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La sola risorsa che ci resta è metterci alla finestra. C'erano dei passeri; c'erano degli stornelli; c'erano colombi in quantità, e un paio di cornacchie; tutti occupati a modo loro. Chi trova un verme, chi una lumaca. Uno svolazza su di un ramo, l'altro s'azzarda a saltellare sull'erba. Poi, un domestico in grembiule di tela verde attraversa il cortile. E' probabile che se la faccia con una delle sguattere, ma, siccome nessuna prova visibile ce ne viene offerta in pieno cortile, auguriamoci che tutto vada per il meglio e lasciamoli stare. Passano nuvole, ora leggere, ora dense; e l'erba al disotto di esse ne è vagamente offuscata. La meridiana segna l'ora, alla sua solita enigmatica maniera. Lo spirito si decise ad arrischiare qualche domanda, pigra ed oziosa, su questo modo di vita. "Vita" canta lo spirito, o piuttosto brontola come una marmitta sul fornello, "vita, vita, che cosa sei? Luce o tenebra, la pettorina di tela del secocndo cameriere o l'ombra dello stornello sull'erba?" Fuori, dunque, fuori, all'aria libera" Andremo in cerca di meraviglie, in questo mattino d'estate, tutto adorazione del prugno in fiore e dell'ape. E camminando bellamente, domandiamo allo stornello (che è un po' più domestico dell'allodola) che cosa gli passa per il cervello, quando, sul mucchio della spazzatura, tra gli avanzi di verdura, trova da beccare in fretta qualche capello della servetta. E noi, appoggiati allo steccato, giù a gridare: che cos'è la vita? La Vita, la Vita, la Vita! canta l'uccellino, quasi avesse sentito e capito ciò che significa questa brutta abitudine nostra, quest'indiscrezione di porre domande fuori e dentro casa, di scrutare e sfogliare la margherita; così, eh? così facciamo noialtri scrittori, quando siamo a corto d'argomenti per conto nostro. Allora, eh? dice lo stornello, allora vengono da me; e sono io che debbo dire loro cos'è la Vita, la Vita, la Vita, la Vita! Così, un passo dopo l'altro, arriviamo, seguendo il sentiero della landa, in cima alla collina, che è colore dell'acino azzurrino e viola cupo; là ci gettiamo a terra, a sognare, e i nostri occhi si posano su di una cavalletta, che trascina verso casa, nel suo buco, un fuscello di paglia. La cavalletta dice (se una parola così sacra e tenera può adoperarsi per quello stridore di sega), dice: la Vita? la Vita è fatica, o almeno interpretiamo così la raganella di quella misera strozza che la polvere soffoca. E la formica è d'accordo, e anche l'apre; ma se avremo la pazienza di aspettare finché giungano le falene che escono sul far della sera, furtive fra le campanule pallide, alla nostra domanda, ci sussurreranno all'orecchio, in un soffio, una di quelle selvagge e folli canzoni che i fili telegrafici cantano negli uragani di neve: tintinn - tinnn - zirrr - zirrr - zirrr... Che ri... che ri... che ridere, ridere, dicono le falene! E ora che abbiamo sentito il parere dell'uomo, degli uccelli e degli insetti - in quanto ai pesci, gli uomini che hanno trascorso anni in grotte solitarie e verdastre, per sentirli parlare, ci raccontano che i pesci non parlano mai e poi mai, quindi non sanno forse nemmeno che cosa sia la vita - dopo che, interrogati tutti quanti, non siamo diventati più savi, ma solo più vecchi e più freddi (non abbiamo forse anelato, almeno una volta, di incartare nelle pagine di un libro qualcosa di inflessibile e raro, che si potesse giurare che fosse il senso della vita?), dopo di che, dobbiamo tornarcene indietro, e confessare al lettore che aspetta trepidante e impaziente di sapere che cosa è la vita - ahimè, che cosa sia non lo sappiamo. (...) Orlando scambiò la barchetta da quattro soldi col brigantino di suo marito; e l'onda che aveva suscitato con la punta del piede si trasformò in un cavallone che stava per abbattersi sul Capo Horn. (...) "E' colato a picco" gridò angosciata - e poi, eccolo là che tornava a veleggiare sano e salvo tra le anitre, dall'altra parte dell'Atlantico. (...) "Una barchetta, un giocattolo, un giocattolo" ripeteva, rafforzandosi così nel concetto che non sono gli articoli di Nick Greene su John Donne, né la legge delle otto ore di lavoro, né i trattati, né le convenzioni industriali che contano; è qualcosa di inutile, improvviso, violento; uno zampillo; un getto d'acqua; qualcosa come quei giacinti (passava accanto ad una bella aiuola); mondo da ogni macchia, schiavitù, bassezza umana o amor proprio; qualcosa di sconsiderato, di ridicolo come il mio giacinto, mio marito voglio dire, di Bonthorp: ecco che cosa è - un giocattolo d'un battello sulla Serpentine, estasi - è l'estasi di gioia che conta. Parlava forte, aspettando che il flusso delle carrozze le permettesse di attraversare la strada a Stanhope Gate, perché queste sono le conseguenza di una vita lontano dal proprio marito - salvo quando il vento è caduto; cioè, si finisce per dire sciocchezze ad alta voce in Park Lane. Ah! Chissà come sarebbero andate le cose, se avesse vissuto con lui per tutto l'anno, come raccomandava la regina Vittoria. Ma così, l'immagine di lui le appariva improvvisa, in un lampo; e bisognava assolutamente che gli parlasse, senza indugio. A lei non importava nulla che poi ciò disturbasse il seguito del nostro racconto, che mancasse di logica. Nick Greene, con il suo articolo, l'aveva scaraventata in una disperazione profonda; il battellino da un soldo l'aveva innalzata al culmine della gioia. E così, mentre attendeva per attraversare la strada, ripeteva: "Estasi, Estasi".
