Michele Sica, Bosconauta. Words Woods Wheat: Parole di Bosco e Grano. L'immagine di sfondo è "Cult Tree" di Scott Cambell, 2008.
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Un documentario sul lavoro, il lavoro fatto bene, il lavoro raccontato, cantato, evocato tra i suggestivi vicoli del centro storico di Caselle in Pittari in occasione dell'Antepirma Nazionale della Notte del Lavoro Narrato, la notte del 17 luglio, durante la settimana di Campdigrano 2013.
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Ritorno al futuro: dal Ciuccio al RURAL HUB
di Michele Sica Bosconauta
CAPITOLO 1 Il Ritorno
©Foto Marius Mele
Mentre scrivo davanti a me un albero di pero, un vecchio albero di pero di una varietà antica, e pere e vierne (pere d’inverno), inclinato dal tempo, dal vento o da chissà cos’altro mi illumina di verde. E’ l’alba di domenica 7 luglio, e sono a Calvanico, all’Incartata. Un anno fa', appena un anno fa', ero a Roma.
Questa storia, come forse tutte le altre, non ha un inizio, o per lo meno non ne ha uno ben preciso. Questa storia inizia certamente nel verde, il verde delle foglie di nocciolo e di castagno, il verde dei boschi alti dei miei monti, dei pomodori legati all’orto, del granturco non ancora spigato e dei fagioli che ad esso si aggrovigliano per conquistare la luce.
Questo verde del cuore e dell’anima mi ha più di ogni altra cosa spinto al ritorno. Un ritorno alla vita e alla terra mia. Un ritorno che in nessun modo tingerò di ideologia o di motivazione alcuna. Che racconterò come si racconta la propria esperienza ad una bella persona durante un lungo viaggio assieme.
Ad un certo punto dello scorso anno, verso la fine dell’estate, dopo aver vissuto momenti di fortissima e piacevolissima destabilizzazione come Campdigrano2012 e o’Catuozzo, e dopo aver vissuto il viaggio della vita che mi aveva condotto fino a quel momento, ebbene in un giorno di fine agosto dello scorso anno mi capitò di pronunciare queste parole: “Devo tornare a SUD”. Semplicemente. Così finiva l’esperienza nella capitale, in un agenzia di comunicazione Web e SoftwareHouse, in cui validissimi e onestissimi professionisti mi avevano accolto come in una famiglia lasciandomi un patrimonio prezioso di esperienza professionale e umana.
CAPITOLO 2 Il Posto

Veduta dalla residenza rurale l'Incartata
I rientri, si sa, sono sempre caratterizzati da almeno 3 fasi: l’euforia iniziale, la rapidissima, pericolosissima e preziosissima fase di smarrimento e disillusione che spesso sopraggiunge per un banale o grave episodio la cui causa è spesso ricondotta al posto in cui si rientra e casa inevitabilmente il pensiero “Questa cosa, lì dov’ero fino a poco tempo fa (quasi sempre più a nord del posto in cui si rientra) non sarebbe mai successa”. La terza fase è diversa per ognuno: c’è chi si ferma in uno stato di tedio e torna a fare ciò che faceva prima di partire; c’è chi si rimbocca le maniche e inizia a fare ciò che aveva progettato di fare già prima del suo rientro; c’è chi resiste poco e ritorna sui suoi passi, semplicemente ripartendo e cercando nuovi lidi di approdo. A me è andata in maniera leggermente diversa. Il fatto è che il mio ritorno è stato dettato da una consapevolezza, da una visione: la terra, la fatica, faber e sapiens non più scindibili, tornare dalla parte giusta della barricata, dal lato di chi produce e abbandonare quello del solo consumo.
Il mio rientro è avvenuto certamente anche perché avevo individuato un posto dove poter realizzare questa scelta. E tutto ciò nel mio paese, nella mia terra, a SUD. Si è sempre a Sud di un Nord. Il SUD, nel mio caso, può significare tante cose, ad esempio il Cilento, (Calvanico è nella parte alta della provincia di Salerno, a confine con quella di Avellina nel massiccio dei Monti Picentini, il Cilento è la parte meridionale della provincia di Salerno). Ebbene la scelta di ritorno proprio al mio paese è stata dettata da una semplice constatazione: un albero ha radici in una terra. Lo stesso albero, se trasportato altrove, sarà un albero diverso (molto spesso anche migliore ma diverso). Io sentivo di dover tornare ad essere un albero della mia terra per restituire, in parte, i frutti che questa terra mi ha donato. Allo stesso tempo sento che la terra è una, che di questi frutti tutti ne possono magiare e dunque mi sento albero del mondo, e dal mondo intero traggo linfa vitale.
Residenza Rurale l'Incartata
Così il mio posto, per il momento, l’ho scelto a Calvanico: una vecchia casa colonica, già sede di un agriturismo, in località Incartata. Per estensione quindi, la casa stessa e terreni circostanzi sono identificati come A ‘Ncartata. (Mi sono messo fin da subito alla ricerca dell’origine del nome scoprendo che esso è un toponimo abbastanza diffuso, anche nelle varianti Cartado, Cartata, ecc... e deriverebbe quindi da un gergo notarile: una proprietà fissata sulle mappe, sulle carte, posta al registro. Io ne sto sperimentando una nuova deriva semantica che racconterò magari in una prossima occasione)
Questa grande casa colonica, capace di accogliere oltre venti persone in pianta stabile, fino a un centinaio occasionalmente nei locali interni e nella grande aia antistante, un ettaro di terreni circostanti coltivabili, ha rapito i miei sogni. E anche gran parte delle mie energie quotidiane dal momento in cui assieme ad un gruppo di altri giovani e meno giovani abbiamo deciso di prenderla in fitto dalla famiglia Giordano.
CAPITOLO 3 La fatica
Vi sarà certamente capitato di pronunciare delle parole e di pensare: queste me le debbo appuntare, è un concetto troppo importante che posso dimenticare. Ecco, non crediate sia solo merito vostro quel concetto. Tutto ciò che siamo, e che diciamo, non è mai solo "merito nostro". Siamo una sommatoria di tanti elementi chimici, e di tante storie e parole, i nostri pensieri non sono e non saranno mai solo nostri. In questo caso il mio pensiero, e quello di chissà quanti altri, è stato: “Bisogna liberarsi dalla schiavitù del lavoro per il lavoro per tornare alla fatica per la vita”.
In un sistema in cui scambiamo tempo per denaro, due risorse, la prima la più limitata e preziosa che abbiamo a disposizione, la seconda la più effimera e assurdamente necessaria in questo mondo che ci siamo creati intorno, rompere questo ciclo illusorio per tornare a quello della fatica, ovvero la trasformazione dello sforzo di homo faber e sapiens calato nel tempo, necessario alla vita nel senso di produzione delle necessità primarie: tendere al benessere e all’armonia nel contesto naturale e sociale che ci circonda e al contempo la soddisfazione del bisogno immenso (e innato?) di conoscenza.
Ebbene il ritorno alla fatica, nel mio caso è coinciso con il ritorno a una dimensione di vita legata strettamente al momento produttivo e alla progettazione di un futuro in cui la fonte del progresso fosse cercata nella ruralità, in un contesto ovvero in cui l’uomo vive in maggiore prossimità con la natura, la terra, e da essa trae il suo principale sostentamento. In cui l’uomo è l’eccezione e la natura la regola. Ed egli ne è, e ne deve essere consapevole, capendo così che le sue azioni essendo molto spesso in contrasto con gli eventi naturali, debbono limitarsi a quelli strettamente necessari, senza eccedere nella follia del disastro autodistruttivo, in cui l’uomo padrone è schiavo della sua stessa arroganza e stupida, quanto illusoria e falsa, supremazia.
Così i primi mesi dell’anno sono velocemente, e credo di poter dire faticosamente e felicemente, corsi via mentre giorno dopo giorno faticavamo (il nostro gruppo con l’apporto delle nostre famiglie e in special modo di mio padre, della sua forza indescrivibile, della sua ostinata quanto disarmante capacità di guardare oltre, di saper guardare l’obiettivo, di conoscere il metodo come raggiungerlo, per effettivamente poi raggiungerlo) per il ripristino della fruibilità grande casa, l’impianto dell’orto, tutto ciò che fosse propedeutico affinchè essa fosse pronta nuovamente ad assolvere al suo nuovo e antico ruolo di residenza rurale. Un compito che questa casa assolverà innanzitutto per noi e per tutti coloro che vorranno condividere le istanze di progresso della ruralità contemporanea.
CAPITOLO 4 #Cumparete
Quando si inizia a parlare di progresso e contemporaneità rurale, bisogna sempre guardare a SUD, alle montagne interne e interiori, ai borghi, rarissimi ormai, di pescatori autentici, alle popolazioni indigene che abitano i cosidetti “paesi arretrati”, sono gli unici che ancora ci possono dare una mano ad immaginare un futuro che fondi le sue basi sulla sostenibilità e sul tentativo di armonia e risonanza tra noi e il mondo. Parole di Jairo Restrepo Rivera, un uomo che dedica la sua vita alla divulgazione dell’Agricoltura Organica, ovvero un agricoltura sana, capace di sfamare il mondo (rispondendo in maniera efficace ed efficiente alle esigenze di produzione) senza distruggerlo.
