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aplustexto · 5 years
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MOdAM - Museo e Scuola della Moda
Milano, Garibaldi - Repubblica
João Luis Carrilho da Graça, Camillo Botticini, Stefano Ferracini 
Filtro sinuoso
Il progetto del Modam è pensato come un padiglione nel parco, un elemento osmotico che pur intensamente urbano si integra alla dimensione allo spazio aperto circostante divenendone elemento necessario, nucleo fondante il progetto del parco.
Recinto sospeso moltiplica i livelli del parco integrando le funzioni richieste  in una dimensione che supera le categorie spaziali di interno ed esterno, individuando un continuum  spazio temporale tra le diverse quote d’uso.
L’architettura risulta essere configurata dell’interazione di tre diversi condizioni fondative: individuazione del tema, le  razionalizzazione e ottimizzazione del programma funzionale,
l’ inserimento contestuale.
Le funzioni si articolano su tre livelli principali separando gli spazi adibiti al Museo, posti al livello interrato, della Scuola di Moda al piano sopraelevato, con l’intenzione primaria  di unire e far  interagire le funzioni comuni in un unico spazio alla quota del parco
Questa scelta si  riferisce ad aspetti con ampie implicazioni urbane come la relazione con il parco, in particolare a nord-est quelle con  gli interventi previsti dal Piano della Città della Moda.
Lo sviluppo eminentemente orizzontale del volume si contrappone alla verticalità puntale degli edifici limitrofi riequilibrando la composizione urbana e  ponendosi quale cerniera fisica  tra il parco e la Città della Moda.
Elemento centrale  dell’impostazione architettonica del Modam è dato dalla caratterizzazione del piano alla quota del parco quasi interamente  libero, trasparente e privo di limiti.  
La disposizione degli elementi vetrati permette liberi spostamenti tra gli spazi pavimentati permettendo l’accesso al Museo, alla Scuola, oppure solamente di raggiungere il parco, che corbuserianamente mantiene interamente la sua superficie grazie alla “sospensione” del volume della Scuola.
Il piano terra del Modam è concepito come  il punto di distribuzione principale, accoglie gli spazi comuni, in cui tutto accade e tutto è visibile.
In questa libera disposizione il visitatore distingue un grande asse distributivo che organizza i differenti usi: ingresso al Museo, accesso alla Scuola, partenza o arrivo della passeggiata sul parco.  
La luce che attraversa l’edifico verticalmente permette un sistema di relazioni visuali  tra l’interno e l’esterno, tra zone coperte e non. In questi margini verticali si ha una lettura compiuta dell’edificio. Dal ballatoio delle aule didattiche, luogo privilegiato ai soli studenti, lo sguardo percorre e si scambia lungo la sezione dell’edificio, attraversa lo sguardo dei visitatori al piano terra, fino a raggiungere i giardini dei patii del Museo al piano interrato.  Scale a cielo aperto all’interno di ogni patio raccordano i diversi piani in una suggestiva sinergia d’uso che raggiunge il o suo apice nei mesi estivi. Tali percorsi orientati secondo i cammini stabiliti nel disegno del parco stabiliscono oltre alle vie di fuga, un ulteriore punto di integrazione al contesto.
Il movimento sinuoso della copertura, associato all’idea scultorea di un corpo delicatamente adagiato sul parco, racchiude al suo interno la risposta ad esigenze spaziali relative alle altezze dei soffitti dei laboratori tecnici più alte rispetto a quelle delle aule didattiche.
Il medesimo gioco flessuoso si ripete al piano interrato in cui leggere variazioni di pendenza stimolano il percorso espositivo del Museo e risolvono, come nella Scuola, specifiche esigenze in merito alle imprescindibili altezze dei differenti spazi.
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aplustexto · 5 years
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Tra rigore, ordine e sobrietà*                                                                               
Progetto: 1998/2001
Luogo: Maia, Porto, Portogallo.
Progetto d’architettura: João Álvaro Rocha
Collaboratori: Alberto Barbosa Vieira, Francisco Portugal e Gomes, António Luís Neves, João Ventura Lopes, Pedro Tiago Pimentel, Sónia Campos Neves.
Modello tridimensionale: Armando Teixeira.
Progetto d’ingegneria strutturale: Rui Fernandes Póvoas.
Progetto degli impianti idraulici: Vasco Peixoto de Freitas.
Progetto degli impianti elettrici: António Rodrigues Gomes.
Progetto degli impianti meccanici: Paulo Queirós Faria.
Progetto di architettura paesaggista: Manuel Pedro Melo, João Álvaro Rocha.
Arredo e interni: João Álvaro Rocha.
Fotografie: Luís Ferreira Alves
Committente: Comune di Maia, Porto
L’intervento di Quinta da Gruta fa parte di un ampio progetto di riqualificazione urbana immediatamente a nord della città di Porto.
Al centro di un’antica area rurale, oramai diventata suburbio, si incontra un piccolo ma interessante edificio costruito agli inizi del XX secolo.
La rapida espansione della città e la trasformazione del territorio obbliga a convertire spazi obsoleti in nuove forme di centralità, il caso di Quinta da Gruta entra a far parte di un programma di sviluppo tendente ad accompagnare attraverso la creazione di nuovi servizi questi inevitabili cambiamenti.
João Álvaro Rocha in questo progetto pretende andare oltre il semplice restauro, riformulando spazi e funzioni attraverso un linguaggio attuale, senza prescindere dalla memoria rurale del luogo. Si tratta in sintesi di ristabilire un equilibrio tra antico e nuovo, tra grande e piccolo, tra pubblico e privato.
L’eleganza e la sobrietà dell’intervento nascondono uno studio approfondito nella scelta e nell’applicazione di materiali e regole: in ogni spazio apparentemente vuoto viene collocato un oggetto o un mobile che, senza distrarre l’attenzione, dinamizza le differenti percezioni visuali.
In modo occulto o evidente Rocha utilizza l’acciaio, sia per le sue caratteristiche di resistenza e durevolezza, che come pregiato componente estetico. Sono d’esempio tutti gli infissi dell’edificio costituiti da barre angolari in acciaio magistralmente occultate all’interno della muratura, oppure le esili mensole della biblioteca che, attraverso un telaio nascosto all’interno di una parete in cartongesso, riescono a raggiungere spessori di pochi millimetri.