V. Woolf, Orlando, VI
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Noi possiamo osservare un quadro "godendolo". In questo caso viviamo nella realizzazione del piacere estetico, nell'atteggiamento del piacere, che è appunto un atteggiamento della "fruizione". Poi possiamo giudicare "bello" il quadro con gli occhi del critico o dello storico dell'arte. Allora viviamo in un atteggiamento teoretico, nell'atteggiamento del giudizio e non più nell'atteggiamento valutativo, della fruizione. Se per "valutare", per "stabilire un valore" intendiamo una disposizione emotiva dell'animo, siffatta che noi viviamo in essa, non possiamo definirla un atto teoretico. Se invece, come avviene spesso e in modo piuttosto equivoco, intendiamo per valutare un ritenere valido, un ritenere di ordine giudicativo, eventualmente un predicare su quel determinato valore, il termine valutare esprime una disposizione teoretica e non emotiva. In quest'ultimo caso (...) l'opera d'arte è oggettiva in un modo completamente diverso: è un che di intuito, ma non solo di intuito sensibilmente (infatti non viviamo nell'attuazione della percezione), è bensì intuito assiologicamente. (...) Vivendo nell'intuizione meramente sensibile, nel grado inferiore, attuandola teoreticamente, abbiamo colto teoreticamente e nel modo più diretto, una mera cosa. Passando ad afferrare esteticamente dei valori, a valutare dei valori, abbiamo più che una mera cosa, abbiamo una cosa col carattere dell'esser-così (oppure con l'espresso predicato) del valore, abbiamo una cosa di valore. Questo oggetto-valore, il cui senso oggettuale implica il carattere dell'essere costituito in quanto ente-valore, è il correlato dell'atto teoretico che coglie il valore. È quindi un oggetto di grado superiore. Osserviamo che la valutazione generale-originale del valore o, in termini generali, che qualunque coscienza come tale, che costituisca originariamente un oggetto di valore, implica necessariamente una componente che rientra nella sfera dell'emotività. La costituzione più originaria del valore si realizza nell'ambito emotivo, è quella dedizione preteoretica e fruitiva (nel senso più largo della parola) del soggetto egologico che sente, una dedizione per la quale, già decenni fa, in certe mie lezioni, avevo proposto l'espressione percezione del valore. Quest'espressione designa qualcosa di analogo, nella sfera dei sentimenti, alla percezione, la quale, nella sfera dossica, significa la presenza originaria (autoafferrante) dell'io all'oggetto. Nella sfera del sentimento si ha, quindi, quel sentire per cui l'io vive nella coscienza di essere presso l'oggetto "stesso" sentendolo, e proprio a questo allude l'espressione "godere", ecc.
E. Husserl, Idee II, p. 13-4
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Esaminiamo per un attimo una mente comune in un giorno comune. La mente riceve una miriade di impressioni - banali, fantastiche, evanescenti o scolpite con l’acutezza dell’acciaio. Vengono da ogni lato: una pioggia incessante di atomi; e mentre cadono, mentre si informano nella vita di un Lunedì o di un Martedì, l’accento cade in modo ogni volta un po' diverso; il momento di importanza cruciale si sposta: stava lì, non qui; ecco che allora se lo scrittore fosse un uomo libero e non uno schiavo, se potesse scrivere quel che sceglie di scrivere e non quel che deve, se potesse basare il proprio lavoro sui suoi sentimenti e non sulle convenzioni non ci sarebbero più trame né commedie, né tragedie, né storie d'amore, né catastrofi in stile preconfezionato. La vita non è una serie di lampioncini disposti in forma simmetrica, la vita è un alone luminoso, un involucro semitrasparente che ci circonda dai primordi della coscienza fino alla sua fine. E non è forse compito del romanziere saper rendere questo continuo mutare, questo spirito sconosciuto e inafferrabile, qualsiasi aberrazione o complessità porti con sé, con il minimo intervento di ciò che è ad esso esterno ed estraneo? Non chiediamo solo coraggio o sincerità, noi suggeriamo che l’oggetto reale del romanzo sia un po’ diverso da quello che siamo abituati a pensare. […] Registriamo gli atomi così come essi cadono sulla mente e nell'ordine in cui cadono, tracciamo il disegno, per quanto sconnesso o incoerente sia all'apparenza, che ogni immagine o evento incide sulla coscienza
V. Woolf, Modern Fiction (1919), in The Common Reader, vol. I
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La direzione della scienza è determinata in primo luogo dalla nostra immaginazione creativa e non dall'universo di fatti che ci circonda. Se la ricerca ha sufficiente slancio, l'immaginazione creativa troverà, probabilmente, una nuova evidenza per corroborare anche il più 'assurdo' dei programmi. Questa attenta ricerca di una nuova evidenza confermante è perfettamente lecita. Gli scienziati concepiscono le loro fantasie e poi vanno a caccia, in modo altamente selettivo, di fatti nuovi che si adattano a queste fantasie. Questo processo può essere descritto come 'la scienza che crea il proprio universo' (purché si tenga presente che 'crea' viene qui usato in un senso un po' provocatorio ed eccentrico).
