Una raccolta di cose. Per la progettazione di un laboratorio permanente qui.
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Insieme in giardino. Un progetto per immaginare insieme un pezzetto di futuro.
Insieme in giardino è un progetto di riqualificazione partecipata di un'area verde di Villa d'Ogna. Ne faccio parte perché sono stata coinvolta da Valentina, pianificatrice territoriale ed educatrice in natura, ma soprattutto donna creativa piena di grinta, per molti versi sulla mia stessa lunghezza d'onda e con tanta voglia di fare, oltre al senso pratico di chi ha alle spalle un po' di anni di esperienza in più.
Ormai quasi un anno fa, davanti a un caffè e a un pasticcino, ho raccontato a Valentina le mie idee ancora confuse, le ricerche per la tesi, il bisogno di aprire un dialogo con la gente del paese e la volontà di costruire spazi da condividere. Più avanti è arrivata la possibilità di collaborare, che è diventata anche la mia prima esperienza vera di scrittura di una piccola parte di un progetto. Un progetto vero, grande, e interessante al punto da vincere il finanziamento della fondazione della comunità bergamasca.

In via Piave, in una zona per niente di passaggio e quasi nascosta sotto le scuole, dietro un cancello c'è un grande prato. Qualcuno ci ha detto che una volta c'era un parco giochi e che si vedono ancora per terra i segni delle piantane. Io ricordo che quando ero piccola e venivano le giostre li dentro ci mettevano i calci in culo, che mi piacevano da matti. Ora un signore ci coltiva del mais e ogni tanto porta le pecore. Ci sono un po' di alberi sparsi e una struttura a forma di casetta, che purtroppo non regge bene il passare degli anni.
È uno spazio vuoto, un po' abbandonato, che per noi ora è un grande foglio bianco. Abbiamo deciso per prima cosa di aprire i cancelli del parco, per conoscerlo, ascoltare cosa ha da dirci e immaginare insieme che cosa potrebbe diventare.


Abbiamo ascoltato il luogo in tutti i sensi, guardandoci intorno per vedere i suoi colori, scoprendo da dove arriva il rumore del fiume e misurando quanti passi ci vogliono per arrivare da una parte all'altra.
Abbiamo chiesto anche ai passanti di fermarsi un momento, per immaginare insieme a noi un pezzetto di futuro.

(questo chiaramente è: mio padre)
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Dal primo incontro del progetto Tu come la vedi? a Villa d'Ogna.
appunti sul tragitto #3
4 i ragazzi tra i 12 e i 17 anni che hanno risposto alla mia call, proposta insieme all'amministrazione comunale con l'intento di fornire ai ragazzi uno spazio per riflettere sul tema dell'abitare le zone marginali e per dire la loro.
“Io preferisco non girare a Villa d’Ogna… c’è meno possibilità di prendere delle denunce”
Forse la frase più inaspettata che mi è rimasta in mente dal primo incontro, avvenuto nel pomeriggio di mercoledì 11 maggio. A. è un tipo. Probabilmente come gli altri ragazzi della sua età è in quella fase in cui non è più un bambino, ma non è nemmeno un ragazzo. E’ proprio in quel momento di mezzo che lo rende in transito, difficile da afferrare. Non tanto convinto delle modalità del primo incontro, ha guardato spesso il cellulare, ma nel suo piccolo ha partecipato attivamente, disegnando la sua isola velocemente ma senza superficialità. Ha sottolineato che vive a Ogna e che a Ogna non c’è assolutamente niente. Gli sembrava quasi assurdo che gli chiedessi se gli piaceva o no, come se non fosse neanche una questione da discutere.
“Preferisco stare in casa sempre piuttosto che uscire qui.”
