempo, con il loro imperativo alla prestazione e all’ideale. Contare i follower perché è l’Altro che mi fa esistere, l’altro immaginario, l’altro che ha il solo compito di confermarmi e non certo quello di impegnarmi in un legame che poco se ne fa degli ideali. Nessun legame sopravvive all’ideale. Le isteriche ci provano, a far esistere l’Altro senza mancanza, ma l’amore è precisamente il rovescio di questo tentativo
Mantenere quell’ideale, mantenerlo anche a prezzo della propria infelicità, perché così, solo così, si mantiene la propria immagine ideale. Il soggetto depresso è in una lotta senza tregua con l’immagine ideale, è nell’impossibilità di accettarsi come soggetto mancante, fragile, non ideale, come soggetto che può fallire. Ed è paradossale, perché soffre precisamente per questa sensazione di fallimento e tuttavia non la attraversa, ne rimane incollato per poter restare incollato all’ideale, incollato alla possibilità che quell’ideale possa essere rimesso in piedi.
Dove c’è ideale non c’è vita, questo io proprio non l’ho solo capito, l’ho sentito nella carne.
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aminuscolo · 6 years ago
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socrate mi manchi
credo che ci sia un punto che debba essere guardato, un punto dove si produce un cortocircuito tra libertà e dissoluzione del senso critico o forse solo della complessità.
Difendo la legittimità di abitare una posizione, di rivendicare una libertà rispetto a un modo del comportamento, e credo che sia una conquista del tempo moderno il diritto di non doverci conformare a un ideale: di genere, di status, di ruolo.
Tuttavia vorrei che questo si accompagnasse a un dovere etico - etico e non morale, un dovere che risponda cioè al nostro desiderio, che lo provi a individuare e far essere - di stare in una dialettica con l’altro, con le differenze, e che significa anche ricordare che la libertà per la libertà è un concetto astratto, che la libertà si dà come conquista se consente qualcosa. Cosa? È una domanda cui non so rispondere, ma questo qualcosa credo debba delinearsi come crescita, generatività. La libertà non può ridursi, io credo, a una vaga affermazione di un "io sono così". Credo sia un'affermazione pericolosa, che contenga un "vale perché vale".
Provo a spiegarmi meglio: io credo che rivendicare un modo della propria assoluta singolarità sia una conquista preziosa del tempo moderno - io posso farmi mille selfie, io posso mettere le foto dei miei bambini sui social, io sui social posso raccontare le sedute dal mio analista - e però questo processo è andato avanti di pari passo con un’impossibilità della critica e del confronto. Non accettiamo che altri ci dicano come dobbiamo fare, o essere. E ci mancherebbe altro! E tuttavia si è smarrita anche la possibilità in questo modo di uno sguardo d’altri che ci aiuti a individuare i coni d’ombra di quelle che possono essere le nostre scelte. Il punto cieco della visione. Da dove parlo e perché parlo così? È un movimento complicato da fare da soli. Io credo che da qualche parte in questo prendere ogni critica come un attacco alla nostra libertà o come movimento generato da invidia ci stia impedendo una possibilità di crescita. Abitiamo una quotidiana sospensione del giudizio, l’unico spazio del confronto è il non confronto, le parole dell’odio.
Io racconto la mia analisi sui social, ho delle ragioni che mi sono data per farlo, l’ho iscritto in un orizzonte di senso che mi pare giustificarlo. Ma dove è finito il dialogo con un metter a tema i limiti di questo approccio? Sono così certa che sia così? So accettare che qualcuno mi mostri un altro lato e che nel mostrarmi questo altro lato non sta giudicando me, ma una mia parziale scelta e del tutto rivedibile? Ci schieriamo. Ci incazziamo con gli slogan ma non mi pare che ci muoviamo in una modalità diversa del discorso: conferme o vomiti aggressivi. E credo che valga per molti temi, e molto più delicati di così. Ecco perché continuo a rimuginare la necessità di pensare il conflitto, un conflitto vitale, un conflitto che inneschi una rivoluzione. Non possiamo solo abitare appartenenze, e mi pare che invece il nostro dialogo sia sempre più in questa direzione.
Fatti tutte le foto del mondo, ma chiediti perché lo stai facendo, rispondi se gli altri te lo domandano. Io fatico a fare osservazioni. Io, che faccio della dialettica la mia postura del mondo, che abito il modo del dubbio, non ho il coraggio, spesso, di dire che forse le cose non stanno proprio così, e non lo ho perché in ogni atteggiamento che vedo assumere - da me per prima - vedo che si gioca qualcosa del proprio stare al mondo.