I. Lakatos, La falsificazione e la metodologia dei programmi di ricerca
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11.6.1916 Che so di Dio e del fine della vita? Io so che questo mondo è. Che io sto in esso, come il mio occhio nel suo campo visivo. Che in esso è problematico qualcosa, che chiamiamo il suo senso. Che questo senso non risiede in esso ma fuori di esso. Che la vita è il mondo. Che la mia volontà compenetra il mondo. Che la mia volontà è buona o è cattiva. Che, dunque, bene e male ineriscono in qualche modo al senso del mondo. Il senso della vita, cioè il senso del mondo, possiamo chiamarlo Dio. E collegare a ciò la similitudine di Dio quale padre. Pregare è pensare al senso della vita. Io non posso guidare gli eventi del mondo secondo la mia volontà; al contrario, sono affatto impotente. Solo in un modo posso rendermi indipendente dal mondo - e dunque, in un certo senso, dominarlo rinunziando a influire sugli eventi. 5.7.1916 Il mondo è indipendente dalla mia volontà. Anche se tutto ciò che desideriamo avvenisse, tuttavia ciò sarebbe solo, per cosi dire, una grazia del fato, poiché non v’è, tra volontà e mondo, una connessione logica che garantisca tale connessione, e comunque questa stessa supposta connessione fisica non potremmo volerla a sua volta. Se il volere buono o cattivo ha un effetto sul mondo, lo ha solo sui limiti del mondo, non sui fatti, su ciò che non può essere raffigurato dal linguaggio ma solo mostrato nel linguaggio. In breve, il mondo allora deve perciò divenire un altro mondo. Esso deve, per così dire, crescere o decrescere in toto. Come per aggiunta o caduta d’un senso. Come pure alla morte il mondo non si àltera, ma cessa d’essere. 6.7.1916 E pertanto ha pur ragione Dostoevskij quando afferma che chi è felice compie il fine dell’esistenza. Oppure si potrebbe anche dire che compie il fine dell'esistenza chi non ha più bisogno d’un fine fuori della vita. Vale a dire, chi è soddisfatto. La risoluzione del problema della vita si scorge allo sparir di esso. Ma si può vivere così che la vita cessi d’essere problematica? Che si viva nell'eterno e non nel tempo? 7.7.1916 Non è forse per questo che uomini, cui il senso della vita divenne, dopo lunghi dubbi, chiaro, non seppero poi dire in che consisteva questo senso? Se posso immaginare una «specie di oggetti», senza sapere se vi siano oggetti così, devo essermene costruita l’immagine primitiva. Non si fonda su questo il metodo della meccanica? 8.7.1916 Credere in un Dio vuol dire comprendere la questione del senso della vita. Credere in un Dio vuol dire vedere che i fatti del mondo non son poi tutto. Credere in Dio vuol dire vedere che la vita ha un senso. Il mondo mi è dato, vale a dire la mia volontà si volge al mondo completamente dal di fuori, come a un fatto compiuto. (Che cosa sia la mia volontà non so ancora.) Quindi abbiamo la sensazione d’essere dipendenti da una volontà estranea. Comunque sia, ad ogni modo noi siamo in un certo senso dipendenti, e ciò da cui siamo dipendenti possiamo chiamarlo Dio. In questo senso, Dio sarebbe semplicemente il fato o, il che è lo stesso, il mondo - indipendente dalla nostra volontà Dal fato posso rendermi indipendente. Vi sono due divinità: il mondo ed il mio Io indipendente. Io sono o felice o infelice, questo è tutto. Si può dire: bene o male non v’è. Chi è felice non deve aver timore. Neppure della morte. Solo chi vive non nel tempo, ma nel presente, è felice. Per la vita nel presente non v’è morte. La morte non è evento della vita. Non è un fatto del mondo. Se, per eternità, s'intende non infinita durata nel tempo, ma 'intemporalità', si può dir che viva eterno colui che vive nel presente. Per vivere felice devo essere in armonia con il mondo. E questo vuol dire «esser felice». Allora io sono, per così dire, in armonia con quella volontà estranea dalla quale sembro dipendente. Ciò vuole dire: «io faccio la volontà di Dio». Il timore della morte è il miglior segno d’una vita falsa, cioè cattiva. Se la mia coscienza turba il mio equilibrio, io non sono in armonia con Qualcosa. Ma che cosa? Il mondo? Certo è corretto dire: La coscienza è la voce di Dio. Ad esempio: mi rende infelice pensare d’aver offeso il tale e il tal altro. E' la mia coscienza? Si può dire: «Agisci secondo la tua coscienza comunque essa sia»? Vivi felicemente!
L. Wittgenstein, Quaderni 1914-1916
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Il mondo dei valori è semplicemente il mondo delle nostre azioni, dei nostri fini e dei nostri criteri morali. Il problema dei valori è la bussola che dobbiamo seguire per mantenere la rotta nella vita. A questa bussola le religioni e le filosofie hanno dato nomi diversi: chi la chiama felicità, chi volontà di Dio, chi senso della vita, chi altro ancora. I nomi sono diversi perché è diverso lo spirito dei vari gruppi umani. Non intendo sottovalutare questa diversità: però ho l’impressione che tutte queste varie formulazioni cerchino di rendere l'idea di un rapporto tra l’uomo e un principio d’ordine, un ordine centrale. Noi tutti sappiamo, naturalmente, che la nostra realtà dipende da come è strutturata la nostra coscienza: possiamo parlare oggettivamente solo di una piccola parte del nostro mondo. Ma quando cerchiamo di entrare nella sfera del soggettivo non possiamo ignorare questo principio d’ordine, e considerare le forme che popolano questo ambito alla stregua di fantasmi o di puri accidenti. Certo, la sfera soggettiva di una persona può trovarsi in gran disordine, cosi come avviene con una nazione. I demoni possono scatenarsi e provocare gran danni: o, se si vuole una formulazione più scientifica, talvolta dal principio d’ordine, dall'ordine centrale, si separano zone d’ordine parziale che sono incompatibili e che prendono il sopravvento. Ma in ultima analisi il principio d'ordine, l’ordine centrale, o l’Uno, come si chiamava un tempo con un termine comune anche alla religione, non può non vincere. E quando si ricercano valori in cui credere non si ricercano altro che le azioni in armonia con l'ordine centrale, e in quanto tali scevre dalla confusione che nasce dalle zone d'ordine parziale. Si intuisce il potere dell'Uno dal fatto stesso che riteniamo l’ordine buono, e il disordine o il caos cattivi. La vista di una città rasa al suolo dalla bomba atomica ci riempie d’orrore; un deserto trasformato in giardino ci rallegra. Nella scienza l'ordine centrale si riconosce dal fatto che s'impiegano metafore quali “la natura e fatta secondo questo disegno". È in questo senso che il mio concetto di verità sfiora la realtà dell'esperienza religiosa. E sento che questo legame si è fatto più forte da quando abbiamo elaborato la teoria dei quanti. Infatti la teoria dei quanti ci permette di formulare processi ordinati in un vasto campo per mezzo di un linguaggio matematico astratto. E se cerchiamo di esprimere questi processi ricorrendo al linguaggio ordinario, ecco che ci troviamo costretti a ricadere sulle analogie, sui punti di vista complementari che comportano paradossi e contraddizioni apparenti.
