Tumgik
becomixdatabase · 4 years
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[Chatwin: il peso necessario della libertà](https://blog.becomix.me/chatwin-il-peso-necessario-della-liberta/ "https://blog.becomix.me/chatwin-il-peso-necessario-della-liberta/")
Così come il bambino di Corpicino e il piccolo Kurt Cobain, il gatto protagonista del nuovo libro di Tuono Pettinato entra in un bosco. È un luogo che ritorna sistematicamente nelle opere adulte dell’autore (adulte e crudeli), una scenografia avvolta di mistero ed enigmi che fa sempre da preludio a una presa di coscienza del protagonista. Junghianamente, il bosco di Tuono (mi piace immaginare che quella selva oscura sia sempre la stessa) è un luogo dell’inconscio in cui i suoi personaggi devono affrontare le proprie paure segrete e sepolte, diventa teatro iniziatico per lo smarrimento del sentiero ma anche passaggio fondamentale non tanto per il ritorno a casa ma per la scoperta di sé stessi.
Sempre per tirare in ballo Jung, il ritrovarsi in quel bosco coincide con la prima tappa di quel processo di individuazione fondamentale per riunire l’Io al Sé. Non è quindi un caso che nella sua nigredo, Chatwin sia attorniato da ombre, gattini fantasma che scuotono la coscienza del protagonista e ne smuovono la decisione che darà il via alla storia.
Perché verrebbe da pensare che Chatwin sia un bildungsroman regolare anche nella sua costruzione narrativa, ma dopo cinque pagine ci accorgiamo che il suo protagonista prende già quella decisione che in uno svolgimento regolare del romanzo di formazione, arriverebbe a metà del racconto. E invece incontriamo un Chatwin che si crede già maturo (la sua formazione culturale, miccia necessaria per intraprendere la fuga, ci viene raccontata in un flashback) e totalmente in grado di prendere la decisione di allontanarsi da una famiglia amorevole e da una casa accogliente. Lo fa però con la consapevolezza di un teorico, come se la scelta fosse tanto intima quanto scientifica, una presa di posizione ideologica che per il personaggio consiste in un salto nel vuoto. Chatwin conosce bene la teoria, ma la pratica?
Accade così che il crudele Tuono Pettinato impieghi le restanti pagine a minare l’impianto teorico che ha mosso la scelta del suo protagonista. Mettendolo davanti alla vita che si è scelto, Tuono obbliga Chatwin a riprendere in considerazione ogni aspetto di quell’idea che gli ha dato il coraggio e l’incoscienza di cambiare vita. Da qui in poi il viaggio di Chatwin è una via crucis che ci racconta la libertà dal punto di vista di vari movimenti sociali e culturali (gli hippie, gli hobo, i beat, la malavita, i culti religiosi), e rafforza in realtà l’idea che nel momento in cui si entra a fare parte di una famiglia, di un gruppo o di una comunità, la nostra libertà interiore viene sempre e comunque a mancare perché costretti a modulare il nostro pensiero su regolamenti e riti propri di ogni società.
Il libro segue i passi della favola morale, del racconto didattico, ma Tuono scava così a fondo del problema che quando ci pone davanti alla sua soluzione ci sentiamo mancare il terreno da sotto i piedi. Così come in Corpicino, Tuono sembra dirci che alla base delle inquietudini di Chatwin ci sono dubbi che smuovono l’umanità sin dalla notte dei tempi. Questioni millenarie che definiscono l’Uomo e ne smuovono le decisioni da sempre. Tuono Pettinato è forse l’unico autore italiano che aspira davvero all’universalità del suo racconto, pescando i temi dalle questioni contemporanee ma rimettendoli in gioco. Tramite citazioni e influenze, l’autore inserisce il suo fumetto in un dialogo che coinvolge attivamente chi prima di lui ha già affrontato questi argomenti, ma ciò che lo contraddistingue è che ha stoffa, conoscenza e coraggio per mettere la sua ricerca sullo stesso piano di chi lo ha ispirato. In questo modo Chatwin non dialoga soltanto con il passato, ma con le riflessioni che porta con sé, si apre al confronto con il futuro.
Infatti quel finale (adulto e crudele) non chiude soltanto l’arco di crescita del protagonista, ma enuncia con coraggio una teoria sulla libertà che parla all’uomo di ogni tempo. Mentre attorno a lui impera la cultura del disagio senza soluzione, Tuono Pettinato tira fuori un saggio filosofico travestito da fumetto che ha il coraggio e la crudeltà di metterci davanti all’unica soluzione possibile quando si tratta di riprendersi la propria libertà.
Il fumetto si chiude sullo sguardo di Chatwin ansioso e impaurito perché ha capito che quella libertà così cercata e voluta sarà sempre e comunque fonte di sofferenza. Ma indietro non si torna.
Chatwin. Gatto per forza, randagio per sceltaTuono Pettinato Rizzoli Lizard 9788817104036
L'originale è stato pubblicato su [https://blog.becomix.me/chatwin-il-peso-necessario-della-liberta/](https://blog.becomix.me/chatwin-il-peso-necessario-della-liberta/ "Permalink")
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becomixdatabase · 4 years
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[Chatwin: il peso necessario della libertà](https://blog.becomix.me/chatwin-il-peso-necessario-della-liberta/ "https://blog.becomix.me/chatwin-il-peso-necessario-della-liberta/")
Così come il bambino di Corpicino e il piccolo Kurt Cobain, il gatto protagonista del nuovo libro di Tuono Pettinato entra in un bosco. È un luogo che ritorna sistematicamente nelle opere adulte dell’autore (adulte e crudeli), una scenografia avvolta di mistero ed enigmi che fa sempre da preludio a una presa di coscienza del protagonista. Junghianamente, il bosco di Tuono (mi piace immaginare che quella selva oscura sia sempre la stessa) è un luogo dell’inconscio in cui i suoi personaggi devono affrontare le proprie paure segrete e sepolte, diventa teatro iniziatico per lo smarrimento del sentiero ma anche passaggio fondamentale non tanto per il ritorno a casa ma per la scoperta di sé stessi.
Sempre per tirare in ballo Jung, il ritrovarsi in quel bosco coincide con la prima tappa di quel processo di individuazione fondamentale per riunire l’Io al Sé. Non è quindi un caso che nella sua nigredo, Chatwin sia attorniato da ombre, gattini fantasma che scuotono la coscienza del protagonista e ne smuovono la decisione che darà il via alla storia.
Perché verrebbe da pensare che Chatwin sia un bildungsroman regolare anche nella sua costruzione narrativa, ma dopo cinque pagine ci accorgiamo che il suo protagonista prende già quella decisione che in uno svolgimento regolare del romanzo di formazione, arriverebbe a metà del racconto. E invece incontriamo un Chatwin che si crede già maturo (la sua formazione culturale, miccia necessaria per la sua scelta, ci viene raccontata in un flashback) e totalmente in grado di prendere la decisione di fuggire da una famiglia amorevole e da una casa accogliente. Lo fa però con la consapevolezza di un teorico, come se la scelta fosse tanto intima quanto scientifica, una presa di posizione ideologica che per il personaggio consiste in un salto nel vuoto. Chatwin conosce bene la teoria, ma la pratica?
Accade così che il crudele Tuono Pettinato impieghi le restanti pagine a minare l’impianto teorico che ha mosso la scelta di Chatwin. Mettendolo davanti alla vita che si è scelto, Tuono obbliga Chatwin a riprendere in considerazione ogni aspetto di quell’idea che gli ha dato il coraggio e l’incoscienza di cambiare vita. Da qui in poi il viaggio di Chatwin è una via crucis che ci racconta la libertà dal punto di vista di vari movimenti sociali e culturali (gli hippie, gli hobo, I beat, la malavita, le religioni), e rafforza in realtà l’idea che nel momento in cui si entra a fare parte di una famiglia, di un gruppo o di una comunità, la nostra libertà interiore viene sempre e comunque a mancare.
Il libro segue i passi della favola morale, del racconto didattico, ma Tuono scava così a fondo del problema che quando ci pone davanti alla sua soluzione ci sentiamo mancare il terreno da sotto i piedi. Così come in Corpicino, Tuono sembra dirci che alla base dei problemi di Chatwin ci sono questioni che smuovono l’umanità sin dalla notte dei tempi. Questioni millenarie che definiscono l’Uomo e ne smuovono le decisioni da sempre. Tuono Pettinato è forse l’unico autore italiano che aspira davvero all’universalità del suo racconto, pescando i temi dalle questioni contemporanee ma rimettendolo in gioco con un fumetto che, con citazioni e influenze, lo inserisce in un discorso teorico più ampio che coinvolge attivamente chi prima di lui ha già affrontato questi argomenti, e ha il coraggio di metterlo al loro stesso livello per potersi poi confrontare con chi verrà dopo di lui.
Infatti quel finale (adulto e crudele) non chiude soltanto l’arco di crescita del protagonista, ma enuncia con coraggio una teoria sulla libertà che parla all’uomo di ogni tempo. Mentre attorno a lui impera la cultura del disagio senza soluzione, Tuono Pettinato tira fuori un saggio filosofico travestito da fumetto che ha il coraggio e la crudeltà di metterci davanti all’unica soluzione possibile quando si tratta di riprendersi la propria libertà.
Il fumetto si chiude sullo sguardo di Chatwin ansioso e impaurito perché ha capito che quella libertà così cercata e voluta sarà sempre e comunque fonte di sofferenza. Ma indietro non si torna.
Chatwin Tuono Pettinato Rizzoli Lizard 9788817104036
L'originale è stato pubblicato su [https://blog.becomix.me/chatwin-il-peso-necessario-della-liberta/](https://blog.becomix.me/chatwin-il-peso-necessario-della-liberta/ "Permalink")
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becomixdatabase · 4 years
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[Vendetta contro l'umanità - Intervista a Mavado Charon](https://blog.becomix.me/vendetta-contro-lumanita-intervista-a-mavado-charon/ "https://blog.becomix.me/vendetta-contro-lumanita-intervista-a-mavado-charon/")
Disclaimer: questo articolo è per un pubblico maturo. Perbenisti, maschietti repressi e rompicazzo in generale alla larga, please.
frontespizio di Dirty_L’arte di Mavado Charon è consacrata alla ricerca dell’eccesso e della libertà assoluta. Rientra in quella letteratura libertina che vede il Machese de Sade come capostipite (non a caso _Dirty ha vinto nel 2018 il prestigioso Prix Sade come libro d’arte). Prendiamo le scene finali di Salò, riportiamole in un futuro post apocalittico e dilatiamole ad libitum. Ci ritroveremo in un inesorabile e implacabile caos di sessualità deviata e violenza estrema. L’opera di Mavado Charon è un festino continuo. Il primo lavoro, Whore, è stato realizzato nel 2016 per United Dead Artist ma non è mai uscito ufficialmente. Homojustice (Hirnplatz) è del 2017 e verrà ristampato da ManiaPress nel 2021. Dopo il premiato Dirty (ManiaPress), l’autore ha realizzato le 208 pagine di Sluts, in uscita a settembre 2020. Attualmente Mavado Charon sta lavorando a Thurd. Seguivo il suo blog da un pezzo, ma per questioni che vertono su sadismo e omopornografia (dico solo Burroughs Quest) io e Mavado Charon siamo entrati in contatto. Dopo esserci scambiati libri e autoproduzioni, è nata questa intervista.
Sluts – AutoproduzioneMavado Charon è un nom de plume, vero? Ha qualche significato?
Sì, esatto! Ho inventato questo nickname quando stavo creando questo stile di disegno, ovvero per questi “affreschi” omo-pornografici e post apocalittici. «Mavado» è un ricordo del mio personaggio preferito dal videogioco Mortal Kombat V_, e Charon sarebbe il Caronte della mitologia greca. È lui il traghettatore di anime dell’Ade, che attraversa lo Stige o l’Acheronte._
Whore – AutoproduzioneLa tua arte è mai stata (senza considerare i social network) censurata o ostacolata? Per esempio da femministe radicali?
No, mai. Sono io a censurare i disegni nei post di Facebook e Instagram perché penso che quei social network non meritino di avere le mie opere integre! Inoltre il mio scopo non è quello di offendere, e sono sicuro che ci sia un sacco di persone pronte ad offendersi che passano tutto il loro tempo su FB e Instagram. Non parlo con loro…
Nel tuo lavoro c’è critica politica? Ci vedi della critica al capitalismo? I tuoi lavori rientrano in un discorso LGBT?
Mi piace l’idea che i miei disegni possano essere interpretati come critica politica. Per quel che mi riguarda, tutti quegli uomini gay che uccidono e torturano compiendo una sorta di vendetta contro l’umanità. I miei eroi sono felici, orgogliosi e pericolosi, e questo può essere un messaggio per il popolo LGBT: reagite e contrattaccate! Ma principalmente, per me è davvero molto divertente disegnare quelle scene.
_Thurd_ (wip) – p. 131C’è un lettore ideale dei tuoi lavori?
No, spero che siano per tutti coloro che amano i disegni in bianco e nero. Molto spesso i miei fan sono fumettisti. Fin da quando ho iniziato, la mia arte ha avuto grande successo nella scena gay: sono stato intervistato dalla mitica Butt magazine_, e i miei libri nella libreria LGBT_ Les mots à la bouche di Parigi vendono molto bene. Ma per rispondere bene alla tua domanda, il mio lettore ideale è qualcuno che capisce la parte umoristica che c’è nel mio lavoro. Questo è essenziale!
5 – In Homojustice l’umorismo e più riconoscibile. Cosa mi dici di Dirty****?
Non so. Io volevo solo che Homojustice fosse la storia di supereroi più assurda mai raccontata: questi ragazzoni usano i loro super poteri per stuprare e uccidere ragazzi giovani, questo è tutto. Come se i supereroi fossero dei serial killer psicopatici. Dal mio punto di vista Homojustice è il mio fumetto migliore che ho realizzato finora, forse per questo ci possono essere molte interpretazioni di questa storia.
_Homojustice_ – p. 53Nei tuoi primi lavori come il già citato Homojustice, Whore e Sluts c’è una sorta di plot. In Dirty la situazione si “dilata”. Ciò nonostante, se il fumetto è narrazione e l’illustrazione contemplazione, Dirty per quel che mi riguarda è un fumetto, perché si sente una sorta di plot. Cosa ne pensi?
Quando ho iniziato a disegnare i miei “affreschi” come Mavado Charon volevo solo fare dei disegni eccitanti, ma dato che sono un narratore nato ho cercato subito di fare qualche fumetto ambientato in questo oscuro universo. Ma immediatamente ho capito che per me è molto difficile raccontare le storie in questo modo. Forse Homojustice è un bel fumetto proprio perché è un po’ diverso: è una storia di supereroi e non una storia post apocalittica. Dirty è, in ogni caso, il mio libro migliore perché il mix tra disegni e storia è perfetto (grazie all’editor di Mania Press, il grande Sylvain Gérand, che mi ha aiutato). Ma devo ammettere che il fumetto in Dirty nasce da un fallimento: volevo fare un libro di 500 pagine intitolato Thurd_, e ho fallito. Il mio libro successivo_ Sluts è stato un altro tentativo di realizzazione di questo fumetto enorme. In questi giorni sto tentando di nuovo di disegnare questa grande opera da 500 pagine, ma forse sarà un altro fallimento. Anche se ho trovato delle nuove interessanti idee, come quella di non disegnare i personaggi nello stesso modo da una pagina all’altra. Sarà sorprendente, vedrete!
Nei tuoi fumetti ci sono solo ragazzi. Questa scelta mi ricorda quella dei registi italiani Ciprì e Maresco – gli ultimi registi del cinema italiano – dove anche nei loro film ci sono solo uomini. Inoltre tra il tuo lavoro e il loro ci sono altre analogia – la ripetizione, ambientazione apocalittica, la fine dell’umanità. Il “cinema cinico” di Ciprì e Maresco deriva dal Teatro dell’Assurdo, Carmelo Bene, Antonin Artaud e in linea generale dal radicalismo del XX secolo. Li conosci? Credi che la tua arte sia legata agli artisti radicali del 900? Penso anche a William Burroughs.