S. mi ricorda tanto la me di qualche anno fa, con il vantaggio che l’offerta formativa della zona si è un po’ ampliata e lei ha avuto accesso a un indirizzo di studi che forse le può dare un po’ di quello che cerca. Il fatto di rivedermi così tanto in lei mi ha quasi fatto emozionare, mi ha ricordato il motivo per cui eravamo li. E’ stata la prima ad iniziare a disegnare la sua isola, senza guardare più di tanto a quelle degli altri e dando il via anche per loro, un po’ più timidi. Penso abbia capito esattamente quello che stavamo facendo e era felice di esserci. Era molto entusiasta anche per le macchine fotografiche e della possibilità di sperimentare.
A. e D. hanno un legame particolare che incide molto sul modo in cui si pongono. Entrambe prendono già i mezzi per spostarsi a Clusone e non trovano niente di interessante qui. Non disprezzano però completamente il paese, sono un po’ indifferenti alla questione. Forse il laboratorio per loro potrebbe essere l'occasione per iniziare a farsi delle domande.
Dopo il primo momento di dialogo e confronto i ragazzi hanno disegnato i loro dintorni, dando forma a quattro isole intorno ai loro piedi. Abbiamo deciso di non verbalizzare nulla e, in caso, di riprendere in mano la mappa creata durante l'ultimo incontro. Per concludere abbiamo parlato di fotografia, per capire come mai ho scelto di affidare loro le macchinette analogiche che usavano da piccoli in gita.
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La coscienza del luogo
appunti sul tragitto #3
Alberto Magnaghi è architetto, urbanista e Professore emerito di Pianificazione Territoriale presso il Dipartimento di Architettura dell’Università di Firenze, dove ha fondato il Laboratorio di Progettazione Ecologica degli Insediamenti, laboratorio di ricerca che raggruppa docenti, ricercatori, collaboratori, laureati, laureandi, dottori, dottorandi e studenti in forme mobili di discussione e di lavoro comune.[1] I suoi studi sul territorio lo hanno portato alla fondazione della Scuola Territorialista italiana, approccio contemporaneo alla pianificazione e al design urbani e regionali oggi condivisi dai cosiddetti Territorialisti, teorici e studiosi impegnati nella formulazione di nuovi modelli per affrontare il problema ecologico, che condividono una critica alla nozione tradizionale di sviluppo sostenibile e concentrano l’attenzione sulla necessità di un ritorno a una prospettiva locale. Nell’analisi storica dello sviluppo del concetto di territorio, alla ricerca delle cause e delle condizioni che hanno generato l’ odierna crisi ecologica, Magnaghi spiega come prima dell’avvento della modernità meccanizzata il territorio fosse individuabile come “l’ambiente dell’uomo”, un terzo elemento prodotto dalla co-presenza e co-evoluzione della natura insieme agli insediamenti umani.
Nel libro Il principio territoriale, il teorico analizza come la situazione di distacco degli abitanti dal proprio territorio caratteristica della modernità sia sintomo di una più generale trasformazione di questi in lavoratori, clienti e consumatori atomizzati, messa in atto e perpetuata negli anni dai sistemi socio-economici e tecno-finanziari globali.[2] La società capitalistica moderna, basata sull’avanzata tecnico-scientifica e fatta di reti globali e realtà dislocate ha strutturato una nuova concezione di territorio come sito inanimato, semplice spazio vuoto su cui adagiare i meccanismi della civiltà delle macchine. La civilizzazione moderna ha preteso di svilupparsi a prescindere dall’ambiente naturale, interrompendo il processo di co-evoluzione tra uomo e natura per instaurare una dinamica di dominio e controllo del primo sulla seconda.