W. Heisenberg, Fisica e Oltre, pag. 234-5
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La storia insegna che di un popolo si conserva meglio quella stirpe in cui la maggior parte degli individui possiede vivo il senso della comunità che consegue all’uguaglianza dei loro princìpi abituali e indiscutibili, che consegue, dunque, alla loro fede comune. Qui il costume buono e onesto si rafforza, qui si impara la subordinazione dell'individuo e sin dalla prima infanzia si dà in dono al carattere quella fermezza, che vien poi ancora instillata con l'educazione. Il pericolo di queste comunità forti, basate su individui pieni di carattere e di ugual natura, è il progressivo instupidimento, via via accresciuto dall'eredità, che come un’ombra accompagna ogni stabilità. Sono gli individui meno vincolati, molto più insicuri e moralmente più deboli di quelli da cui dipende il progresso spirituale di tali comunità: essi sono gli uomini che tentano cose nuove e molteplici. Innumerevoli sono gli individui di questo tipo che, per la loro debolezza, periscono senza esercitare un influsso molto sensibile; ma in generale, soprattutto quando hanno discendenti, essi indeboliscono l'elemento stabile di una comunità e di tanto in tanto producono in esso una ferita. Proprio in questo punto ferito e più debole viene per così dire inoculato qualcosa di nuovo a tutta la comunità; ma essa dev'essere nell'insieme tanto forte da poter accogliere nel suo sangue e assimilare questo elemento nuovo. Le nature devianti sono della massima importanza ovunque debba prodursi un progresso; ogni progresso deve nell'insieme esser preceduto da un parziale indebolimento. Le nature più forti conservano il tipo, quelle più deboli contribuiscono a farlo evolvere. — Qualcosa di simile avviene per l'individuo singolo: raramente si ha una degenerazione, una mutilazione, persino un vizio e in genere una perdita fisica e morale senza che si produca un vantaggio da un'altra parte. L'uomo malato, ad esempio, in mezzo a una stirpe irrequieta e bellicosa avrà maggiori possibilità di starsene appartato e di diventare più saggio, l'orbo avrà un occhio più acuto, il cieco guarderà più profondamente nel suo intimo e ad ogni modo avrà un orecchio più fino. In questo senso, la famosa lotta per l'esistenza non mi sembra essere l'unico punto di vista dal quale possano spiegarsi il progredire o il rafforzarsi di un uomo o di una razza. È necessario, piuttosto, il concorso di due elementi diversi: in primo luogo l'accrescimento della forza stabile tramite l'unione degli spiriti nella fede e nel sentimento comune; poi la possibilità di realizzare scopi superiori con il presentarsi di nature degeneranti e, in causa loro, di parziali indebolimenti e ferite della forza stabile; proprio la natura più debole, in quanto più libera e delicata, rende in genere possibile qualsiasi progresso. Un popolo che in qualche punto sia debole e poco compatto, ma nell'insieme ancora forte e sano, è in grado di ricevere l'infezione del nuovo e di incorporarla a suo vantaggio. Per l'uomo singolo, il compito dell'educazione suona così: renderlo così stabile e sicuro che egli nel suo tutto non possa più esser deviato dalla sua strada. Allora però l'educatore deve produrgli delle ferite, o utilizzare quelle che il destino gli ha inflitto, e una volta sopraggiunti il dolore e il bisogno, nei punti feriti può anche venir inoculato qualcosa di nuovo e di nobile. Tutta la sua natura accoglierà ciò in sé e ne farà intuire in seguito, nei suoi frutti, l'effetto nobilitante. — Per quanto concerne lo Stato, Machiavelli dice che «la forma dei governi è di scarsissima importanza, benché la gente di mezza cultura la pensi diversamente. Il grande scopo dell'arte del governo dovrebbe essere la durata, che compensa ogni altra cosa, essendo molto più preziosa della libertà». Solo con una durata massima, sicura nelle sue basi e garanzie, è possibile in genere uno sviluppo continuo e una inoculazione nobilitante. Certamente la pericolosa compagna di ogni durata, l'autorità, come sempre si opporrà.
(F. Nietzsche, Nobilitazione tramite la degenerazione, 224, Umano troppo umano)
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Filosofia, etica e vita
I miei interessi prevalenti sono di filosofia teoretica e Kant aveva perfettamente ragione quando scriveva che confondere i confini delle scienze non significa accrescerle ma deformarle (KrV, BVII). I diversi saperi hanno categorie, oggetti, modi di ragionare, ... propri e non direttamente commensurabili.
Questo però non toglie che l'uscita dall'atteggiamento naturale, necessaria per giungere sul terreno propriamente filosofico (trascendentale, potremmo dire) in qualsiasi ambito, renda impossibile per me che vivo nel mondo reale come uomo tra uomini non pormi il problema etico. Vivere nello stato di minorità non mi è più possibile, perché colgo la mia stessa prospettiva, e sento di doverla determinare entro un quadro di senso. La sola morale non basta più.
Lo stesso ragionamento ovviamente vale in senso contrario: il filosofo morale non può dimenticare la problematicità del mondo entro cui agisce, o peggio ancora sacrificarla (come fa ad esempio Ferraris, ma non è certo una novità) in nome di una pretesa istanza etica.
La consapevolezza filosofica è un atteggiamento che deve essere vissuto nella completezza della propria esistenza, indipendentemente dall'ambito entro il quale si muovono le proprie analisi specifiche, perché con tale atteggiamento noi viviamo una vita completa, assolutamente unica ed interconnessa, senza che, beninteso, questo infici la distinzione di fondo dei diversi piani (ad esempio etico e gnoseologico).