Il passaggio tra i due piani della villa avviene attraverso una scala che si inserisce discreta in uno spazio aperto e libero da ostacoli.
Lungo l’esile corrimano tubolare si percorrono i sottili scalini fino a raggiungere il blocco in granito su cui poggia la scala. L’esercizio ludico determinante è infine accostare a rigidezza ed esilità, l’amovibilità di una piccola scatola interamente in acciaio che funge da primo gradino.
La zona destinata ai servizi igienici continua ad essere un abile esempio d’uso dell’inox, una parete apparentemente compatta cela due porte in acciaio in mezzo alle quali si trova uno specchio. Rubinetterie e supporti sono progettati e realizzati in inox.
Tavoli, sedie, armadi e porte, disegnati appositamente per la villa, mostrano o celano  questo incondizionato uso dell’acciaio, mirato a caratterizzare da un lato l’aspetto artigianale del manufatto, dall’altro una ricerca del moderno e del tecnologico.
Risulta eclatante a questo riferimento la scatola dell’auditorio che proietta verso il futuro l’antica silhouette della villa.
La cassa è sorretta da  enormi profili ad U in acciaio posizionati nello spessore delle pareti. Il rivestimento della sala è in legno, mentre l’esterno è costituito da lamine di alluminio e barre d’acciaio, il cui uso riflette la chiara intenzione di riprodurre una “scatola metallica” dall’alto aspetto hi-tech.
Il gioco di superfici trasparenti ed opache viene ripreso con una logica quasi “contraddittoria” nel volume contenente al primo piano la sala riunioni e al piano terra l’ingresso. In questo caso la completa trasparenza del vetro e la massiccia struttura in granito si inseriscono come trait d’union tra presente e passato.
La scatola è un tema ricorrente nel progetto, viene ripreso nelle sue più svariate interpretazioni anche nei piccoli oggetti sparsi nel giardino. Blocchi in pietra fungono da panchine, squadrati parallelepipedi d’acciaio da porta-rifiuti, lo stesso lampione è costituito da un semplice profilo a sezione quadrata.
Si incontrano inoltre alberi le cui radici vengono contenute in capienti cilindri d’acciaio.
La serra infine, nella sua leggiadra figura, nasconde dietro l’opacità dei vetri una struttura composita di tubolari in ferro, tiranti e tensori in acciaio.
L’accostamento tra vecchio e nuovo, tra artigianale e tecnologico sembra essere una delle prerogative nella ricerca linguistica di Rocha, e l’acciaio in questo ambito acquista sempre valore esemplare.
*testo pubblicato per Acciaio Arte Architettura, Auge Editore.
Stefano Ferracini
Stefano Ferracini (Treviso 1974), Architetto. Dopo anni di formazione e lavoro tra Italia e Portogallo, si stabilisce in Belgio. Insegna architettura d’interni a Esa Saint Luc Bruxelles.
https://sfarchitecture.tumblr.com/
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aplustexto · 5 years
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Direndonckblancke 
Ultimi giorni per visitare la mostra allestita al museo Bozar di Bruxelles che, assieme alla rivista A+ Architecture, definisce i contorni di uno studio di architettura oggi rappresentativo della recente generazione fiamminga.
Lara Schrjver (1) nella sua introduzione alla monografia, punta l’attenzione a cosa significhi e caratterizzi l’architettura di questa piccola regione al nord del Belgio. A lato della vecchia scuola che riporta nomi conosciuti già dagli anni 80 e 90, come Marcel Smets, André Loeckx, Hilde Heynen, si delinea sempre più una tendenza che oltrepassa vecchie eredità, per piuttosto creare nuovi linguaggi del tutto indipendenti.
La zona delle fiandre si caratterizza per un’economia recente principalmente basata su medio piccole attività private dall’alto profilo, una dirigenza giovane che spinta da ricerca e innovazione, predilige giovani architetti e linguaggi moderni. Sprovincializzati da vecchi deja-vu e orientati alla sperimentazione formale e all’uso di materiali ecologici, i giovani studi alternano etica e costruzione dirigendosi su territori espressivi radicali e post-minimalisti.  
Ricerca di una complessità formale, ma non tanto iconica come quella olandese ma più sottile, più ricercata, meno evidente. i materiali vengono utilizzati in modo intelligente e spesso provocatorio, giocando con un intelligente umorismo tipico  belga.
Alexandre Dierendonck (1971) e Isabelle Blancke (1973) laureati in architettura a Sint-Lucas a Ghant, dopo diverse collaborazioni tra francia e in Belgio, sotto la guida di nomi prestigiosi come Stephane Bell, Xavier de Geyter, Christian de Portzamparc e Dominique Perrault si uniscono nel 2009 creando la firma di architettura Direndonckblancke.
I progetti, tra alloggi e servizi, caratterizzati da un apparente semplicità, celano invece ricerca nei dettagli e uso di materiali ricorrenti nella costruzione di queste zone, come il blocco di cemento portante e apparente o i solai e copertura in legno, oppure ancora il rivestimento metallico o in fibrocemento, tutti sistemi semplici e usati nelle costruzioni più ricorrenti. L’accostamento intelligente di materiali e colori determina facciate sbarazzine ma al contempo prive di stonature. Tutto é equilibrato, misurato, preciso. L’impressione generale che traspare sfogliando la monografia o passeggiando tra i progetti esposti é la costruzione, si pensa per costruire, per essere fattibile e giusto, ma al contempo semplice e giocoso grazie a una sana, quasi etica, ricerca cromatica.
Altro fattore connotante é il disegno e la rappresentazione, sembra che il Belgio oggi faccia scuola e diriga i nuovi codici della rappresentazione architettonica.(2)
Direndonckblancke ricerca una via personale e soprattutto coerente alla forma e materiali: estrema semplicità al limite del naif in piena estetica ecologico minimalista. L’uso del plastico a tratti simbolico a tratti iperealista ci conduce all’interno degli spazi in modo intelligente e sottile, ci permette di sognare e ragionare in progetti dal futuro pulito, organizzato. Rosa e pastello.  
(1) Lara Schrjver. “Direndonckblacke, Flemish Architects in a widening circle of influence”. London, Koening Books. 2019.
