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blerde · 8 years ago
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Vigo
C’era uno scoglio dove riposavamo
senza tregua, guardando le canzoni
arrivare dal mare, in lontananza.
Arpeggiavamo con le dita
lungo la schiuma, avevo negli occhi
i tuoi capelli, sciolti fino alla riva e
ricci e morbidi e gonfi come dozzine di vele.
Ho aspettato la marea
in silenzio, non una parola mentre ti guardavo
annegare tra le tue note ingorde,
le tue frasi maestose.
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blerde · 8 years ago
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5.
Quando si parla di curriculum, profili linkedin, credibilità e affidabilità nel lavoro, quando si usa un termine come un'attestazione di valore: professionalità. Quando diventa un obiettivo a lungo termine, una missione: essere dei professionisti in un settore. Ecco, io non voglio essere professionista di niente. Per quel che mi riguarda, lo scongiuro. Desidero,  piuttosto, trovare soddisfazione dalla mia intelligenza. Usarla, lì dove può essere utile, donarmi piacere, aiutarmi a sopperire un bisogno. E non voglio, anzi scongiuro, che ciò avvenga sempre nello stesso campo, facendo la stessa azione. E, se proprio proprio devo essere un professionista, voglio esserlo della mia intelligenza.
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blerde · 8 years ago
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fado #4.
oggi ti pensavo. m’è venuta in mente una canzone, l’ho cantata per la strada verso casa e ho pensato a quando mi veniva da cantare uno stornello improvvisato e lo suonavi. e mi sentivo un inventore. amore mio, sto stranamente in pace con sto’ pensiero ma mi segue. stasera è mio. quanto me so sentita sola a’amatte tanto. che’non l’hai capito l’amore mio de che era fatto, amore mio. che me chiedevi d’esse infermiera, de statte accanto. te stavo accanto amore mio ma, mica l’hai visto. l’amore dolce e infinto che ho provato quando hai cercato de fatte forza co la tua forza sola, amore mio, senza bastone, senza corazza. mica hai capito. m’hai preso pe’ un sostegno. quando te dicevo ch’eri un sonatore, amore mio, e me risponnevi “io so ingegnere”. col fare de chi sa, de chi è cresciuto, e c’ha a che fa co’n regazzino. e io, amore mio, te vorrei di’, sei sonatore e nun lo devi da scordà. che io la so la differenza de quando ridi e stai contento, e quando c’hai da fa.
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blerde · 10 years ago
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blerde · 10 years ago
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3.
Immaginiamo una stanza. Un soggiorno con una poltrona parigina color celadon al centro, con la sua struttura in faggio massello intarsiata di disegni floreali, sedile e schienale imbottiti, morbidi, tondeggianti. Accanto alla poltrona un tappeto Maresali in lana, decorato con un Mihrab “a punta di freccia”, definito da una cornica bianca che riprende i motivi della bordura e una serie di botteh che ne ritmano l’interno. Tra i due, sulla parete, un quadro in cui viene rappresentata Margherita Teresa d’Asburgo accompagnata dal suo seguito: la damigella d’onore che si piega verso la principessa, la dama d’onore posta dietro la futura erede al trono dell���Alcazar, sulla destra di chi guarda, e due nani di corte. Sulla sinistra Velazquez in piedi con pennello e tavolozza, intento a dipingere; dei quadri raffiguranti le Metamorfosi di Ovidio sul fondo; uno specchio in cui sono riflessi i regnanti, genitori della principessa. Immaginiamo un uomo all’interno della stanza. Immaginiamo che quest’uomo non riesca, per una deformazione congenita, a vedere in maniera nidita i contorni degli oggetti e i loro particolari: la poltrona sarà un ammasso di verde, il tappeto una macchia scura sul pavimento, il quadro una sorta di rettangolo anonimo. Immaginiamo ora che quest’uomo non solo non riesca a scorgere nell’ambiente contorni e particolari ma che, sempre per la stessa deformazione congenita, si relazioni con uno spazio formato esclusivamente da linee rette e spigoli vivi. Quest’uomo percepirà se stesso all’interno di una stanza la cui natura è aggressiva, penetrante, invadente, pericolosa, irritante; come se fosse in un rovo di spine o di coltelli appuntiti. Ne conseguirà una mancata rilassatezza, meglio, uno stato perenne di agitazione e allerta. Non sorprenderà se quest’uomo passerà gran parte del suo tempo a fendere e schivare colpi più o meno gratuiti agli oggetti che lo