Un tempo dicevo che l’eccesso di selfie mi muove sempre - nella mia anima materna fino al midollo - a un sentire di cura, come se leggessi sempre in quella scelta di atteggiamento l’attraversamento di un tempo di grande fatica, la reiterata domanda di esistere. Le cose sono ovviamente più complicate di così, ma ho smesso di dirlo perché ho smesso di avere il coraggio di dire che ci sono atteggiamenti a mio avviso disfunzionali. Disfunzionali rispetto a cosa? È una domanda cui non sempre so rispondere, e comunque non so mai rispondere a qualcuno che eventualmente mi dice: ma tu che ne sai? In effetti non lo so, non so le cose con certezza, ma ho delle idee, delle posizioni, e vorrei che crescessero e si articolassero nel dialogo, e non sapere che metterle in campo significherà ingaggiare una lotta in loro difesa.
Io voglio poter sbagliare tutto, e dire “hai ragione, non avevo considerato questa cosa”, e mi pare che sia un tempo che poco lo permette.
Non ho un criterio, è ovvio. Metto sempre la generatività come criterio ultimo, ma è il mio ed è provvisorio e riguarda spesso la mia idea di vita.
Però ecco vorrei poter ascoltare modelli alternativi, vorrei che ci dessimo il tempo e lo spazio di un guardare le cose da più lati.
Credo ce ne sia bisogno.
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aminuscolo · 6 years ago
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che c’è?
considerazioni sparse su una giornata di clinica. forse. ma forse sono altro.
ho dormito male questa notte, un po’ perché volevo svegliarmi a mezzanotte per farti gli auguri nell’ora giusta, un po’ perché ho continuato ieri sera a ripensare a quell’accogliere la domanda che è dei colloqui preliminari.
chissà perché tengo così tanto ai compleanni, ma non è di questo che voglio scrivere.
la mia domanda di analisi è nata in un modo così strano che faccio davvero fatica a immaginare come accada che qualcuno chieda un primo appuntamento e come, con quale stato d’animo, ci si possa avvicinare a una fatica così grande. ho una capacità di rimozione mostruosa, forse più sintomatica che mostruosa. ho pochi ricordi, rimuovo le sofferenze, tendo sempre a semplificare al punto che delle volte ho come l’impressione di aver pensato un solo pensiero in tutta una vita. un solo pensiero tratteggiato con stili diversi e ricamato. come con gli scarabocchi: sempre linee curve, o fiori. ognuno il suo scarabocchio e ognuno sempre quello. non facciamo che girare in tondo, e più si va avanti più il cerchio si fa stretto e più non teniamo altro che le pieghe e le diramazioni di questa unica domanda fondamentale. uno dei nodi immagino sia il giudizio. io volevo assicurarmi che il mio analista mi pensasse intelligente. credo proprio che lo formulassi così, il mio pensiero, che non cercassi nemmeno di renderlo un poco più complicato, o mascherato, o non lo so. così, nella mia testa. lineare e in tutta la sua idiozia. è vero che l’analisi è esperienza di solitudine, è vero che l’analista ti lascia con il suo silenzio, che deve farsi oggetto e che non deve altro che creare le condizioni di possibilità della tua parola. ma tutto questo non può avvenire senza un primo momento in cui qualcosa debba parlare di un sostegno, di una presenza, forse anche di una cura. a me viene sempre quel: ma chi ci ha rigirati così. delle volte ho come l’impressione che gli analisti dimentichino che c’è un insopportabile della cura, che rinunciare ai sintomi è rinunciare a un’identità così saldata, così supporto. quale che sia. anche nel dolore. mi interrogo molto su cosa orienti il mio ascolto: la curiosità, forse? curiosità come volontà di capire una differenza radicale. anche questa ha a che fare con la gratitudine, con il tutto cui, insieme, io e lui, il mio dolore e il suo dolore, apparteniamo.
la cura, certamente.
credo che questa sarà l’insidia più grande, per me. la cura. è un delirio di onnipotenza. lo diceva bene Thomas quella sera ad Olinda, raccontando che c’è una scommessa nella cura che è una scommessa che si deve percorrere fino in fondo, anche rischiando la vita e la morte. Altrimenti c’è la contenzione, che mette tutti al riparo dal fallimento più grande per garantirci un fallimento certo, ma che non fa scandalo.
Al momento dell’accoglienza, questo lo credo, non si può altro che supporre che da qualche parte nel dire del paziente il soggetto ci sia e non si può altro che sostenerlo, creare un campo di assenza di giudizio. abbiamo tutti paura di essere giudicati, ho smesso ora, dopo sei anni di analisi, di lasciarmi paralizzare da quella paura, ma non è passata. ora è ancora un dolore, quando accade, la differenza è che non ne va più di me tutta intera.