(2) Jean-Philippe Hugron. Trame et collage à l'école belge in  Architecture d'aujourd'hui 425. Juin 2018
* foto Filip Dujardin http://www.filipdujardin.be/
https://www.bozar.be/en/activities/149783-dierendonckblancke
http://dierendonckblancke.eu/
Stefano Ferracini
Stefano Ferracini (Treviso 1974), Architetto. Dopo anni di formazione e lavoro tra Italia e Portogallo, si stabilisce in Belgio. Insegna architettura d’interni a Esa Saint Luc Bruxelles.
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aplustexto · 6 years
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aplustexto · 6 years
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João Álvaro Rocha Architectures 1991-2001*  
*testo pubblicato in Archit (2002)
Con grande discrezione João Álvaro Rocha si presenta in questa monografia. Si possono qui osservare i progetti più significativi di un breve ma intenso percorso che ha portato l’opera di Rocha a delimitare parte dell’intricato e controverso disegno oggi definito architettura contemporanea portoghese.
Francesco Craca, curatore del testo, suddivide l’eclettico lavoro dell’architetto in differenti sezioni:
Percorrendo le differenti destinazioni funzionali, Rocha appare immediatamente come costruttore coerente e deciso, il cui manifesto critico mette insieme i termini di tradizione, precisione, pratica e tecnica.
È il risultato di un lavoro silenzioso, notturno, tra la tenue luce di una lampada Naska Lux e numerosi fogli per schizzi sparsi sopra un tecnigrafo; non è un caso, infatti, imbattersi in Rocha, solitario e a qualunque ora del giorno, intento a terminare un dettaglio o a ragionare attentamente su come risolvere nel modo più “semplice” i complessi compromessi propri della tettonica del progetto. Jose Manuel Pozo, nella sua introduzione al testo, sembra interpretare i gesti di Rocha: silenziosi, calmi, apparentemente semplici. Rispettare il territorio e riconoscere il ruolo protagonista del luogo, formano le premesse di un‘attività che sembra sempre ispirarsi all’anonimato. Il progetto cerca di dissimularsi ed entrare a far parte del paesaggio attraverso l’uso dei materiali reperiti all’intorno. I dettagli sono semplici ma efficaci e il disegno nell’insieme appare privo di strane novità e virtuosismi, in perfetta armonia con il contesto.
È questa ricerca a semplificare, a tralasciare il superfluo che contraddistingue coerenza e tecnica nel suo lavoro. Tecnica quindi, e non tecnologia, come rileva Francisco Mangado: un dialogo attraverso materiali e forme, senza l’uso di prodotti standard o da rivista specializzata; i dettagli costruttivi non sono mai casuali, ma interagiscono con il progetto differenziandosi nelle distinte necessità formali e funzionali. Infissi, porte, scale, sempre scrupolosamente disegnate, trovano risposta al massimo numero di problemi con la minima elaborazione. Minimalismo forse, ma inteso come sinonimo di decantazione, investigazione e processo finalizzato a risolvere problemi complessi con l’uso di sensibilità e cultura.
Opere e progetti si alternano dimostrando tutti i presupposti tipici di un percorso definito inizialmente dalla Scuola di Porto. Mi riferisco in particolare alle opere più antiche (Case I e II a Vermoin, Maia) in cui il “moderno portoghese” orientato dall’entusiasmante opera di Siza, professore all’epoca di "Costruzioni", influenza inevitabilmente il giovane architetto. Ma, a parte queste giustificabili inflessioni, fin dal principio è sempre chiara una specifica ricerca d’identità. È con l’edificio ICP e con il Complesso veterinario LNIV di poco successivi che Rocha acquista maggiore libertà espressiva e autonomia stilistica, mantenendo invariate tutte le prerogative tipiche della Scuola, ma stabilendo una posizione di compromesso tra luogo, tecnica e linguaggio europeo contemporaneo. Le numerose case e ville sparse per il Portogallo cercano indistintamente di raccogliere gli elementi della loro composizione dal paesaggio circostante. Colori, forma, ambiente sviluppano condizioni che insieme ad esigenze specifiche di programma e forte capacità critica determinano forme già note alle pubblicazioni internazionali come la Casa a Carreço, o Casa da Marina. La Casa a Varzea III chiude un capitolo, marcando con la stessa logica di coerenza e discrezione la piccola area abitata di Vermoim a Maia.
PER - Case Popolari Gemunde, Maia (1996). La diversità in termini di risultato partendo dagli stessi presupposti, dà alle tre case, oltre alla chiara successione temporale, un grado di maturità costantemente evidente. Il tema dell’abitazione collettiva e in particolare economica, è trattato da Rocha attualizzando scrupolosamente i principi dettati dall’antico programma SAAL a cui parteciparono le prime generazioni della Scuola di Porto.
Importanza al contesto, economia dei mezzi, attenzione agli aspetti sociali fanno dei numerosi edifici del programma PER di Maia un esempio finalizzato a comprendere principi come modularità, rigore, e precisione. La contrapposizione di ampie finestre in banda su un lato e piccole aperture puntuali nel retro, evidenziano oltre all’immediata distribuzione interna, anche la relazione tra piccola scala di dettaglio e il corrispettivo riflesso in facciata con il conseguente peso nella scala urbana.
Il Parco a Moutidos, il recupero di Quinta da Gruta con il suo giardino, oltre ad inquadrare Rocha in ambito urbano, vede il giovane architetto impegnato a trattare problemi direttamente legati al paesaggio e al trattamento del verde. Architettura, dettaglio e comprensione del luogo sono strumenti che fanno già parte del linguaggio di Rocha e, anche una sfida apparentemente difficile, è egregiamente vinta grazie a valori come discrezione e cultura artistica. Interventi puntuali, oggetti quasi caduti dall’alto, e percepibili in modo diverso a seconda dei differenti percorsi, compongono un ulteriore eccellente esempio di Land Art europea.
La numerosa quantità di opere e progetti nei diversi ambiti funzionali citati in questo libro, definiscono le basi di un lavoro recentemente cominciato, ma che per numero, impegno, e coerenza, denotano una matura capacità critica. I testi all’interno sono di Antonio Ravalli, Antonio Armesto, José Manuel Pozo, José V. Vallejo Lobete, Val K. Warke, Francisco José Mangado, e del fotografo, Luis Ferreira Alves.