Restrepo Rivera, consulente a livello mondiale, è un uomo con i piedi e le mani sempre sporche di terra, e ancor più spesso di letame, lui stesso sostiene che tutti i principi dell’Agricoltura Organica siano sintetizzabili in questa frase: “Con agua y mierda no hay cosecha que se pierda!” (Con acqua e merda non c’è raccolto che si perda).

Jairo Restrepo Rivera a Caselle in Pittari in visita alla Biblioteca del Grano
Abbiamo conosciuto Jairo alla Tempa del Fico, nel cuore del Cilento Interiore tra Rofrano e Laurino, lo scorso giugno, dove ha tenuto 3 giorni di corso di Agricoltura Organica, teorico e soprattutto pratico. Un corso che non si può raccontare, tanta la forza, l’energia, la conoscenza trasmessa. Un momento di fondamentale importanza per il progresso della nuova ruralità contemporanea, che non ha caso si è svolto in Cilento e alla Tempa del Fico, la casa rurale di Angelo, Donatella e le loro stelle Annarita e Antonia Avagliano.
Se siete in viaggio, senza meta, verso una nuova consapevolezza, verso un nuovo impegno di vita, verso la fatica e la terra, una tappa fondamentale di questo viaggio dovrebbe essere la Tempa del Fico. Per me lo è stato, come lo è stato probabilmente per gran parte delle potenti energie che sono nate e si sviluppano oggi in Cilento. E pur essendoci oggi del Cilento diverse suggestioni e derive, diverse esperienze e visioni, dalla terra dei briganti alla costiera e ai paesaggi e luoghi comuni da film banalizzanti, esso resta il territorio interiore tra i più interessanti dal punto di vista naturalistico, antropologico e sociale dell’Italia meridionale e dell’intero mediterraneo. Un luogo dell’anima certamente, ma soprattutto un luogo del corpo, dove la fatica di chi resta è direttamente proporzionata al rimpianto di chi parte.
Per questo motivo dal Cilento può rinascere, ed è rinata, un’energia così intensamente spontanea che ha provocato quelle condizioni fertilissime in cui sono nate le storie del Palio del Grano e del CampdiGrano che si svolgeranno tra una settimana esatta a Caselle in Pittari, ad opera di un gruppo di giovani che ha scelto di restare a vivere nel proprio paese. Un gruppo capace di attivare un’intera comunità intorno ad un archetipo della loro terra destinato all’oblio: il grano, o meglio i grani,antichi e autoctoni: nascono così i progetti della Biblioteca del Grano e della Comunità del Cibo Slow Food Grano di Caselle.
Nasce così la #CUMPARETE, la spinta fortissima dal basso di aggregazione, cooperazione e collaborazione che prende spunto dall’antico istituto del cumparaggio. Nuovi cumpari che si uniscono e scambiano saperi e sapori, mani e cuori. La #cumparete, partendo dal primo cumpare, Angelo Avagliano della Tempa del Fico, non è istituzione nè struttura organizzata da statuti o iscrizioni. La #Cumparete è la rete dei cumpari contadini contemporanei che dal Cilento raggiunge qualunque campagna dove un contadino contemporaneo si riappropria della propria funzione di mediatore con la terra.
Così la #Cumparete lega le realtà cilentane già descritte a tante altre come quella della Cooperativa sociale Terra di Resilienza con sede a Morigerati; quella dei fagioli ecotipi autoctoni di Casalbuono recuperati grazie all’impegno di Rosa Barbato e la sua Luna Calante; l’esperienza unica e pericolasamente in pericolo dell’istituto Teodoro Gaza diretto dalla preside terraterra come ama definirsi Maria de Biase; più in là nel Vallo di Diano l’Asineria Equinotium di Ivan di Palma ad Atena Lucana, la policoltura pianesiana di Ivan Bruno a Sala Consilina, il lavoro straordinario di recupero di migliaia di antiche semenze del Cilento solto dal Prof. Nicola di Novella da Sassano e quello delle antiche cultivar da frutto di Mimmo Calicchio a Sala Consilina, per arrivare poi in puglia dove i ragazzi dello scorso Campdigrano hanno allargato la rete e hanno coinvolto la Masseria dei Monelli di Conversano, per citarne una fra tante di realtà pugliesi.
CAPITOLO 5 Il Ciuccio Nando
#Cumparete dunque è scambio reciproco e sostanziale, così arriviamo alla storia di Nando, il ciuccio Nando, che il compare Angelo Avagliano ha voluto donare alla nascente realtà rurale di Calvanico, la residenza rurale dell'Incartata. La storia del ciuccio Nando meriterebbe da solo un libro intero, per quanto breve ma intensissima: Nando è partito dalla Tempa del Fico lunedì 10 giugno aprendo una nuova pista della Ciucciopolita, da Pruno di Laurino ad Atena Lucana, dal cuore del parco nazionale del Cielnto alle terre del Vallo di Diano a confine con la Lucania. La Ciucciopolitana è un’infrastruttura materiale e immateriale di collegamento di territori e uomini, ideata e fortemente voluta da Angelo Avagliano, per collegare i monti del Cilento interiore al mare, e meglio ancora i due mari: dal Golfo di Policastro a quello di Salerno. Il ciuccio come mediatore e facilitatore di comunicazione con il paesaggio e la natura. Un viaggio lento e profondo. Un viaggio che ho avuto la fortuna di affrontare appunto con la Ciucciopolitana Cammi-Nando. Tre giorni per giungere da Pruno di Laurino a Sanza, da Sanza a Padula e poi da Padula a d Atena Lucana presso l’Asineria Equinotium insieme a Gennaro Fontanarosa, i compari casellesi di Inoutlab, Ivan di Palma e il supporto logistico e morale del caro Giovanni Galdieri di Duegisport.
Il viaggio con Nando ci ha insegnato tantissimo: innanzitutto la straordinaria sorpresa che ci ha riservato un giovane puledro di asini, di 16 mesi, che pascolava libero nella valle di Pruno con la madre fino a una settimana prima della Ciucciopolitana, che non aveva mai indossato una capezza tanto meno conosceva una fune, dopo solo una settimana di contatto con chi vi scrive, ha lasciato la valle percorrendo oltre 20 km al giorno per un totale di oltre 70 km in 3 giorni, camminando su strade, anche trafficate in alcuni tratti. Nando ci ha dimostrato quanto valga la pena ribadire con forza il ribaltamento che Angelo Avagliano ha fatto di un vecchio adagio popolare: ATTACA U PADRONE ADDO VOLE U CIUCCIO. Si è fermato un paio di volte per strada, impuntandosi e non volendo proseguire, e il motivo è molto semplice: perchè estramamente sensibile ai pericoli e alle disarmonie del territorio: Nando si è fermato in un punto dove apparantemente non vi era nessun pericolo, eppure poi abbiamo scoperto che dopo 500 metri era segnalata una frana lungo la strada; si è fermato all’imbocco della statale del Vallo di Diano, e poi abbiamo scoperto il rumore che aumentava data la presenza delle fabbriche nel Vallo; si è fermato ad osservare e annusare una busta di plastica, bianca, vuota, un’anomalia enorme per lei: quanta sensibilità in un piccolo ciuccio, quanto abbiamo da imparare!
Alla fine dei tre giorni, all’Asineria Equinotium, con l’aiuto dei potenti mezzi del caro amico Nino Galdieri abbiamo raggiunto la residenza rurale dell’Incartata a Calvanico. Il giorno seguente, giovedì 13, abbiamo compiuto l’ultimo atto della nostra ciucciopolitana: Un Ciuccio in Piazza del Sapere. Il prode Nando, portavoce delle istanze di rinnovamento e progresso rurale del Cilento e della #Cumparete è giunto nel cuore del Tempio della sapienza, il grande campus dell’Università di Salerno situato a Fisciano, a pochi km da Calvanico. Qui un gruppo di giovani curiosi, diversi professori, tra cui Pasquale Persico, Rino Mele e Alex Giordano che hanno avuto preziose parole per quest’occasione, e addirittura l’aspirante rettore Annibale Elia, hanno assistito ad una sana provocazione: laddove il simbolo per antonomasia dell’ignoranza torna ad essere il principale veicolo di comunicazione e di riscatto delle nuove forme progresso e innovazione sociale e tecnologica che non rinnega ciò che è stato e ciò che potrà essere a partire da questo.