C’è un resto.
L’analisi ti consegna un resto che è la forma del tuo essere per te: io me lo sono riempito di gonne a fiori e di biciclette e di parole di donne e di un corpo che avevo bisogno di sentire. Questo resta, anche se mi danno della maestrina (lo dico e sorrido e lo dico e so che lo sto dicendo).
Le parole sono spesso vomiti confusi, i discorsi non tengono e saltano le coordinate temporali. oppure ci sono troppe coordinate temporali, troppe cose, troppi eventi, troppe variabili. le posture ritornano, le si intravedono. Così si può provare a operare una punteggiatura, forse.
In fondo è un testo quello che si srotola davanti a noi, un testo corpo, che si può provare, con domande, con domande che provino a dire di una presenza e di una volontà di capire e di capire bene, a rendere leggibile. C’è una verità in ogni testo, che è la verità di quella parola consegnata, di quel pezzo di mondo in quel ‘proprio ora’ che è il momento di ingresso in uno studio.
Perché vieni qui ora? Perché adesso? Che c’è?
(che c’è? mamma mi ha amata così: che c’è, bu?)
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aminuscolo · 6 years ago
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monologo del non so
Io non so se questa mia vita sta spianata su un buco vuoto. Non so se il silenzio che indago è intrecciato alla mia sostanza molle. Io non so se quello che cerco e ho cercato e cercherò, non so se quello che cerco è un insulto a quel vuoto. Non so se questo fatto di non avere un paio d’ali sia premio o castigo, io non so se la polveriera della mia inquietudine sia un trono su cui mi siedo minacciato, se la fuga che a scatti regolari mi pungola, se quel puerile sogno di fuga sia uno sgambetto d’angelo, d’un buffone d’angelo che mi vuole inciampare.
Io non so se l’amore sia una guerra o una tregua, non so se l’abbandono d’amore sia una legge che la vita cuce fino al ricamo finale. Io non so che farmene di questi nemici che premono, non so che farmene oggi di questo oggi e me lo ciondolo fra le dita perplesse, non so parlare di quello che è sentito nel profondo me, non so parlarlo quell’essere che é qui presente fra le vite degli altri.
Io non so spiegarmi l’imperturbabilità di Dio, e non mi spiego di non udire il suo grave lamento, il suo urlo di collera o d’amore, e non so vederlo che sono in cecità ma vorrei sentirlo almeno piangere come piango io guardando le facce indolorate, guardando le facce con grave malattia terrestre, io non so invocarlo né bestemmiarlo che è troppo nella sottrazione e troppo astratto per i miei chili umani.
Io non so forse non voglio consegnarmi negli uffici del mondo, e stare buono nelle sale d’aspetto della vita. Io non so nient’altro che la vita e molte nuvole intorno che me la confondono me la confondono e non so cosa aspetto, cosa sto aspettando in questo sporgermi al tempo che viene. Io non so e vorrei, vorrei, non so stare fuori misura, fuori misura umana, fuori da questa taglia finita.
Io non so perché guardando l’acqua del mare mi salta in petto una gioia di figlio con la madre. Non so se questa uscita mia in un secolo a caso, se questo essere qui a casaccio, io non so spiegarmi questa malattia all’attacco del mondo, non so guarire questa malattia che indolora e vorrei sistemare ogni cosa, in un sogno puerile di tregua, in un’arcadia anche retorica, in un dormire abbracciato dei guerrieri che si innamorano.
Io non ho capito e dovrei, non ho capito il mondo della vita, io non ho capito la legge sottostante e non ho da fare la consegna a questi cuccioli che aspettano, che esigono da me l’aver capito. Io non so la canzone che spensiera e non so soccorrervi non so pur volendolo con quella forza di cagna che dà il latte, non so soccorrervi nel vostro sbando, io non so farvi da balsamo io non so mettervi nel coraggio essenziale, nello slancio, nel palpito.
Il mio Graal l’ho ritrovato e perso cento volte.
[...]
Io non so se la bellezza è questa accademia di centimetri, se la bellezza, la bellezza è questa carnevalesca decadenza di saltimbanchi, io non mi spiego la crocifissione della grazia, e non mi spiego perchè mi trovo in questo covo rivoltato in questa fossa con gli orchi attuali in questo lato barbarico della specie, e non so perchè stando a occidente non si ode quell’alleluia delle cose. Io non so se in questa schiena senza ali ci son grandi pianure da cui fare il decollo, se in questa spina dorsale ci sono istruzioni per la manovra di decollo, se sono io la freccia di questo arco della schiena, se sono io arco e freccia, non so in quale mano non mano o zampa di Dio mi stanno torchiando, e sottoponendo al duro allenamento dei dolori terrestri.