circondano. Un ambiente del genere, oltre a risultare specificamente ostile, sarà un luogo senza storia e senza cura. Qualunque sia lo stato degli oggetti al suo interno, il motivo, la scelta dei suoi colori, delle sue tappezzerie, non importerà a nessuno e non sarà a carico di nessuno, tanto meno dell’uomo che in quel momento vi risiede. Sarà pensato come uno stato imprescindibile, immutabile, forse un errore, uno sbaglio, in cui si è incappati senza sapere come, da cui non si è affatto certi di poter uscire; una mancanza di un ‘altrui’ non ben identificato di cui quell’uomo subisce, da vittima inerte, le conseguenze, con rassegnazione e indifferenza, più spesso, senza coscienza alcuna dell’accaduto. Se pensiamo alla stanza appena descritta come al mondo, inteso come rappresentazione della realtà individuale e collettiva, e all’uomo come soggetto che attua costantemente un suo proprio, e sempre collettivo, meccanismo di rappresentazione, possiamo individuare quella malattia congenita che tanto lo affligge in uno degli aspetti fondamentali della cultura, nonché dell’evoluzione, che hanno fatto di quell’uomo un uomo: il linguaggio. Non che sia l’unico strumento nella cassetta degli attrezzi della gnosi umana, di certo però, è quello che in maniera più diretta ed evidente mostra e al contempo altera il punto di vista dell’individuo sul mondo che lo circonda, atto fondamentale ai fini della costruzione di una sua identità. Facile intuire come uno strumento così potente di percezione e raffigurazione del mondo e, al contempo, di creazione d’identità (individuale e collettiva) sia costantemente analizzato, monitorato e, con i mezzi più disparati e spesso sfrontati, plasmato da soggetti e meccanismi che nel potere e nel controllo trovano la loro più autentica ragion d’essere.
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blerde · 10 years ago
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C'è più intimità su una panchina al parco in un giorno di festa che sul proprio portatile. Quanti affermerebbero il contrario.
Mao Zedong
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blerde · 10 years ago
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2.
Le Machiavélisme est antérieur à Machiavel.
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blerde · 10 years ago
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1.
Le obbligazioni assunte dai saziati sono eredità di antenati senza volto, la cui presenza fisica è imperante e il cui culto involontario è fantasma identitario collettivo. Il paesaggio in cui tanto i saziati quanto gli affamati si trascinano con i loro moti distinti è dominato dalla presenza di tombe invisibili, a tutti evidenti. Come i luoghi sepolcrali dei Maya del periodo Classico, sono moniti e premesse custoditi nelle fondamenta dei complessi residenziali come nelle piramidi e nei templi monumentali. I saziati hanno il ruolo di mantenere il legame ereditario e la forma del paesaggio immutata così come gli appare, attraverso il culto delle ossa che perpetrano in continuazione, un’eterna risacca. Ma la differenza sostanziale tra il moto dei saziati e quello degli affamati è una deviazione minima dell’orbita, il percorso verso la tomba, l’illusione di un’azione dialogante con l’ambiente funerario e i suoi abitanti senza nome, origine la cui origine è irrisolta. I saziati sono affamati il cui corpo è parimenti malato, corrotto, debilitato, sono vettori di inedia per cui una coscienza reale del proprio stato, dunque una possibilità reale d’azione, sono negate e inibite, implicano un atto di forza insostenibile al corpo malnutrito. Come gli apparecchi muti di Anders, la loro apparenza non rivela affatto il loro stato nè la reale potenzialità e questa è la loro più grande tragedia. Va da sè, non maggiore nè lontanamente equiparabile a quella di chi è al di sotto o sul filo della soglia della sopravvivenza. Eppure la differenza nell’orbita è minima. In più, quella fantasia d’azione che gli ha permesso la deviazione o ne è stata conseguenza, è custode del dualismo onnivoro che affligge la gnosi, nonché il loro più autentico godimento. Quale sollievo per uno schiavo rivivere la propria frustrazione insolubile in quella di chi è diversamente schiavo attraverso il senso di colpa, l’arroganza salvifica pelosa, l’instaurazione di un rapporto gratuitamente parentale, l’opportunismo, lo sfruttamento, il sollievo stesso. Almeno, hanno la possibilità di compiere un’azione vuota, priva di un telos autentico. Le loro obbligazioni sono necessariamente insolubili.