Futuro Prossimo
Avendo lasciato incolto lo spazio di questo mio orto di parole, questo piccolo e intenso blog che cerco di far sopravvivere al vortice di cose e pensieri che mi toglie il tempo necessario alla scrittura, ho tentato di ripercorrere per capitoli e per sommi capi i 6 mesi di vuoto dall’ultimo post. Arrivo al presente di questi giorni, a pochissimi giorni dal nuovo Campdigrano e a meno di un mese dalla settimana del Catuozzo, ovvero i setti giorni durante i quali, come già lo scorso anno è stato, impareremo l’antica arte della Carbonaia guidati dalla sapienza e dalla storia di Zi peppe, vecchio maestro boscaiolo.
Glocal Solutions O' Catuozzo - Societing Summer School 2012 (di societingtv)
Provando a dare un nome al prossimo futuro, vi lascio alla prossima storia che si chiamerà RURAL HUB. Ma attendo che il tempo faccia il suo corso, e che la crescita avvenga lenta. Per sedimentazione.
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"Partita a scacchi" ovvero "Il teatro e il gioco della vita"
Walter Wisby, un bambino di otto anni, e T Whiltard, 91 anni, giocano a scacchi a Cheltenham, in Inghilterra, nell’agosto del 1913. (Hulton Archive/Getty Images)
Due generazioni, il vecchio e il nuovo, l'inizio e la fine, interscambiabili, e al centro il gioco della vita, l'affanno inutile e necessario di una scena teatrale che prevede attori con ruoli diversi e complementari.
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Girlfriend in a Coma + A caccia di Pionieri + Semen
Un sabato di Innovazione Sociale e Rurale a Napoli.
SABATO 23 FEBBRAIO 10.30
NAPOLI - CINEMA MODERNISSIMO
Via Cisterna dell'Olio, 49/59
Proiezione del DocuFilm di Bill Emmott e Annalisa Piras "Girlfriend in a Coma" e a seguire dibattito con gli autori moderato da Alex Giordano -Accademia mediterranea di Societing- e Vincenzo Moretti -Testa, mani e cuore-. L'incontro procederà con Francesco Russo che presenterà il concorso "A caccia di Pionieri" promosso da RENA, Rete per l'eccellenza nazionale
ACCESSO GRATUITO. ISCRIZIONE OBBLIGATORIA QUI
http://pionierinapoli.eventbrite.com
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SABATO 23 E DOMENICA 24 FEBBRAIO
NAPOLI - CINEMA MODERNISSIMO
Via Cisterna dell'Olio, 49/59

SEMEN ET BALENA: SCAMBI DI SEMI ANTICHI, LABORATORI DI CREAZIONE COLLETTIVA, CONVIVENZA E AZIONE COMUNE
Semen è una due giorni di condivisione intorno al sentire e all’agire collettivo, sul senso del seminare e raccogliere, su pratiche e teorie di coesistenza, sul coltivarsi in sinergia cercando di conoscere e utilizzare l’esperienza della natura e dei bambini, sull’educazione reciproca, libertaria e democratica, sull’abboffarsi ad ogni costo, sul difficile rapporto con i nostri escrementi e rifiuti.
PER IL PROGRAMMA COMPLETO:
http://labalena.wordpress.com/2013/02/19/semen-et-balena-semi-e-teatro-contadino-sabato-23-e-domenica-24-
#girlfriend in a coma napoli#bill emmot napoli#a caccia di pionieri napoli#alex giordano pionieri#pionieri rena napoli#semen et balena napoli#semen napoli
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di Amedeo Balbi pubblicato su ilpost.it
Molti secoli prima che diventasse figo maltrattare pubblicamente un aspirante chef, Galileo Galilei strapazzò il gesuita Orazio Grassi in una disputa sul modo migliore per cuocere le uova. Non che la cucina fosse in cima alla lista delle preoccupazioni del pisano, ma Galileo non si tirava indietro di fronte a niente quando c’era da umiliare l’avversario. (Regola numero uno per un accademico del Diciassettesimo secolo: mai attaccar briga con Galileo.)
A discutere di uova sode, Galileo e Grassi c’erano arrivati per vie traverse, partendo da un litigio sulla natura delle comete (nel 1618 ne erano apparse ben tre). Litigio innescato involontariamente dal Grassi il quale, poveretto, si era permesso di scrivere un trattatello in cui sosteneva che le comete fossero corpi celesti transitanti oltre l’orbita lunare. Per inciso, aveva ragione.
(…)
Vabbe’, ma che c’entrano le uova, direte. Ci arriviamo subito. Il fatto è che uno degli argomenti attorno a cui ruotava la disputa era se i corpi si riscaldassero per attrito con l’aria. Grassi pensava di sì, Galileo era convinto del contrario. Ora, su questo punto Grassi e Galileo avevano entrambi ragione o entrambi torto, a seconda della situazione specifica presa in esame. Se un corpo viaggia abbastanza velocemente nell’aria può in effetti scaldarsi fino a incendiarsi (come accade alle meteore); ma l’idea di Galileo che il passaggio attraverso l’aria raffreddasse le cose era certamente più giustificata dall’osservazione quotidiana, almeno nel 1600.
Il punto è: come fare a dirimere la questione? Per Galileo c’era un solo modo possibile: osservare direttamente la natura. Per Grassi, aristotelico dentro, la via maestra era quella di rifarsi alla sapienza dei tempi passati. Così, per tirare acqua al suo mulino, l’incauto Grassi/Sarsi non trovò di meglio che citare alcuni testi antichi secondo cui i babilonesi avevano l’abitudine di bollire le uova mettendole in una fionda e facendole roteare velocemente sopra la testa. Se i babilonesi riuscivano a farsi le uova sode in questo modo, era segno che l’attrito dell’aria scaldava, eccome.
Ecco la risposta, che vi prego di apprezzare tanto dal punto di vista logico che letterario:
Se il Sarsi vuole ch’io creda […] che i Babilonii cocesser l’uova col girarle velocemente nella fionda, io lo crederò; ma dirò bene, la cagione di tal effetto esser lontanissima da quella che gli viene attribuita, e per trovar la vera io discorrerò così: “Se a noi non succede un effetto che ad altri altra volta è riuscito, è necessario che noi nel nostro operare manchiamo di quello che fu causa della riuscita d’esso effetto, e che non mancando a noi altro che una cosa sola, questa sola cosa sia la vera causa: ora, a noi non mancano uova, né fionde, né uomini robusti che le girino, e pur non si cuocono, anzi, se fusser calde, si raffreddano più presto; e perché non ci manca altro che l’esser di Babilonia, adunque l’esser Babiloni è causa dell’indurirsi l’uova, e non l’attrizion dell’aria”, ch’è quello ch’io volevo provare. È possibile che il Sarsi nel correr la posta non abbia osservato quanta freschezza gli apporti alla faccia quella continua mutazion d’aria? e se pur l’ha sentito, vorrà egli creder più le cose di dumila anni fa, succedute in Babilonia e riferite da altri, che le presenti e ch’egli in se stesso prova?
Insomma, dice Galileo: caro Sarsi, molla ‘sti libri e fai la prova tu stesso. Ti sei mai fatto un uovo sodo ruotando una fionda? Hai mai visto qualcuno farlo? No? E perché no? Se a noi non riesce di bollire le uova alla maniera dei babilonesi, forse vuol dire che bisogna essere babilonesi per riuscirci. O, più probabilmente, che i tuoi libri riferiscono favole. Credi di più a loro o a quello che puoi provare in prima persona?
La risposta era abbastanza ovvia. Come la maggior parte dei suoi colleghi, Grassi argomentava per autorità, abitudine peraltro ancora piuttosto in voga ai giorni nostri e sbeffeggiata da Galileo in uno dei passi più celebri del Saggiatore:
Parmi, oltre a ciò, di scorgere nel Sarsi ferma credenza, che nel filosofare sia necessario appoggiarsi all’opinioni di qualche celebre autore, sì che la mente nostra, quando non si maritasse col discorso d’un altro, ne dovesse in tutto rimanere sterile ed infeconda; e forse stima che la filosofia sia un libro e una fantasia d’un uomo, come l’Iliade e l’Orlando furioso, libri ne’ quali la meno importante cosa è che quello che vi è scritto sia vero. Signor Sarsi, la cosa non istà così. La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi (io dico l’universo), ma non si può intendere se prima non s’impara a intender la lingua, e conoscer i caratteri, ne’ quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche, senza i quali mezi è impossibile a intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto.
Il metodo scientifico proposto da Galileo in queste poche righe oggi forse ci sembra scontato, ma all’epoca non lo era affatto, evidentemente. Poi, certo, Galileo era un po’ gradasso, e sulle comete è capitato che avesse ragione Grassi. Ma è proprio questo il punto: ogni tanto può anche succedere di avere ragione per il motivo sbagliato. Però senza un metodo affidabile, che funzioni indipendentemente dal Galileo di turno, non si va molto lontano.
#galileo e le uova soda#galileo il saggiatore#galielo e orazio grassi#galileo galilei grassi e le comete#galielo galieli filosofia e universo
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A voi giovani, abituati oggi ad un certo benessere, consiglio di essere più curiosi perché la curiosità è alla base della conoscenza (ed i mezzi oggi non mancano): quello che diventa patrimonio della mente, nessun nemico ve lo potrà togliere. Date valore anche alle vostre mani che sono patrimonio importantissimo per aiutarvi nei momenti difficili.