Io non so se la solitudine, se quello strazio chiamato solitudine, se quell’andare via dei corpi cari, se quel restare soli dei vivi, io non so se quel lamento della solitudine, se quel portarci via le facce se quel loro sparire di facce che avevamo dentro il respiro, non so se il dono sia questo portarci via le carezze, questa slacciatura. È poco il poco che so e di questo poco io chiedo perdono. Io chiedo perdono per quello che so, perdono io chiedo per tutto quello che so. m. gualtieri, fuoco centrale
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aminuscolo · 6 years ago
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e dunque mi è successa quella cosa lì per cui credi di sapere tutto e non hai capito niente, ho pensato in principio. invece no, invece ho sentito tutto. in fondo sta tutto lì, nel fidarci del fatto che se a qualcosa non crediamo fino in fondo è bene così, dobbiamo credere al nostro non credere. ha ragione lui, anche se ci mette un sacco di tempo.
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aminuscolo · 6 years ago
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che poi.
Odio gli indifferenti anche per questo: perché mi dà fastidio il loro piagnisteo da eterni innocenti. Chiedo conto a ognuno di loro del come ha svolto il compito che la vita gli ha posto e gli pone quotidianamente, di ciò che ha fatto e specialmente di ciò che non ha fatto. E sento di poter essere inesorabile, di non dover sprecare la mia pietà, di non dover spartire con loro le mie lacrime.
Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.
antonio gramsci.
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aminuscolo · 6 years ago
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atmosfera
Il mondo è tanto vasto, tanto grande,
ed anche il cielo è tanto eccelso e ampio;
tutto questo devo affrontare, con gli occhi,
ma è difficile ridurlo a pensiero.
 Se vuoi trovarti nell’infinito
devi distinguere e poi riunire,
perciò il mio canto alato rende grazie
all’uomo che le nuvole distinse
  Goethe, Dio e mondo
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aminuscolo · 6 years ago
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All’inizio lei era
Il maestro comincia generalmente il suo insegnamento con le parole: Io dico. Ossia egli pensa che la verità sia garantita dal proprio discorso e che il discepolo debba ripetere lo stesso discorso, affermando: egli dice, o egli ha detto. La verità è dunque trasmessa dal maestro al discepolo, come un padre a un figlio. La verità è trasmessa tra uomini, secondo un ordine genealogico e gerarchico. È noto, come ricoda per esempio Clémence Ramanoux nel suo lavoro sui presocratici, che all’origine è una lei – natura, donna o Dea – che ispira la verità a un saggio. Il maestro però tiene generalmente segreto ciò che ha ricevuto da lei, grazie al quale, grazie alla quale, ha elaborato il suo discorso. Egli non dice granché riguardo a questa origine, perché le parole gli mancano o perché vuole tenerlo per sé – perché non può o non vuole parlare della sua relazione con lei. Questa relazione rimane quindi nascosta o rimossa dall’insegnamento del maestro presocratico.
Tuttavia, alcuni maestri, quali Empedocle o Parmenide, alludono a lei, ciascuno a suo modo. anche Platone accenna a lei, almeno quando si tratta dell’amore, della relazione-tra. Comunque, sono uomini che evocano un’assenza o un assente, un vuoto o un’eccedenza. Fanno riferimento a qualcosa che è altro rispetto al loro discorso, a un aldilà per il quale non hanno parole, e soprattutto logica. n qualcosa che dissimulano, al quale alludono talvolta in assenza di lei. Un qualcosa che sarà lasciato fuori dal logos, nel bene o nel male.
A quel tempo, la memoria ancora sussiste di un non-detto, di un aldilà nel quale meraviglia, magia, estasi, crescita e poesia si mescolano, resistendo al nesso logico che viene imposto alle parole, alle frasi, al mondo. Alcune tracce ne rimangono, almeno nel discorso di alcuni maestri.
Una sorta di estasi ancora esiste riguardo a ogni discorso, ogni scambio tra uomini negli spazi pubblici o in altri cenacoli, luoghi in cui parlano, parlano soltanto tra loro. Qualcosa rimane che non riescono a esprimere, neppure a sperimentare di nuovo, perché mancano i gesti o parole per dirlo, per trasmetterlo, per produrlo. Permane solo la memoria di un’esperienza – che a poco a poco sarà cancellata –, l’esperienza di un meraviglioso, inaccessibile, inesprimibile al di là. Un aldilà che nasceva da un incontr con lei – natura, donna o Dea – a proposito del quale la maggior parte dei maestri non dicono quasi nulla e al quale non rinviano il discepolo. Il loro insegnamento dovrebbe essere autosufficeinte, staccato da lei come fonte.