Kant aveva indubbiamente colto questo aspetto quando sottolineava come le domande cui egli cercava di rispondere (Che cosa posso sapere? Che cosa devo fare? Che cosa mi è lecito sperare?) non fossero altro che aspetti diversi di un unico problema: Che cos'è l'uomo? (Logik, Einleitung, II).
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La realtà non esiste. Deve incontrare il vuoto (...) per cominciare, partendo di lì, a vedere, sia pure le cose più umili, e ad afferrare quella che chiama la realtà - la seduzione del puro istante, l'insignificante scintillazione astratta subito spenta, che non rivela niente e subito ritorna al vuoto che ha appena rischiarato. E l'esperienza dell'istante: niente di più facile, si potrà dire; facile, non so, ma esige tale separazione da sé, un'umiltà così grande, una fedeltà così totale verso un potere illimitato di dispersione (l'essenza dell'infedeltà - alla presenza, all'identità) che chiaramente rivela il rischio che bisogna correre, alla fine. Tradimento. "Riconosco che è esatto, io non ho il dono della realtà. Io scarnisco deliberatamente fino ad un certo punto, perché non ho fiducia nella realtà...". Il vivente, la vita non bastano e non garantiscono niente. Fedeltà. Per Virginia Woolf, dunque, la realtà non esiste. Ma questa vacanza del reale non è un'assenza. La Woolf non è, tutto sommato, una nominalista. La Woolf restò fedele alla realtà, ogni sfiducia è episodica e troppo dichiarata. Il fatto è che a lei la realtà si mostra come divisa in due, perpetuamente scissa: da una parte ciò che si vede, si può dire, si può comunicare; ed è tutto quello che non importa: è la storia, la casa, la sua celebre casa editrice; dall'altra ciò che non si vede, ciò che non si dice, ciò che sappiamo incomunicabile per sempre: un mito dell'Assoluto e dell'Autentico, in fondo come uno scrittore dell'Ottocento ora deluso. Fra queste due "realtà", fluttua quella strana e singolare materia è la letteratura: si può parlare di tutto (tutto ciò di cui parla la letteratura) perché è ovviamente memoria, finzione, arbitrio, romanzo: anche se il tessuto narrativo di ogni romanzo della Woolf è fornito precisamente da ciò che non si comunica (i monologhi interiori, il flusso di coscienza, ecc.), quasi a indicare che, pure, alla letteratura è affidato il compito di "esprimere" nonostante lo scacco cui è destinato il problema dell'espressione. (...) Residui. Ma l'insicurezza rimane. Il legame con la dispersione, con la discontinuità, col frammentario splendore delle immagini, col fascino luminoso dell'istante, è un cammino terribile, una terribile felicità, soprattutto quando deve, alla fine, produrre un libro. Per radunare il disperso, fare il discontinuo continuo, stringere il vago in un tutto unificato... (...) La deriva. La frase di Virginia Woolf è breve, singhiozzante, smozzicata. La sua sintassi si sfrangia in rivoli infiniti, ricca di echi, di ritorni allusivi. E' una paratassi nonostante la sua complessità. Eppure, tutto sommato, questa paratassi ci appare come una ipotassi prima vagheggiata, e poi degradata, perduta. All'inizio c'è un progetto (che noi ricostruiamo in controluce, ma che ovviamente non compare mai in scena) di abbracciare la realtà nel suo insieme, in una lunga frase infinita. Però non ne viene fuori altro che spezzettamento, fallimento: sonorità, soggettività, espressione, ritmo, effetto speciale di ogni parola. Quasi che (...) non si potesse arginare l'emorragia della realtà altrimenti che attraverso l'attribuzione ad ogni singola parola d'un effetto conclusivo, a sé stante, "pieno".
F. Cordelli, Le voci in capitolo, in V. Woolf, Tra un atto e l'altro, Guanda
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Per evitare la relativizzazione di senso, per fare in modo cioè che essa non dipenda da un'assunzione del singolo esserci, variamente configurabile, Heidegger fa del senso (...) qualcosa di sempre già presupposto: un orizzonte che tutto circoscrive e struttura, e che risulta, appunto, preliminarmente dato. Varie, poi, sono le configurazioni che il senso può assumere nell'ambito di un effettivo processo di comprensione. In definitiva, però, il senso ultimo è dato dall'essere, concepito e articolato nella sua costitutiva temporalità. Al di là dell'essere e della sua dinamica temporale non si può andare: la domanda sul senso, cioè, non si può riproporre all'infinito. Potremmo allora dire, in altri termini, che il senso dell'essere consiste proprio nel suo imporsi, nel suo manifestarsi come verità, nel dirsi fattuale del suo movimento temporalmente strutturato. Ma questo significa che l'essere, a motivo di un tale imporsi, non ha senso esso stesso, bensì semplicemente si dà. Vi è dunque una fatticità anche dell'essere, e non solo dell'esserci. E in ciò può essere riscontrato un persistente residuo metafisico, con riferimento non più, soprattutto, all'ambito greco, ma alla tradizione cristiana. Cerchiamo di chiarire questo punto. L'esito a cui siamo pervenuti [al termine di Essere e Tempo] non è insostenibile perché si rivela essere insensato. Non è detto, infatti, che la domanda sul senso debba essere necessariamente posta: la sua formulazione o la rinuncia ad essa è frutto di una scelta, caratteristica della nostra cultura, che apre percorsi differenti e può avere risposte. La difficoltà invece proviene, più precisamente, dal fatto che, in questo caso, è appunto ciò che si presenta come garanzia e fonte di senso a risultare insensato. Anche in questo caso, come avviene nella tradizione religiosa ebraico-cristiana, la nozione di senso non si configura come autoreferenziale. Ma mentre in quei contesti religiosi la possibilità di un reiterato domandare si estingue nell'assunzione di quel mistero di Dio, che la fede preventivamente accoglie, non così accade nel caso del filosofo. Al cospetto di ogni 'che', di ogni fatto, il filosofo è indotto a chiedersi 'perché'. E tanto più questo accade quando egli si trova di fronte alla necessità di assumere ingiustificatamente proprio ciò che è all'origine di ogni giustificazione: tanto più, cioè, davanti all'insensatezza del senso.