Quello che è il risultato di un processo di stratificazione lungo tutta la storia, denso di saperi, conoscenze e memorie è stato quindi concettualmente svuotato e strumentalizzato ai fini produttivi. In questo modo, con l’abbandono del concetto di territorio come ambiente di cui l’uomo è parte, l’azione sulla natura è stata rivolta al dominio e al controllo e ha generato enormi danni per entrambe le parti coinvolte: l’ambiente e l’umanità. Constatato che il sistema in cui abbiamo investito e su cui pensavamo di poter fare affidamento non è sostenibile e ha inoltre fallito nella promessa di un miglioramento del lavoro e della vita per tutti, si rende evidente la necessità di nuove forme di progettazione e organizzazione, in grado di rimettere al centro i bisogni dell’ecosistema territorio ripartendo dai valori base della comunità. Risanare il rapporto tra abitanti e spazi abitati significa recuperare i saperi contestuali del vivere e riconoscere le identità dei luoghi, espresse nei loro paesaggi. In quest’ottica si rende necessaria anche una nuova narrazione degli stessi abitanti contemporanei che devono diventare costruttori dei patrimoni locali attraverso il recupero del rapporto con il territorio, in senso individuale e comunitario. Questo è possibile attraverso un cambio di prospettiva, per cui gli abitanti tornino ad avere cura del territorio e ad impegnarsi quotidianamente nel rapporto con esso, considerando il luogo come bene patrimoniale comune.
La struttura capitalistica della società e la conseguente disgregazione delle forme di solidarietà sociale e di classe hanno generato da tempo risposte oppositive, nella forma di mobilitazioni globali contro le azioni dannose e in favore di modalità più consapevoli di progresso. La globalizzazione ha fatto inevitabilmente riemergere la dimensione locale, in cui si attivano modalità di mutuo soccorso e la crescita di coscienza del luogo collettiva e individuale. Lo studioso riconosce l’esistenza in Italia di varie forme di organizzazione sociale basate sulla partecipazione, sulla valorizzazione attiva del patrimonio territoriale realizzata attraverso la collaborazione:
La produzione sociale del territorio e del paesaggio, attraverso la partecipazione collettiva alla produzione di un patrimonio vivente deve promuovere un processo che sappia sottrarre il patrimonio storico e paesaggistico alla sua funzione museale e mercantile verso una sua riappropriazione e qualificazione attiva come bene comune per l’elevazione della qualità della vita, dell’ambiente e dei paesaggi contemporanei.
A questo fine diventa fondamentale che gli abitanti dei territori riprendano consapevolezza di saperi, identità, culture accumulate nei tempi lunghi della storia e si ridefiniscano attraverso l’appropriazione di questa mole di conoscenze, costruendo una propria “coscienza del luogo”. Ed è a mio parere in questo snodo che si evidenzia la rilevanza del contributo che l’arte contemporanea può fornire all’interno di un più ampio progetto di riterritorializzazione. Attraverso le pratiche partecipative non convenzionali, le forme di residenza artistica context specific e le altre varie forme che la progettualità artistica assume oggi, si apre la possibilità di creare situazioni specifiche per gli abitanti dei singoli territori e costruire spazi di prossimità, in cui riattivare le relazioni e generare reti dal basso. Il ritorno al territorio si concretizza in un contro-esodo verso le zone marginali, rimaste escluse dai processi di agglomerazione urbana.
[1] http://www.lapei.it/
[2] Alberto Magnaghi, Il principio territoriale, Bollati Boringhieri, 2020
#arte contemporanea#pratiche territoriali#alberto magnaghi#villa d'ogna#territorio#coscienza del luogo#contemporaneo
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Da qualche parte bisognava partire e siamo partiti da qui!
"Tu come la vedi?" è un laboratorio sperimentale per adolescenti, pensato per aprire il dialogo con una precisa fascia della popolazione di Villa d'Ogna sul tema dell'abitare lo spazio di un piccolo comune di montagna.
Senza troppi preconcetti la parola è data per la maggior parte del progetto ai ragazzi che hanno scelto di partecipare. La fotografia è l'aggancio utilizzato per collocare meglio il percorso, anche se in realtà vengono utilizzate modalità esperienziali di diverso tipo. L'obiettivo forse più definibile è quello di creare uno spazio per la condivisione. Uno spazio per prendere consapevolezza, per parlare e per ascoltare, per camminare insieme. Stimolare il dialogo indirizzandolo vuole portare a far emergere punti di vista, prospettive, e soprattutto a portare alla luce le mancanze o carenze percepite dai giovani che crescono qui.