No, non conoscevo Ciprì e Maresco, ma le loro opere sembrano davvero molto interessanti! Non sono molto legato al teatro o al cinema, ma leggo molti romanzi e libri e vengo maggiormente ispirato dalla prosa rispetto al fumetto. William Burroughs è certamente una delle mie principali fonti di ispirazione. Adoro il modo unico e assurdo in cui mischia violenza e omosessualità. Di solito amo tutti quei libri “fuori di testa” che raccontano storie di sesso, morte, storie bizzarre, queer e di universi oppressi, come Hubert Selby Jr (_The Demon), Samuel Delany (Hogg) e gli autori gay francesi come Pierre Augérias, Tony Duvert, Pierre Guyotat… e certamente il Marchese de Sade!_ Aggiungo ancora che nella nostra società contemporanea il corpo della donna è considerevolmente mercificato e non disegnare le donne per me è un modo per evitare questo gioco. Credo che sia questo il motivo per cui non sono mai stato criticato da gruppi femministi radicali (molti dei miei amici parte di questi gruppi!). Ovviamente si può rintracciare femminilità (che è la metà di tutti noi) nei miei disegni, incarnato in transessuali e travestiti. Ma il corpo della donna è troppo “prostituzionalizzato” (come dice l’autore francese Pierre Guyotat) nella nostra società consumista, ed è per questo che preferisco escludere il corpo femminile nelle mie opere.
_Sluts_ – p. 16-17Quanto è importante il coinvolgimento emotivo e l’eccitamento sessuale del lettore?
Il piacere del lettore è molto importante per me, ma per me è ancora più il importante il mio, quando disegno i miei fumetti! Quando li immagino mi fomento molto, mi fa sentire molto eccitato. Ma la sensazione di aver realizzato un bel disegno, anche se non mostra nessuna pratica sessuale, è il piacere che voglio maggiormente raggiungere. Spero che le mie opere possano procurare piacere e eccitamento sessuale, ma per me è ancora più importante godere esteticamente nell’osservare disegni ben realizzati.
Per autori come Hayami Jun, la rappresentazione della violenza sulle donne ha una valenza catartica e di denuncia. C’è della denuncia nei tuoi lavori? Senti mai il peso del male sulle tue spalle per i fumetti che rappresenti?
Ahah, no, non ho mai sentito il “peso del male” sulle mie spalle! Dal mio punto di vista, l’arte è separata dall’etica. Questo mi permette di disegnare tutto, anche le peggiori scene di torture che si possono immaginare, con delizia… previsto che nella mia vita sono una persona gentile, onesta e amichevole! Cerco di essere esemplare nella vita di tutto i giorni, perché questa è la mia vera natura, ma voglio essere libero di disegnare nelle mie opere le cose più oscure, pazze e sporche. Non voglio particolarmente che il mio lavoro sia qualcosa di catartico, o di denucia delle violenze del mondo! Voglio solo fare disegni divertenti, unici ed eccitanti.
Immagine di copertina di Dirty De Sade ha posto il limite alla letteratura occidentale di cosa può essere narrato. Vuoi sfidare questo limite? Hai mai provato il senso di delusione di non aver raggiunto e superato quel limite?
Come fumettista, so perfettamente che non posso competere con De Sade. Fumetti e letteratura sono molto diversi, sotto tanti aspetti. Forse posso disegnare delle storie che ricordando certe scene che ho letto ne Le centoventi giornate di Sodoma_, per esempio, ma il risultato sarà necessariamente molto diverso. Io cerco solo di padroneggiare al meglio la mia arte, di raccontare le storie che voglio raccontare tenendo in testa la convinzione che De Sade non potrà mai venire superato, in ogni caso. Detto ciò, cerco di spingermi il più in là possibile, e immaginare scene di sesso e torture che neanche Sade aveva immaginato. Bella sfida, vero?_
Quali sono i tuoi artisti preferiti? E quali hanno influenzato di più le tue opere?
La mia principale fonte di ispirazione sono i romanzi, ma apprezzo molto anche molti fumettisti di universi che sembrano molto lontani dal mio! Per esempio, adoro Benjamin Marra, e considero il suo fumetto O.M.W.O.T. un capolavoro degli anni ‘10. Mi piacciono molto anche i manga di Yokohama Yuichi, sono così originali, così forti! In linea generale amo il pop e la outsider art, come le fanzine, i film di serie B degli anni 90, il wrestling, ecc.
Puoi consigliare ai nostri lettori qualcosa da ascoltare?
No, mi dispiace! Non ascolto musica! Ascolto molti podcast sulla permacultura, wrestling, videogiochi o fumetti, ma niente musica!
_Whore_ – p. 11L'originale è stato pubblicato su [https://blog.becomix.me/vendetta-contro-lumanita-intervista-a-mavado-charon/](https://blog.becomix.me/vendetta-contro-lumanita-intervista-a-mavado-charon/ "Permalink")
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becomixdatabase · 4 years
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[Vendetta contro l'umanità - Intervista a Mavado Charon](https://blog.becomix.me/vendetta-contro-lumanita-intervista-a-mavado-charon/ "https://blog.becomix.me/vendetta-contro-lumanita-intervista-a-mavado-charon/")
Disclaimer: questo articolo è per un pubblico maturo. Perbenisti, maschietti repressi e rompicazzo in generale alla larga, please.
frontespizio di Dirty_L’arte di Mavado Charon è consacrata alla ricerca dell’eccesso e della libertà assoluta. Rientra in quella letteratura libertina che vede il Machese de Sade come capostipite (non a caso _Dirty ha vinto nel 2018 il prestigioso Prix Sade come libro d’arte). Prendiamo le scene finali di Salò, riportiamole in un futuro post apocalittico e dilatiamole ad libitum. Ci ritroveremo in un inesorabile e implacabile caos di sessualità deviata e violenza estrema. L’opera di Mavado Charon è un festino continuo. Il primo lavoro, Whore, è stato realizzato nel 2016 per United Dead Artist ma non è mai uscito ufficialmente. Homojustice (Hirnplatz) è del 2017 e verrà ristampato da ManiaPress nel 2021. Dopo il premiato Dirty (ManiaPress), l’autore ha realizzato le 208 pagine di Sluts, in uscita a settembre 2020. Attualmente Mavado Charon sta lavorando a Thurd. Seguivo il suo blog da un pezzo, ma per questioni che vertono su sadismo e omopornografia (dico solo Burroughs Quest) io e Mavado Charon siamo entrati in contatto. Dopo esserci scambiati libri e autoproduzioni, è nata questa intervista.
Sluts – AutoproduzioneMavado Charon è un nom de plume, vero? Ha qualche significato?
Sì, esatto! Ho inventato questo nickname quando stavo creando questo stile di disegno, ovvero per questi “affreschi” omo-pornografici e post apocalittici. «Mavado» è un ricordo del mio personaggio preferito dal videogioco Mortal Kombat V_, e Charon sarebbe il Caronte della mitologia greca. È lui il traghettatore di anime dell’Ade, che attraversa lo Stige o l’Acheronte._
Whore – AutoproduzioneLa tua arte è mai stata (senza considerare i social network) censurata o ostacolata? Per esempio da femministe radicali?
No, mai. Sono io a censurare i disegni nei post di Facebook e Instagram perché penso che quei social network non meritino di avere le mie opere integre! Inoltre il mio scopo non è quello di offendere, e sono sicuro che ci sia un sacco di persone pronte ad offendersi che passano tutto il loro tempo su FB e Instagram. Non parlo con loro…
Nel tuo lavoro c’è critica politica? Ci vedi della critica al capitalismo? I tuoi lavori rientrano in un discorso LGBT?
Mi piace l’idea che i miei disegni possano essere interpretati come critica politica. Per quel che mi riguarda, tutti quegli uomini gay che uccidono e torturano compiendo una sorta di vendetta contro l’umanità. I miei eroi sono felici, orgogliosi e pericolosi, e questo può essere un messaggio per il popolo LGBT: reagite e contrattaccate! Ma principalmente, per me è davvero molto divertente disegnare quelle scene.
_Thurd_ (wip) – p. 131C’è un lettore ideale dei tuoi lavori?
No, spero che siano per tutti coloro che amano i disegni in bianco e nero. Molto spesso i miei fan sono fumettisti. Fin da quando ho iniziato, la mia arte ha avuto grande successo nella scena gay: sono stato intervistato dalla mitica Butt magazine_, e i miei libri nella libreria LGBT_ Les mots à la bouche di Parigi vendono molto bene. Ma per rispondere bene alla tua domanda, il mio lettore ideale è qualcuno che capisce la parte umoristica che c’è nel mio lavoro. Questo è essenziale!
5 – In Homojustice l’umorismo e più riconoscibile. Cosa mi dici di Dirty****?
Non so. Io volevo solo che Homojustice fosse la storia di supereroi più assurda mai raccontata: questi ragazzoni usano i loro super poteri per stuprare e uccidere ragazzi giovani, questo è tutto. Come se i supereroi fossero dei serial killer psicopatici. Dal mio punto di vista Homojustice è il mio fumetto migliore che ho realizzato finora, forse per questo ci possono essere molte interpretazioni di questa storia.
_Homojustice_ – p. 53Nei tuoi primi lavori come il già citato Homojustice, Whore e Sluts c’è una sorta di plot. In Dirty la situazione si “dilata”. Ciò nonostante, se il fumetto è narrazione e l’illustrazione contemplazione, Dirty per quel che mi riguarda è un fumetto, perché si sente una sorta di plot. Cosa ne pensi?
Quando ho iniziato a disegnare i miei “affreschi” come Mavado Charon volevo solo fare dei disegni eccitanti, ma dato che sono un narratore nato ho cercato subito di fare qualche fumetto ambientato in questo oscuro universo. Ma immediatamente ho capito che per me è molto difficile raccontare le storie in questo modo. Forse Homojustice è un bel fumetto proprio perché è un po’ diverso: è una storia di supereroi e non una storia post apocalittica. Dirty è, in ogni caso, il mio libro migliore perché il mix tra disegni e storia è perfetto (grazie all’editor di Mania Press, il grande Sylvain Gérand, che mi ha aiutato). Ma devo ammettere che il fumetto in Dirty nasce da un fallimento: volevo fare un libro di 500 pagine intitolato Thurd_, e ho fallito. Il mio libro successivo_ Sluts è stato un altro tentativo di realizzazione di questo fumetto enorme. In questi giorni sto tentando di nuovo di disegnare questa grande opera da 500 pagine, ma forse sarà un altro fallimento. Anche se ho trovato delle nuove interessanti idee, come quella di non disegnare i personaggi nello stesso modo da una pagina all’altra. Sarà sorprendente, vedrete!
Nei tuoi fumetti ci sono solo ragazzi. Questa scelta mi ricorda quella dei registi italiani Ciprì e Maresco – gli ultimi registi del cinema italiano – dove anche nei loro film ci sono solo uomini. Inoltre tra il tuo lavoro e il loro ci sono altre analogia – la ripetizione, ambientazione apocalittica, la fine dell’umanità. Il “cinema cinico” di Ciprì e Maresco deriva dal Teatro dell’Assurdo, Carmelo Bene, Antonin Artaud e in linea generale dal radicalismo del XX secolo. Li conosci? Credi che la tua arte sia legata agli artisti radicali del 900? Penso anche a William Burroughs.
No, non conoscevo Ciprì e Maresco, ma le loro opere sembrano davvero molto interessanti! Non sono molto legato al teatro o al cinema, ma leggo molti romanzi e libri e vengo maggiormente ispirato dalla prosa rispetto al fumetto. William Burroughs è certamente una delle mie principali fonti di ispirazione. Adoro il modo unico e assurdo in cui mischia violenza e omosessualità. Di solito amo tutti quei libri “fuori di testa” che raccontano storie di sesso, morte, storie bizzarre, queer e di universi oppressi, come Hubert Selby Jr (_The Demon), Samuel Delany (Hogg) e gli autori gay francesi come Pierre Augérias, Tony Duvert, Pierre Guyotat… e certamente il Marchese de Sade!_ Aggiungo ancora che nella nostra società contemporanea il corpo della donna è considerevolmente mercificato e non disegnare le donne per me è un modo per evitare questo gioco. Credo che sia questo il motivo per cui non sono mai stato criticato da gruppi femministi radicali (molti dei miei amici parte di questi gruppi!). Ovviamente si può rintracciare femminilità (che è la metà di tutti noi) nei miei disegni, incarnato in transessuali e travestiti. Ma il corpo della donna è troppo “prostituzionalizzato” (come dice l’autore francese Pierre Guyotat) nella nostra società consumista, ed è per questo che preferisco escludere il corpo femminile nelle mie opere.
_Sluts_ – p. 16-17Quanto è importante il coinvolgimento emotivo e l’eccitamento sessuale del lettore?
Il piacere del lettore è molto importante per me, ma per me è ancora più il importante il mio, quando disegno i miei fumetti! Quando li immagino mi fomento molto, mi fa sentire molto eccitato. Ma la sensazione di aver realizzato un bel disegno, anche se non mostra nessuna pratica sessuale, è il piacere che voglio maggiormente raggiungere. Spero che le mie opere possano procurare piacere e eccitamento sessuale, ma per me è ancora più importante godere esteticamente nell’osservare disegni ben realizzati.
Per autori come Hayami Jun, la rappresentazione della violenza sulle donne ha una valenza catartica e di denuncia. C’è della denuncia nei tuoi lavori? Senti mai il peso del male sulle tue spalle per i fumetti che rappresenti?
Ahah, no, non ho mai sentito il “peso del male” sulle mie spalle! Dal mio punto di vista, l’arte è separata dall’etica. Questo mi permette di disegnare tutto, anche le peggiori scene di torture che si possono immaginare, con delizia… previsto che nella mia vita sono una persona gentile, onesta e amichevole! Cerco di essere esemplare nella vita di tutto i giorni, perché questa è la mia vera natura, ma voglio essere libero di disegnare nelle mie opere le cose più oscure, pazze e sporche. Non voglio particolarmente che il mio lavoro sia qualcosa di catartico, o di denucia delle violenze del mondo! Voglio solo fare disegni divertenti, unici ed eccitanti.
Immagine di copertina di Dirty De Sade ha posto il limite alla letteratura occidentale di cosa può essere narrato. Vuoi sfidare questo limite? Hai mai provato il senso di delusione di non aver raggiunto e superato quel limite?
Come fumettista, so perfettamente che non posso competere con De Sade. Fumetti e letteratura sono molto diversi, sotto tanti aspetti. Forse posso disegnare delle storie che ricordando certe scene che ho letto ne Le centoventi giornate di Sodoma_, per esempio, ma il risultato sarà necessariamente molto diverso. Io cerco solo di padroneggiare al meglio la mia arte, di raccontare le storie che voglio raccontare tenendo in testa la convinzione che De Sade non potrà mai venire superato, in ogni caso. Detto ciò, cerco di spingermi il più in là possibile, e immaginare scene di sesso e torture che neanche Sade aveva immaginato. Bella sfida, vero?_
Quali sono i tuoi artisti preferiti? E quali hanno influenzato di più le tue opere?
La mia principale fonte di ispirazione sono i romanzi, ma apprezzo molto anche molti fumettisti di universi che sembrano molto lontani dal mio! Per esempio, adoro Benjamin Marra, e considero il suo fumetto O.M.W.O.T. un capolavoro degli anni ‘10. Mi piacciono molto anche i manga di Yokohama Yuichi, sono così originali, così forti! In linea generale amo il pop e la outsider art, come le fanzine, i film di serie B degli anni 90, il wrestling, ecc.
Puoi consigliare ai nostri lettori qualcosa da ascoltare?
No, mi dispiace! Non ascolto musica! Ascolto molti podcast sulla permacultura, wrestling, videogiochi o fumetti, ma niente musica!