Joao Alvaro Rocha  (1959-2014)
http://www.joaoalvarorocha.pt/
http://www.skira.net/en/books/joao-alvaro-rocha
http://architettura.it/books/2003/200310025/index.htm
Stefano Ferracini
Stefano Ferracini (Treviso 1974), Architetto. Dopo anni di formazione e lavoro tra Italia e Portogallo, si stabilisce in Belgio. Insegna architettura d’interni a Esa Saint Luc Bruxelles.
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Camillo Botticini: vontade de pensar e construir formas 
Botticini Architetti é um escritório localizado em Brescia que trabalha no âmbito do projeto e da paisagem urbana.
Desde 1993 o ateliê o seu trabalho caracteriza-se através de uma pesquisa paralela entre aprofundamento teórico e experimentação.
Camillo Botticini é definido como um pós-conservador (1), mas não é fácil resumir uma personalidade ainda jovem e desde sempre voltada para o estudo e para o desenvolvimento cultural.
É evidente em toda a obra do Botticini a vontade de construir, de pensar as formas, a utilização dos materiais e a linguagem em função do objecto acabado.
Esta maneira de trabalhar não deve ser etiquetada como conservadora ou tradicional, pelo contrário, é real e verdadeira. É um modo de fazer que tem de lidar todos os dias com o pensamento de um conhecedor apaixonado da historia e da critica da arquitetura, e, ao mesmo tempo, com um mundo denso, feito de normas, leis, números, investidores, administrações e técnicos de Câmaras.
Este compromisso é claro sobretudo nas primeiras obras onde há uma vontade de encaixar, na veracidade dum lugar concreto, conceitos de inspiração moderna, capazes de definir logo resultados complexos e eruditos.
Hoje em dia as encomendas são maiores, existem convites para concursos internacionais, publicações, uma maior pesquisa para formas, materiais, mas continua ainda evidente a vontade de entender o projeto/desenho como instrumento técnico, regulador e contentor de pensamentos.
Stefano Ferracini: Um dos teus objectivos é a procura duma identidade arquitetônica. Como orientas o teu pensar com o fazer relativo no fragmentado contexto italiano?
Camillo Botticini: Hoje o panorama italiano inscreve-se entre modelos representados pelas estrelas internacionais e uma realidade que só parcialmente reconhece o papel da arquitetura na construção do espaço urbano.
As questões fundamentais são duas: por um lado o nivelamento parodista de modelos impossíveis, muitas vezes copiados em termos só figurativos e na maioria inadequados no nosso contexto. Do outro lado há um trabalho “metabólico” em relação às diferentes instâncias internacionais, aonde só uns projetistas chegam a extrapolar os valores essenciais e a acabar os projetos de uma maneira coerente relativamente à envolvente, e este fazer determina diferentes níveis de transformação, mas que ainda aparecem como gestos fragmentários e isolados.
Uma das vantagens da globalização é esta potencialidade sem limites, que permite chegar com facilidade ao mundo das idéias, das experimentações e das formas.
A solução não se encontra criando termos ao trabalho, mas pelo contrário percebendo a complexidade do projeto que não pode ser determinado só para uma síntese formal, mas como o resultado de questões e condicionantes específicos: desde a morfologia dum lugar até ás relações que o projeto conseqüentemente definir como o envolvente.
Uma coisa que não concordo consiste quando a arquitetura é feita igual para qualquer lugar, uma espécie de procura cenográfica, lúdica. Brincar sobre este tema não é uma novidade, mas cada vez mais se repropõe através de formas diferentes e muitas vezes com resultados medíocres.
A relação experimentação/construção é hoje em dia um grande desafio determinado pelos orçamentos limitados que as administrações públicas estabelecem para as obras, em que este facto provoca resultados muitos longe dos exemplos que se encontram nas revistas de arquitetura.
Stefano Ferracini: As tuas obras construídas demonstram uma forte ligação com os conceitos chaves do movimento moderno, mas também são legíveis influências de obras contemporâneas da Espanha e sobretudo de Portugal. Talvez nestes países se tenha conseguido reformular pontos de partida iguais com a diferença de que hoje em dia se encontram respostas “modernas” mais apropriadas e coerentes com o nosso tempo?
Camillo Botticini: Num processo de analise mais amplo, europeu, Espanha e Portugal fazem parte de contextos locais específicos. Ambas estas situações constituem um singular caso de desenvolvimento “em atraso” em relação a outras regiões européias, uma síntese eficaz da tradição do moderno, com uma sensibilidade as questões urbanas italianas definidas por Gregotti e Rossi mas, nos casos “ibéricos”, depuradas das cenografia pós-modernas.
Com estes pressupostos soma-se a capacidade de construir, fato em que a Itália se encontra praticamente ao lado das questões. Acho normal encontrar neste panorama um ponto de partida para fundar um pensamento teórico-prático. Também é uma maneira de reagir à inércia do papel italiano na arquitetura contemporânea.
SF: O papel da escola neste mecanismo ajuda a criar pontos de referências, ou pelo contrário incrementa as incertezas…
CB: O sistema de ensino hoje é incapaz de criar uma relação entre pensamento e prática, este é um fato por um lado causado para razões materiais, como o elevado número de estudantes, a falta de espaço, etc., mas também por questões ideológicas e mais graves: os professores de projeto encontram inclinados a pensar o projeto em abstrato, sem considerar a complexidade que uma obra tem desde projeto no papel até à fase final da obra. Muitas vezes encontra-se presente uma recusa “intelectual” que considera o fato de construir como “meramente” profissional.
Stefano Ferracini: Como concretizas o teu trabalho, com a forte concorrência e os vínculos da burocracia italiana?
Camillo Botticini: Os vínculos nunca são um limite ao projeto, além da obtusa arbitrariedade que caracteriza o trabalho dos funcionários cujo fazer classifica-se entre um ser especializado numa ótica muito conservadora e igualmente o fato de ser muito burocrático. Este modus operandi produz em muitos casos incompreensões entre o existente e o projeto, causando depois resultados ineficazes.
As instituições deveriam tentar recuperar o caráter central do papel da arquitetura como guia nos processo de transformação urbana. Hoje as mídias trabalham de maneira positiva ao apresentar da arquitetura como fenômeno importante na nossa sociedade, mas é ainda excepcional. Faltam leis que ajudem a por em primeiro plano o papel da arquitetura nas construções.