 All’inizio lei era, Bollati Boringhieri, pp. 7-9.
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aminuscolo · 6 years ago
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Perché la battaglia per il libro? Perché il libro è desueto, si fa fatica a studiare, lo sforzo con il significante è grande, il significante è rinuncia alla soddisfazione immediata per ritrovarla sulla scala rovesciata della legge del desiderio. E cioè: più sei capace di rinunciare al godimento più puoi produrre “virtute e canoscenza”. Ma andare lungo questa strada è faticoso perché sei confrontato con la tua stupidità. Se c’è qualcosa che il godimento garantisce è l’anticastrazione. Nel godimento non sei mai valutato; di fronte al testo, di fronte a un seminario di Lacan, non capisci niente per molti anni e se insisti poi tutto diventa luminoso. Chi insiste sempre sullo stesso tasto alla fine si apre alla luce.  Il desiderio di sapere implica la rinuncia al godimento: dedicarsi al sapere salva la vita.
u.z.m.
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aminuscolo · 6 years ago
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di depressioni e narcisismo. ma non quello di lou.
ci sono tante cose che ho seguito sulla depressione nell’ultimo tempo, volevo metterle insieme ed è complicato, perché è qualcosa che tocca l’intimo di così tante persone e delle volte il sapere sulla pratica clinica appare troppo violento rispetto alla pratica stessa.
Nella pratica raggiungi i nodi, rettifichi la tua posizione.
Il sapere è spietato, soprattutto perché la psicoanalisi prima e più di tutto chiama alla responsabilità soggettiva. E ci sono verità che noi non vogliamo proprio sapere.
Del resto io, con Foucault, credo che non si dia verità se non come coincidenza tra parole e atti, e dunque ci sono parole che arrivano prima della possibilità degli atti, e che verità potrebbe mai essere questa per un soggetto?
Lacan ci parla di depressione come viltà morale. Come accettare questa dimensione di volontà? Come accettare che qualcuno mi dica che voglio restare lì, proprio lì, dove soffro? Credo che questo sia il grande scandalo della pulsione di morte, ma insieme credo che sia essenziale percorrerla, provare a sentire quanto il dolore sia ricco di un godimento mortifero. Il soggetto è arroccato alla propria sofferenza. Essere là dove qualcosa ci paralizza e dove insieme niente mi costringe a assumermi la responsabilità del mio desiderio. Che è pure possibilità di fallire.
Il soggetto depresso cerca di evitare di rapportarsi alla castrazione, e dunque si tratta di non fare i conti con il fatto che non c’è garanzia al proprio e all’altrui desiderio. Mi inchiodo alla perdita per non sopportare la vitalità del desiderio che non è mai dove lo si mette, e rispetto cui nessuno mi è garante. Degli altri si guarda il coraggio che hanno nel provarci, nella vita. Ecco perché la depressione si annoda così fortemente all’ideale dell’io, ed ecco perché esplode in un tempo di imperativi narcisistici – e non quel narcisismo femminile cui Lou Salomé ci educa.
E del resto, in questa definizione che ci disturba, ci è detto che una via di uscita è possibile. Qualcosa è nelle nostre mani.
Ci provo, dunque, come qualcosa che restituisco, che indago, parole di professionisti che ascolto e rispetto a cui mi indirizzo. La premessa al discorso sulle depressioni contemporanee – lato nevrosi, nel caso di psicosi si parla di melanconia, ma non ne scriverò qui per ora – è una premessa sui nuovi sintomi, che hanno un rapporto con l’oggetto che è un rapporto di dipendenza. Al cuore della depressione è dunque, mi pare di aver capito, una impossibilità di accogliere la mancanza. Ecco perché quasi tutti i sintomi oggi contengono una dimensione depressiva: ci è impossibile separaci dall’oggetto perduto, ci è impossibile il lavoro del lutto, ci è impossibile non rispondere a questa spinta al riempimento compulsivo che è spinta all’ideale. Siamo in un tempo maniacale, del tutto e subito, dell’impossibile differita della realizzazione del desiderio, dell’impossibile coraggio in assenza di garanzie. (“bisogna rinuciare al godimento per ritrovarlo sulla scala rovesciata della legge del desiderio”, scrive Lacan.)