#Progettazione culturale#villa d'ogna#progetti#adolescenti#art#Arte contemporanea#Pratiche territoriali
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"Man mano che diventiamo capaci di trasformare il mondo, di nominare le cose, di cogliere, comprendere, decidere, scegliere, valutare, insomma di eticizzare il mondo, il nostro muoversi in esso e nella Storia comporta necessariamente dei sogni, che cercheremo di realizzare attraverso la lotta. Quindi, se la nostra presenza nel mondo implica fare scelte e prendere decisioni, questo significa che non è una presenza neutrale. La capacità di osservare, paragonare, valutare, decidere e scegliere in che modo intendiamo esercitare la nostra cittadinanza, intervenendo nella vita della città, è una competenza fondamentale.
Se la mia presenza nella storia non è neutra, devo farmi carico, con spirito critico, della natura politica della mia presenza.
Se, in effetti, non esisto semplicemente per adattarmi al mondo, ma per trasformarlo, se non è possibile cambiare il mondo senza sognarne o progettarne uno diverso, allora devo approfittare di ogni opportunità, non solo per parlare della mia utopia, ma anche per partecipare attivamente a pratiche coerenti con questa utopia."
- Paulo Freire, Il diritto e il dovere di cambiare il mondo. Per una pedagogia dell'indignazione.
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appunti sul tragitto #2
Penso di aver osservato bene negli anni cosa succede ai ragazzi quando crescono qui. Ho visto svilupparsi nei miei coetanei e nelle annate precedenti la mia il bisogno di andare via e per tanto tempo l’ho sentito anche io come l’unica opzione possibile. Oppure, in un certo senso, si sceglie di arrendersi a una vita normale, conforme, senza aspirazioni. Rivalutare la possibilità di scegliere questo posto come quello in cui voler costruire il proprio futuro rappresenta già di per se un gesto rivoluzionario, perlomeno nella mia storia personale. Considerare il restare come una strada possibile mi ha messa praticamente in automatico nell’ottica di voler cambiare le condizioni che mi avevano portata a disprezzare questa via. Nel voler proporre un restare che non equivalga all’accontentarsi.
“Sono cresciuto nel genere di posto in cui le velleità e le stramberie non fanno di te una persona interessante, ma un babbeo che non ha ben presente quello che lo circonda: ovvero una realtà in cui le persone fanno lavori normali e hanno aspettative normali” (https://www.vice.com/it/article/mvmn5x/crescere-in-provincia-italia-347)
Qui non ci si pongono troppe domande. Si cercano le alternative sicure, si crede ancora nel sistemarsi e ci si affida alle poche cose stabili che si possono costruire.
Non so se è folle pensare che qualcosa possa cambiare. E non so quanto sia irrealistico immaginare che basti poco per riattivare la provincia. Non per farla diventare come il centro, ma per farla risvegliare, per farla rendere conto che non è la condizione a cui ci hanno relegati che determina quello che possiamo essere. Il fatto di essere una zona funzionale, industriale, grigia non implica necessariamente il nostro doverci omologare a un modo di vivere che non ha sapore. Non credo nei grandi cambiamenti strutturali imposti dall’alto, ma nelle piccole azioni che partono dal basso. E vedo in questo paesino sperduto che io stessa a lungo ho disprezzato un potenziale da riscoprire, partendo da qui.
Il sogno dell’altrove alimentato negli anni dell’adolescenza scende ora a compromessi con la realtà dei fatti e con il desiderio di sentirsi nuovamente parte di qualcosa di speciale e di importante senza doversi allontanare. Creare situazioni in cui l’apporto di ciascuno è riconosciuto e valorizzato potrebbe essere, a mio avviso, una delle modalità per ricreare il senso di comunità.
Vorrei creare spazi per il pensiero, per abituare già da piccoli a guardare oltre le apparenze, a non lasciarsi trasportare dal flusso incessante delle cose che succedono fuori senza capirle, pensando di non potere opporre resistenza. Allenare il pensiero critico, dare spazio alle opinioni perché si formino.
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