_Whore_ – p. 11L'originale è stato pubblicato su [https://blog.becomix.me/vendetta-contro-lumanita-intervista-a-mavado-charon/](https://blog.becomix.me/vendetta-contro-lumanita-intervista-a-mavado-charon/ "Permalink")
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becomixdatabase · 4 years
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[Imbroglio! Imbroglio! E altre divagazioni](https://blog.becomix.me/imbroglio-imbroglio-e-altre-divagazioni/ "https://blog.becomix.me/imbroglio-imbroglio-e-altre-divagazioni/")
Il 2019 è stato dominato da una narrazione: Multiforce di Brinkman è il fumetto weird fantasy (ovvero dove i canoni stilistici del fantasy vengono scardinati) più influente pubblicato lo scorso anno. Al di là della delusione nel leggerlo la prima volta (ne avevo sentito così tanto e magnificamente parlare per poi trovarmi con della massa enorme di carta quasi illeggibile), Multiforce ha un affascinante “stile” fine a sé stesso che va contestualizzato nella ribellione di Fort Thunder. Sinceramente vi lascio tenere a voi le pesanti “museum edition” in cui la “cura editoriale” si basa su carta spessa e copertina rigida da comprare a cifre ridicolmente alte, mentre la cura del contenuto è piuttosto trascurata. Io piuttosto, che sono una cavalla golosa di storie, personaggi costruiti bene, colpi di scena, battute sagaci, giochi di parole, collegamenti temporali comprensibili solo nella lettura incrociate di albi diversi, quando ho voglia di un bel weird fantasy, dalla libreria mi prendo il Donjon di Trondheim e Sfar. (O Cerebus di Dave Sim, ma non divaghiamo). Su quanto sia stato influente, abbiamo varie prove a disposizione. Una di queste è Adventure Time.
Di certo non sono opere che si possono paragonare. Multiforce è stato autoprodotto nella fabbrica occupata di Fort Thunder, una ventina di pagine grezze, sporche e sconclusionate (com’è giusto che siano). Mat Brinkman ha inventato un sentire del fantasy, mischiando estetica punk ed evasione da bad trip a nuovi sotterranei da esplorare. Il Donjon invece è un grande progetto editoriale che ha visto al centro due delle grandi voci della nouvelle vague fumettistica francese (Sfar & Trondheim) e che ha coinvolto una miriade di autori (tra cui citiamo Blanquet, Larcenet, Blain, Killofer, Carlos Nine, ecc ecc). Il punto di vista narrativo (almeno in Zenith) è capovolto rispetto a quello di Dungeons & Dragons: non si parla di avventurieri in manieri, ma del proprietario del maniero che si arricchisce tramite malcapitati e idioti avventurieri. Di questo grande progetto se n’è sentito parlare poco, nonostante sia recentemente ripubblicato un volume per Bao Publishing (La Fortezza, – precedentemente dei volumi erano stati pubblicati da Magic Press e Phoenix). Per concludere: non seguite le narrazioni della promozione del fumetto, perché niente è vero e tutto è permesso.
Rimangono tuttavia delle domande: perché, nonostante l’importanza e l’attesa di molti, se ne sta parlando così poco? Perché non è stato presentato come grande saga fantasy, ormai un classico in Francia, dai diversi ordini di lettura come i grandi romanzi modernisti del Novecento? Uscirà mai la traduzione del gioco di ruolo? Beh, penso proprio di no. Ragazzi, imparatevi le lingue e prendetevi i fumetti in originale. Ogni tanto, quando si fatica, si guadagna in comprensione.
Ma lasciamo perdere le polemiche e seguiamo la buona pratica di M.T. “fumetti come gli I ching”. Prendo un Donjon a caso – l’ordine di uscita in cui è andato ormai da tempo. Non guardo che quale albo ho preso e a occhi chiusi apro il volume. Esce la quinta tavola del primo numero della serie Crépuscule, Il cimitero dei draghi, disegnato da Sfar e colorato da Walter.
Chi ha letto l’albo, ha già visto nelle prime pagine una fortezza diversa, cupa, decisamente più lugubre rispetto alla “spensieratezza” dell’epoca del guardiano. Marvin il Rosso è anziano e cieco, viene chiamato dalle guardie Re Polveroso. Di Herbert neanche l’ombra. Questo primo numero, uscito grossomodo contemporanee a Zenith, pone un pesante fardello sul destino dei protagonisti. Il flashforward crea una prospettiva tragica i protagonisti dell’epoca Zenith. Chi si legge tutta la serie Zenith di seguito, quindi non in ordine di uscita degli episodi, perde, nella lettura, i rimandi temporali e le conseguenti prospettive.
Torniamo al Cimitero dei draghi. Il re polveroso vuole abbandonare la sua grotta. «Perfetto», dice Shiwømiz, «sente che sta per morire e vuole tornare al cimitero dei draghi.» (Chi avrà inventato il nome Shiwømiz, Sfar o Trondheim?) Shiwømiz ordina alla guardia di seguire il Re Polveroso fino a quel luogo leggendario per profanare le loro tombe, pe fare in modo che gli antichi draghi non tornino mai più. Ed eccoci alla tavola quinta. Nove vignette divise in tre strisce. Tre, come le strofe di un haiku.
Prima striscia: monologo di Shiwømihz, sa che non può fidarsi della guardia che ha mandato, e chiama un altro servitore, Golgoth. In due vignette Shiwømihz è rappresentato di spalle, mentre in quella centrale di fronte. La vignetta centrale è l’unica che ha come punto di fuoco l’esterno.
Seconda striscia: arriva Golgoth; Shiwømihz gli ordina di seguire i servitori e ucciderli una volta che arrivano al cimitero; nella terza vignetta della striscia Shiwømiz medita se mandare qualcuno dietro Golgoth. Da segnalare come sia l’ombra a creare la plasticità di Golgoth.
Terza striscia: Shiwømihz viene chiamato dal Supremo Khan (che ancora non sappia chi o cosa sia). Quest’ultimo, che non si vede, solo il balloon viene da sgangherate scale, domanda se ci sono novità a proposito del Re polveroso. Shiwømihz mente. A decorare il muro sopra le scale un sole nero. Sfar è troppo colto per non conoscerne i riferimenti all’ano solare di Bataille (che ritroviamo anche ne Il Bambino di Dio dei Nishioka) o allo Schwarze Sonne, la runa del sole nero. Però ce l’ha ficcata. Da notare ancora che l’ultima vignetta si chiude con una menzogna.
Questa è una tavola di imbrogli. Ripeschiamo quindi Imbroglio di Trondheim edito da ProGlo e citiamo dalla postfazione di Raffaele Ventura. In francese, la parola “imbroglio” non ha il significato primario di quello che intendiamo con imbroglio in italiano. Si pronuncia imbroghliò e indica un groviglio narrativo, una macchinazione complicata o una trama confusa. […] Dal punto di vista dei difensori del teatro classico contro le derive barocche di un Shakespeare o di un Lope de Vega, un imbroghliò è un cattivo intreccio. E così torniamo al fumetto di Trondheim, che sicuramente da questo punto di vista, programmaticamente, è caratterizzato da un “cattivo intreccio”. Il portare all’estremo stratagemmi, colpi di scena, e altre meccaniche della narrazione è una delle caratteristiche della narrazione di intelletto di Trondheim, che si contrappone a quella più lunare (emotiva, romantica) di Sfar.
La forza del Donjon risiede proprio in questa incredibile sinergia, una sintesi maggiore delle due parti. Se Trondheim tuttavia è un autore che si spinge nei reami della sperimentazione selvaggia e lo stesso Sfar filtri le sue storie con la sua particolare sensibilità filosofica, i due non hanno mai dimenticato, anzi, hanno usato le proprie armi a favore della storia, servendo fedelmente i propri personaggi – assurdi, idioti, coraggiosi, pavidi – non per il lettore, ma per il racconto. Questi due elementi (personaggi e intreccio narrativo) non sono mai stati trascurati nella nouvelle vague francese.
Forse è troppo sostenere che questa quinta tavola possa essere letta di per sé, slegata dal resto del volume. Ma sicuramente la tavola ha un inizio e una conclusione narrativa: il primo imbroglio contro il re Polveroso, il secondo imbroglio contro la guardia, e il terzo imbroglio verso il Gran Khan. Una serie di sotterfugi che tuttavia smascherano con umorismo e astuzia al lettore il cuore mendace di Shiwømihz, in poche vignette. È questo il Donjon, umorismo e astuzia. Ma non l’umorismo del “meme gnegnegne”, piuttosto quello pirandelliano: un processo di riflessione critica, che scandaglia e smaschera l’imbroglio più grande, quello della maschera delle persone/personaggi.
Le Cimetière des dragons – Donjon Crépuscule 101 Joann Sfar e Lewis Trondheim Delcourt
L'originale è stato pubblicato su [https://blog.becomix.me/imbroglio-imbroglio-e-altre-divagazioni/](https://blog.becomix.me/imbroglio-imbroglio-e-altre-divagazioni/ "Permalink")
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becomixdatabase · 4 years
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Il 2019 è stato dominato da una narrazione: Multiforce di Brinkman è il fumetto weird fantasy (ovvero dove i canoni stilistici del fantasy vengono scardinati) più influente pubblicato lo scorso anno. Al di là della delusione nel leggerlo la prima volta (ne avevo sentito così tanto e magnificamente parlare per poi trovarmi con della massa enorme di carta quasi illeggibile), Multiforce ha un affascinante “stile” fine a sé stesso che va contestualizzato nella ribellione di Fort Thunder. Sinceramente vi lascio tenere a voi le pesanti “museum edition” in cui la “cura editoriale” si basa su carta spessa e copertina rigida da comprare a cifre ridicolmente alte, mentre la cura del contenuto è piuttosto trascurata. Io piuttosto, che sono una cavalla golosa di storie, personaggi costruiti bene, colpi di scena, battute sagaci, giochi di parole, collegamenti temporali comprensibili solo nella lettura incrociate di albi diversi, quando ho voglia di un bel weird fantasy, dalla libreria mi prendo il Donjon di Trondheim e Sfar. (O Cerebus di Dave Sim, ma non divaghiamo). Su quanto sia stato influente, abbiamo varie prove a disposizione. Una di queste è Adventure Time.
Di certo non sono opere che si possono paragonare. Multiforce è stato autoprodotto nella fabbrica occupata di Fort Thunder, una ventina di pagine grezze, sporche e sconclusionate (com’è giusto che siano). Mat Brinkman ha inventato un sentire del fantasy, mischiando estetica punk ed evasione da bad trip a nuovi sotterranei da esplorare. Il Donjon invece è un grande progetto editoriale che ha visto al centro due delle grandi voci della nouvelle vague fumettistica francese (Sfar & Trondheim) e che ha coinvolto una miriade di autori (tra cui citiamo Blanquet, Larcenet, Blain, Killofer, Carlos Nine, ecc ecc). Il punto di vista narrativo (almeno in Zenith) è capovolto rispetto a quello di Dungeons & Dragons: non si parla di avventurieri in manieri, ma del proprietario del maniero che si arricchisce tramite malcapitati e idioti avventurieri. Di questo grande progetto se n’è sentito parlare poco, nonostante sia recentemente ripubblicato un volume per Bao Publishing (La Fortezza, – precedentemente dei volumi erano stati pubblicati da Magic Press e Phoenix). Per concludere: non seguite le narrazioni della promozione del fumetto, perché niente è vero e tutto è permesso.
Rimangono tuttavia delle domande: perché, nonostante l’importanza e l’attesa di molti, se ne sta parlando così poco? Perché non è stato presentato come grande saga fantasy, ormai un classico in Francia, dai diversi ordini di lettura come i grandi romanzi modernisti del Novecento? Uscirà mai la traduzione del gioco di ruolo? Beh, penso proprio di no. Ragazzi, imparatevi le lingue e prendetevi i fumetti in originale. Ogni tanto, quando si fatica, si guadagna in comprensione.
Ma lasciamo perdere le polemiche e seguiamo la buona pratica di M.T. “fumetti come gli I ching”. Prendo un Donjon a caso – l’ordine di uscita in cui è andato ormai da tempo. Non guardo che quale albo ho preso e a occhi chiusi apro il volume. Esce la quinta tavola del primo numero della serie Crépuscule, Il cimitero dei draghi, disegnato da Sfar e colorato da Walter.
Chi ha letto l’albo, ha già visto nelle prime pagine una fortezza diversa, cupa, decisamente più lugubre rispetto alla “spensieratezza” dell’epoca del guardiano. Marvin il Rosso è anziano e cieco, viene chiamato dalle guardie Re Polveroso. Di Herbert neanche l’ombra. Questo primo numero, uscito grossomodo contemporanee a Zenith, pone un pesante fardello sul destino dei protagonisti. Il flashforward crea una prospettiva tragica i protagonisti dell’epoca Zenith. Chi si legge tutta la serie Zenith di seguito, quindi non in ordine di uscita degli episodi, perde, nella lettura, i rimandi temporali e le conseguenti prospettive.
Torniamo al Cimitero dei draghi. Il re polveroso vuole abbandonare la sua grotta. «Perfetto», dice Shiwømiz, «sente che sta per morire e vuole tornare al cimitero dei draghi.» (Chi avrà inventato il nome Shiwømiz, Sfar o Trondheim?) Shiwømiz ordina alla guardia di seguire il Re Polveroso fino a quel luogo leggendario per profanare le loro tombe, pe fare in modo che gli antichi draghi non tornino mai più. Ed eccoci alla tavola quinta. Nove vignette divise in tre strisce. Tre, come le strofe di un haiku.
Prima striscia: monologo di Shiwømihz, sa che non può fidarsi della guardia che ha mandato, e chiama un altro servitore, Golgoth. In due vignette Shiwømihz è rappresentato di spalle, mentre in quella centrale di fronte. La vignetta centrale è l’unica che ha come punto di fuoco l’esterno.
Seconda striscia: arriva Golgoth; Shiwømihz gli ordina di seguire i servitori e ucciderli una volta che arrivano al cimitero; nella terza vignetta della striscia Shiwømiz medita se mandare qualcuno dietro Golgoth. Da segnalare come sia l’ombra a creare la plasticità di Golgoth.
Terza striscia: Shiwømihz viene chiamato dal Supremo Khan (che ancora non sappia chi o cosa sia). Quest’ultimo, che non si vede, solo il balloon viene da sgangherate scale, domanda se ci sono novità a proposito del Re polveroso. Shiwømihz mente. A decorare il muro sopra le scale un sole nero. Sfar è troppo colto per non conoscerne i riferimenti all’ano solare di Bataille (che ritroviamo anche ne Il Bambino di Dio dei Nishioka) o allo Schwarze Sonne, la runa del sole nero. Però ce l’ha ficcata. Da notare ancora che l’ultima vignetta si chiude con una menzogna.
Questa è una tavola di imbrogli. Ripeschiamo quindi Imbroglio di Trondheim edito da ProGlo e citiamo dalla postfazione di Raffaele Ventura. In francese, la parola “imbroglio” non ha il significato primario di quello che intendiamo con imbroglio in italiano. Si pronuncia imbroghliò e indica un groviglio narrativo, una macchinazione complicata o una trama confusa. […] Dal punto di vista dei difensori del teatro classico contro le derive barocche di un Shakespeare o di un Lope de Vega, un imbroghliò è un cattivo intreccio. E così torniamo al fumetto di Trondheim, che sicuramente da questo punto di vista, programmaticamente, è caratterizzato da un “cattivo intreccio”. Il portare all’estremo stratagemmi, colpi di scena, e altre meccaniche della narrazione è una delle caratteristiche della narrazione di intelletto di Trondheim, che si contrappone a quella più lunare (emotiva, romantica) di Sfar.
La forza del Donjon risiede proprio in questa incredibile sinergia, una sintesi maggiore delle due parti. Se Trondheim tuttavia è un autore che si spinge nei reami della sperimentazione selvaggia e lo stesso Sfar filtri le sue storie con la sua particolare sensibilità filosofica, i due non hanno mai dimenticato, anzi, hanno usato le proprie armi a favore della storia, servendo fedelmente i propri personaggi – assurdi, idioti, coraggiosi, pavidi – non per il lettore, ma per il racconto. Questi due elementi (personaggi e intreccio narrativo) non sono mai stati trascurati nella nouvelle vague francese.
Forse è troppo sostenere che questa quinta tavola possa essere letta di per sé, slegata dal resto del volume. Ma sicuramente la tavola ha un inizio e una conclusione narrativa: il primo imbroglio contro il re Polveroso, il secondo imbroglio contro la guardia, e il terzo imbroglio verso il Gran Khan. Una serie di sotterfugi che tuttavia smascherano con umorismo e astuzia al lettore il cuore mendace di Shiwømihz, in poche vignette. È questo il Donjon, umorismo e astuzia. Ma non l’umorismo del “meme gnegnegne”, piuttosto quello pirandelliano: un processo di riflessione critica, che scandaglia e smaschera l’imbroglio più grande, quello della maschera delle persone/personaggi.