Come ho compreso che presunzione e inadeguatezza si annodano, così mi pare di aver capito che depressione e narcisismo si guardano. La rottura di ogni legame, come la perdita di un lavoro, come ogni perdita, contengono una quota di smacco narcisistico, poiché ognuno di questi aspetti implica un rispecchiamento. All’origine è una fragilità dell’immagine. Non posso recuperare l’immagine di me, un’immagine che mi sostiene, se l’Altro mi fa cadere, se qualcosa mi parla – il lavoro perduto o un abbandono – della mia inadeguatezza.
Non ho, perché nessuno all’origine mi ha sostenuto nella mia immagine allo specchio – uno sguardo sufficientemente buono –, il modo di fare i conti con un “me” che non sia il “me ideale”. Questo all’origine è determinante. Spesso nei vissuti dei soggetti depressi c’è un evento nella storia infantile in cui il soggetto è stato lasciato cadere: ha dovuto affrontare una perdita e non è stato aiutato a simbolizzare il lutto, è rimasto solo rispetto a un evento traumatico, oppure lo sguardo di una madre depressa non ha saputo aiutarlo a costruire un’immagine di sé sufficientemente solida, e così il bambino prova, per sopperire, a costruirsi delle identificazioni riparatorie; ma sono spesso fragili, nascono sulla spinta dell’ideale, e sono proprio queste a cadere nel momento in cui una nuova perdita si affaccia alla vita adulta.
Nel momento in cui il soggetto che si è costruito su identità immaginarie fragilissime incontra qualcosa che rompe l’immagine narcisistica perfetta, ideale, maniacale, che si era costruito, cade in depressione. Sono identificazioni fragili, non sono il risultato dello sguardo dell’Altro amorevole, ma sono un modo che il soggetto costruisce per rispondere a uno sguardo dell’Altro che è mancato. Nessuno sguardo ha umanizzato, non c’è stato uno sguardo che non ha chiesto l’ideale e ha accolto il soggetto con la sua mancanza. 
Le depressioni hanno a che fare con la morte e con la perdita, ma il soggetto depresso, che pure è nel dolore, contrariamente a quanto sembra, non tratta la perdita. Sono soggetti mortificati e tuttavia Freud ci dice che il soggetto è alle prese con un lutto ma non è assolutamente al lavoro.
Questa è la grande caratteristica della depressione: il soggetto non sta lavorando per superare la perdita, non sta elaborando il lutto, si è bloccato, incistato, nel tempo della perdita.
Freud ci dice, in Lutto e melanconia (1915) che il lavoro del lutto è un lavoro che si fa in due tempi: rimemorazione, è un tempo necessario, il soggetto ricordando parla dell’oggetto perduto e scarica parte del dolore attraverso la rimemorazione. Il soggetto soffre a ricordare ma se lo fa cuce la ferita, crea qualcosa su quel buco, buco in cui, senza questo tempo, cadrebbe. Si piange, e così l’investimento d’amore, o di desiderio, si separa da quell’oggetto. A questo primo tempo segue il tempo dell’oblio, che prepara lo spazio perché un altro investimento libidico sia possibile. Implica due cose, che il soggetto accetti la caduta della propria immagine ideale che l’oggetto perduto gli garantiva, e che accetti di investire su un nuovo oggetto vivo e dunque imprevedibile. In assenza di garanzia.
Il soggetto depresso evita questo tempo di elaborazione, per via della pulsione di morte evita di elaborare la perdita, quindi c’è una volontà inconscia del soggetto di evitare le conseguenze della perdita e dunque proprio quello smacco narcisistico di cui si è detto. Non elaborare la perdita è poter rimanere agganciato all’ideale, che cadrebbe se si accettasse il lutto. Il soggetto nella depressione rimane bloccato in un lavoro di lutto che non avviene, agganciato all’istante della perdita, senza perdere l’oggetto. I ricordi rimangono incollati, non si dimentica per evitare la mutilazione che avverrebbe dimenticando e perdendo l’oggetto. Cerca di evitare l’attacco alla propria integrità. 