SF: Podes descrever dois projetos em si diferentes mas que consideras fundamentais no teu percurso de formação e que possam de qualquer maneira enquadrar os teu pensamento?
O projeto de Bagnolo Mella, de pequenas dimensões, ajudou-me a perceber o que quero procurar na arquitetura, ou seja a relação entre uma dimensão arquetípica – como um recinto, uma torre ou, em geral, como utilizar formas simples e interpretá-las nas diferentes situações – e uma que seja capaz de exprimir a contemporaneidade da intervenção. A dialética entre estes dois componentes fundam os princípios para a compreensão de um lugar e o consecutivo carácter da arquitetura.
O concurso para Valtrompia, um lugar dramático, sem identidade, precisava duma intervenção reagente. O projeto é portanto identificativo, sem nostalgias regressivas, comunica com um contexto absurdo feito de fragmentos isolados mas com capacidade para criar entre eles espaços complexos. O projeto desejava gerar diferenças em resposta à forte homologação.
Stefano Ferracini: É comum adjetivar as obras italianas como similares às portuguesas, holandesas, espanholas, etc. Existem, pelo contrário, pontos de referência nacionais? Pode-se definir uma arquitetura italiana?
Camillo Botticini: Estava a projetar juntamente com o meu colega Paolo Mestriner uma praça de um pequeno centro nos montes perto de Brescia. A administração queria uma intervenção leve, mimética, ecológica, que pudesse ser uma resposta ao caos que se encontra em volta. Nós, em resposta estávamos a estudar a arquitetura japonesa, como a de Ito ou Sejima, na procura de referências para uma possível proposta.
Neste sentido reparamos na distância que estes exemplos tinham em relação ao contexto específico italiano: em primeiro lugar relativamente às qualidades dos mestres japoneses, mas também em relação à capacidade intrínseca da natureza “italiana” de não se afastar dos traçados históricos, de tentar procurar sempre um sinal e de ter uma espécie de DNA urbano que fundamenta o nosso operar na definição dos espaços.
Acho que tal característica tem que ser considerada como uma especificidade dos arquitetos italianos, temos de começar deste ponto.
SF: Esta é uma consideração importante num processo onde a única arquitetura que parece ter valor nas publicações é aquela sem contexto, mas existe ainda quem considere a cidade e o construído como ponto de partida…
Uma questão ainda sem resposta é como reagir em relação à perda da qualidade do urbano, tentar seguir o caráter do lugar para propor um projeto com capacidade de rivalizar um espaço existente e complexo.
Na Itália, a história, a morfologia do território e tudo que existe têm de ser visto em maneira crítica, nada deve ser deitado fora, tudo é uma referência. A arquitetura tem de se repropor como resposta concreta e coerente à envolvente e não para fugir aos problemas que se encontram em volta. A questão principal não é refazer o Moderno, mas como utilizar todos os materiais disponíveis e as nossas referências culturais para evitar o desastre e sobretudo superando a incapacidade de enfrentar o caos.
http://www.vitruvius.com.br/revistas/read/entrevista/06.022/3317?page=1
Stefano Ferracini
Stefano Ferracini (Treviso 1974), Architetto. Dopo anni di formazione e lavoro tra Italia e Portogallo, si stabilisce in Belgio. Insegna architettura d’interni a Esa Saint Luc Bruxelles.
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aplustexto · 8 years
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Architettura Iberica: un punto di vista sul costruito
Camillo Botticini
Stefano Ferracini
SF: Comincia con questo numero l’edizione italiana di Arquitectura Iberica. In Spagna e Portogallo è già un successo e uno strumento utile a chi vuole informarsi in merito alla costruzione contemporanea. Una pubblicazione di ambito geografico così ristretto definisce dei margini operativi in luce di una chiara coerenza linguistica per di più esemplificata attraverso opere costruite. Sarà poi positivo essere così distinti…
CB: In effetti l’interesse per l’architettura iberica è elevato non tanto per una presunta omologazione regionale, ma per la ricchezza di sperimentazione che si è verificata in un contesto attento all’architettura contemporanea. Nel senso che ne rende possibile una sua concretizzazione all’interno di un spazio geografico che esprime un numero elevatissimo di progettisti di alto profilo cui si unisce un dibattito, ed una capacità reale di fare dell’architettura uno strumento necessario alla trasformazione dello spazio abitato…
SF: Parliamo quindi di contesti specifici, la rivista sottolinea l’ambito iberico come contesto geograficamente omogeneo. Sappiamo invece che esistono delle similitudini e diversità, cosa pensi per esempio riguardo a punti di contatto e/o differenze tra contesto spagnolo e portoghese?  
CB: Recenti pubblicazioni monografiche che ricapitolano la ricerca dell’architettura sia in Spagna che in Portogallo mostrano la rottura di un procedimento che nelle diversità le aveva accomunate: riguardava  la capacità di coniugare la ricerca delle avanguardie con l’attenzione alla storicità dei luoghi, alla loro geografia e morfologia…
SF: Molti critici riassumono le tendenze contemporanee attraverso due correnti predominanti, da un lato una linea di pensiero in cui la scatola è l’archetipo generatore alla Mies van der Rohe per intenderci, dall’altro la possibilità di gestire forme mutabili attraverso strutture leggere e movibili condizionando la ricerca grazie all’uso di forme non definite rifacendosi alle tipologie di Moebius…  
CB: Oggi l’orientamento anche iberico si caratterizza pur nelle diverse linee di ricerca verso una maggior radicalità formale. Guardando alle sperimentazioni nord europee, fa riferimento ad una caratterizzazione metropolitana dell’architettura, ad un’espressività più radicalmente ipermoderna nell’assumere la perdita di identità dei luoghi come una condizione con cui confrontarsi.
SF: I progetti vengono presentati in modo diretto, immediato quasi secco: titolo, descrizione, piante, prospetti, sezioni e fotografie, questo volutamente per offrire la massima immediatezza e comprensione al progettista. Inoltre viene dato ampio spazio ai dettagli. Questa linea volutamente pragmatica che lascia spazio alla libera critica senza superflue annotazioni è positivamente apprezzata dall’architetto spagnolo e portoghese. Ci si aspetta una risposta altrettanto affermativa dai lettori italiani?