Le Cimetière des dragons – Donjon Crépuscule 101 Joann Sfar e Lewis Trondheim Delcourt
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becomixdatabase · 4 years
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[Garouden - La lotta per autodefinirsi.](https://blog.becomix.me/garouden/ "https://blog.becomix.me/garouden/")
Nel Settembre del 1990 Jiro Taniguchi adatta uno dei cicli di una delle serie di romanzi più rinomati di Baku Yumemakura: Garouden – Lupi famelici. Questa serie di romanzi sulle arti marziali è costituita da 13 numeri della prima serie e 4 del sequel Shin Garouden. In Giappone ha avuto talmente tanto successo da far nascere un film nel 1995 e due trasposizioni video-ludiche. Nel tempo, all’adattamento di Taniguchi si è aggiunto un secondo manga ad opera di Keisuke Itagaki. In coda al volume italiano vi è un’intervista a Itagaki dove spiega l’importanza della trasposizione di Taniguchi sul suo adattamento, soprattutto per quel che concerne la definizione dei corpi e la loro plasticità.
Successivamente Taniguchi adatterà una seconda opera di Yumemakura, La vetta degli Dei, che seguirà la passione di Taniguchi per la montagna espressa già in K.
Copertina giapponese
La storia segue il percorso di rivalsa di Bunshichi Tanba. Dopo la morte del suo maestro a seguito di uno scontro con degli yakuza Bushinchi si auto-impone il Dojo Yaburi. Questa pratica consiste nello sfidare il più forte lottatore di un dojo rivale; ciò veniva fatto per pubblicizzare la propria scuola di arti marziali o per espiare un’onta. É così che Tanba gira il Giappone in lungo ed in largo battendosi contro maestri di numerose discipline per provare a sé stesso le proprie capacità. La sua ossessione è Toshio Kajiwara, l’unica persona che l’ha sconfitto, divenuto nel frattempo il wrestler più famoso della Toyoh Pro Wrestling (compagnia giapponese di puroresu). Kajiwara è ispirato al wrestler Akira Maeda, che nell’ultimo decennio della sua carriera ha combattuto nel circuito delle arti marziali miste per la Fighting Network Rings.
I due sono complementari, se Tanba basa il suo stile sui calci e sulle mosse di velocità, Kajiwara è abile nelle leve articolari. Entrambi sono accomunati dall’amore per la lotta come mezzo di auto-definizione in un mondo e una società che segue vie diametralmente opposte alle loro.
La continua messa alla prova a cui si sottopone Tanba è la sua risposta a un trauma del passato. L’aggressione da parte degli yakuza nei suoi confronti e del proprio mentore, con la brutale morte di quest’ultimo, è stata la scintilla per dare sfogo alla propria rabbia. Un’ira necessaria a sopravvivere e che si riversa nella vita di tutti i giorni. La lotta diviene il mezzo per poter esorcizzare le proprie paure e mettersi costantemente ad un passo dal baratro.
Taniguchi modula il suo consueto stile alla storia. Il tratteggio diventa elemento fondamentale nel delineare la muscolatura e soprattutto la massa degli atleti, non limitandosi a creare fisici stereotipati e iper-definiti. La resa degli scontri è eccellente. Ogni vignetta segue lo scontro mossa per mossa, senza fare stacchi e riproducendo le varie prese e manovre in maniera corretta. Il fulcro comunicativo è rivolto alla mimica facciale e alle gestualità. Il manierismo con cui mostra la fatica e il dolore dei combattenti è importante nel caricare di pathos ogni singola lotta che si dipana lungo le pagine. A partire dallo scontro iniziale con la banda di teppisti fino alla resa dei conti tra Tanba e Kajiwara. Nei diversi combattenti colpisce l’abilità di Taniguchi di rendere la dinamicità dell’azione efficace, a quando solo tramite la contrazione della muscolatura a volte grazie alle linee cinetiche, talvolta tramite l’utilizzo dei retini.
Garouden si intreccia con la storia del wrestling nipponico e di conseguenza anche con l’influenza della figura di Antonio Inoki. Nel corso del tempo si sono affacciate diverse federazioni di Puroresuche sceglievano di eseguire match “shoot” (in cui i colpi venivano realmente inferti) ma con esito finale concordato. Inoki è stato una delle figure che più ha promosso questa tipologia di match. Inoltre ha organizzato in prima persona e combattuto diversi match contro altri atleti di altre discipline. In questo modo la sua figura di combattente e campione dei pesi massimi NJPW diventava rispettata, di conseguenza anche quella della federazione d’appartenenza. L’incontro più celebre è quello svoltosi al Nippon Budokan di Tokyo il 26 Giugno 1976 tra Antonio Inoki e Mohammed Alì.
Biglietto ufficiale dell’eventoLa Toyoh Pro Wrestling è la fusione delle due federazioni create da Inoki lungo la sua carriera. Yumemakura riprende l’acronimo della Tokyo Pro Wrestling (la cui attività durò solo un anno), mischiandolo con la seconda creatura di Inoki, la New Japan Pro Wrestling che nel corso del tempo ha stabilito partnership con sigle operanti in Messico e Stati Uniti.
Kajiwara esegue una Gutwrench Suplex sull’avversario
Yumemakura mostra rispetto alla tradizione nipponica e agli atleti. Riconosce loro non solo capacità atletiche e fisiche di pari livello ai combattenti puri, ma anche in diverse scene la capacità di determinazione nell’auto-infliggersi dolore per rendere “vero” lo spettacolo agli occhi del pubblico.
Garouden è un volume eclettico e adrenalinico. Specchio della passione di Taniguchi per la lotta, passione presente anche in Blue Fighter, opera giovanile calata nel mondo del pugilato. Un volume che mostra un lato più nascosto e al contempo esplosivo di Taniguchi, affermatosi nel Vecchio Continente con le sue opere più intimiste.
L'originale è stato pubblicato su [https://blog.becomix.me/garouden/](https://blog.becomix.me/garouden/ "Permalink")
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becomixdatabase · 4 years
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Nel Settembre del 1990 Jiro Taniguchi adatta uno dei cicli di una delle serie di romanzi più rinomati di Baku Yumemakura: Garouden – Lupi famelici. Questa serie di romanzi sulle arti marziali è costituita da 13 numeri della prima serie e 4 del sequel Shin Garouden. In Giappone ha avuto talmente tanto successo da far nascere un film nel 1995 e due trasposizioni video-ludiche. Nel tempo, all’adattamento di Taniguchi si è aggiunto un secondo manga ad opera di Keisuke Itagaki. In coda al volume italiano vi è un’intervista a Itagaki dove spiega l’importanza della trasposizione di Taniguchi sul suo adattamento, soprattutto per quel che concerne la definizione dei corpi e la loro plasticità.
Successivamente Taniguchi adatterà una seconda opera di Yumemakura, La vetta degli Dei, che seguirà la passione di Taniguchi per la montagna espressa già in K.
Copertina giapponese
La storia segue il percorso di rivalsa di Bunshichi Tanba. Dopo la morte del suo maestro a seguito di uno scontro con degli yakuza Bushinchi si auto-impone il Dojo Yaburi. Questa pratica consiste nello sfidare il più forte lottatore di un dojo rivale; ciò veniva fatto per pubblicizzare la propria scuola di arti marziali o per espiare un’onta. É così che Tanba gira il Giappone in lungo ed in largo battendosi contro maestri di numerose discipline per provare a sé stesso le proprie capacità. La sua ossessione è Toshio Kajiwara, l’unica persona che l’ha sconfitto, divenuto nel frattempo il wrestler più famoso della Toyoh Pro Wrestling (compagnia giapponese di puroresu). Kajiwara è ispirato al wrestler Akira Maeda, che nell’ultimo decennio della sua carriera ha combattuto nel circuito delle arti marziali miste per la Fighting Network Rings.
I due sono complementari, se Tanba basa il suo stile sui calci e sulle mosse di velocità, Kajiwara è abile nelle leve articolari. Entrambi sono accomunati dall’amore per la lotta come mezzo di auto-definizione in un mondo e una società che segue vie diametralmente opposte alle loro.
La continua messa alla prova a cui si sottopone Tanba è la sua risposta a un trauma del passato. L’aggressione da parte degli yakuza nei suoi confronti e del proprio mentore, con la brutale morte di quest’ultimo, è stata la scintilla per dare sfogo alla propria rabbia. Un’ira necessaria a sopravvivere e che si riversa nella vita di tutti i giorni. La lotta diviene il mezzo per poter esorcizzare le proprie paure e mettersi costantemente ad un passo dal baratro.
Taniguchi modula il suo consueto stile alla storia. Il tratteggio diventa elemento fondamentale nel delineare la muscolatura e soprattutto la massa degli atleti, non limitandosi a creare fisici stereotipati e iper-definiti. La resa degli scontri è eccellente. Ogni vignetta segue lo scontro mossa per mossa, senza fare stacchi e riproducendo le varie prese e manovre in maniera corretta. Il fulcro comunicativo è rivolto alla mimica facciale e alle gestualità. Il manierismo con cui mostra la fatica e il dolore dei combattenti è importante nel caricare di pathos ogni singola lotta che si dipana lungo le pagine. A partire dallo scontro iniziale con la banda di teppisti fino alla resa dei conti tra Tanba e Kajiwara. Nei diversi combattenti colpisce l’abilità di Taniguchi di rendere la dinamicità dell’azione efficace, a quando solo tramite la contrazione della muscolatura a volte grazie alle linee cinetiche, talvolta tramite l’utilizzo dei retini.
Garouden si intreccia con la storia del wrestling nipponico e di conseguenza anche con l’influenza della figura di Antonio Inoki. Nel corso del tempo si sono affacciate diverse federazioni di Puroresuche sceglievano di eseguire match “shoot” (in cui i colpi venivano realmente inferti) ma con esito finale concordato. Inoki è stato una delle figure che più ha promosso questa tipologia di match. Inoltre ha organizzato in prima persona e combattuto diversi match contro altri atleti di altre discipline. In questo modo la sua figura di combattente e campione dei pesi massimi NJPW diventava rispettata, di conseguenza anche quella della federazione d’appartenenza. L’incontro più celebre è quello svoltosi al Nippon Budokan di Tokyo il 26 Giugno 1976 tra Antonio Inoki e Mohammed Alì.
Biglietto ufficiale dell’eventoLa Toyoh Pro Wrestling è la fusione delle due federazioni create da Inoki lungo la sua carriera. Yumemakura riprende l’acronimo della Tokyo Pro Wrestling (la cui attività durò solo un anno), mischiandolo con la seconda creatura di Inoki, la New Japan Pro Wrestling che nel corso del tempo ha stabilito partnership con sigle operanti in Messico e Stati Uniti.
Kajiwara esegue una Gutwrench Suplex sull’avversario
Yumemakura mostra rispetto alla tradizione nipponica e agli atleti. Riconosce loro non solo capacità atletiche e fisiche di pari livello ai combattenti puri, ma anche in diverse scene la capacità di determinazione nell’auto-infliggersi dolore per rendere “vero” lo spettacolo agli occhi del pubblico.
Garouden è un volume eclettico e adrenalinico. Specchio della passione di Taniguchi per la lotta, passione presente anche in Blue Fighter, opera giovanile calata nel mondo del pugilato. Un volume che mostra un lato più nascosto e al contempo esplosivo di Taniguchi, affermatosi nel Vecchio Continente con le sue opere più intimiste.
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becomixdatabase · 4 years
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[Interiors - Fumetti come arredamento dell'anima](https://blog.becomix.me/interiors-fumetti-come-arredamento-dellanima/ "https://blog.becomix.me/interiors-fumetti-come-arredamento-dellanima/")
Interiors Collettivo è un gruppo nato nel 2016 su iniziativa di Camilla Crisciotti, Flaminia De Giuli, Marco De Giuli, Eva Di Pace, Tiziano Onesti, Elia Riccio e Peter Vento, con l’intento di indagare le relazioni tra la realtà del mondo e come essa viene percepita ed elaborata nel profondo di ognuno.
Interiors si propone come metafora dell’arredo interiore, dei desideri, delle pulsioni di ciascuno di noi. Una rivista contenitore, quindi, che in ogni numero affronta un tema specifico, lasciando piena libertà espressiva agli autori, senza vincoli o censure, con sguardo divertito ed ironico, sempre in bilico tra il trash, lo splatter, il porno.
Nel giugno 2017 il Collettivo pubblica la sua prima autoproduzione a tema, Interiors – A Tavola!, presentata al CRACK! di Roma, che analizza, da diversi punti di vista, il rapporto tra cibo e sesso. Nel 2018, vengono pubblicati Interiors – Quant’è bella giovinezza parte I e Interiors – Quant’è bella giovinezza parte II, ispirati alla Canzona di Bacco di Lorenzo De’ Medici e al mito di Arianna, alla giovinezza e alla sua caducità. Quella giovinezza che l’uomo, nella sua continua aspirazione all’immortalità, ha sempre cercato di perpetuare all’infinito per esorcizzare il mistero e la paura della morte.
Nel 2019 è la volta di Interiors – Liberté, egalité, fraternité parte I e Interiors – Liberté, egalité, fraternité parte II, una riflessione sulla necessità di recuperare una coscienza collettiva, sul bene comune, sulla libertà, l’uguaglianza, la fratellanza e sulle rivoluzioni, piccole e grandi, che hanno caratterizzato la storia dell’uomo.
Il Collettivo è al lavoro sulla prossima uscita, Interiors – Fatti non foste a viver come bruti e ha in cantiere due speciali, un artbook de Le nevralgie Costanti, e Teeny Tiny Wrld di Camilla Crisciotti.
Interiors Collettivo ha collaborato con artisti del calibro di MIguel Angel Martin, Le Nevralgie Costanti, Paolo Massagli, David Genchi e molti molti altri. Potete comprare le autoproduzioni dal sitobecomix.me oppure contattandoli dalla pagina Facebook.
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Interiors si propone come metafora dell’arredo interiore, dei desideri, delle pulsioni di ciascuno di noi. Una rivista contenitore, quindi, che in ogni numero affronta un tema specifico, lasciando piena libertà espressiva agli autori, senza vincoli o censure, con sguardo divertito ed ironico, sempre in bilico tra il trash, lo splatter, il porno.
Nel giugno 2017 il Collettivo pubblica la sua prima autoproduzione a tema, Interiors – A Tavola!, presentata al CRACK! di Roma, che analizza, da diversi punti di vista, il rapporto tra cibo e sesso. Nel 2018, vengono pubblicati Interiors – Quant’è bella giovinezza parte I e Interiors – Quant’è bella giovinezza parte II, ispirati alla Canzona di Bacco di Lorenzo De’ Medici e al mito di Arianna, alla giovinezza e alla sua caducità. Quella giovinezza che l’uomo, nella sua continua aspirazione all’immortalità, ha sempre cercato di perpetuare all’infinito per esorcizzare il mistero e la paura della morte.
Nel 2019 è la volta di Interiors – Liberté, egalité, fraternité parte I e Interiors – Liberté, egalité, fraternité parte II, una riflessione sulla necessità di recuperare una coscienza collettiva, sul bene comune, sulla libertà, l’uguaglianza, la fratellanza e sulle rivoluzioni, piccole e grandi, che hanno caratterizzato la storia dell’uomo.
Il Collettivo è al lavoro sulla prossima uscita, Interiors – Fatti non foste a viver come bruti e ha in cantiere due speciali, un artbook de Le nevralgie Costanti, e Teeny Tiny Wrld di Camilla Crisciotti.
Interiors Collettivo ha collaborato con artisti del calibro di MIguel Angel Martin, Le Nevralgie Costanti, Paolo Massagli, David Genchi e molti molti altri. Potete comprare le autoproduzioni dal sitobecomix.me oppure contattandoli dalla pagina Facebook.
L'originale è stato pubblicato su [https://blog.becomix.me/interiors-fumetti-come-arredamento-dellanima/](https://blog.becomix.me/interiors-fumetti-come-arredamento-dellanima/ "Permalink")
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becomixdatabase · 4 years
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[Jumbo di Giuseppe Palumbo - Sisifo e altre storie](https://blog.becomix.me/jumbo-palumbo/ "https://blog.becomix.me/jumbo-palumbo/")
Nell’ottobre del 1994 viene stampato il primo numero di Jumbo sotto la casa editrice Phoenix. Jumbo in editoria significa “aggiunta di una storia”. Per questo motivo, in ogni numero oltre ad una storia con protagonista Sisifo ce n’è una seconda di diverso genere.