Dove rimane imbrigliato il soggetto depresso? Nell’identificazione con l’oggetto perduto o nella rimemorazione di una storia che nel ricordo diventa la storia più bella della propria vita, o di un lavoro che certo lo metterebbe al riparo dall’idea della propria insufficienza. Se avrò successo, se l’Altro mi guarderà, allora la depressione scivolerà via. Ecco perché i soggetti depressi hanno l’altro volto, quello maniacale, quello che li impegna e li muove con una determinazione verso il desiderio e l’ideale, ma sulla scia di visioni megalomaniche, che crollano nell’impatto con la realtà. Ed ecco perché i social network sono così spietati in questo tempo, con il loro imperativo alla prestazione e all’ideale. Contare i follower perché è l’Altro che mi fa esistere, l’altro immaginario, l’altro che ha il solo compito di confermarmi e non certo quello di impegnarmi in un legame che poco se ne fa degli ideali. Nessun legame sopravvive all’ideale. Le isteriche ci provano, a far esistere l’Altro senza mancanza, ma l’amore è precisamente il rovescio di questo tentativo
Mantenere quell’ideale, mantenerlo anche a prezzo della propria infelicità, perché così, solo così, si mantiene la propria immagine ideale. Il soggetto depresso è in una lotta senza tregua con l’immagine ideale, è nell’impossibilità di accettarsi come soggetto mancante, fragile, non ideale, come soggetto che può fallire. Ed è paradossale, perché soffre precisamente per questa sensazione di fallimento e tuttavia non la attraversa, ne rimane incollato per poter restare incollato all’ideale, incollato alla possibilità che quell’ideale possa essere rimesso in piedi.
Dove c’è ideale non c’è vita, questo io proprio non l’ho solo capito, l’ho sentito nella carne.
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aminuscolo · 7 years ago
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[avevo detto che c'era un'immagine bella di Seneca, così ora che l'ho scritta la metto qui] Le Grazie sono tre, scrive Seneca: una dà il beneficio, un’altra lo riceve, una terza lo ricambia. Ma non solo: danzano tenendosi per mano, e dunque il beneficio, passando di mano in mano, ritorna al suo autore. È un passaggio continuo, una danza che è movimento e cerchio e dunque Tutto. È ben diverso dal semplice dare e avere in una logica del due, dove il ritorno è sullo stesso e dunque tutto parla - come voleva quel Mauss che non conosce l'eccedenza - di una logica di scambio. Il cerchio delle Grazie è allora cerchio della vita, non a caso Foscolo le canta come figlie di quell'alma Venere dell'inno del De Rerum. La Grazia Maggiore, che dona per prima, mette in moto il dono come gesto originario: le cose ritornano, ma dall'eccedenza, dalla schiuma del mare che è bellezza, dal tutto, non da una restituzione con troppo di attesa, e di dovuto, e di gratitudine.
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aminuscolo · 7 years ago
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Oggi ho ascoltato una psichiatra e psicoterapeuta davvero brava, il tema era l’uso dello psicofarmaco all’interno di una psicoterapia analitica. Proverò a scrivere qualcosa qui, qualcosa che è quello che io ho capito e che mi pare importante.
Parto da un assunto: riporto un discorso non mio, e tale discorso era all’interno di prospettiva analitica. Per la psicoanalisi il sintomo non è qualcosa da evacuare ma qualcosa da ascoltare, qualcosa che dice di una verità del soggetto.
Psicofarmaco e terapia della parola sono funzioni differenti, al punto che uno psicoanalista che è anche psichiatra è bene che invii ad un altro psichiatra un suo paziente analitico per la somministrazione di psicofarmaci, dal momento che il rischio è altrimenti trasformare qualcosa del transfert sull’analista che è transfert sulla psicoanalisi.
 La psicoanalisi per me è un punto fondamentale, che è poi la rettifica soggettiva che segna l’ingresso in un lavoro vero e proprio: non lamentare il mondo ma cercare di capire cosa i propri sintomi dicono e che responsabilità abbiamo nel loro perdurare, e nel perdurare della nostra fatica. Nel mio caso i sintomi erano tutti egosintonici, funzionavo tanto e funzionavo bene, ma mi era interdetta la via dell’incontro con l’altro, perché l’altro era mero strumento di specchio e di esaltazione dell’io. Rettificare la mia domanda ha voluto dire guardare la mia responsabilità nel disordine – o troppo ordine – della mia vita.
 Soffro molto davanti alla resa rispetto al proprio dolore o alla propria paralisi, soffro molto perché credo che non abbiamo poi molto altro da fare qui, che occuparci del nostro modo di essere felici, un modo possibile per noi, un modo che se ne fa qualcosa di quello che gli altri han fatto di noi.
 Ma divago.
 Il punto fondamentale è che oggi si partiva da un presupposto che a mio avviso è molto poco noto: sul cervello, sulla struttura e sulla funzione delle diverse aree cerebrali – quindi sull’hardward – non agisce solo lo psicofarmaco ma anche la parola. La parola ha un effetto materico, interviene sulle strutture cerebrali, cambia l’attività e la funzione di alcuni aree cerebrali. Non solo software.