CB: Ci sono opinioni discordi sul ruolo della critica… commento superfluo spesso ormai solo incensatorio o necessaria contestualizzazione di un‘opera, sua analisi serrata. Questa ultima posizione oggi appare in crisi di fronte alla perdita di riferimenti. Certo la chiarezza comunicativa di una rivista, la capacità di insistere sullo specifico è già una scelta di campo che appare necessaria.
SF: La scelta dei progetti è volutamente indirizzata verso architetti giovani e non ancora famosi, questo ci aiuta a determinare caratteristiche e sviluppi  di un panorama spesso dominato da pubblicazioni che vedono sempre gli stessi nomi ripetersi alterando a volte una visione d’ insieme più obbiettiva.  L’introduzione di nuovi linguaggi è spesso dimostrata dalle generazioni più giovani...  
CB: Non sono sicuro che la condizione generazionale sia determinante, credo alla giovinezza come ad un attitudine, ad una condizione dello spirito, tuttavia la capacità di mostrare il lavoro fatto da attori non selezionati reiteratamente (vedi la domus attuale ) capaci di proporre ricerche diverse credo sia una prerogativa dell’architettura iberica. In questo senso la scelta della rivista è molto importante.
SF: In questo tipo di architetture “giovani” molto comunicative e legate ai materiali usati oltre che distinte molto spesso per dimensioni ridotte e costi limitati anche per la loro capacità amovibile. In questi lavori sono privilegiati quei componenti d’architettura unibili a secco, senza quindi l’uso di malte o cementi ma attraverso viti e bulloni, colle, siliconi, resine, leghe leggere, tessuti elastici o gonfiabili, enfatizzando in questo modo una componente sperimentale e quasi effimera del progetto. Inoltre la volontà di nascondere o evidenziare gli aspetti costruttivi e materiali si ripercuote in innumerevoli progetti presentati sulle riviste. La tecnologia poi aiuta a condizionare e sviluppare nuove forme e linguaggi. Questo quanto ci dice su come si sta muovendo “oggi” l’architettura italiana rispetto ai nostri vicini colleghi mediterranei?
CB: L’architettura italiana come tutta l’architettura europea si confronta con il mercato della globalizzazione, purtroppo meno armata di strumenti ed occasioni significative, di un ruolo riconosciuto alla disciplina architettonica, tuttavia nella sua vastità e varietà presenta casi di certo interesse.
SF: In luce di quanto detto potrebbe esistere un concetto più ampio di architettura mediterranea includendo all’interno l’ambiente italiano?
CB: Credo esista storicamente ed in parte permanga una differenza tra l’architettura nordeuropea più caratterizzata tecnologicamente, più oggettuale e quella mediterranea più sensibile alle differenze, aperta, meno complessa costruttivamente, anche se oggi in relazione alle condizioni normative si assiste ad una progressiva omologazione. Oggi il panorama italiano si inscrive tra modelli rappresentati dalle stelle internazionali e una realtà che solo parzialmente riconosce il pensiero architettonico come strumento per la costruzione dello spazio urbano. Le questioni fondamentali sono due: da un lato il livellamento parodista di modelli impossibili, il più delle volte copiati in termini solo figurativi  e nella maggior parte dei casi inadeguati al nostro contesto. Dall’altro lato un lavoro “ metabolico” relazionato alle differenti istanze internazionali dove solo dei progettisti riescono a estrapolare i valori essenziali a determinare un progetto coerente con il contesto, questo fare determina differenti livelli di trasformazione, ma che ancora riguardano gesti frammentari e isolati. Uno dei vantaggi della globalizzazione è questa potenzialità senza limiti che permette di accedere con facilità ad un mondo di idee, sperimentalismi e forme.
SF: I tuoi lavori dimostrano un forte legame con i concetti chiave del Moderno inoltre si legge chiaramente una certa influenza spagnola o portoghese. Forse in questi paesi si è riusciti a riformulare attraverso punti di partenza simili soluzioni “moderne” coerenti e contestualizzate…
CB: Si presenta in questi paesi un caso singolare di sviluppo “in ritardo” rispetto ad altre regioni europee, una sintesi efficace dei principi tradizionali del moderno, con una sensibilità alle questioni urbane italiane definite da Gregotti e Rossi depurate però dalle scenografie post-moderne. A questi presupposti si unisce una grande capacità tecnico costruttiva. Mi sembra normale trovare dei temi di riflessione per fondare un pensiero teorico-pratico. È anche un modo di reagire all’inerzia dell’architettura contemporanea in Italia.
SF: Un obbiettivo degli architetti è la definizione di un’identità architettonica, gli studenti invece devono cercare di non perdersi in questo frammentato caleidoscopio di riferimenti in cui tutto è lecito basta che sia giustificato, ricercare delle conformità aiuta a definire delle linee di pensiero che poi diventano scuole e successivamente danno continuità alla storia, si riuscirà ad stampare in futuro una rivista monotematica con le stesse qualità di Arq. Iberica dal nome Architettura Italiana…
CB: Il sistema d’insegnamento oggi è incapace di creare una relazione tra pensiero e pratica, questo fatto è determinato per questioni ideologiche: spesso i professori di progetto sono propensi a pensare al progetto in astratto, senza considerarlo nella sua complessità dalla carta fino al cantiere. Molte volte ci si imbatte in un rifiuto “intellettuale” che considera il fatto di costruire come “meramente” professionale.    
Credo comunque che il processo di integrazione europea, con i limiti che presenta, porterà l’Italia a diventare anche per l’architettura (come per la politica) un paese “ normale”… Il processo anche se attivato non certo compiuto. Se l’orizzonte temporale di riferimento è il presente, la prospettiva cambia… Questi temi oggi sono centrali nel caratterizzare la “condizione postmoderna” della quale facciamo parte. Perciò una riflessione che sappia cogliere le dinamiche in atto si pone come fondamentale  per cogliere il rapporto tra architettura e società.
SF: In questo numero si parla di spazi commerciali e dedicati al tempo libero, questi temi si collegano al concetto di architettura effimera, temporaneità e moda: un concetto forse stravagante per la nostra cultura mediterranea strettamente legata alla città storica, e al paesaggio. C’è una tendenza generale a preferire un’architettura senza storia concepita da fattori seducenti quali la moda e l’arte del comunicare, le vecchie regole del buon costruire, da sempre considerate ”per durare nel tempo” e che oggi si relazionano sempre più alle sfere estroverse e immaginarie della trasmissione globale non possono altro che assorbire e rappresentare una sorta di passaggio temporale rapido e costantemente oltrepassato.