Marcello Martini, Partigiano
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di Valentina Parasecolo da IL MAGAZINE de “Il Sole 24 ore” del 24 settembre 2012
Per alcuni sono lo strascico della generazione X, quella scettica, disincantata, post-ideologica. Sono gli ultimi arrivati di una prole nichilista, neanche troppo sfortunata, rammollita dagli agi, incapace di rivoluzioni, forse appena di evoluzioni. Per altri sono la prova del proprio fallimento. Quelli da compatire, i nipoti a cui chiedere scusa. Con tutti quei debiti da pagare e poi le pensioni e quel lavoro fisso che non vedranno mai.
E se i giovani fossero altro? Mentre la flessibilità è costretta da riforme mancate alla sua versione più feroce, il precariato, una nuova generazione di italiani si sta trasformando silenziosamente. Si potrebbe prendere in prestito un nome dalle scienze dei materiali. Si potrebbe definirli i “resilienti”. Come certe sostanze che si adattano agli urti, sono reattivi e plastici. Flessibili davanti a ogni rigida resistenza. Nel momento in cui la crisi porta al pettine i nodi del sistema, i resilienti si districano tra i rimbalzi dello stage, i labirinti interinali e l’ossigeno a progetto, imparando a riconoscere i peggiori difetti di chi li aveva preceduti e diventando altro. Sul loro biglietto da visita non c’è un dott. o un rag., ma nome e cognome accompagnati dalle figlie delle ambizioni mortificate e dei cambi di rotta: le loro esperienze frammentate, solo talvolta legate ai titoli di studio. Sono i laureati in fisica, diventati panettieri, poi insegnanti e infine web designer. Questi nuovi italiani sanno che non avranno carriere lineari predefinite, ma percorsi professionali variegati e ciclici. Nel frenetico tentativo di trovare una collocazione, hanno imparato a credere nei principi neo-borghesi della meritocrazia e dello sforzo, ma anche nel dono e nello scambio. I resilienti si sono formati imparando le lingue degli altri, viaggiando e vivendo in mezzo ai “diversi da noi”, tra i quali sono finiti per studiare o lavorare. Hanno conosciuto giovani donne con ruoli che in Italia sono ricoperti da maschi anziani. Hanno scritto curricula dove è illegale mettere la data di nascita. Hanno visto coetanei cambiare continuamente lavoro e avere figli. Hanno frequentato scuole con allievi di ogni età. Hanno incontrato persone che davanti a nuove idee non hanno risposto «… perché no», ma «Perché no?». Questi italiani hanno i tratti dell’uomo postmoderno a suo agio nelle contrazioni telematiche dello spazio e del tempo. Il confronto con la tecnologia gli viene delegato con sufficienza da chi, sopra di loro, la teme o rifiuta. Grazie a lei hanno imparato a muoversi fra le pieghe della storia, dell’arte e della cultura, a non aver paura del passato, ad accorciare le distanze nel presente. Vivono dolorosamente l’accerchiamento di strutture statiche in una periferia dell’Occidente dove le voci forti sono quelle degli ipergarantiti, dei fedelissimi del posto fisso, del sissignore e unamanolavalaltra. Intanto si chiedono se Darwin avesse ragione, se vinca davvero la specie che si adatta meglio ai cambiamenti, se il futuro sarà loro, di questi nuovi italiani, dei resilienti.
UN ESEMPIO CILENTANO DI RESILIENZA Cooperativa Sociale Terra di Resilienza
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Auguri di non fine
di Michele Sica Bosconauta
Tutta umana la presunzione di poter dare un limite al tempo, allo spazio, alle cose. E in questa finitudine trovare i margini di demarcazione utili al più effimero e necessario degli esercizi umani: la narrazione di fatti, eventi, storie. E così, che in questo limen di tempo che chiamiamo anno, mi appresto anch’io a scrivere di cose che sembrano afferibili ad un lasso di tempo ben definito, ma che in sostanza trovano la loro origine in chissà quale meandro di spazio e tempo indefinito, infinito.
Eppure c’è anno e anno, almeno così ci pare, e l’ultimo credo sia stato decisamente ... decisivo, importante, indimenticabile, irreversibile. Un anno, insomma, in cui sono accadute cose la cui forza sta nel non esaurirsi in uno spazio breve, ma nella loro capacità di rinnovarsi in un ciclo molto meno definibile e incontrollabile dalle categorizzazioni convenzionali umane.
Il bosco è un esplosione di vita dalle forme diversissime e varissime. Un sistema inclusivo in cui trovano posto le specie più difformi, che sembrano vivere in una simbiosi perfetta. Lo abbiamo vissuto e attraversato, seppur brevemente ma intensamente, portando nel bosco parole nuove e uomini nuovi curiosi e affamati di vita nuova. Openbosco è stata l’occasione di sedersi dall’altra parte, di far parlare alberi, foglie, pietre e fuoco e da lì trovare spunto per nuove parole. Perchè il bosco? Perchè credo che esso abbia un’essenza che va molto aldilà delle percezioni comuni di vita che noi uomini oggi siamo abituati ad avere. La percezione che tutto è producibile e riproducibile dalla tecnica e dalle risorse che abbiamo a disposizione. Ebbene questo è stato l’anno in cui ho imparato, ho sperimentato (dal latino ex, "da", e perire, "tentare", "passare attraverso") che il taglio di un bosco, di un albero vuol dire “sopportare la perdita e da quella far nascere nuova vita”. Un ciclo, questo, che è ben al di là della portata dei tempi e dei modi che oggi ci siamo dati come civiltà di uomini cicale. E la trasfigurazione di questo bosco, di questo legno, in carbone con l’antico metodo della carbonaia, ridando voce agli antichi boscaioli, la voce sommersa dei nostri padri, che attraverso il fumo e il fuoco è giunta fino a noi insegnandoci gesti antichi e nuovi, la cui rivoluzione sta nell’essere riapparsi in questo tempo con tutta la loro forza necessaria. La forza della resistenza, dell’attesa, del rispetto, della sostenibilità, della ciclicità, dell’umiltà.
Il grano è un filo d’erba a un mese dalla sua nascita. Guardatelo ora, d'inverno, nei campi gelidi, frustato dal vento del nord, ghiacciato dal gelo dell’alba, un filo d’erba capace di sfamare il mondo. Ma tutti noi conosciamo il grano nella sua fase d’oro, già pronto alla falce e prossimo al forno. Proprio questo teatro dorato mi e ci ha accolto, quest’anno, in una terra che stava per smarrire il suo frutto prezioso, il Cilento. Tenaci minatori di un mondo smarrito, coraggiosi pionieri di un mondo immaginato, ci insegnano a tenere in mano una falce, a mietere l’oro, a trarne farina e impastare il futuro. Questo è stato CampdiGrano: un’esplosione di desideri inesplicabili, di ambizioni impensabili, di emozioni indescrivibili. Ma soprattutto è stato il superamento di tutto questo e il ritorno alla quotidianità con la consapevolezza che tutto dovesse cambiare fin dalle piccole cose. Che il grano non è solo la festa della mietitura, ma l’aratura già nella calda estate per smuovere il terreno, è la semina in autunno quando non piove, è l’attesa che spuntino i fragilissimi fili verdi dopo le abbondanti piogge e il primo freddo. Che il grano è la metafora di tutto ciò che abbiamo bisogno per sostenerci su questa terra, strappando ad essa, ogni giorno, la linfa vitale che sostiene i nostri bisogni necessari e, troppo spesso, superflui. Che il grano è la strada che ci riporta alla consapevolezza e alla responsabilità, dalla semina al raccolto, dalla produzione al consumo, dal bisogno alla sostenibilità. Ho scelto, così, di legare la memoria di questo anno passato a due archetipi, il bosco e il grano, che ho attraversato con tutto me stesso e attraverso i quali ho incontrato la vita di moltissimi altri compagni (cum panis). Penso a loro, oggi, come l’unica degna e immensa ricchezza ricevuta e da conservare, dal valore insetimabile. I sorrisi, gli abbracci, l’essere comunità nel senso più autentico di questo termine. Avrei voglia di nominarli tutti, come già altre volte ho cercato di fare nel tentativo di fissare nella memoria collettiva il tempo trascorso assieme, ma anche in questo caso presuntuoso sarebbe il pretesto di demarcazione di un insieme che ha la sua forza proprio nell’essere indefinito, indefinibile poiché sempre aperto, senza limiti.