A. Fabris, "Essere e Tempo". Introduzione alla lettura, Cap.5: Conclusione
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Innanzitutto, dobbiamo sottolineare che la fisica classica è essa stessa indeterminata in un certo senso. Si crede generalmente che questa indeterminazione, cioè il fatto che non sappiamo prevedere il futuro, sia una peculiarità quantistica, e questo viene detto per spiegare il comportamento della mente, la sensazione del libero arbitrio, ecc. Ma se il mondo fosse classico - se le leggi della meccanica fossero quelle classiche - non è per niente ovvio che la mente non si troverebbe più o meno nella stessa situazione. È vero, dal punto di vista classico, che se conoscessimo la posizione e la velocità di ogni particella nel mondo, o in una scatola piena di gas, potremmo esattamente prevedere ciò che accadrà. E perciò il mondo classico è deterministico. Supponiamo, tuttavia di avere una possibilità finita di precisione e di non sapere esattamente dove si trovi un certo atomo, a meno, diciamo di una parte su un miliardo. Allora, quando quello si muove ed urta un altro atomo, per il fatto che già non conoscevamo la sia posizione che a meno di una parte su un miliardo, ci troviamo di fronte a un errore ancora maggiore sulla sua posizione dopo l’urto. E naturalmente, il fenomeno si amplifica alla successiva collisione, fino a divenire una grandissima incertezza. Soltanto per dare un esempio: l’acqua straripa da una diga e schizza dappertutto. Se ci troviamo nelle vicinanze, di tanto in tanto una goccia ci finisce sul naso. Questo sembra avvenire completamente a caso, eppure tale comportamento dovrebbe essere prevedibile in base a leggi puramente classiche. L’esatta posizione di tutte le gocce dipende da ogni piccola vibrazione dell’acqua prima di urtare la diga. In che modo? Le più piccole irregolarità sono ingrandite nella caduta, in modo che alla fine si ottiene un comportamento completamente casuale. È ovvio che non possiamo in realtà prevedere la posizione delle gocce, a meno di non conoscere il moto dell’acqua in modo assolutamente esatto. Parlando con maggior rigore, data una precisione arbitraria, non importa quanto, si può trovare un tempo abbastanza lungo da non poter più fare delle previsioni valide per un così lungo tempo. Ora, il punto è che questo intervallo di tempo non è molto grande. (…) Se si assume una precisione di una parte su un miliardo di miliardi di miliardi - non importa quanti miliardi aggiungiamo, purché ad un certo punto ci fermiamo - ci può capitare di trovare di conseguenza un tempo inferiore a quello impiegato a formulare la precisione, dopo di che non siamo più in grado di prevedere ciò che avverrà! Non è perciò chiara l’affermazione che dall’apparente libertà ed imprevedibilità della mente umana, avremmo dovuto capire che la fisica classica “deterministica” non sarebbe mai riuscita a spiegarla, ed in conseguenza accogliere la meccanica quantistica come una liberazione da un universo “completamente meccanicistico”. Giacché anche nella meccanica classica si ha questa indeterminatezza, da un punto di vista pratico.
R. Feynman (et al.), La Fisica di Feynman, Cap. 2, Par. "Conseguenze di natura filosofica"
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Come potrebbero dunque le nostre idee, che si succedono e si sostituiscono l’una all’altra in un costante mutamento e che non rappresentano così altro se non un ininterrotto divenire temporale, riprodurre in noi una realtà esterna incondizionata e immutabile? L'idolo della «materia assoluta», assieme a quello della rappresentazione assoluta, deve cosi essere spezzato. Una volta che si riconosca che la singola rappresentazione deve il suo significato e il suo contenuto conoscitivo unicamente alle relazioni, che essa rappresenta e contiene in sé, tutte le conclusioni ulteriori sono date in modo necessario. Tutti i rapporti infatti — come Berkeley mette acutamente in rilievo — racchiudono un atto dello spirito e non possono venir pensati isolatamente da questo. Il puro contenuto della percezione particolare tende sempre a essere proiettato in un «al di là» trascendente e riallacciato a un archetipo sussistente per sé; l’atto della connessione, invece, si realizza e si esaurisce compiutamente nell’io, ritrovandovi il suo unico «modello». La «realtà» di un contenuto tocca noi solo per il modo con cui esso è dato alla nostra rappresentazione; l’errore basilare di principio, che determina tutti gli altri, consiste nel tentativo di abolire tale rapporto con una separazione arbitraria, isolando cosi gli oggetti della coscienza dalle condizioni della coscienza, secondo cui soltanto quelli ci sono conosciuti. L’io pensante e il contenuto pensato si riferiscono necessariamente l'uno all'altro; chi cerca di separare questi due poli contrapposti e di considerarli in un astratto isolamento, distrugge con questo taglio l’organismo e la vita stessa dello spirito. (...) «Reali» sono per noi quei gruppi di sensazioni, che a differenza dei prodotti vaghi e mutevoli della fantasia, rivelano una struttura immutabile, un’omogeneità e una ripetizione costanti. Si presenta ora, in luogo di quello concretamente oggettivo, un criterio puramente ideale; ciò che rende i fenomeni «oggetti» è l’ordine e la necessità che in essi si esprime. In questa dichiarazione Berkeley si trova esattamente d’accordo, persino nelle parole, con la determinazione concettuale del «fenomeno» e della sua realtà di Leibniz. Proprio questo accordo, peraltro, chiarisce nettamente il contrasto dei due metodi: infatti, mentre in Leibniz la connessione dei fenomeni, che offre la garanzia della loro realtà, si fonda sulle il regole ideali dell’aritmetica, della geometria e della dinamica, risalendo cosi in estrema analisi a forme razionali di validità universale e necessaria, in Berkeley ciò che ci ragguaglia sul loro collegamento è semplicemente l’associazione empirica