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aplustexto · 9 years
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Il ruolo centrale delle piazze 
1_aree
Il Municipio, la Prefettura, la Chiesa,  i numerosi negozi, e la frequentazione assidua dei cittadini dimostrano come l’ area di Piazza della Repubblica sia oggi il luogo in cui maggiormente si riconosce la collettività di Monfalcone.
Tuttavia l’ area si caratterizza come una pluralità di spazi disomogenei e di difficile fruizione: la Piazza vera e propria viene individuata come spazio di risulta dal tracciato viario, per cui l’accessibilità è subordinata all’attraversamento degli assi viari sui quattro lati, la zona verde è priva d’identità inoltre l’ estrema vicinanza ai mezzi di trasporto pubblici è fonte di inquinamento acustico oltre che atmosferico. La parte antistante la chiesa, il sagrato, oltre a presentarsi incompleta, risulta essere decentrata e subordinata rispetto all’ordine generale della piazza. Infine, la zona del Monumento ai Caduti è completamente abbandonata, priva di alcun interesse sociale.
2_sensazioni
La percezione del fruitore è strettamente legata alla morfologia del terreno, per questo la pavimentazione ne caratterizza l’aspetto peculiare: l’ utilizzo della medesima pietra, la Trachite, ha lo scopo di creare un’unità cromatica generale che ne caratterizza e definisce l’area di intervento. Vengono individuate tre tipologie di conci che si caratterizzano dal diverso interasse delle fresate praticate sulla superficie. Tale lavorazione garantisce una variazione di tonalità dei conci stessi appena percettibile ed in particolare il loro accostamento, secondo modalità differenti, crea dei ritmi di colore che caratterizzano e definiscono le zone.
3_ruoli
Il progetto di una piazza riveste soprattutto l’aspetto sociologico: si tratta di individuare e definire i ruoli delle singole zone, attribuendone poi in base alla loro importanza e funzione, differenti tipologie di pavimentazione. Gli spazi di comunicazione e collegamento vengono caratterizzati dalla disposizione dei conci in modo regolare. A livello percettivo si ottiene una sensazione di ordine che suggerisce il senso di marcia. Al contrario gli spazi di relazione e di sosta sono definiti da una disposizione libera e creativa suggerendo lo “stare”.
4_esercizi
La Piazza della Repubblica può essere associata all’idea di macchina ovvero uno spazio contenitore dove avvengono tutte le manifestazioni e gli eventi. Semplicemente pavimentata e  lasciata priva di qualsiasi infrastruttura la piazza vuole dimostrarsi versatile e accogliente a qualsiasi avvenimento effimero. L’ intervento si concentra piuttosto nel delimitare lo spazio a favore di nuove prospettive: da una parte con un sistema di punti luce e dall’altra con alberi a formare degli aggregati di verde; saranno proprio questi ultimi a fungere da filtro con la strada, individuando un’area più intima e riparata. Accanto invece, i giardini seriali che filtrano il traffico dei veicoli di via Rosselli grazie ai loro differenti trattamenti cromatico-olfattivi costituiscono una fascia che attraversa Piazza Unità fino al Monumento ai Caduti.
Il Sagrato della Chiesa viene ampliato fino alla strada e pavimentato con gli stessi criteri di Piazza della Repubblica, al fine di rendere gli spazi di sosta gerarchicamente allineati, come allineato si intende il valore della Chiesa e del Municipio.
5_oggetti
Particolare attenzione è stata posta nel disegno degli elementi d’arredo in quanto parte fortemente caratterizzante l’identità della piazza. I lampioni, le panche, le rastrelliere per le biciclette e i pannelli comunicazione si contraddistinguono da un design semplice ed essenziale finalizzato ad evidenziare il materiale utilizzato: l’ acciaio. Materiale che a livello emotivo, ha il compito di richiamare i cantieri navali che ne caratterizzano la zona.
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aplustexto · 9 years
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La nuova macchina culturale: un progetto per il MUSIL*
Architettura:
João Alvaro Rocha, (capogruppo) Camillo Botticini, Gianfranco Sangalli, Francesco Apollonio, Stefano Ferracini, Alberto Barbosa Vieira
In passato l’industria ha contribuito a intensificare il peso della città nel territorio, per abbandonarla poi a causa di esigenze infrastrutturali sempre più pressanti. Oggi l’industria restituisce alla città i luoghi che negli ultimi anni ha congelato. La città regione entra in sinergia con questi spazi dismessi attraverso nuove strade, nuove attività, nuove centralità.
Nella definizione di questo sistema urbano, l’insediamento di funzioni pubbliche come aree verdi,  spazi culturali e commerciali, all’interno dei manufatti della antica fabbrica metallurgica ex “Tempini”  definisce una  serie di opportunità, che superano il confine fisico dell’intervento determinando ampi processi di trasformazione territoriale e sociale.
Il progetto del Museo dell’Industria e del Lavoro, per trasmettere questo grado di  complessità e per coglierne il nuovo ruolo, simultaneamente legato alla tradizione industriale ma proiettato verso  la  nuova condizione di “macchina culturale”, non più produttiva, si  concretizza  mediante una sorta di  grande, potente quanto elementare struttura costituita  da  putrelle  in acciaio corten  tra loro sovrapposte e distanziate  con un intervallo pari alla loro altezza.
Si compone un  sistema costruttivo che, arcaico nel rimandare a semplici archetipi del costruire,  è capace, nella sua straordinaria forza ed intensità, di legarsi emblematicamente  al mondo dell’industria. Il trafilato di ferro è infatti un prodotto tipico dell’industria bresciana, che continua anche oggi per il nuovo MUSIL a simboleggiare in tutta la sua forza il suo importante valore storico.  
L’intervento viene espresso da un solido  compatto e  trasparente, un “recinto in acciaio corten” che ingloba la struttura della fabbrica esistente, lasciandola trasparire  nel suo profilo.
Si realizza in sintesi una sorta di scrigno metallico che accoglie, valorizzandolo, l’edificio industriale esistente oramai considerato patrimonio storico.