Nei vari numeri Palumbo declina il mito di Sisifo nelle diverse interpretazioni della sua condanna eterna. Pena che consiste nel portare un macigno in cima ad una montagna e vederlo cadere l’istante dopo. Il macigno è metafora della condizione dell’uomo. A volte, come nella prima storia, il macigno è interiore e consiste nell’assistere al ciclo della vita e alla sua ripetizione. Sisifo assiste alla crescita del proprio figlio e alla sua morte; potrebbe decidere di sostituirsi a lui e morire ma la ripetizione della sua sorte è ineluttabile. A volte il liberare qualcun altro dalla propria condizione è l’assumere la propria condanna, come nella storia dove Sisifo libera Atlante.
La vita dell’uomo è un continuo districarsi tra i ruderi del Giardino dell’Eden
Sisifo è un personaggio drammatico. È il contraltare perfetto al supereroismo divertito, in seguito sarcastico, di Ramarro. Sebbene la benda coprente gli occhi, Sisifo straccia il velo di Maya schopenhaueriano capendo il suo ruolo d’ingranaggio nella macchina che è l’eterno ritorno. On n’échappe pas de la machine, diceva Gilles Deleuze. La sua consapevolezza è il motivo per cui viene tacciato di crimini da parte della società come nella penultima delle sue avventure. In questa storia oltre alla condanna del masso si aggiunge del peso della società rappresentato dalle due facce del reggente che gli vengono impresse nella schiena.
Jumbo è un’ottima serie per riscoprire l’ecletticità dell’autore di Matera. Tra episodi più divertiti e altri più sofferti si mostra la vasta cultura di Palumbo e la sua piena padronanza del formato spillato e delle storie brevi, ognuna incisiva. L’appartenenza a generi diversi mostra l’ampio spettro di interessi e passioni dell’autore. Il tutto accompagnato dalla capacità di Palumbo di declinare il suo stile in funzione della storia.
In tutto la serie consta di quattro numeri usciti tra il 1994 e il 1995 più uno speciale Il ritorno di Sisifo uscito nel 1997. In seguito uscirono due speciali, uno per il Comicon e uno per Cut-Up di cui non tratteremo. Con lo stesso nome, nel 1998 uscì il catalogo della mostra organizzata per il Cartoon 2000 di Bologna.
Jumbo: un viaggio a 360° da Ramarro a Martin Mystere
Oltre Sisifo
A seguire l’analisi delle varie storie brevi non aventi Sisifo come protagonista, ordinate in base alla loro pubblicazione nella serie.
Dr. Datura: la settima allucinazione è un viaggio onirico e psicotropo che l’omonimo dottore compie tramite l’inalazione dei vapori della pianta. Fin dall’antichità, nei rituali sciamanici veniva usata la Datura per le sue proprietà allucinogene sebbene la dose attiva fosse estremamente vicina alla dose tossica, portando a morte chi l’assumeva. In questo viaggio dell’eroe, il dottore affronta sette allucinazioni che rappresentano le paure inconsce presenti nella sua mente per arrivare a combattere con la rappresentazione della morte.
Palming è una storia di lontananza dal proprio amore e ossessione calata in un contesto cyberpunk. Dal titolo e dal riferimento in prima pagina si nota il richiamo al saggio L’arte di vedere di Aldous Huxley. Questo è uno scritto basato sull’esperienza personale – non supportato da prove scientifiche – inerente gli esercizi del metodo Bates eseguiti nel tentativo di risolvere i problemi visivi dello scrittore.
Deck lavora come “ripulitore degli schemi di difesa della rete” attivati in risposta ai vari attacchi di virus o spie. Dopo due anni dal trasferimento della sua collega Anna (di cui è innamorato), la vede apparire e chiedergli aiuto durante le sessioni di lavoro ai nodi informazione. Non sapendo se è un’allucinazione o meno, tormentato dal suo pensiero comincia ad indagare su cosa le sia accaduto. Palumbo cala così un intreccio noir in un futuro cyberpunk. Tra spionaggio, tentativi di dimenticare il proprio amore e i suoi richiami non resta che la propria solitudine. Ecco che la pratica del palming da atto per salvaguardare gli occhi diventa veicolo della propria disperazione.
_Baia Fuoco_ è una storia che si insinua tra il noir e i mexican stand-off. Uno scambio di diamanti sembra la resa dei conti tra due fratelli alle pendici della ziggurat di Baia fuoco. Quello che poteva sembrare un duello a due diventa l’occasione per uno scontro armato e per tagliare definitivamente i ponti con il proprio passato.
In Meteora conosciamo Jericho e la sua condanna: non ha memoria del suo passato. È un essere immortale, con la pelle che ricorda le mura della città di Gerico, quella conquistata da Giosué secondo la Bibbia. Studi archeologici confermano invece che al momento della presa la città era disabitata da secoli. Nel tentativo di conoscere il proprio passato, quindi il proprio io, cerca di abbeverare la sua memoria con il sangue del figlio. Logico il paragone con il Crono che si ciba dei propri figli, ma qui l’interpretazione non è quella del tempo che divora gli essere viventi, incatenati nell’ordine degli eventi. Jericho è il tempo che non riesce a prendere coscienza di sé e cerca di darsi un senso nel sangue.
Il breve estratto da Lacrime e Santi di E.M. Cioran
Il mondo è di Frank è una breve visione satirica di un mondo dove vige la standardizzazione verso un canone. Questa ha avuto il meglio sulla diversità e sul rapporto che si instaura con il diverso. Il confronto cambia sfaccettature quando nel cliffhanger finale si svela il rischio di passare da una standardizzazione verso un’altra.
Farmacisti si nasce è un breve divertissement dove Palumbo usa la satira per mettere in contraddizione due persone che manifestano l’idea di essere superiori rispetto ad altre categorie. Discorsi da bar in cui si insinuano idee che trovano il loro fine nell’eliminazione dei gruppi ritenuti di troppo. Il colpo di scena finale mostra come l’intolleranza sia un processo che continua a dividere come effetto domino.
_Neoverso_ è una storia breve di 4 pagine che si dipana in una griglia a 3 vignette orizzontali di ugual misura per ogni pagina. Palumbo costruisce una storia che assume un senso più ampio tramite l’incastro tra le vignette e gli estratti di Paul Davies, di Jorge Louis Borges e di Coleman- De Luccia. Il tema centrale si basa sul doppio significato del termine neo, sia come termine comune indicante il nevo dermatologico che come prefisso indicante il nuovo. Palumbo crea un parallelismo tra le teorie fisiche sulla possibilità del decadimento del vuoto in un insieme più stabile e la presenza dei nei nella pelle.
_Orazio_ è una dedica dell’autore materano al poeta latino originario di Venosa. Nella pagina precedente la storia, Palumbo spiega sia l’amore che nutre nei confronti delle opere del poeta sia la suggestione che gli ha donato l’ispirazione per le pagine successive. Sceglie la quarta ode contenuta nel terzo libro dei Carmina concentrandosi esclusivamente sulla prima parte, quella autobiografica. Tutto ciò nel tentativo, pienamente raggiunto, di incanalare la bellezza della Lucania, terra di entrambi. La padronanza dei giochi di luce riesce a incanalare la bellezza della foresta che raggiunge il culmine nella tavola finale.
Furio Strazio netturbino dello spazio: in missione impossibile è una storia breve di una pagina che vede Furio insieme alla fida stellina Zip alle prese con il salvataggio del multiverso dalla discarica 9 (meglio nota come Terra). Questa è stracolma e rischia d’inondare le varie galassie con i suoi rifiuti. Tramite la sua abilità riesce a vaporizzare il pianeta ma è solo un temporeggiare, dato che la discarica numero 10 è già in via di riempimento.
La scelta della location dell’atollo Mururoa allude alla polemica contro gli esperimenti militari attutati dai francesi. Dal 1975 al 1996 vi effettuarono 179 esperimenti nucleari; con l’energia accumulata dalle diverse esplosioni pari a 200 volte la bomba atomica che ha colpito Hiroshima e Nagasaki. In Italia vi furono proteste accesissime che portarono il presidente Chirac ad annullare un vertice a Napoli. Successivamente dovette fare marcia indietro sulle sue intenzioni di riprendere gli esperimenti nucleari e alla fine appose la sua firma sul Trattato internazionale che vieta i test nucleari.
In conclusione, Jumbo è un recupero più che doveroso per chi vuole scoprire un tassello importante della carriera di Giuseppe Palumbo come autore completo.
L'originale è stato pubblicato su [https://blog.becomix.me/jumbo-palumbo/](https://blog.becomix.me/jumbo-palumbo/ "Permalink")
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becomixdatabase · 4 years
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Nell’ottobre del 1994 viene stampato il primo numero di Jumbo sotto la casa editrice Phoenix. Jumbo in editoria significa “aggiunta di una storia”. Per questo motivo, in ogni numero oltre ad una storia con protagonista Sisifo ce n’è una seconda di diverso genere.
Nei vari numeri Palumbo declina il mito di Sisifo nelle diverse interpretazioni della sua condanna eterna. Pena che consiste nel portare un macigno in cima ad una montagna e vederlo cadere l’istante dopo. Il macigno è metafora della condizione dell’uomo. A volte, come nella prima storia, il macigno è interiore e consiste nell’assistere al ciclo della vita e alla sua ripetizione. Sisifo assiste alla crescita del proprio figlio e alla sua morte; potrebbe decidere di sostituirsi a lui e morire ma la ripetizione della sua sorte è ineluttabile. A volte il liberare qualcun altro dalla propria condizione è l’assumere la propria condanna, come nella storia dove Sisifo libera Atlante.
La vita dell’uomo è un continuo districarsi tra i ruderi del Giardino dell’Eden
Sisifo è un personaggio drammatico. È il contraltare perfetto al supereroismo divertito, in seguito sarcastico, di Ramarro. Sebbene la benda coprente gli occhi, Sisifo straccia il velo di Maya schopenhaueriano capendo il suo ruolo d’ingranaggio nella macchina che è l’eterno ritorno. On n’échappe pas de la machine, diceva Gilles Deleuze. La sua consapevolezza è il motivo per cui viene tacciato di crimini da parte della società come nella penultima delle sue avventure. In questa storia oltre alla condanna del masso si aggiunge del peso della società rappresentato dalle due facce del reggente che gli vengono impresse nella schiena.
Jumbo è un’ottima serie per riscoprire l’ecletticità dell’autore di Matera. Tra episodi più divertiti e altri più sofferti si mostra la vasta cultura di Palumbo e la sua piena padronanza del formato spillato e delle storie brevi, ognuna incisiva. L’appartenenza a generi diversi mostra l’ampio spettro di interessi e passioni dell’autore. Il tutto accompagnato dalla capacità di Palumbo di declinare il suo stile in funzione della storia.
In tutto la serie consta di quattro numeri usciti tra il 1994 e il 1995 più uno speciale Il ritorno di Sisifo uscito nel 1997. In seguito uscirono due speciali, uno per il Comicon e uno per Cut-Up di cui non tratteremo. Con lo stesso nome, nel 1998 uscì il catalogo della mostra organizzata per il Cartoon 2000 di Bologna.
Jumbo: un viaggio a 360° da Ramarro a Martin Mystere
Oltre Sisifo
A seguire l’analisi delle varie storie brevi non aventi Sisifo come protagonista, ordinate in base alla loro pubblicazione nella serie.
Dr. Datura: la settima allucinazione è un viaggio onirico e psicotropo che l’omonimo dottore compie tramite l’inalazione dei vapori della pianta. Fin dall’antichità, nei rituali sciamanici veniva usata la Datura per le sue proprietà allucinogene sebbene la dose attiva fosse estremamente vicina alla dose tossica, portando a morte chi l’assumeva. In questo viaggio dell’eroe, il dottore affronta sette allucinazioni che rappresentano le paure inconsce presenti nella sua mente per arrivare a combattere con la rappresentazione della morte.
Palming è una storia di lontananza dal proprio amore e ossessione calata in un contesto cyberpunk. Dal titolo e dal riferimento in prima pagina si nota il richiamo al saggio L’arte di vedere di Aldous Huxley. Questo è uno scritto basato sull’esperienza personale – non supportato da prove scientifiche – inerente gli esercizi del metodo Bates eseguiti nel tentativo di risolvere i problemi visivi dello scrittore.
Deck lavora come “ripulitore degli schemi di difesa della rete” attivati in risposta ai vari attacchi di virus o spie. Dopo due anni dal trasferimento della sua collega Anna (di cui è innamorato), la vede apparire e chiedergli aiuto durante le sessioni di lavoro ai nodi informazione. Non sapendo se è un’allucinazione o meno, tormentato dal suo pensiero comincia ad indagare su cosa le sia accaduto. Palumbo cala così un intreccio noir in un futuro cyberpunk. Tra spionaggio, tentativi di dimenticare il proprio amore e i suoi richiami non resta che la propria solitudine. Ecco che la pratica del palming da atto per salvaguardare gli occhi diventa veicolo della propria disperazione.
_Baia Fuoco_ è una storia che si insinua tra il noir e i mexican stand-off. Uno scambio di diamanti sembra la resa dei conti tra due fratelli alle pendici della ziggurat di Baia fuoco. Quello che poteva sembrare un duello a due diventa l’occasione per uno scontro armato e per tagliare definitivamente i ponti con il proprio passato.
In Meteora conosciamo Jericho e la sua condanna: non ha memoria del suo passato. È un essere immortale, con la pelle che ricorda le mura della città di Gerico, quella conquistata da Giosué secondo la Bibbia. Studi archeologici confermano invece che al momento della presa la città era disabitata da secoli. Nel tentativo di conoscere il proprio passato, quindi il proprio io, cerca di abbeverare la sua memoria con il sangue del figlio. Logico il paragone con il Crono che si ciba dei propri figli, ma qui l’interpretazione non è quella del tempo che divora gli essere viventi, incatenati nell’ordine degli eventi. Jericho è il tempo che non riesce a prendere coscienza di sé e cerca di darsi un senso nel sangue.
Il breve estratto da Lacrime e Santi di E.M. Cioran
Il mondo è di Frank è una breve visione satirica di un mondo dove vige la standardizzazione verso un canone. Questa ha avuto il meglio sulla diversità e sul rapporto che si instaura con il diverso. Il confronto cambia sfaccettature quando nel cliffhanger finale si svela il rischio di passare da una standardizzazione verso un’altra.
Farmacisti si nasce è un breve divertissement dove Palumbo usa la satira per mettere in contraddizione due persone che manifestano l’idea di essere superiori rispetto ad altre categorie. Discorsi da bar in cui si insinuano idee che trovano il loro fine nell’eliminazione dei gruppi ritenuti di troppo. Il colpo di scena finale mostra come l’intolleranza sia un processo che continua a dividere come effetto domino.
_Neoverso_ è una storia breve di 4 pagine che si dipana in una griglia a 3 vignette orizzontali di ugual misura per ogni pagina. Palumbo costruisce una storia che assume un senso più ampio tramite l’incastro tra le vignette e gli estratti di Paul Davies, di Jorge Louis Borges e di Coleman- De Luccia. Il tema centrale si basa sul doppio significato del termine neo, sia come termine comune indicante il nevo dermatologico che come prefisso indicante il nuovo. Palumbo crea un parallelismo tra le teorie fisiche sulla possibilità del decadimento del vuoto in un insieme più stabile e la presenza dei nei nella pelle.
_Orazio_ è una dedica dell’autore materano al poeta latino originario di Venosa. Nella pagina precedente la storia, Palumbo spiega sia l’amore che nutre nei confronti delle opere del poeta sia la suggestione che gli ha donato l’ispirazione per le pagine successive. Sceglie la quarta ode contenuta nel terzo libro dei Carmina concentrandosi esclusivamente sulla prima parte, quella autobiografica. Tutto ciò nel tentativo, pienamente raggiunto, di incanalare la bellezza della Lucania, terra di entrambi. La padronanza dei giochi di luce riesce a incanalare la bellezza della foresta che raggiunge il culmine nella tavola finale.
Furio Strazio netturbino dello spazio: in missione impossibile è una storia breve di una pagina che vede Furio insieme alla fida stellina Zip alle prese con il salvataggio del multiverso dalla discarica 9 (meglio nota come Terra). Questa è stracolma e rischia d’inondare le varie galassie con i suoi rifiuti. Tramite la sua abilità riesce a vaporizzare il pianeta ma è solo un temporeggiare, dato che la discarica numero 10 è già in via di riempimento.