delle rappresentazioni. «Reale» è non soltanto il contenuto della percezione attuale, ma anche tutto ciò che vi si collega secondo una regola empirica. Noi sosteniamo a buon diritto che gli oggetti esistono anche al di fuori dell’atto percettivo momentaneo, ma non per questo li poniamo al di fuori di qualsiasi rapporto con la coscienza, ed esprimiamo con ciò unicamente l'attesa di percezioni possibili, che secondo determinate condizioni possono realizzarsi per noi. "Gli alberi sono nel giardino, che io voglia o non voglia, che io li rappresenti o non li rappresenti; ciò però significa semplicemente che appena io mi avvicini e apra gli occhi, dovrò necessariamente vederli" [Berkeley, Diario Scientifico]. La dottrina idealistica può dunque qui far suo il modo di esprimersi della visione comune del mondo. (...) Il concetto di legge naturale costituisce cosi l’indispensabile punto di riferimento del nuovo concetto di realtà qui coniato. La garanzia della realtà non sta semplicemente nella materia dell impressione sensibile, bensì nella connessione necessaria clic tale materia acquista nella considerazione scientifica. Il valore qui assegnato alla scienza è certo legato alla condizione che essa si accontenti di descrivere i fenomeni nella loro coesistenza e nella regolarità della loro successione, senza volerli dedurre da supreme essenze metafisiche. Il suo compito si rivolge a determinare non già il fondamento sostanziale, bensì semplicemente il contenuto immediato del fenomeno come tale, riproducendolo esattamente. La «spiegazione» di un fatto non può quindi significare altro se non la dimostrazione della sua concordanza con dati concreti conosciuti in precedenza: un fenomeno è totalmente compreso, quando è da noi armonizzato con il complesso degli stati di fatto empirici. Le connessioni stabilite dalla scienza naturale non si sviluppano quindi secondo il rapporto della ragione e della conseguenza logica. Gli elementi di tali relazioni, per il vincolo costante in cui sono posti, possono certo presentarsi come i «segni» l’uno dell’altro, in modo tale che all’apparire dell’uno si possa prevedere e predire l’altro con sicurezza; in ogni caso però la connessione che li unisce potrà essere colta soltanto sperimentalmente, non già compresa concettualmente e dimostrata come necessaria.
E. Cassirer, Storia della filosofia moderna, Libro VI (Il problema della conoscenza nell'empirismo), Cap. 2 (Berkeley), Par. II (La giustificazione dell'idealismo) [Ed. Einaudi 1953]
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La morte è la possibilità più propria dell’Esserci. L’essere per essa apre all’Esserci il poter-essere più proprio, nel quale ne va pienamente dell’essere dell’Esserci. In essa si fa chiaro all’Esserci che esso, nella più specifica delle sue possibilità, è sottratto al Si; cioè che, anticipandosi, si può già sempre sottrarre ad esso. La comprensione di questo « potere » rivela la perdizione effettiva nella quotidianità del Si-stesso. La possibilità più propria è incondizionata. L’anticipazione fa comprendere all’Esserci che ha da assumere esclusivamente da se stesso quel poter-essere in cui ne va recisamente del suo poter-essere più proprio. La morte non « appartiene » indifferentemente all’insieme degli Esserci, ma pretende l’Esserci nel suo isolamento. L’incondizionatezza della morte, qual è compresa nell’anticipazione, isola l’Esserci in se stesso. Questo isolamento è un modo in cui il Ci si rivela all’esistenza. Esso rende chiaro che ogni esser-presso ciò di cui ci si prende cura ed ogni con-essere con gli altri fallisce quando ne va del nostro più proprio poter-essere. L’Esserci può essere autenticamente se stesso solo se si rende da se stesso possibile per ciò. Tuttavia il fallimento del prendersi cura e dell’aver cura non significa in nessun modo una scissione di questi modi dell’Esserci dall’esser se-Stesso autentico. In quanto strutture essenziali della costituzione dell’Esserci essi fanno parte delle condizioni di possibilità dell’esistenza in generale. L’Esserci è autenticamente se stesso solo se (in quanto prendersi cura presso... e aver cura con...) si progetta primariamente nel suo poter-essere più proprio, anziché nelle possibilità del Si-stesso. L’anticipazione della possibilità incondizionata conferisce all’ente anticipante la possibilità di assumere il suo essere più proprio da se stesso e a partire da se stesso. La possibilità più propria e incondizionata è insuperabile. L’esser-per questa possibilità fa comprendere all’Esserci che su di esso incombe, come estrema possibilità della sua esistenza, la rinuncia a se stesso. L’anticipazione non evade l’insuperabilità come fa l’essere-per-la-morte inautentico, ma, al contrario, si rende libera per essa. L’anticipante farsi libero per la propria morte affranca dalla dispersione nelle possibilità che si presentano casualmente, di guisa che le possibilità effettive, cioè situate al di qua di quella insuperabile, possono essere comprese e scelte autenticamente. L’anticipazione dischiude all’esistenza, come sua, estrema possibilità, la rinuncia a se stessa, dissolvendo in tal modo ogni solidificazione su posizioni esistenziali raggiunte. Anticipandosi, l’Esserci si garantisce dal cadere dietro a se stesso e alle spalle del poter-essere già compreso, e dal « divenire troppo vecchio per le sue vittorie » (Nietzsche). Libero per le possibilità più proprie e determinate dalla fine, cioè comprese come finite, l’Esserci sfugge al pericolo di disconoscere, a causa della comprensione finita propria dell’esistenza, le possibilità esistenziali degli altri che lo superano; oppure, misconoscendole, di ricondurle alle proprie, per sfuggire cosi alla singolarità assoluta della propria effettiva esistenza. Come possibilità insuperabile, la morte isola l’Esserci, ma solo per renderlo, in questa insuperabilità, consapevole del poter-essere degli altri che ci con-sono.