Il pianeta immaginifico da cui tutti dovremmo riscattarci sta sperimentando nell’estetica dell’alimentazione una nuova forma di mimetismo fanerico il cui scopo è quello di distogliere i saziati dal soddisfacimento dei loro bisogni famelici. I saziati non sono mai realmente sazi, sono distolti dalla sazietà, imbottiti all’occorrenza di fentermina, fendimetrazina, fenilpropanolamina, ciclazinolo e mazindolo sotto forma di immagini (in)appaganti che andrebbero bene in una galleria d’arte come in qualsiasi salotto privato, anzi, permettono ai saziati stessi di compiere un’ulteriore deviazione orbitale priva di telos che è quella dell’esperienza artistica la cui techne è prodotta in serie in comodi manuali d’istruzione che nulla invidiano a quelli dell’Ikea. Come alcuni ditteri commestibili e non protetti, che imitano l'aspetto e la forma di alcuni tipi di vespe, riprendendone la colorazione gialla e violacea per scoraggiare il predatore, così il cibo non artefatto, identificabile e genuino diventa esteticamente, quindi funzionalmente, indesiderabile. La bulimia produttiva non ammette l’errore, i pezzi guasti sono spreco di risorse, di denaro. L’industria ha superato l’agricoltura impiantandosi nella terra, tramutando aratri in macchinari, sementi in spiccioli. Il valore della merce è prima di tutto nella sua estetica, per cui non c’è niente da cui possiamo distogliere lo sguardo o il pensiero che non sia un prodotto e in questo compendio sono presenti capelli, unghie, organi interni, rifiuti, umori, secrezioni; il pasto consumato, qualunque esso sia. Compiuto l’ennesimo atto di domesticazione, i saziati sono come animali rinchiusi nelle abitazioni, appollaiati sui davanzali delle finestre perché qualcosa ricorda loro qualcos’altro di cui gli sfugge il senso e prima ancora il nome, finché la ciotola si riempie della pappa di marca che è innanzitutto claim pubblicitario, spiccioli. Potremmo riempire i nostri piatti di monetine, la differenza sarebbe irrisoria, se non negli escrementi ma non ci giurerei. Siamo strumenti prodotti in serie alimentati da risorse prodotte in serie che compiono azioni in serie per dare vita ad altri prodotti in serie la cui serialità è il fine ultimo dell’atto, Godot. Al contempo siamo esseri viventi su un pianeta fatto di risorse naturali che ci hanno sempre nutrito, le cui azioni, volessimo anche retrocedere allo stato di homo habilis, sono potenzialmente portatrici di un senso e una tecnica chiare.
Gli affamati sono necessari alla continuazione della schiavitù dei saziati, per ogni volto boccheggiante c’è la controparte in cui l’orifizio orale è saldato su se stesso o a un orifizio anale a caso. Liberare uno per liberare l’altro: si fa prima a stordirsi, da quando esiste l’alterità percettiva indotta, almeno. Eppure non è nulla di più di un gesto carnevalesco considerato lo stordimento invasivo indotto a cui siamo sottoposti regolarmente. Gli affamati continueranno ad essere infarciti di espedienti quel tanto che basta per mantenerne in vita un numero sufficiente al sostentamento dell’equilibrio di forze attuale.
In tutto ciò, l’Expo appare come una farsa i cui soggetti si diramano in tre livelli, piramidali. Partendo dalla punta, l’esistenza stessa della pomposa quanto ingombrante esibizione, la domesticazione culturale, il rito delle ossa degli antenati, il mantenimento dell’ordine simbolico. Successivamente, un via vai di formiche diligenti con un peso di circa venti volte superiore il proprio addosso, mentre cercano di racimolare un’opportunità, di status, lavorativa, culturale, di svago, una ricompensa di qualunque tipo, basti pensare ai volontari, e sono i saziati. Alla base, i destinatari dell’esposizione: il pianeta, gli affamati, i saziati nuovamente. Pensandoci bene, l’obiettivo è realmente quello di nutrirli tutti, non c’è inganno.
E’ un bluff degno di qualunque giocatore che possa definirsi tale, come lo è un antenato.
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