La scelta della location dell’atollo Mururoa allude alla polemica contro gli esperimenti militari attutati dai francesi. Dal 1975 al 1996 vi effettuarono 179 esperimenti nucleari; con l’energia accumulata dalle diverse esplosioni pari a 200 volte la bomba atomica che ha colpito Hiroshima e Nagasaki. In Italia vi furono proteste accesissime che portarono il presidente Chirac ad annullare un vertice a Napoli. Successivamente dovette fare marcia indietro sulle sue intenzioni di riprendere gli esperimenti nucleari e alla fine appose la sua firma sul Trattato internazionale che vieta i test nucleari.
In conclusione, Jumbo è un recupero più che doveroso per chi vuole scoprire un tassello importante della carriera di Giuseppe Palumbo come autore completo.
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becomixdatabase · 4 years
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[La macchina di Rube Goldberg secondo TommyGun Moretti](https://blog.becomix.me/la-macchina-di-rube-goldberg-secondo-tommygun-moretti/ "https://blog.becomix.me/la-macchina-di-rube-goldberg-secondo-tommygun-moretti/")
Giovane artista del marchigiano, TommyGun Moretti (classe 1991) inizia a muovere i primi passi nel mondo del fumetto underground dal 2014, partecipando al collettivo artistico Uomini nudi che corrono e all’associazione Ratata’ con il quale collabora alla pubblicazione di Eating – Mangia! Se tu non mangi, tu non puoi morire (StraneDizioni). Nel 2015 pubblica Storie di Ordinata Entropia di cui è oramai introvabile la versione cartacea (mentre in digitale è possibile leggerlo gratuitamente sul suo blog) e a seguire nel 2016, Come colpire il tizio con gli occhiali (oggetto di questa breve analisi). Successivamente ha collaborato e pubblicato con Quel piccolissimo Giganteschio, Squame, Tinals, Linus, il Tascabile, Prismo Mag, il Nuovo Male, Passenger Press, Snuff Comix, Epox et Botox, Blu Gallery e varie realtà editoriali indipendenti.
Nell’attesa dell’uscita di Sostanza Densa e di Antenna! – Innesco (sceneggiato da Gnomo Speleologo), che sancisce l’ufficiale esordio sotto l’egida del Progetto Stigma, vi voglio parlare di Come colpire il tizio con gli occhiali. Un omaggio a Rube Goldberg, al secolo Reuben Garret Lucius Goldberg (1883-1970), le cui opere erano caratterizzate da una serie di meccanismi inutilmente complessi da cui nacque il termine “macchina di Rube Goldberg”, adottato per ogni attività del genere.
TommyGun segue scrupolosamente questa linea di pensiero creando una serie di sfortunati eventi all’interno di una festa di compleanno che comporteranno non solo il coinvolgimento finale proprio del famigerato tizio con gli occhiali, ma anche delle altre entità presenti, animali inclusi. Il tutto condito con lo stile personale dell’autore che alterna le sequenze in bianco / nero e color salmone, con spettacolari tavole piene, interamente a colori, il cui focus ricade sull’esito delle azioni sfortunate, enfatizzandolo, innescate a inizio volume e protratte fino alla conclusione. Un fumetto muto che espande il concetto di macchina di Rube (statica, in mono-vignetta) a una sequenza di tavole più articolate, che donano un senso di dinamicità alle azioni.
L'originale è stato pubblicato su [https://blog.becomix.me/la-macchina-di-rube-goldberg-secondo-tommygun-moretti/](https://blog.becomix.me/la-macchina-di-rube-goldberg-secondo-tommygun-moretti/ "Permalink")
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becomixdatabase · 4 years
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[Parliamo solo dei fumetti che compriamo](https://blog.becomix.me/parliamo-solo-dei-fumetti-che-compriamo/ "https://blog.becomix.me/parliamo-solo-dei-fumetti-che-compriamo/")
Lo ripeto, parliamo solo dei fumetti che compriamo. Ok, ok, ok… è un titolo prepotente, ma ci vuole. Viene dato tutto per scontato mentre ci si dovrebbe soffermare sulle basi per rendersi conto che spesso e volentieri si esce dal seminato.
Eppure, in un gioco a due tra autore e lettore, si nasconde uno scontro di diritti tra chi ti propone il proprio lavoro e chi invece ne usufruisce. L’autore ha il diritto di essere retribuito per il lavoro svolto, il lettore ha il diritto di dire la sua sul prodotto che acquista. Da questo rapporto nasce l’esigenza di ribadire che è necessario sudare per guadagnarsi il pane e successivamente potersi lamentare del pane quando fa schifo.
Fatta questa premessa per nulla scontata, passiamo ora a parlare del nostro ruolo di lettori con manie di protagonismo. Dopo aver compiuto il nostro dovere, aver sganciato la grana ed essere ritornati nei nostri stanzini freddi e bui, possiamo finalmente iniziare a sbraitare su quella dannata michetta e vomitare il nostro implacabile giudizio.
A cosa serve fare critica del fumetto? A dire quello che è valido e quello che non lo è. Ci può essere un metodo scientifico nel giudizio di un fumetto? Anche se questa affermazione è probabilmente da scartare in termini assoluti, non si può negare che quando si tratta di un sistema di regole chiuso si possano fare delle considerazioni. Se si possono rintracciare vari sistemi di regole (il fumetto seriale americano, quello italiano, quello francese, il manga, e altro ancora) certo fumetto tende a svincolarsi dall’omologazione e dalle imposizioni delle regole, per seguire logiche uniche. Chi può avvalersi del titolo di critico? Si può asserire che, grosso modo, chiunque si metta a scrivere qualcosa a riguardo di un fumetto è già un critico. Bisogna poi vedere se le informazioni possono essere in qualche modo utili.
Utili a chi? Non di certo all’editore, che già maldestramente cerca di vendere qualche copia a lettori annoiati. Potrebbe servire all’autore emergente, se sa ascoltare giudizi sensati. Potrebbe servire al lettore, forse, sempre se c’è un messaggio e se c’è il lettore. Allora perché Le Fauci? Le Fauci nasce dall’esigenza di unire spazi di critica sul fumetto, per dare una concreta risonanza alla speculazione pura e libera, non inquinata da esigenze editoriali e commerciali.
Citando il primo numero dell’edizione italiana di Metal Hurlant, in un lungo articolo Luca Raffaelli tocca ed esamina punto per punto quello che già all’epoca era considerato il miglior fumettista di sempre. «[Moebius] Innanzitutto ammicca e, se ammicca, vuol dire che ha bisogno di ammiccare, di creare un certo rapporto famigliare col lettore, del tipo “Seguimi, sapendo però fin d’ora che non ti darò un bel niente se non un saggio dei miei effetti speciali, ma ci divertiremo ugualmente.” E questi ammiccamenti valgono poche lire, sono trucchetti stereotipati, del mestiere: non sono né Altan né Jacovitti […].» E via discorrendo. Metal Hurlant aveva il coraggio di criticare in casa il proprio beniamino, con critiche lecite e argomentate. Nella contemporaneità i siti di critica sono diventati occhiello delle case editrici o di Amazon, e senza alcun Moebius all’orizzonte si contano decide di “capolavori annunciati” al mese. Fumetti spazzatura che verranno dimenticati il mese successivo, superati dal nuovo fumetto da promuovere. Ben prima che si parlasse di graphic novel, in Italia il fumetto era considerato come arte alta e degna. Ebbene, è una continua invenzione quella del graphic novel come espressione adulta del fumetto.
Invero, Le Fauci non è qui per demolire, ma per riallacciarsi a un discorso di critica fumettistica seria che si è persa nel tempo o nel web. Non ci interessa guardare al presente, non ci interessa seguire le fiere, non ci interessano gli spettegolezzi degli addetti ai lavori: Le Fauci è qui per parlare del bel fumetto e basta. E cosa è bello? Ce lo spiega Umberto Galimberi con una serie di citazioni, da San Tommaso che affermava “Pulchrum est quod visum placet”, bello è quello che quando lo vedi ti piace. Immanuel Kant, ne La Critica del Giudizio (1790), “Bello è ciò che piace senza concetto e senza scopo”. Thomas Mann, “La bellezza ci può trafiggere come un dolore.” Un’opera è d’arte quando lo sguardo non la esaurisce, viene rimandato a un’ulteriorità di significato. L’incantamento consiste nel fatto che di fronte a quell’opera si continua a cercare quell’ulteriorità di significato rispetto a quello che il sensibile offre. Si potrebbe pensare che la differenza tra gli oggetti e le opere d’arte sia che gli oggetti si esauriscono nello sguardo che ne cattura il significato, nell’opera d’arte lo sguardo non riesce a catturare la totalità del significato. C’è un rimando verso l’ineffabile, l’indicibile, l’invisibile. La bellezza è una cosa che inquieta, una cosa che trafigge, ti paralizza, ti porta alla dimensione del sublime.
Bisogna faticare. Si fatica anche quando si spendono dei soldi. Soldi che potevano sicuramente essere spesi in altro modo, soprattutto se guadagnati sudando. Sudore chiama sudore per questo siamo qui a inquietarci, ad affilare i denti in questo nuovo luogo virtuale che si chiama Le Fauci.
Noi vogliamo parlare solo dei fumetti che compriamo perché ce lo meritiamo come acquirenti e lettori, abbiamo lavorato e sputtanato quei quattro soldi che ci avanzano nella Nona Arte perché ci crediamo veramente. Crediamo negli autori, nel loro lavoro e vogliamo giustamente pagarli per continuare a farci leggere le loro opere (con la speranza che un giorno la percentuale dei diritti d’autore sia più alta rispetto quella del distributore). Noi ci incazziamo quando, affamati, cerchiamo di approfondire il discorso trovandoci di fronte a montagne di comunicati stampa, recensioni vuote, scritte male e di fretta.
Sia chiaro, ovviamente non possiamo fare di tutta l’erba un fascio, ma è evidente che l’intento è quello di alzare l’asticella. Se lo meritano i lettori, se lo meritano i giornalisti e soprattutto se lo meritano gli autori che, sudando più di tutti, cercano ogni volta di proporci un viaggio nuovo. Per questo lavoreremo anche noi a capo chino sulla scrivania, per questo vogliamo sbattere la testa contro il muro e sfondarlo più e più volte. Per scovare tutto quello che compone una tavola, per sviscerare e scoprire ogni nuovo livello di lettura celato.
Siamo qui per divorare ogni cosa del fumetto mondo.
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Lo ripeto, parliamo solo dei fumetti che compriamo. Ok, ok, ok… è un titolo prepotente, ma ci vuole. Viene dato tutto per scontato mentre ci si dovrebbe soffermare sulle basi per rendersi conto che spesso e volentieri si esce dal seminato.
Eppure, in un gioco a due tra autore e lettore, si nasconde uno scontro di diritti tra chi ti propone il proprio lavoro e chi invece ne usufruisce. L’autore ha il diritto di essere retribuito per il lavoro svolto, il lettore ha il diritto di dire la sua sul prodotto che acquista. Da questo rapporto nasce l’esigenza di ribadire che è necessario sudare per guadagnarsi il pane e successivamente potersi lamentare del pane quando fa schifo.
Fatta questa premessa per nulla scontata, passiamo ora a parlare del nostro ruolo di lettori con manie di protagonismo. Dopo aver compiuto il nostro dovere, aver sganciato la grana ed essere ritornati nei nostri stanzini freddi e bui, possiamo finalmente iniziare a sbraitare su quella dannata michetta e vomitare il nostro implacabile giudizio.
A cosa serve fare critica del fumetto? A dire quello che è valido e quello che non lo è. Ci può essere un metodo scientifico nel giudizio di un fumetto? Anche se questa affermazione è probabilmente da scartare in termini assoluti, non si può negare che quando si tratta di un sistema di regole chiuso si possano fare delle considerazioni. Se si possono rintracciare vari sistemi di regole (il fumetto seriale americano, quello italiano, quello francese, il manga, e altro ancora) certo fumetto tende a svincolarsi dall’omologazione e dalle imposizioni delle regole, per seguire logiche uniche. Chi può avvalersi del titolo di critico? Si può asserire che, grosso modo, chiunque si metta a scrivere qualcosa a riguardo di un fumetto è già un critico. Bisogna poi vedere se le informazioni possono essere in qualche modo utili.
Utili a chi? Non di certo all’editore, che già maldestramente cerca di vendere qualche copia a lettori annoiati. Potrebbe servire all’autore emergente, se sa ascoltare giudizi sensati. Potrebbe servire al lettore, forse, sempre se c’è un messaggio e se c’è il lettore. Allora perché Le Fauci? Le Fauci nasce dall’esigenza di unire spazi di critica sul fumetto, per dare una concreta risonanza alla speculazione pura e libera, non inquinata da esigenze editoriali e commerciali.
Citando il primo numero dell’edizione italiana di Metal Hurlant, in un lungo articolo Luca Raffaelli tocca ed esamina punto per punto quello che già all’epoca era considerato il miglior fumettista di sempre. «[Moebius] Innanzitutto ammicca e, se ammicca, vuol dire che ha bisogno di ammiccare, di creare un certo rapporto famigliare col lettore, del tipo “Seguimi, sapendo però fin d’ora che non ti darò un bel niente se non un saggio dei miei effetti speciali, ma ci divertiremo ugualmente.” E questi ammiccamenti valgono poche lire, sono trucchetti stereotipati, del mestiere: non sono né Altan né Jacovitti […].» E via discorrendo. Metal Hurlant aveva il coraggio di criticare in casa il proprio beniamino, con critiche lecite e argomentate. Nella contemporaneità i siti di critica sono diventati occhiello delle case editrici o di Amazon, e senza alcun Moebius all’orizzonte si contano decide di “capolavori annunciati” al mese. Fumetti spazzatura che verranno dimenticati il mese successivo, superati dal nuovo fumetto da promuovere. Ben prima che si parlasse di graphic novel, in Italia il fumetto era considerato come arte alta e degna. Ebbene, è una continua invenzione quella del graphic novel come espressione adulta del fumetto.
Invero, Le Fauci non è qui per demolire, ma per riallacciarsi a un discorso di critica fumettistica seria che si è persa nel tempo o nel web. Non ci interessa guardare al presente, non ci interessa seguire le fiere, non ci interessano gli spettegolezzi degli addetti ai lavori: Le Fauci è qui per parlare del bel fumetto e basta. E cosa è bello? Ce lo spiega Umberto Galimberi con una serie di citazioni, da San Tommaso che affermava “Pulchrum est quod visum placet”, bello è quello che quando lo vedi ti piace. Immanuel Kant, ne La Critica del Giudizio (1790), “Bello è ciò che piace senza concetto e senza scopo”. Thomas Mann, “La bellezza ci può trafiggere come un dolore.” Un’opera è d’arte quando lo sguardo non la esaurisce, viene rimandato a un’ulteriorità di significato. L’incantamento consiste nel fatto che di fronte a quell’opera si continua a cercare quell’ulteriorità di significato rispetto a quello che il sensibile offre. Si potrebbe pensare che la differenza tra gli oggetti e le opere d’arte sia che gli oggetti si esauriscono nello sguardo che ne cattura il significato, nell’opera d’arte lo sguardo non riesce a catturare la totalità del significato. C’è un rimando verso l’ineffabile, l’indicibile, l’invisibile. La bellezza è una cosa che inquieta, una cosa che trafigge, ti paralizza, ti porta alla dimensione del sublime.
Bisogna faticare. Si fatica anche quando si spendono dei soldi. Soldi che potevano sicuramente essere spesi in altro modo, soprattutto se guadagnati sudando. Sudore chiama sudore per questo siamo qui a inquietarci, ad affilare i denti in questo nuovo luogo virtuale che si chiama Le Fauci.
Noi vogliamo parlare solo dei fumetti che compriamo perché ce lo meritiamo come acquirenti e lettori, abbiamo lavorato e sputtanato quei quattro soldi che ci avanzano nella Nona Arte perché ci crediamo veramente. Crediamo negli autori, nel loro lavoro e vogliamo giustamente pagarli per continuare a farci leggere le loro opere (con la speranza che un giorno la percentuale dei diritti d’autore sia più alta rispetto quella del distributore). Noi ci incazziamo quando, affamati, cerchiamo di approfondire il discorso trovandoci di fronte a montagne di comunicati stampa, recensioni vuote, scritte male e di fretta.