E così, che il mio augurio per il tempo nuovo è proprio quello di aprirsi, senza limiti, ad un percorso che non abbia alcuna meta fissa, ad un nuovo modello inclusivo di vita in cui trovano posto vecchi e nuovi orizzonti, in cui le parole, gli incontri le fatiche abbiano tutte un senso nuovo, quello della resilienza nel nostro ambiente e quello della risonanza con tutto il mondo. A tutti voi, che più di aver ricevuto dalla mia pochezza, tanto mi avete donato in questa breve e intesa parte del viaggio compiuto a tratti assieme, dono il mio abbraccio e il mio sorriso senza parole. Un silenzio da riempire assieme con nuove albe e nuove veglie, lungo un viaggio mai progettato, mai raccontato, un viaggio che ci chiede di partire e di farlo subito, senza troppe domande, senza alcuna paura. La vita.
Immagini. La prima è la raffigurazione della Ruota del Samsara, antico dipinto tibetano; la seconda una miniatura medievale di un Bosco, la terza è un disegno tratto dal romanzo L'ombra del Castano intotolato, La pisatura del Grano; la quarta è un quadro di Salvador Dalì, La Nave, 1935.
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Ugo Marano oggi sale a Capriglia
di Rino Mele dalla prima pagina del “Roma” domenica 16 dicembre 2012
A poche centinaia di metri dalla sua casa di Capriglia, che lui amava fino all’esasperazione, Ugo Marano oggi parlerà agli amici che lo cercano, aprendo il ricordo come melagrane rosse, noci fresche, filastrocche e versi che scriveva e a lui piaceva recitare. Nell’Antico Convento dello Spirito Santo, alle 16,30, quando d’inverno il giorno s’azzurra e scurisce, ci racconterà su uno schermo d’aria -pioggia o non pioggia- quello che non sappiamo, il significato di essersi sottratto a questa treccia di dolore che è la vita, il suo familiare starsene ai bordi chiamandoci per nome: proietterà alcune linee rosse e bianche come frecce che, riunendosi, formino sentieri e montagne e suoni.
Amava infinitamente fare teatro, guardava negli occhi gli spettatori e li trasformava in personaggi: l’attore era sempre lui, saltava al contrario come risucchiato dal precipitare all’indietro di un film e mostrava le sue parole sul palmo delle mani, le faceva volare come uccelli: si fermavano a mezz’aria in attesa del suono successivo. Oggi saliremo tutti all’Antico Convento dello Spirito Santo, il Musemuseo. Entreremo nella nave rovesciata della chiesa e aspetteremo l’improvvisa gioia di rivederlo, ma non col suo volto consueto, sarebbe troppo facile: interpreteremo la sua presenza dai segni di un’esasperata lontananza.
Ci saranno molti amici, con i diversi colori dell’amicizia, il rosso quella del cuore, celeste l’amicizia appena accennata, mistica ed esangue, l’amicizia nera che è quella vera, ne piangi e non perdona, e poi le altre, tante e vive come le piume di un pettirosso arlecchino, azzurro e cinerino. Per il freddo, Mario Carotenuto arriverà chiuso in un mantello su un cavallo, dipinto da Paolo Uccello, ma avrebbe preferito una Bugatti blu; Pietro Lista verrà in ritardo, quando tutto sarà finito, affranto per la bicicletta che gli si è rotta nella salita, sentirà la voce di Ugo e penserà di aver capito un segreto, il trucco che non si dice. Giancappetti girerà al tornio un ricordo, lo farà alto, col becco a due versi per versare l’acqua e il vino insieme, Ugo Marano gli si nasconderà tra la creta e le dita e il tornio correrà così veloce che nessuno potrà più fermarlo. Petti e Risi prepareranno un fondale catottrico con tanti piccoli specchi e ferri e legnetti ben tagliati per far perdere la strada al re della storia (in tutte le favole, nei racconti, c’è un vecchio re innamorato che non vuol morire): lavoreranno così veloci che tutto questo straordinario teatro sembrerà rifatto infinite volte. Quarta, Virginia Franceschi e Antonietta Acciani mettono sagome sulle sedie del teatro, alcune sono vive, s’alzano, vanno incontro a Ugo e scappano sul prato a godersi la pioggia che le asciuga. Intanto, Quarta, in un angolo, si prova la corona di carta che ha appena disegnato, una mitra argento e viola, e sembra vera. Inizia la rappresentazione, come in un circo e la sala delle confessioni: ognuno la sua parte, il regista è Ugo e nessuno lo sa, li chiama sulla scena, li sposta a lato e ognuno è felice di trovarsi a riposare nell’affanno di un altro che li fa scorrere sulla scacchiera in cerca di una nuova felicità. Sulla scena cresce in pochi istanti un grande albero, su ogni ramo c’è un protagonista dello spettacolo: ormai sta per sorgere, bianca, la luna. Su un ramo è saltato, agile come un acrobata, Nello Ferrigno, in cima sono corsi a incollare, sul ramo più alto, le foglie di magnolia Loredana Gigliotti e Giuseppe Latronico che non si lasciano un istante, poi Ugo mette un fiume tutt’intorno all’albero, che sommerge il prato e si ritira in un bacile, si fa ancora più piccolo ed entra in un ditale. Wanda Fiscina applaude per educazione, s’aspettava qualcosa di più, Danilo Mariani invece è felice, batte le mani di qua e di là per farsi udire da Ugo, vorrebbe tirarlo in un visibile gioco. Quando, a un tratto, una voce dall’alto, o dal basso, che insegue alle spalle, chiede di metterci al centro e disegnare la figura geometrica più perfetta: Franco Longo stende un grande foglio e disegna un cerchio blu, nel cerchio dipinge un leone poi lo cancella ma il ruggito rimane, e fa tremare. Adriana Sgobba disegna solo un triangolino giallo, equilatero, sulla testa di un burattino, al triangolino aggiunge una linea, forse è la luna, Francesco Raimondi un’onda di mare che s’attorce, cresce e nel fondo di se stessa scompare, poi altre onde che non si contano, sempre più vicine. Signorino, un quadrato, poi un altro, un intero paese, la chiesetta, la strada, la vecchietta che s’è scordata il nome di quel giovane che la invitava sempre a ballare e lei diceva no, e n’era innamorata. Fuori scena (si chiama Michela Coppola) una ragazza suona con arte la viola, la musica entra tra le mani di tutti, ne lega le dita, li fa prigionieri. Sergio Vecchio cerca di slegarsele ma le mani non ubbidiscono e sapientemente ne ride, piano.
Allora Ugo finalmente appare, ognuno lo vede in qualcosa che non sa, il vento improvviso, il suono acuto di un canto, il telefono che chiama, quel dolore al petto che per fortuna scompare.
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Non si può separare l'homo faber dall'homo sapiens
Antonio Gramsci
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L'arte di Ugo Marano
Il ricordo di Rino Mele ad un anno dalla scomparsa dell'immenso artista.
Foto ©Marius Mele
Ci trovammo in un’antica casa di Salerno, alta sul porto. Era la notte della luna più luminosa degli ultimi decenni (venerdì 18 marzo 2011), i giornali ne parlavano come di un evento, l’epifania della luce: da un balcone guardammo a lungo la luna, sembrava ci custodisse come fanno le madri quando dormono. Eravamo in una grande barca nel cielo, parlavamo uno di fronte all’altro e come fossimo stati entrambi dallo stesso lato. Da sempre, incontrandoci, disegnavamo progetti devastati dalle parole, stretti nella curva dolce delle immagini: straordinarie ipotesi che, poi, trovavamo sbarrate da impedimenti burocratici, difficoltà senza volto, le voci acute di piccoli cani a mordere la bella veste dell’utopia: dal tempo lontano della nostra amicizia, tanto più antico delle tue Feste delle idee a Capriglia trent’anni fa, nella bella casa con ardite logge, generose nell’abbandono, la galleria, il portico, le stanze dai balconi. In Lirica, un racconto del 1934, Yasunari Kawabata inizia dicendo che è strano il nostro modo di pensare i morti col volto dei vivi (“Se ti parlo ora che sei morto, sono infinitamente più felice di farlo non come se mantenessi ancora le sembianze che avevi in questo mondo, ma rivolgendomi al susino rosso carico di gemme fiorito precocemente davanti ai miei occhi”).
Oggi è un anno che tutti noi siamo andati via, lontano da te: sei rimasto dov’eri.
Un po’ come nelle fiabe sapienziali che a te piaceva tanto scrivere. Te ne racconto una che già sai. Un re, o un contadino, s’avventura nel bosco più fitto che ci sia, c’è un colle e vi s’inerpica e qui incontra un leone con la criniera che sembra mille ventagli estivi, una lince (ma può bastare un gatto selvatico) e la femmina di un lupo. Il re contadino ne ha paura, indietreggia, poi correndo scende il sentiero di sassi, torna nel bosco e qui incontra un’ombra, chiede ad essa aiuto, parlano, e iniziano insieme un viaggio che non finisce più.