M. Heidegger, Essere e Tempo (trad. Chiodi), §53
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Dall’esterno la fisiologia ci insegna che il bisogno è una mancanza. Il fatto che l'uomo possa essere felice dei suoi bisogni, indica che il piano fisiologico è trasceso nel bisogno umano, che, sin dal bisogno, siamo al di fuori delle categorie dell’essere. [...] Bisogno e godimento non potrebbero essere nascosti da nozioni di attività e di passività, anche se fossero confusi nella nozione di libertà finita. Il godimento, nella relazione con il cibo che è l'altro rispetto alla vita, è un’indipendenza sui generis l’indipendenza della felicità. La vita che è la vita di qualcosa è felicità. La vita è affettività e sentimento. Vivere è godere della vita. Disperare della vita ha senso solo perché la vita è, originariamente, felicità. La sofferenza è un venir meno della felicità, non è esatto dire che la felicità è un’assenza di sofferenza. La felicità non è costituita da un’assenza di bisogni di cui si denuncia la tirannia e il carattere imposto, ma dalla soddisfazione di tutti i bisogni. Il fatto è che la privazione del bisogno non è una privazione qualsiasi ma la privazione in un essere che conosce il sovrappiù della felicità, la privazione in un essere colmo. La felicità è attuazione: è in un’anima soddisfatta e non in un’anima che ha estirpato i propri bisogni, anima castrata. E poiché la vita è felicità, essa è personale. La personalità della persona, la ipseità dell’io, più che la particolarità dell’atomo e dell’individuo è la particolarità della felicità del godimento. Il godimento attua la separazione atea: deformalizza la nozione di separazione che non è una frattura nell’astratto, ma l’esistenza a casa propria di un io autoctono. L’anima non è, come in Platone, ciò che «si prende cura di ciò che è inanimato», essa abita certo in ciò che essa non è, ma attraverso questa abitazione nell’«altro» (e non logicamente, per opposizione all’altro) l’anima acquista la propria identità.
E. Lévinas, Totalità e Infinito, II, A, 3
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Per distinguere lo spettro dal reale incarnarsi di una soggettività e del suo io in un corpo non è del tutto corretto ricorrere ai fantasmi spaziali. Perché cosi non si prende in considerazione il ruolo assolutamente essenziale del farsi sonoro di una voce prodotta da se stessi, di quella voce che inerisce alle proprie cinestesi, alle cinestesi originarie dei muscoli vocali. Ciò manca anche nella prima teoria dell’entropatia che abbiamo dovuto abbozzare. Secondo le mie osservazioni, sembra che nel bambino la voce che egli stesso produce e che poi sente per via analogica costituisca il ponte dell'obiettivazione dell'io, cioè per la formazione dell'alter, prima ancora che il bambino colga e possa cogliere l’analogia sensibile del suo corpo vivo visivo con quello dell'«altro», e a maggior ragione prima che possa attribuire all'altro un corpo vivo tattile e un corpo vivo capace di volizione.
E. Husserl, Idee II, §21, n.1
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La ragione è l'elemento specifico dell'uomo, di un essere che vive attraverso attività e abitualità personali. In quanto personale, questa vita è un costante divenire, e si sviluppa in una costante intenzionalità. E ciò che in questa vita diviene è la persona stessa. Il suo essere è sempre un divenire, e ciò vale anche nella correlazione di essere singolo personale e essere personale accomunato, per l’uomo e per l’umanità unitaria. La vita umana personale ha diversi gradi di auto-considerazione e di responsabilità di sé: dal grado degli atti singoli e occasionali a quello dell’auto-considerazione e della responsabilità universali, fino al grado in cui la coscienza coglie l'idea dell’autonomia, l’idea di una determinazione della volontà di plasmare la vita personale nell'unità sintetica di una vita nella dimensione di una responsabilità universale di sé; correlativamente di trasformare se stessi in un vero io, in un io libero e autonomo, che «cerchi» di realizzare la ragione innata in esso e lo sforzo di restare fedele a se stesso, in quanto io-di-ragione identico a se stesso. Ma tutto ciò avviene nell’inscindibile correlazione delle persone singole e delle comunità, in virtù della loro unione interiore, immediata e mediata, in tutti gli interessi - un'unione nell'accordo e nel disaccordo - e nella necessità di promuovere una realizzazione sempre più perfetta della ragione personale singola soltanto in quanto personale-comunitaria, e viceversa. La scienza fondata, e che va fondata, in modo universalmente apodittico risulta così, come ho già detto, la funzione necessariamente più alta dell’umanità: rende possibile il suo sviluppo verso un autonomia umana personale e onnicomprensiva - l’impulso vitale dell’umanità, giunta al suo grado più alto. Perciò la filosofia non è altro che un razionalismo, da cima a fondo; ma un razionalismo in sé differenziato secondo diversi gradi del movimento dell'intenzione e del conseguimento, è la ratio nel costante movimento dell auto-rischiaramento, un movimento che ebbe inizio nel momento in cui la filosofia si presentò per la prima volta tra gli uomini, mentre prima la loro ragione innata era ancora nello stadio dell’occlusione, in una notturna oscurità.
E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, §73
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Diverso dal verbo imitor, legato a imago (“apparenza” opposta a realtà, come eikon a phantasma), significare [in latino] esprime la sostituzione di un segno o di un gesto reale a un’attività, a un messaggio o a un fatto che si vuole riprodurre. Ai nostri occhi questo termine, che godrà di una fortuna ben comprensibile in linguistica, designa perfettamente la produzione del doppio [nel senso di Vernant] nel corso di una raffigurazione. (...) Questo doppio è una realtà esterna al soggetto, ma che nella sua apparenza stessa, nel momento in cui si mostra, si oppone, per il suo carattere insolito, al decorso ordinario della vita; si rivela come qualcosa che non è qui.
J. Scheid, Il sacerdote in A. Giardina (cura), L'uomo romano
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