Sia chiaro, ovviamente non possiamo fare di tutta l’erba un fascio, ma è evidente che l’intento è quello di alzare l’asticella. Se lo meritano i lettori, se lo meritano i giornalisti e soprattutto se lo meritano gli autori che, sudando più di tutti, cercano ogni volta di proporci un viaggio nuovo. Per questo lavoreremo anche noi a capo chino sulla scrivania, per questo vogliamo sbattere la testa contro il muro e sfondarlo più e più volte. Per scovare tutto quello che compone una tavola, per sviscerare e scoprire ogni nuovo livello di lettura celato.
Siamo qui per divorare ogni cosa del fumetto mondo.
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becomixdatabase · 4 years
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[Sfighe e privilegi: Paolo Cattaneo su Non mi posso lamentare](https://blog.becomix.me/sfighe-e-privilegi-paolo-cattaneo-su-non-mi-posso-lamentare/ "https://blog.becomix.me/sfighe-e-privilegi-paolo-cattaneo-su-non-mi-posso-lamentare/")
Una premessa veramente sincera.
Compilo questa specie di testamento scrivendo sul cell, seduto su una comodissima poltrona in velluto marron di un treno veloce giapponese, a 500km/h, durante un viaggio nel Sud del paese, che ha delle regole molto precise, ma che purtroppo non posso elencarvi qui.
Questo significa che sarò particolarmente sensibile, probabilmente prolisso e quasi sicuramente sconclusionato, abbiate la pietà e la pazienza di leggerle come se fossero il diario segreto di una fricchettona rimasta incinta durante una vacanza nel terzo mondo.
Mi sarò indulgente, permettendomi deviazioni e sincerismi, perché credo in modo speciale nelle persone che hanno messo su questa stamberga (Le Fauci, mi hanno detto che si chiama, e che sono il primo a saperlo).
Credo soprattutto nel grande bisogno di occhi acuti, laser attenti che scrutino il panorama della narrazione a fumetti come uno spietato rapace scruta il fumo di un incendio, in attesa che i topini, fuggendo dalle fiamme, abbandonino i loro nascondigli, per avventarvicisi sopra, ad artigli sguainati.
Questa che segue sarà la più sincera testimonianza che concederò per iscritto a internet, grazie per l’attenzione che vorrete forse concedermi, ciao.
Il Ponte di Brooklyn italiano.
Non mi posso lamentare (da qui in avanti NMPL) è ambientato nella periferia dove sono cresciuto, il quartiere di Coronata (GE).
Coronata è un quartiere con un passato contadino, prima che i vigneti degenerassero in boschi di rovi, preservativi e ceres lanciate. Vi si faceva un vino bianco che sa di zolfo (viene citato anche dal videogioco The Witcher 3, quindi è famoso).
Poi sono arrivati i palazzi dell’INA-Casa e il presente popolare, i meridionali per lavorare nelle acciaierie del porto industriale che ha cancellato le spiagge, la collina è stata sventrata dalle gallerie dell’Autostrada, hanno costruito l’ex Ponte Morandi di fronte alle finestre dei miei, il panorama delle nostre adolescenze di periferia: coi culi dell’Adidas seduti sulla sella di un SR 50, una Punto GT con le portiere aperte e il pianale che spara Franchino.
Come sempre nei miei fumetti, ho inserito i luoghi e le cose che conosco bene, ma ho comunque dovuto fare delle perlustrazioni apposta in motorino (quando pioveva invece con Maps) perché volevo sentirmi un Danilo e perché quel tipo di esplorazione marcia che fa lui nella storia è una delle MIE attività preferite, che svolgo regolarmente e con gusto. Queste volte però ho provato a guardare i MIEI luoghi della MIA vita, con i SUOI occhi (azzurri) e ho provato a immaginarli come SUOI luoghi della SUA vita.
Il quartiere di Coronata con l’Ilva sullo sfondoUn mio compare (uno che c’aveva l’Aprilia SR bordeaux metallizzato) mi faceva notare che:
Danilo è un romantico, come Paolo, guarda su internet i nomi dei fiori, come Paolo, celebra i modelli dei motorini, come Paolo, apprezza esageratamente la propria automobile, come Paolo. Siamo pure coetanei. Io gli ho risposto che forse è la prassi normale, quando nasce un personaggio, che ci finisca dentro un po’ di chi lo inventa.
Sempre lo stesso compare mi diceva che i veri Danili non sono poeti, che i veri Danili se ne extra-sbattono dei fiori e delle prugne sugli alberi. Invece io credo che sì, o meglio credo nella possibilità di cambiare punto di vista in qualsiasi momento, ma serve un motivo, nel caso di Danilo è la questione di voler lasciare qualcosa qui, al mondo dei vivi, i suoi quaderni con dentro lui e i suoi ricordi e i suoi amici e le cose che gli piacciono. Allora Danilo accende finalmente il macchinario impolverato della sua immaginazione, forse per la prima volta nei suoi quasi 38 anni e dunque sì, in quel momento un po’ poeta lo diventa pure lui. Anzi, la fantasia prende proprio il sopravvento, modificando la realtà in modo tangibile, anche salvandolo un po’, mettendo a posto quelle cose che un posto non ce l’hanno, a meno che non te lo inventi.
Per la prima volta ho voluto scrivere una storia ambientata nel Presente, oggi, e non nei ‘90 o nei primi 2000, e metterci dentro il nuovo iPhone, l’ultima edizione di FIFA, CR7 alla Juventus, YouTube, Wikipedia, Google Maps e quelle cose mi che rendono il presente -a tratti- quasi accettabile.
Una pagina dello storyboard di NMPLDanilo rimane comunque un ragazzo ben fermo nel ‘900, e i suoi racconti sono sempre lì, piantati orgogliosamente in quello squallido periodo tra il primo e il secondo millennio, come i miei, appunto.
Raccontare il Presente mi ha aiutato ad uscire da quella ricetta nostalgica che nei miei fumetti ormai preparavo con una certa dose di maniera.
Infatti mi ci sono gasato, e siccome non mi piace la retromarcia, sto pensando di teletrasportare una storia (su cui sto facendo finta di lavorare da almeno 5 anni) ambientata nel 1998 nell’Adesso: con gli smartphone invece che i 3310, con le macchine brutte di ora, invece che le Alfa 33 o le Tipo, per capirci, con i motorini nuovi, deprimenti, a ruota alta tipo l’Honda SH o quelli nerboruti come il T-Max.
Rimango comunque convinto che un motivo ci sia se la Nike ha rifatto proprio le nostre di scarpe, e la Adidas ha rifatto persino i pantaloni coi bottoni di lato, no?
La Classe Operaia fuma di merda.
C’è un mio vecchio amico (adesso non ci becchiamo più tanto, ma ci siamo beccati di brutto prima), lui lavora in fabbrica, veramente di notte, da praticamente sempre, ovvero da quando avevamo meno di 20 anni, e in fabbrica ci lavorava pure suo padre, che era venuto apposta a Genova da giù, per lavorarci, perché forse ci lavorava già suo fratello, o qualche altro parente, sempre da giù. Nel suo capannone fanno palette per turbine, cose giganti che servono per delle cose importanti.
Un altro dei miei amici più cari (amico anche di quello sopra) ha dovuto prendere il posto in una fabbrica di pezzi di motori per navi quando il suo patrigno è morto, e ha lasciato la scuola per andare a lavorare, così, mentre noi eravamo ancora lì a disegnarci i bambulè sugli astucci. Poi ha lavorato sulle autostrade, a pulire i catarifrangenti con uno spruzzo, per più di 10 anni, di notte pure lui, con una tuta evidenziatore, a schivare i TIR per tirare su i birilli tra le carreggiate, insieme al suo collega Xavier e a qualche marocchino.
Negli anni, ci siamo sempre beccati per giocare a tutti i videogames e a fumare e guardarci le cose da ridere sul computer e ordinare dei McNuggets, le cose normali degli amici.
Gli interni della Panda di DaniloOvviamente gli ho fatto centomila domande sui loro lavori, e mi hanno sempre risposto, forse divertiti, forse infastiditi, senza capire perché mi interessasse scendere così a fondo nei dettagli del funzionamento delle mense, degli scherzi, delle battute sui froci, degli stipendi e dei buoni pasto. Ho ascoltato ottimi aneddoti sui colleghi, figure mitologiche e di riferimento, storie da ridere ma dopo diventare subito anche preoccupati.
Loro due (e altri, ma loro due proprio da vicino e durevolmente) mi hanno insegnato delle cose senza manco spiegarmele, avendo la cortesia di non sputarmi in faccia quasi mai e di ascoltare con pazienza (e la giusta ironia) ogni mia cazzata controcorrente di ragazzino e poi di adulto.
Loro andavano a dormire alle 7 del mattino, dopo il turno, io mi svegliavo ore più tardi, dopo la serata, per andare in Accademia a pitturare delle tette; anche se vengo da una famiglia operaia, in un quartiere di periferia, che si affaccia da una parte sull’ILVA e dall’altra sull’Ansaldo, confrontarmi direttamente con il dovere dei coetanei mi ha fatto provare un pochino più di vergogna ai vernissage, dove ho sempre cercato di fottere almeno una bottiglia, per una questione di rispetto e di estrazione sociale. E mi sono accorto, mentre lo scrivevo, che Danilo è un po’ me, ma forse è soprattutto loro.
Una pagina dello storyboard di NMPLNaturalmente non ho avuto tra le mie frequentazioni solo eroi del proletariato, ho bazzicato anche della gente che poteva comprarsi lo scitto più buono con i soldini di mammà.
I più lungimiranti ci caricavano la piastra da spacciare, pregio da 10 euro al grammo, erba dalla Svizzera, da Milano, non dalla Calabria o dall’Albania come eravamo abituati noi della Val Polcevera.
Persone che quando ci andavi in casa a comprargli due canne, dovevi suonare ad un citofono di avvocato e salire con l’ascensore all’ultimo piano, dove si vedeva il mare e il tramonto sul porto.
Ma poi sono sempre tornato a fumarmi il ciocco di merda coi miei, quello che ti fa solamente venire quel misto di sonno e mal di testa, con la vista sul ponte della ferrovia di ferro marcio, nello stesso palazzo che ho messo in “Manuelone” e ogni tanto magari portavo due cannine di quell’erba super dei ricchi.
Ora: dato che tengo molto a non fare la figura del Piccolo Lord con la paghetta dello zio schiavista, che si dedica allo studio delle arti mentre gli altri intorno a lui si sgobbano il salario, vi accenno che nella mia esistenza ho avuto (e avrò) delle sfortune del cazzo, ma che fortunatamente queste sfortune del cazzo mi hanno causato dei privilegi benedetti, questi privilegi benedetti mi hanno permesso di non lavorare tanto come gli altri, permettendomi per esempio di dedicarmi ai romanzi a fumetti, cosa che, come ben saprete, altrimenti sarebbe economicamente insostenibile, senza avere gli attici a reddito.
Sfighe e privilegi che scambierei con chiunque di voi, adesso, se esistesse la magia nera (o quella grigia), capiamoci, nulla di vagamente invidiabile.
Questo non significa che mi conceda di lavorare a gratis, anzi, il mio tariffario è da pochissimo triplicato dopo che sono stato pubblicato in Francia e che “L’Etè Dernier” è entrato nella Sélection Officielle di Angoulême.
Mi pare sia logico che giusto, no?
Le mani dell’Artista.
Dei precedenti lavori mi sono portato dietro solo la consapevolezza degli errori fatti e la voglia di non ripeterli, infatti ho deciso di cambiare tutto, tranne quello che non sono proprio riuscito, neanche volendo.
In questo è stata NECESSARIA la fiducia delle persone che hanno lavorato al libro con me: Simone Romani, Pasquale La Forgia, e Roberto La Forgia.
Ovvero la La Paziente Triade che mi ha sostenuto come si fa con un ubriaco che non riesce a camminare e che si è vomitato tutti i pantaloni e forse se li è anche pisciati.
Scrivere per me è una cosa veramente seria, giuro che ogni giorno mi guardo allo specchio e mi dico: ”ma che momento storico deprimente è se tu, che sei un pirla, con quella faccia da pirla, scrivi delle storie che alcune persone si prendono il tempo di leggere? Tu, arrogante coglionazzo, come ti permetti? Io adesso vengo di là e ti spacco il culo!”.
Anche stamattina, nello specchio di un hotel di merda, a Sukumo.
Ecco, giuro che io alla mia riflessione non ho il coraggio di rispondere.
So che questa cosa ha un nome che c’entra con l’inadeguatezza, ne ho parlato una volta con Tonetto, forse la stessa notte che abbiamo litigato per colpa di Cavazzano lungo i viali deserti di Torino.
Quella stessa volta in un locale una signora scalza ci aveva leccato i palmi delle mani perché le nostre (diceva) erano mani d’artista, non so chi le avesse spifferato questa cavolata, forse fu colpa di Tonetto che faceva i suoi disegnini ingarbugliati sui tovagliolini di carta, forse di Cavazzano, che purtroppo non era presente, ma fu un elogio vischioso ed indimenticabile.
Quindi, nonostante i miei turbamenti da Sirenetto, le persone che sono dietro a questo libro mi hanno sostenuto e mi hanno portato a casa a spalle, anche se gli ho vomitato tutti i sedili.
Ho l’idea che NMPL debba essere un fumetto di apertura ad un pubblico più ampio, un lavoro meno ostico da fruire, semplice in senso positivo: la storia di un genitore (o quasi) che lascia qualcosa a un figlio non l’ho inventata di certo io, anzi.
Ma proprio per questo è una storia che parla ai più, non servono troppi requisiti o un palato troppo raffinato per entrarci, almeno spero, era il mio obiettivo: riuscire a tirare dentro sia i fissati (come me) di certi elementi che sono sempre stati nei miei lavori, sia quelli che legittimamente se ne stra-sbattono della poesia dei motorini e dei citofoni bruciati e vogliono godersi una bella storia, emozionarsi, piangere, ridere e magari ricordarsela per un pochino.
Non mi posso lamentare.
Cambiare editore è stata per me una scommessa, sia per legami personali, sia per visione, per patemi e altre menate, ma è stato anche un grande stimolo che mi ha dato le forze per fare un salto nel buio e cambiare registro il più possibile.
Ripeto che le persone di Rizzoli Lizard che hanno lavorato con me hanno avuto totale fiducia nel mio racconto, più di me a tratti.
Il digitale è una figata, e per digitale non intendo stare a casa davanti al mega-computer a fare il goblin nelle segrete, intendo l’iPad con la matita magica, che ficchi nello zaino e ti porti dove vuoi, intendo Procreate, che ha mille limiti ma è facile da usare anche per uno come me che non ha voglia di impararlo.
Questo fumetto l’ho disegnato in tanti posti diversi: prati, aerei, Puglie, Milano, bar marci, spiagge irlandesi, frutteti, fiumi, biblioteche, case di altri, metro, studi di altri. E per me questa è stata una cosa meravigliante e divertente, che ha alleggerito (e di molto) il compito di compilazione lungo ed esasperante che ogni tavola di qualsiasi fumetto richiede.
Ovviamente all’inizio ho avuto le mie paure, pensavo se le persone che seguono il mio lavoro di ex-matitinista si sarebbero sentite in qualche modo tradite o altre stupidaggini, ma ho subito deciso di sbattermene, e credo giustamente, dato che purtroppo non sono abbastanza popolare da temere un risvolto alla “Misery”.
Tutti si sono accorti dell’abbandono della matita (e del b/n), ma sono certo che i più attenti avranno notato anche l’abbandono della mia gabbia, ovvero quella griglia un poco variabile, a volte monca, che ho sempre usato per scandire sulla pagina lo scorrere del tempo nelle mie narrazioni.
Ho deciso di accantonarla in modo naturale: questa storia infatti aveva necessità diverse (le grandi didascalie testuali del diario hanno bisogno di tanto spazio sulla pagina) e il digitale che avevo in mente era spudorato, come quello del Super Nintendo, coi pixel che si vedono.
Ho quindi rinunciato a mimetizzare il segno ed ho creato un pennello pixeloso che non imitasse nulla di reale (inchiostro o matita), poi ho lavorato usando solo 3 dimensioni fisse di punta e una palette di colori ridottissima (32), per non perdermi nel mondo delle infinite possibilità (e conseguenti dubbi eterni) proprio del mio nuovo mezzo.