Il farmaco non va dunque utilizzato per modificare il funzionamento cerebrale perché già l’intervento di parola può modificare strutture cerebrali. Questo è per evitare che si abbia la funzione dicotomica: psicoterapia o psicofarmaco. Questo è evidente che cambia la posizione che lo psicofarmaco può avere rispetto a quanto comunemente si intende.
 “Perché come e quando”, dunque, è la domanda da farsi. Non “cosa e quanto”. Perché come e quando dare uno psicofarmaco?
Intanto teniamo conto che producono assuefazione, il che significa che è necessario un dosaggio sempre maggiore per avere quello stesso effetto. Questo primo punto rende chiaro che vanno dati per periodi brevi e con dosaggio basso.
Secondo punto fondamentale: uso clinico significa che non possiamo generalizzare. La conoscenza che si ha a livello di senso comune, la conoscenza che può avere il medico di base, e dunque un non specialista, che prescrive uno psicofarmaco, non tiene minimamente in conto l’unicità del soggetto. Si basa su soggetti standardizzati, su categorie. Per la psicoanalisi il soggetto dei test non esiste.
Come la parola influisce sul cervello in maniera differente per ognuno, così il farmaco.
Dobbiamo sempre – se partiamo dall’assunto della prospettiva psicoanalitica – pensare in termini di unicità del soggetto che abbiamo davanti: che cosa serve al soggetto in questo momento? Quando e come dare un farmaco a un soggetto che sta facendo una terapia?
 Quando il sintomo è tale da impedire al soggetto di essere nella cura come potrebbe essere, quando il sintomo è eccessivamente ingombrante, quando il sintomo è insopportabile e l’angoscia del soggetto non lascia spazio ad altro. Ma il sintomo non va sempre soppresso, il sintomo in alcuni casi ha una funzione che non è solo quella di dire qualcosa, può essere strutturante per un soggetto. Togliere il sintomo significa portare il soggetto al rischio di uno scompenso.
 Il farmaco noi non lo diamo per diagnosi, ma in relazione a un sintomo preciso di un soggetto, sintomo che in quel momento impedisce al soggetto che la cura della parola possa avere una presa. Si tratta di ricomporre la situazione così che sia possibile al soggetto proseguire il suo percorso.
Se io invece procedo agendo sul sintomo così da eliminarlo vanifico il lavoro della parola e cronicizzo la malattia e la storia. Oggi ci sono farmaci meno invasivi, ma il punto è che cronicizzare la storia significa che non si dà a quella storia la possibilità di avere una declinazione autonoma senza il farmaco. Non posso riempire di farmaci qualcuno per la paura della morte, non posso prescrivere psicofarmaci per tutelare la mia paura di terapeuta.
Cancellare il sintomo è non ascoltare il messaggio inconscio di cui tale sintomo è portatore, è vanificare ogni possibilità di una cura della parola. Sarebbe come pensare di guarire una ferita cancellando i segni che vedo in superficie senza badare a che cosa l’ha prodotta, che cosa ci sta sotto.
Inoltre l’atto del prescrivere ha in sé un effetto materico, biologico, indipendentemente da quello che si prescrive. Non si tratta di un mero effetto placebo, l’atto, come la parola, si cala del reale del corpo. Un uso clinico dello psicofarmaco è un uso altamente soggettivo: se non è tale, e diventa un uso di soppressione del sintomo, non è un buon uso clinico dello psicofarmaco.
Il farmaco agisce soprattutto sulla corteccia frontale del cervello, la psicoterapia modifica aree cerebrali diverse, in particolare del sistema limbico, del giro del cingolo. Le aree cerebrali sono interconnesse, per cui la sinergia.
Ciò che noi siamo geneticamente destinati a essere è solo una possibilità, non il nostro destino, che assumerà forme diverse a seconda di storie, incontri; il dna, molecola molto stabile nel tempo, di fatto è in continua trasformazione. L’epigenetica ci dice di tutto quello che è sopra la catena del dna.
Bisogna avere l’occhio clinico per capire e discriminare, è complicato. Un sintomo non dice sempre la stessa cosa. Lo psicofarmaco riduce l’ingombro del sintomo, lascia spazio, rende possibile l’evento della parola. Non può essere una scorciatoia, è più un modo di rendere possibile un percorso.
Un segnale della contemporaneità e la non tolleranza al sintomo, si evacua quel che dà fastidio, non ci si mette in ascolto. Così i genitori portano allo psichiatra una richiesta di farmaco per far smettere il tic del figlio, disturbante.
Ma questo tic, dobbiamo domandarci, chi disturba? Il soggetto come vogliono farci credere o loro che non vogliono ascoltarlo?
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