Il contenuto del museo non interferisce con questo nuovo contenitore, ne rispetta invece le peculiarità spaziali, si dispone in modo da definire  tre parti principali che  dal nodo centrale  si distribuiscono nell’enorme spazio: esposizioni temporanee - centro congressi - torre uffici al centro,  mediateca  a sud, sale per le esposizioni permanenti.  Il tema costruttivo si ripete anche all’interno delle singole sezioni, elaborando varianti formali in funzione delle  specifiche esigenze.
All’esterno invece un deck ligneo si connette ad una terrazza in cemento sull’acqua che funge da piazza, accesso e bar all’aperto. Qui un chiosco esterno serve sia per orientare i visitatori, sia come supporto al bar che dall’interno si affaccia come una vetrina al grande spazio pubblico aperto e come punto di incontro dell’intera area.
La scatola luminosa del MUSIL riceve e proietta luce non solo dai lucernai, ma anche grazie al suo semplice principio costruttivo, definito da lame di luce e ombra. La costruzione è ancora più suggestiva dall’interno in quanto permette al visitatore una facile lettura della struttura in acciaio quando attraversata dalla luce solare.
Il carattere del sistema  così riconfigurato,  fa emergere una torre, una specie di contrappunto alla forte tensione longitudinale del museo.
Il nuovo elemento  di designazione del paesaggio, funge da elemento di riferimento ad ampia scala, mentre l’enorme specchio d’acqua tra il Musil e il laminatoio attraversato da ponti e percorso dai tralicci del vecchio opificio  determina uno spazio leggero e poetico in netto contrasto alle pesanti volumetrie dei corpi di fabbrica.
* Concorso di progettazione, a procedura ristretta, in un'unica fase in forma anonima con prequalificazione dei concorrenti (secondo quanto previsto dall'art. 26 del decreto legislativo 17 marzo 1995, n. 157), per la realizzazione del Museo dell'industria e del lavoro «Eugenio Battisti».
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aplustexto · 9 years
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Progettare con tatto
il nuovo Opificio di Rivoli (TO)
2006
Architettura: Bottega Studio Architetti Stefano Cerruti, Davide e Dario Valle, Gianni Ricciuti. Michele Blonna (collaboratore)
Immagine grafica: LSB Simone e Luca Pugno, Beppe Dell’Aquila
Strutture: Dott. Arch. Dario Valle - Bottega Studio - Torino
Progettista impianto idrico-termico: Dott. Arch. Paolo Fop - Studio Tecnico Chiavazza - Rivoli - Torino
Progettista impianto elettrico: Dott. Ing. Cesare Cornagliotto - ABC Engineering S.r.l - Torino
Impianto elettrico: Pro System di Mario Rauseo - Torino
Impianto termo-idrico : Idrotermica di Peres Marino Ruggero  - Venaria - Torino
Realizzazione particolari in acciaio: Fa.Ca.Fer di Nunzio Grasso - Rivoli - Torino
Realizzazione interni: CB Allestimenti - Nole - Torino
Impresa: Cerruti Costruzioni di Cerruti Davide e C. - Venaria - Torino
Foto: Paolo Belvedere
Un lotto scuro e obsoleto nel centro storico di Rivoli poco fuori Torino, è oggi oggetto di un radicale intervento di trasformazione. Nato grazie alla mano di un gruppo di giovani progettisti, questo nuovo punto di riferimento urbano si inserisce in un percorso culturale culminante nel vicino Castello di Rivoli, meta d’arte internazionale e laboratorio di nuove tendenze contemporanee.
L’ Opificio di Rivoli è un ristorante, la cui estetica e cucina riflettono esigenze sofisticate e moderne. Il suo tradizionale menu mediterraneo unito alla particolare formula light (prezzi economici in un ambiente di ricercato design) attira un target d’utenza giovane, cosmopolita e culturalmente attento.  
Il concetto che sta alla base del progetto è la “gestione dell’imperfezione”, una sorta di filo conduttore che vede come punto di forza la semplice naturalità dei materiali, accostati o assemblati grazie a  lavorazioni di tipo tradizionale. Un valore capace di contraddistinguere un’architettura contemporanea e innovativa: barre, materiali lignei, tessuti, elementi di scarto sono sapientemente sagomati e montati attraverso bulloni, saldature a vista, colle o siliconi. Il risultato è un’architettura vera o come dicono i progettisti “sincera”, in cui poesia e sensibilità artistica si interpretano attraverso le imperfezioni tipiche delle lavorazioni manuali.
L’interno gioca su contrasti visivi e sulle diverse scale di percezione dello spazio e dei dettagli: l’alternanza di luce ed ombra accompagnata dal colore nero dominante ( intonaco e malte ossidate per pareti e pavimenti) ripercorre con eleganza l’ampia sala, completamente apribile all’esterno nelle due testate. Puntualmente spilli di luce (fibre ottiche a larga sezione inserite in tubi di ferro) discendono ad illuminare i tavoli. Lo stesso tema è ripreso nei bagni in cui l’acqua dei condotti è miscelata alla luce delle fibre ottiche. Un simbolico bamboo che attraversa i due piani dell’interno introduce il verde orto mediterraneo della veranda estiva di copertura.
Successivi dettagli si alternano in questa suggestiva concezione spaziale: i controsoffitti fonoassorbenti, le sedute e i rivestimenti in tessuto tecnico per capotte automobili, si affiancano alle lamiere in zinco titanio del bancone o al rame brunito del forno. Panche, infissi e tavoli sono in ferro non decapato. All’esterno esigenze tecniche ed estetica si conciliano in una grande parete di lamiera stirata che occulta gli impianti di depurazione e smaltimento delle cucine, e separa la facciata cieca dell’edificio adiacente. La scala esterna, ma visibile oltre la grande vetrata, diventa un emozionante cascata grazie alla rampa di raccolta dell’acqua pluviale sotto i gradini. Le divise sono disegnate dalla stilista torinese Alice Capelli.
*testo pubblicato per Acciaio Arte Architettura, Auge Editore.
Stefano Ferracini
Stefano Ferracini (Treviso 1974), Architetto. Dopo anni di formazione e lavoro tra Italia e Portogallo, si stabilisce in Belgio. Insegna architettura d’interni a Esa Saint Luc Bruxelles.
https://sfarchitecture.tumblr.com/
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