Un altro fattore rilevante è stata la mia voglia di raccontare attraverso i COLORI.
A me il b/n mica mi piace, anzi, ogni volta che vedo del bianco e nero patisco perché non è a colori. Vado su Facebook a guardarmi gli album di foto storiche ricolorate, per capire meglio; da piccolo quando guardavamo le foto con mia nonna le chiedevo sempre di che colore erano i vestiti che indossava.
Ho sempre lavorato in toni di grigio solo per una questione di tempi. Sono visceralmente contro il bianco e nero, è un pacco e basta, come il bianco delle statue dell’Antica Grecia, che poi, guarda un po’, invece adesso sappiamo tutti che erano belle colorate, con gli occhioni con la pupilla dipinta per benino. Dovrebbero esistere delle associazioni di volontari appassionati che colorano i fumetti in bianco e nero: Associazione Volontaria Coloristi Bravi Fumetti Belli, magari potrebbero anche organizzare delle raccolte fondi per convincere l’autore a colorarlo, o per pagarsi i propri stipendi di coloristi.
Ovviamente ci sono delle eccezioni in cui il b/n funziona molto meglio del colore, ma non me ne viene in mente nemmeno una.
La banda dei ranocchi.
Solo l’uso del mio caro sfumatino marcio che avevo sempre utilizzato finora mi è mancato un pochino, specialmente nella gestione del rossore guanceo, ma fa parte del processo di abbandono proprio di ogni cambiamento.
Sul mio stile (per usare una parola che non mi piace affatto, di solito dico sintesi, ma non vorrei sembrare un genoano) è in corso una ricerca di soluzioni che va avanti da sempre e che non è ancora lontana dalla meta, se mai esiste.
Faccio un esempio: nel mio stile degli inizi la mia missione segreta era quella di ottenere una via di mezzo tra la raffigurazione di certe sculture in pietra medievali e un certo manga descrittivo alla Tsukasa Hōjō (City Hunter) o Taniguchi (con le dita spezzate, ovviamente).
Nel tempo il mio modo di inventare e disegnare le fisionomie personaggi è diventato più cartoonesco (meno realistico), questo mi è servito a differenziare i personaggi il più possibile, in modo che chi legge, e specialmente i non addetti (quella piccolissima porzione di “massa” che legge, della quale una piccolissima porzione legge anche i fumetti, della quale una piccolissima porzione legge pure i miei), almeno non debba fare fatica a riconoscere chi è chi.
Ora i personaggi si possono riconoscere anche sono dalla silhouette: hanno piedoni a forma di fagiolo, nasi a palloncino, dentoni che non esistono, teste triangolari o quadrate, alcuni sono alti più delle porte, altri larghi più di un divano, altri sono invece piccolissimi, questo credo arrivi da un crescente interesse per il manga comico (Doraemon, Shin-chan, Dash Kappei, Kochikame), anche se Tonetto dice che in NMPL c’è anche del Tom & Jerry e da quando me l’ha detto ce lo vedo pure io: Danilo somiglia a Tom il gatto mischiato con Demetan.
Ovviamente, seppur radicale, non è stato un cambiamento TOTALE, credo che ci siano ancora gli elementi per attribuire tutti i miei lavori alla stessa (mia) mano.
Nei fondali invece evidentemente l’arte medievale (la pittura in questo caso) è ancora un riferimento obbligatorio: in assenza di ambienti prospettici coerenti, continuo a preferire una sghemba assonometria, ma il mio riferimento sono ancora Giotto e certi pittori naif, Ligabue su tutti.
Poi Procreate ha un sistema di assistenza robotica per le linee dritte che mi sarei sentito fesso a non usare, ce l’ha anche per la prospettiva giusta ovviamente, l’Assistente Robo-Prospettico.
In generale trovo l’utilizzo della prospettiva molto inibente per me.
Le pagine di NMPL avevano bisogno di una dose di spazialità astratta anche, fatto di geometrie semplicissimi, aberrati e spesso bidimensionali.
Ammiro molto chi riesce a districarsi tra gli affilatissimi rovi della perspective propriis, i veri samurai del fumetto (come ad esempio Bacilieri e Filosa) ma al momento io mi sento più un ronin marcissimo che usa la sua katana come riesce, giusto per pararsi il culo contro i cani randagi di notte, sul sentiero per la mia baracca di merda dove tengo i miei 4 sacchetti di roba da lavare, un giaciglio di fieno e una piccola stufa rattoppata. Per adesso ci sto alla grande, ho pure rubato due mandarini e un daikon da un orto.
I clienti del Bar Miki.
Il lavoro di Michelangelo Setola è il vero motivo per il quale ho finalmente posato la matita.
Cerco di vendicarmi tempestandogli il cell di foto di buone pietanze a base di pesci crudi da qui. Gli ho appena mandato un video del brodo di miso con degli occhi grossi di orata grossa che ho mangiato in provincia di Kagoshima. Sembravano delle piccole prugne gelatinose. Ci ha patito, di invidia intendo.
Quando ho visto per la prima volta i lavori suoi (e quelli di Amanda Vähämäki) per me è stata una bella sberla, la prima di una lunga serie che non finisce mai. Le ultime me le hanno date Shin’ichi Abe, Italo e ho appena porto l’altra guancia proprio a Michelangelo Setola con il suo ultimo e grande: “Gli Sprecati”; Setola dovrebbe stare nei musei, mica nelle librerie.
Infatti ogni volta che lo incontro cerco di imparare da lui delle ricette di pietanze e anche la ricetta più difficile: quella della distanza dal proprio lavoro, una distanza precisissima regolata in modo da non diventare mai lontananza, molto simile ad una flemma soprannaturale tipo quella di Toki della Divina Scuola di Hokuto, il fratello adottivo di Kenshiro.
Ho il grandissimo privilegio di conoscere e frequentare praticamente tutti miei autori italiani di graphic novel preferiti, che sono pochissimi ma giganti e di poter parlare con loro di cibi o auto o videogames, come si fa tra veri colleghi e cercare di imparare sempre da ognuno qualcosa.
Una pagina dello storyboard di NMPLDa Tonetto sto imparando l’importanza di un pranzo o una cena dignitosa, in compagnia di persone molto selezionate, poche possibilmente, seguita magari da una fotografia di gruppo con il ristoratore e magari anche da un soggiorno in un albergo in quota, dove godere del fresco e poter parlare liberamente.
Da Filosa sto imparando il Bushido del fumetto, la temperanza e l’ostinazione che trasformano un fumettista in un autore ed un autore in una voce, oltre all’orgoglio di fare una cosa fighissima come i fumetti senza lagnarsi di quanto si deve stare seduti al tavolo da disegno (o appresso ad un iPad).
Da Mazzetti sto imparando che le idee chiare sono uno strumento micidiale per raggiungere i propri obiettivi, che si può essere disordinati e ordinati allo stesso tempo e una bella serie di canali YouTube decongestionanti, tipo uno di una giapponese che cucina e va a fare la spesa.
Da De Franco sto imparando la fame pazza di fare tutte le cose insieme e a cercare di trovare quella chiavina per riaprire la gabbia dell’immaginazione, che poi è anche quella delle possibilità.
Potrei continuare la lista dei talenti degli altri visti da me, ma non lo faccio.
Berto è ancora vivo.
Che io conosca solo la MIA di normalità è una cosa ovvia:
il bar-tabacchi a Coronata è un posto normale, con dentro la gente normale, che prende il 62/, che è un autobus normale, che si arrampica su per le curve di un quartiere di palazzi normali, dove le persone fanno dei lavori normali, scendendo giù dalle curve con delle macchine normali e che comprano ai figli motorini normali, vestiti normali e che quando si incontrano si dicono delle cose normali.
Adesso per esempio sono in Giappone e sto cercando di scoprire un Giappone più normale, cioè il corrispondente giapponese di Coronata: vado ai giardinetti, seguo un fiume, guardo bene la roba stesa nei poggioli, vado dietro all’ombra di un palazzo a vedere il parcheggio, e però mi sembra tutto straordinario lo stesso, perché, per fortuna, la normalità dicono che non esista più appena ci si sposta, anche di poco, anche non fisicamente.
“Umile” è un aggettivo che ho sempre affibbiato al ricordo di mio nonno, che era un Maradona in tutto, specialmente, dopo la pensione (Ansaldo), nella rapallizzazione del suo giardino a suon di colate di cemento, ma preferiva parlare di come facevano bene le cose gli altri.
Ricordo gli elogi alle fave che metteva Berto (quello dell’orto di fronte), come gli venivano bene a lui a nessun altro.
Senza autocommiserarsi (riguardo le proprie di fave), anzi, con sincera meraviglia e apprezzamento, immagino di aver ereditato da lui la curiosità per le questionucce delle altre persone, e che è anche lo scheletro del mondo che racconto e del modo in cui lo racconto.
Berto era anche quello che accoppava i ricci con la vanga perché una volta, a suo dire, spappolandosi sotto il peso della sua Ape 50 azzurra, gli avevano fatto lo sgarbo di forarne il pneumatico.
Sempre Berto aveva motosegato un pruno secolare che faceva delle prugne d’oro, perché, cadendo, creavano un pantano di marmellata d’oro che faceva slittare i sempre preziosi pneumatici dell’Ape 50. Berto era versione cattiva di Gargamella, però faceva le fave migliori
Come un ritardato.
La morbosità per il dettaglio è una mia peculiarità biografica, nel senso che sono il tipo (e non sono l’unico, anzi) che si fissa a fissare le storie.
Alla nostra categoria di persone capita di dover fingere (male, nel mio caso) di ascoltare il proprio interlocutore, in realtà tentando super-captare quei due tipi pazzeschi appoggiati al bancone che parlano del nuovo allenatore della Samp.
Ci succede anche di chiedere indicazioni e non ascoltarle perché subito rapiti dal ponte odontoiatrico della tizia che si sta prodigando per indicare dove sta il Postamat più vicino.
Ricordo che mia madre mi dava i coppini sul 62/ perché fissavo la gente, ma non ho smesso, guardo fisso ancora le persone come un ritardato.
Immagino che esistano dei medicinali per tamponare queste deviazioni dell’attenzione.
Non assumendoli, archivio la realtà in questo modo, osservandone le cesellature e questa passione entra nelle mie storie forzando la serratura.
Infatti ho sempre fatto un sacco di foto col cell di gente, di palazzi, di veicoli, di scritte negli ascensori, di cassette delle lettere nei portoni, di piante da appartamento fuori dagli appartamenti, di adesivi sui caschi, di lampioni rotti, di piante nei muri, di serrande, di tabaccai, di banconi di bar, di panini, di tramezzini, di pizzette, di vomiti sui marciapiedi, di scarpe, di merde, di fogli di giornale appallottolati, di cessi della stazione, di panchine, di sedie di plastica al circolo, di stoviglie belle, di cespugli, di posti ok e di cani. Già da quando era ancora strano fare le foto col cell io le facevo di brutto (ultimamente però faccio video col cell, che metto su Instagram: @audio_on_please).
Nell’ultimo anno invece ci sono molto sotto con Google Lens: sto imparando un sacco di piante nuove, vedo un’anatra strana, un frutto mai visto e vado subito a Lensarmelo, qui in Giappone per esempio ho scoperto che quegli affari rossi scuro, secchiti, appesi alle finestre in cordicine di spago precise, sono una varietà di caco particolarmente apprezzabile se essiccata, perché dentro rimane morbida ed effettivamente deliziosa. Secondo me Lens è la cosa più figa del mondo insieme a Maps a Wikipedia e ai cachi secchi, veramente, non mi viene in mente tanto di meglio.
L’utilizzo del dettaglio rimane uno strumento prettamente descrittivo, di solito faccio questo esempio: se un personaggio sta bevendo una birra generica è solo uno che beve una birra, se invece sta bevendo una Moretti, una Peroni o ancora di più una Ceres o una Tennent’s cambia tutto. Questo si applica ad ogni cosa, anche a come uno va in motorino: il modo di tenere il casco in testa, di aprire o chiudere le ginocchia secondo un certo codice posturale, l’angolazione della schiena e la posizione dei piedi, con la punta in dentro o all’infuori sono racconti di un carattere o di un atteggiamento specifico.
Ogni mio tentativo di narrazione parte dalla voglia di ricreare delle immagini molto specifiche coerenti con un immaginario mooolto specifico, e con delle atmosfere mooolto specifiche,
Di solito scrivo una storia intorno a qualche immagine chiave che mi piace: dei bidoni della spazzatura in fiamme, un palazzo illuminato dai lampioni arancioni, una strada vista dall’alto, nottetempo, una navata dorata di una chiesa barocca durante una messa; intorno a questo rammendo le faccende che cooperano per costruire la storia.
Quindi ho bisogno di ricorrere all’aiuto dei dettagli, per raggiungere quella precisa specificità che mi permette di ricostruire una scenografia credibile e coerente, come si fa in un film in costume. Credo che abbiano anche un ruolo ritmico nel tempo di lettura, ma quello non lo so spiegare bene, ci vorrebbe un intellettuale.
Nel caso di NMPL è stato un po’ diverso perché avevo l’aiuto della voce narrante di Danilo, certe cose le raccontava lui con le SUE parole e io potevo essere un po’ più a margine e meno insistente nello spiegare proprio tutto-tutto con le immagini. Questo mi ha concesso di provare soluzioni grafiche (per me) nuove e divertenti, deviando un pochino da quel realismo marcio che finora aveva (secondo me) caratterizzato i miei fumetti.
La ricetta per la felicità.
Questo fumetto nasce con entusiasmo e gioia, nonostante le vicende di Danilo.
Era una storia che avevo annotato su un post-it e subito dopo perso in fondo alla tasca di una giacca, c’era finita anche se mi piaceva, chissà perché; poi, quando Pasquale mi ha chiesto una storia dove venisse fuori “la mia scrittura” mi è ritornata in mente quella che all’epoca avevo in mente che fosse una versione truce de “L’uomo che cammina” di Taniguchi (una grande rottura di palle ma poeticissima), allora sono andato a ripescarmela.
Ho scovato quell’appuntino tutto accartocciato, insieme a una banconota da 5 euro, ho stirato per bene entrambi i foglietti con le dita, e da lì ho iniziato a scrivere veramente, era Novembre. La storia definitiva l’ho scritta in pochissimo tempo, e sono stato abbastanza rapido a disegnarla (grazie all’iPad) da riuscire a non avere il tempo di annoiarmi. Durante la realizzazione il numero delle pagine previste è quasi raddoppiato (da 160 a 245), proprio perché il racconto si è preso gli spazi che gli parevano.
È stata una bella discesa, con dei salti, dei giri della morte, e degli ostacoli divertenti, tanto che avrei fatto ancora altre 100 pagine; un po’ Danilo mi manca, mi piaceva pensare come lui, inventarmi le sue storielle del cacchio e provare a disegnare come avrebbe disegnato.
In questo viaggio nel Giappone normale ho imparato che è praticamente quasi impossibile rimanere delusi se si cerca di non aspettarsi molto (meglio ancora niente), per esempio se hai fame di brutto e sai che nello zainetto hai solo una polpetta di riso ma aspetti di avere ancora più fame di mangiare, allora diventa buona di brutto anche quella polpetta di riso con un’alga intorno e manco niente dentro, e le cose buone fanno essere contenti.
Se per esempio è tutto il giorno che cammini lungo un fiume in secca, e dopo ore di terra impolverata e sassi, svolti un’ansa del fiume aspettandoti un’altra distesa di terra e pietre e invece c’è un gruppo di garzette bianche che pucciano le piume in un punto dove c’è finalmente dell’acqua, e allora, anche se ti fanno male le gambe, ti fai ancora due ore lungo la riva solo per godere dei riflessi degli alberi sull’acqua, che dopo tutti quei sassi sono fighissimi, e le piante che sono più verdi invece che gialle e puoi contare gli uccelli acquatici e un fiume nel niente diventa una cosa bella, e le cose belle fanno essere contenti.
Forse non me l’ha nemmeno insegnato il Giappone normale, forse me l’ha insegnato Danilo, anzi, forse lo sapevo già.
È la ricetta per la felicità più marcia che mi viene in mente e non funziona nemmeno sempre.
Grazie, ciao,
Paolo.
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Intervista a cura di Angelo D. Ascani
Editing di Matteo Contin
Fotografie e gif di Paolo Cattaneo
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becomixdatabase · 4 years
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