Foto ©Marius Mele
Era nato scultore, plasmava nella creta sfingi argute e uccelli, chiedendoci -noi che l’ascoltavamo stupiti- di richiamarli dal volo: faceva teatro del suo parlare. Scolpiva il legno, la pietra porosa e leggera, ispessiva la carta e ne faceva pioggia, poi quell’acqua fermava e la capovolgeva per rappresentarne l’incendio, le fiamme voraci e ossessive. Sognava di stendere una fune tra le sponde di un fiume e corrervi in bicicletta fermando a mezz’aria (lui, a mezz’aria) l’applauso. Lavorava l’argilla come fosse lievito per il pane, non si stancava di affabulare, mischiare il falso della vita al vero dell’arte, a volte all’alba -quando ancora i sogni tormentavano dolcemente i suoi pensieri- camminava a testa in giù premendo i piedi sul pavimento del cielo e, nel correre, gridava un richiamo. Chi l’ha conosciuto ne sente accanto l’ansia, il pungere dei suoi occhi una domanda, l’ansia di una risposta nuova. Cercava, ad ogni passo, un ritmo che sorprendesse, svelasse un profilo ancora nascosto della realtà: per lui tutto aveva la forza complessa di una “fabbrica” dolce capace di dare la felicità. Le parole le amava come piccole forme perfette, un cubo lieve come le porte del vento, una piramide, la linea curva di un cerchio, la vertigine di un suono che giri intorno al proprio asse, non c’era niente da buttar via, non esisteva il superfluo, il brutto, nel suo mondo: bastava saper usare anche una carta gettata via, un colpo d’azzurro tra le pieghe contratte del foglio, uno spago da incollare, la polvere nera contenuta in una fiala, tutto bastava per farne una nave o il porto, un topo e la collina che lo divora. Gli piaceva salire le scale, ma la stessa ebbrezza provava nello scenderle di corsa per raggiungere il mare, la sua Cetara nascosta, cetra e lampara. Ugo Marano. Quante volte abbiamo letto insieme parole, giocato al teatro, attraversato le vele di una ferma barca sulla montagna. Giocavamo a sottrarci quello che ci donavamo. Non so, ora, se sto scrivendo per la sua morte, o è lui che per me parla di questa più profonda notte in cui attraversiamo piccole stanze e torture che non sappiamo nominare.
#ugo marano#ugo marano scultore#ugo marano artista#rino mele ricorda Ugo Marano#Ugo Marano foto Marius Mele
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L’inizio della conoscenza è lo stupore
Aristotele
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I paesi non si salvano tornando indietro, dal campanile non si può trarre alcuna linfa.
di Franco Arminio
La luna e i calanchi nasce dal fatto che quando sto in Lucania mi sento bene. Mi piace il fatto di vedere tanta terra e poca gente. Forse i lucani devono sentire che essere pochi non è un problema. Il problema ce l’hanno gli altri che sono troppi. Via via che il resto d’Italia si va riempiendo di capannoni e officine, cartelloni e pompe di benzina, ecco che il paesaggio lucano appare sempre più solenne. Viaggiando in macchina il traffico, mai concitato, ti dà modo di guardarti intorno. E dietro il paesaggio c’è il mito, ci sono le poesie, le narrazioni, ci sono Scotellaro e Sinisgalli, Pierro e Parrella.
La luna e i calanchi è una festa per far germogliare pensieri intorno all’Appennino e alla Lucania, per costruire una declinazione ulteriore della modernità in cui l’aria buona e il buon cibo abbiano più valore del Pil, una modernità che sappia conciliare l’utopia meridiana e lo scrupolo nordico. Si tratta di capovolgere punti di vista, posture, modi di stare al mondo. Bisogna voltare le spalle al Sud pensato come luogo di arretratezze, pensiero confezionato altrove, e privilegiare un Sud che pensa se stesso, che parte da se stesso. Chi ha stabilito che nei posti periferici ci debba essere spazio per le discariche e non per centri di ricerca, per punte avanzate del pensiero e dell’arte? So bene che oggi la vita nei piccoli paesi è assai difficile ed è assai difficile non allinearsi alla comune manutenzione dello sconforto. Forse una possibilità di resistenza è incoraggiare, incoraggiarsi, respingere le tentazioni paesanologiche. I paesi non si salvano tornando indietro, dal campanile non si può trarre alcuna linfa. La linfa sta negli intrecci, nelle relazioni, nell’apertura: il paese che è sempre stato il simbolo dell’isolamento vedrà volti, parole, scambi, idee incrociarsi fra loro.
La Luna e i calanchi nasce dalla semplice idea che c’è un paese consegnato alla letteratura da Carlo Levi e c’è una terra che si è salvata grazie al fatto che è una terra mossa. I calanchi si presentano con forme mutevoli, provvisorie. Il nostro desiderio è portare il meglio delle ricerche artistiche e delle tensioni civili che si stanno sprigionando nel nostro sud in questi anni. La crisi del modello urbano mette i luoghi da sempre considerati marginali in una posizione interessante. È come se sul margine oggi fosse più facile pensare e progettare qualcosa di nuovo. Ho dato un nome a questo clima ancora debole e vago: umanesimo delle montagne. So bene che nel sud sono ancora forti le milizie del rancore e dello scoraggiamento. Il sud è un ossimoro, presenta pericoli, i soliti pericoli, e opportunità nuove. Questa adiacenza è stimolante. Oggi, a saperla interpretare, anche in un piccolo paese si può fare una grande vita.
La luna e il calanchi non è un festival di intrattenimento. Non è un progetto di consumo culturale. Vogliamo portare in un paese persone che fanno cose diverse nella vita. E il cuore di tutto è l’intreccio tra politica e cultura, perché senza la politica la cultura non produce cambiamenti, mentre la politica senza cultura può produrre solo lo squallore che ha prodotto in questi anni. Da questo punto di vista ad Aliano l’incontro c’è già stato. Il festival è stato fortemente voluto e stimolato dal Presidente della Regione. Il mio rapporto con De Filippo è prima di tutto un rapporto di simpatia umana. E questo vale per tutte le persone che inviteremo ad Aliano. La lietezza, la voglia di ritrovare comunità, saranno il cuore del nostro fare. Non lanciamo sfide a nessuno, non abbiamo modelli da superare. Ci muoviamo in un terreno che unisce fragilità e passioni, perplessità e scatti immaginativi. E così possiamo vagheggiare di aprire nei calanchi un’ambasciata della luna. Forse Don Carlo da lassù si accorgerà di noi. Aliano da paese dell’esiliato diventa luogo dell’accoglienza. La spina dorsale del festival sarà la presenza di dodici ospiti, uno al mese, figure note e meno note, che staranno una settimana in Lucania e lasceranno una traccia della loro presenza: può essere un video, un racconto, un pezzo musicale, una scultura.
L’idea è di mettere insieme azioni materiali e suggestioni poetiche. C’è un programma di massima, ma andremo avanti ascoltando gli umori del luogo e delle persone che di volta in volta verranno nei calanchi. Cerchiamo creature percettive, persone che non militano per un modello di società già definito, ma vengono ad Aliano per costruirlo assieme questo modello. Personalmente non milito per la crescita e neppure per la decrescita. Mi sembrano entrambi modelli concepiti nel nord del mondo. Io credo che sia arrivato davvero il momento di costruire una visione del Mediterraneo interiore, una comunità che all’ateismo dell’economia oppone la serena obiezione del sacro e della poesia.
#la luna e i calanchi#franco arminio aliano#la luna e i calanchi 2012#la luna e i calnchi programma#umanesimo delle montagne franco arminio
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Storia di una metamorfosi: O' Catuozzo
Questa storia inizia qualche mese fa o qualche secolo fa, fate voi.
Quando nello scorso marzo decido di tagliare un piccolo bosco con mio padre ho le idee chiare fin da subito di cosa fare con quel legno: farne carbone con il vecchio metodo del catuozzo, la carbonaia. Un metodo antichissimo, tramandato di generazione in generazione per chissà quanti secoli e che giunto a mio nonno e alla sua generazione si è abbandonato.
Una follia.
Un metodo anacronistico di produzione in un luogo, seppur bellissimo ma difficilmente accessibile, come gli Antichi Mulini, in estate tempo di mare e vacanze, con l'intenzione di coinvolgere dei giovani per una settimana in tenda. Una summer school “boscaiola” di un sapere ormai scomparso con la pretesa di voler affrontare anche discorsi teorici rispetto a nuovi modelli di sviluppo del territorio con al centro il valore della ruralità e dell'innovazione sociale grazie alla collaborazione con l'Accademia Mediterranea del Societing.
Una vera follia.
Domenica 19 agosto arrivano a Calvanico, il mio paesino alle pendici dei Monti Picentini, un gruppo di ragazzi e ragazze con zaini e tende. Si accampano presso gli Antichi Mulini. Sono curiosi e pieni di energia. Sono l'avamposto della forza e del coraggio di chi vede oltre. Di chi vede in una follia una speranza.
E' così che il lunedì mattina accolgono l'arrivo del maestro Boscaiolo e Cravunaro (carbonaio) con un silenzio quasi scolastico. Giuseppe Erra, Zi Peppe o Scescuo è, fuor di retorica, uno degli ultimi boscaioli di questi monti in quanto diretto testimone di un mondo scomparso, fatto di asce per abbattere gli alberi, di lunghissime seghe a mano per ricavare dai tronchi le assi, di pagliai dove si dormiva per mesi, di quintali e quintali di carboni portati giù dai monti coi muli dopo estenuanti mesi a cuocere catuozzi. E' il nostro maestro del bosco, della terra e del fuoco. Trova la legna già pronta e tagliata, i nostri occhi che lo seguono in ogni attimo, le nostre mani al suo servizio. Ha visto 86 anni passare tra le sue di mani, ma la sua forza e la sua volontà è ben aldilà di ogni nostra e vostra immaginazione.
O Catuozzo è comme a nu cristiane: a vocca, o piette, e custate, e rine. E' un essere vivente, una creatura la carbonaia: la bocca, il petto, le costole, la schiena. La prima cosa a prendere forma è proprio la bocca, il camino, il cratere dove tutto inizia, dove la brace ardente che si getterà per l'accensione provecherà l'alchimia della combustione e della carbonizzazione.
La colonna vuota che s'innalza fa da portante ai primi giri di legna e il gioco della costruzione inizia ad apparire una danza. Tutti vi partecipiamo. La voce di Zi Pepp ci ricorda il lavoro e l'arte e quindi: i pezzi piccoli davanti, o piette, i tronchi più spessi dietro, e rine , a fortezze ro Catuozzo. Completata la catasta il gioco sembra quasi infantile.
Ma il compiacimento dura poco e si inizia la copertura: rami e felci e poi a fronna, il fogliame di sottobosco. L'ultima copertura di questo scrigno sono le zolle alla base e la terra a coprire.
Una montagna di terra con un bocca, un cratere: un vulcano. Il fuoco lo si accende a fianco e la brace va versata nel cratere. A riempire la grande bocca, sopra la brace versata, piccoli pezzi di legno lunghi quanto un palmo, e piveze. Il Catuozzo inizia a vivere, a respirare, Il suo è un lungo respiro di fumo. Ora aspettiamo che questo fumo prenda corpo e inizi a sbuffare, come una locomotiva. E' il segno che la combustione è partita. Si ridà a mangiare, si “governa” come si fa con gli animali, e si chiude la bocca con un coperchio. Questa operazione si ripete più volte solo nei primi due giorni.
Creata la creatura, ora siamo lì tutti ad ammirarne la vita. Ora va vegliata, giorno e notte. Governata e sorvegliata. O Catuozzo tene nguorpe o fuoco, o diavole (la carbonaia ha dentro di se il fuoco, il diavolo). O Cravunaro è chiuù diavole ro diavole perchè lo domina, lo governa.
Una settimana, un'intera settimana e al centro di tutto o' Catuozzo. Ma il tempo per vivere quel luogo, gli Antichi Mulini e il bosco rigoglioso che ci circonda non manca. Lo facciamo proprio con Zi Pepp. E in quel bosco risuona una voce antica, rivive una luce vera nei suoi occhi vivi. La fatica di un'ascia riaffora in quei ricordi, usi e modi di un lavoro ormai scomparso. Il bosco ha smesso di dare vita, ha smesso di essere una risorsa. Oggi è solo un costo, un immenso costo. Gli elicotteri sorvolano le nostre teste per molti giorni in questa settimana. Gli incendi devastano ettari ed ettari di macchia mediterranea anche sui monti che ci fanno da corollario su per la valle. Gli antichi boscaioli vivevano il bosco sempre. E il bosco dava sempre loro qualcosa. Quintali e quintali di legna secca, caduta a terra dalla naturale evoluzione delle ceppaie, il solo raccoglierla e portarla a valle produceva due effetti positivi: evitare di tagliare alberi per il fabbisogno quotidiano di legna e mantenere pulito il sottobosco così da limitare al minimo il rischio di incendi. Facciamo anche noi lo stesso: durante tutta la settimana l'intero fabbisogno di legna per i falò notturni, il forno, il barbecue viene coperto interamente dalla legna secca che raccogliamo nei boschi circostanti.
I fuochi notturni sono il punto di massima di ogni nostra giornata di lavoro, il ritrovo naturale di una comunità che va formandosi in questo sperduto bosco del Sud, il luogo dove nascono profondissime discussioni rispetto alle tematiche che decidiamo di affrontare in questo percorso di studio e ricerca tra mens et manus. Nel buio della notte e sotto un manto di stelle ci presentiamo, parliamo di noi e di ciò che pensiamo, ci guardiamo negli occhi con in faccia il riflesso del fuoco. Affrontiamo gli stimoli di riflessione di un percorso di studio della Societing Summer School che è stato definito “Glocal Solutions”.
Accogliamo intorno al falò anche i nostri compari cilentani che ci hanno onorato della loro presenza martedì 21: Antonio Pellegrino della Proloco di Caselle in Pittari che ci parla della stupenda esperienza di #Campdigrano e Angelo Avagliano della Tempa del Fico che ha riportato in questi vecchi mulini in disuso da quasi un secolo la sua farina di Carosella e Saragolla coltivata e macinata a Pruno di Laurino in Cilento. Farina che trasformiamo in pane durante il giorno, con un vero e proprio corso di panificazione con il lievito madre.
La cucina, il forno, i pranzi e le cene condivise occupano uno spazio di primordine nel tempo trascorso insieme durante questa settimana. Ogni momento diviene allo stesso tempo motivo di condivisione del lavoro e di apprendimento reciproco. La cucina di mamma Anna, in particolare, è di una semplicità antica: pasta fatta in casa con l'ottima farina di Saragolla di Angelo Avagliano sapientemente cavata per i cavatielli o stesa per le lagane coi ceci. E ancora le verdure di stagione nel solco della genuità contadina di questi territori: peperoni arrostini, zucchine alla scapece, melenzane allardate. Ad arricchire la nostra dieta i salumi di un maiale nero macellato secondo la tradizione nell'inverno precedente. E a corollario di ogni cena e pranzo l'insalata di pomodori dell'orto con il pane a freselle da noi sfornato. Tripudi di sapori autentici ancor più apprezzati dopo aver faticato.
La fatica non è mancata durante l'intera settima: ogni spazio vuoto riempito con lavori piccoli e grandi del bosco e della casa: dalla legna secca portata a valle alla raccolta delle mele di un'antica varietà, lavate e tagliate a mano per ricavarne il sidro. E nonna Brigida che ci svela la sua preziosa ricetta del croccante di nocciole, della varietà Tonda di Giffoni, coltivate e raccolte dei nostri noccioleti calvanicesi.
Ad una ad una, le nocciole, sgusciate a mano, poi tostate e pestate per poi essere ammalgamante con lo zucchero caramellato così da regalarci un morbido e profumatissimo croccante.
Un lavoro reso leggero dalla compagnia, talvolta dal suono della tammorra. Della tammorra, poi, abbiamo avuto l'onore di ospitare uno dei più grandi interpreti, giovedì 23, con una grandiosa festa notturna attorno al fuoco: il maestro Marcello Colasurdo.
I suoi canti in quel bosco a rievocare antiche voci di fatiche e nuovi suoni di speranza. La sua immensa umanità e il suo sorriso avvolgente, egli sa rendere omaggio alla nostra storia e alla nostra speranza.
Con Marcello Colasurdo giovedì sera arrivano anche tutti i ragazzi della Societing Summer School che si sta svolgendo parallelamente a Cava de Tirreni presso l'Ostello Borgo Scacciaventi. Arrivano a Calvanico con il mitico autobus di Nino Galdieri, un grande amico che rende possibile con estrema semplicità ciò che non lo è affatto. Li accolgo al castagneto e li accompagno ai Mulini attraverso un breve sentiero a piedi. Attraversano così il bosco anche loro, e come noi durante quei giorni, raccolgono la legna secca che trovano per strada portandola ai Mulini per il fuoco notturno. Fanno anche loro la conoscenza della carbonaia, accesa e fumante già da 4 giorni. Trascorreranno la notte ai mulini dopo aver danzato sulla voce e la tammorra di Marcello, intorno al fuoco generoso del bosco.
Intanto o Catuozzo coce (la carbonaia continua la cottura). Zi Pepp il secondo giorno inizia a fare dei fori, dall'alto e dai fianchi, dove il fumo sbuffa impetuoso, inizialmente bianco e grigiasto per poi schirirsi e divenire azzurro, viola. E' questo il segno che in quel punto la legna è carbonizzata, così che si procede a praticare altri fori più in basso.
Di giorno la presenza del maestro Boscaiolo ci rende tranquilli, ma la notte vegliare il nostro vulcano diventa un'impresa. Il fumo è molto più impetuoso, Zi Pepp ci ha insegnato che di notte la combustione è molto più veloce, e può capitare quindi di vedere dai fori venir fuori del fuoco. La nostra inesperienza ci rende insicuri. Tappiamo i buchi dove il fuoco ci pare avanzare. Ricacciare le fiamme è il principale compito del carbonaio vegliante, la combustione potrebbe essere totale e la catasta si tramuterebbe in un gran cumulo di cenere. Si dorme poco, si fanno dei turni. Le ultime sere sono le più dure.
Troviamo però una di queste notti, grazie a mio padre Gerardo che ci sostituisce nella veglia, anche il tempo per conquistare una vetta: è il Pizzo San Michele, che sovrasta il paesino di Calvanico: 1550 m e un panorama mozzafiato: dall'irpinIia al Golfo di Napoli, a quello di Salerno fin giù al Cilento!
I giorni passano e giunti a venerdì 24 sera è tempo di spegnere il Catuozzo per poi la mattina seguente aprirlo e tirare fuori il risultato. Zi Pepp con maestria tira giù piano la terra ormai cotta e incandescente, tanto da sembrar liquida e subito ricopre con nuova terra fresca. E' un lavoro rischioso e complicato. I carboni ardenti non debbono ossigenarsi, posso incendiarsi. Ci aiuta la vicinanza all'acqua ma il rischio è pur sempre alto.
La mattina seguente, ed è sabato 25 agosto, siamo tutti lì assepiati di buon mattino attorno al Catuozzo. Zi Pepp come ogni mattina è arrivato di buon'ora e sa che è il giorno del disvelamento, dell'epifania di questa metamorfosi avvenuta: dal legno al carbone. La pala colpisce sicura le fiancate del cumulo molto più piccolo di quant'era sette giorni fa. Il mistero si svela: i carboni sembrano risplendere sotto la terra.
La preziosa materia tanto agognata, pane per i vecchi carbonai, per noi orgoglio e speranza. Distesi per terra e separati dalla terra, i carboni hanno le stesse sembianze del legno, ne conservano forme e fatture, ma pesano ben un quinto della metria iniziale e soprattutto risplendono di un'azzurro violaceo, di una luce di nuova armonia. La stessa luce splende negli occhi di chi condivide quel momento, tanti e tutti giovani, anche chi non lo è più all'anagrafe. Poichè quel momento rimanda ad un momento vecchio e nuovo, ad un tempo di rinascita.
Ciò che è accaduto in questa piccola valle del Sud segna una tappa di un nuovo cammino. Un percorso iniziato dall'incontro di energie, di nuove menti e vecchie mani che vogliono fondersi e trovare una nuova via col faber e col sapiens. Un percorso che passa per OpenBosco, Campdigrano e tanti motivi d'incontro di studio e lavoro.
Un percorso iniziato qualche mese fa o qualche secolo fa, fate voi.
Dire grazie, provare riconoscenza, sono sentimenti dell'animo doverosi e necessari.
Perciò dico Grazie per ciò che è stato a Carmine Landi, che fin dall'inizio ha condiviso questa follia ed è stato compartecipe in tutto ciò che è stato realizzato. Dico Grazie alla sua famiglia, nonna Brigida e mamma Silvia, sempre presenti nel lavoro e nella paziente sopportazione. Dico Grazie allo zio Francesco Maiellaro, colui che rende possibile trasformare i sogni in realtà. Dico Grazie a Giuseppe Erra, Zi Pepp, vero maestro e giovane tra i giovani, Boscaiolo vero di una terra che ha dimenticato i suoi figli. Dico grazie a suo nipote Giuliano che ha risposto alla nostra chiamata con un si incondizionato e generoso. Dico Grazie a Gennaro Fontanarosa, vero amico onnipresente, sempre pronto nella buona e nella cattiva sorte a condividere le fatiche e le gioie di questo percorso. Dico Grazie ai pugliesi Anita Defelice e Daniele Pignasmile che dal #Campdigrano mi hanno seguito in quest'avventura e hanno dato oltre ogni umana generosità senza limiti tutto il loro se anche in questa avventura. Dico Grazie a Cristina, che ha avuto il coraggio di unirsi a noi e costruire con noi tanta bellezza. Dico Grazie ai ragazzi di Calvanico che hanno risposto al mio invito e che si sono resi pronti al servizio in ogni occasione. Dico Grazie a Francesco e Andrea che rispettivamente con foto e video il primo e con strambe ma profonde riflessioni il secondo hanno dato un validissimo apporto allla continua nostra crescita insieme. Dico Grazie ad Alfonso Tortora un grande professionista che ha fissato nella storia le immagini e i suoni di questa nostra storia e al suo piccolo Francesco, mascotte e protagonista delle belle conversazioni giornaliere. Dico Grazie a Jacopo Guedado e Aura Mele, tanto intrepidi da restare a dormire con noi senza sacco a pelo, capaci di contaminarci della loro intelligenza e bellezza. Dico Grazie a Giuseppe Jepis Rivello, Giuseppe Fiscina, Antonio e Rossella Torre fratelli cilentani che ci hanno onorato con la loro presenza e il loro aiuto negli ultimi giorni facendoci sentire il legame di una terra forte come il sangue. Dico Grazie a Giovanni Galdieri di DuegiSport che con la sua professionalità, il suo sostegno (le tende montate e prestate per l'occasione) e l'immensa generosa amicizia che solo poco uomini ancora sanno esprimere in maniera tanto incondizionata. Dico Grazie ad Alex Giordano, che ha creduto in questa follia e ci ha stimolato ad andare avanti dandoci il sostegno della Societing Summer School. Dico Grazie, infine, alla radici che mi sostengono, alla mia famiglia e alla mia bella compagna: infaticabili, instancabili, di cui ho approfittato enormemente in questi giorni, senza i quali molte delle cose realizzate non sarebbero state affatto possibili: mio padre Gerardo, mia mamma Anna, mia sorella Mariangelica, mio fratello Manuel Antonio, la mia bella Sandybel.
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Riflessioni pre Carbonaia
di Anita Defelice
Quando sotto la doccia non canto a squarciagola, penso.
Questa sera ho pensato a come prepararmi per la Societing Summer School Glocal Solutions, cosa che ha dato il via all'effetto domino ormai familiare.
Doccia, asciugamano, uno solo perchè è necessario partire leggeri, con me avrò la tenda, dormirò in tenda per almeno 6 notti, spazio minimo indispensabile per pochi indumenti, felpa, jeans, freddo, ma anche i suoni e le atmosfere della notte all'aperto, momenti di buio e luce intensi, giornate intense, si lavorerà, si camminerà, scarpe, ma anche carta e penna, perchè questa volta ho deciso di documentare, e libro.
Quello che ho cominciato a leggere da poco è di Serena Dandini, Grazie per quella volta, che poco dopo l'inizio parla delle cose e del nostro rapporto con queste: "eppure io non riesco a separarmi dalle cose..all'idea di separarci da una vecchia rivista..ci prende un'angoscia come se dovessero tagliarci un braccio. Non si riesce a buttar via nulla, ogni cosa sembra essenziale per il precario equilibrio della nostra esistenza. C'è chi conserva per preservare la propria identità, privato dalle cose cha ha posseduto si sentirebbe perso, senza passato, perchè è fragile"
Le cose non le possiamo possedere. Che siano beni materiali o ricordi, persone o convinzioni.
Non è affatto semplice e devo ripetermelo un sacco di volte allo specchio, fuori dalla doccia. "Si, Anita, proprio tu che trovi facile parlare del tuo passato, che non rispondi a chi ti chiede come sei, che ti domandi sempre perchè".
Non si può restare aggrappati ad un qualcosa per paura di cambiare. Devo correre il rischio, seppur lentamente, passo dopo passo. Devo separarmi dall'idea di essere una.
Tutti dovremmo abbandonare l'idea di pretendere di essere qualcuno. In questo istante
mi viene in mente che posso apparire azzardata, addirittura presuntuosa.
KRISIS, KRINO ovvero separo, separazione sono le parole da cui ha preso vita il percorso che mi accingo a fare.
La parola separazione implica un distacco molto forte, ma solo se pensiamo che l'oggetto o la persona da cui ci separiamo ci appartenga. Così non è.
Il boscaiolo taglia l'albero perchè da quella legna produrrà carbone. Lui opera una trasformazione.
Ecco, credo che non si debba più dire IO SONO, ma IO VORREI ESSERE, perchè la nostra "natura" sia sempre pronta ad essere rimboschita.
E io ho deciso di farlo avvicinandomi con discrezione e rispetto a quella natura che è più grande, perchè la sola a poter concedere il privilegio del valore. Dal valore, poi, arriva il coraggio che spazza via la fragilità.
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Roberto Zazzara a Caselle in Pittari accompagnato da Antonio Pellegrino alle prese con il magnifico, quanto sconosciuto, fenomeno carsico dell'inghiottitoio del Bussento: la Rupe
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La voce dei geni creatori, che precorrono i tempi, rimane spenta dalla tirannica opinione collettiva, e non ritrova eco che nelle future generazioni
Carlo Pisacane, Guerra Combattuta in Italia negli 1848-49
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