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La psicoterapia nella sua essenza non è se non relazione; incontro fra una persona e un’altra persona. La psicoterapia si nega radicalmente se è considerata nella sua significazione “scientifica” di terapia che sia “messa-al-servizio” di una “entità” astratta: la “psiche” (la vita psichica); fuori di un contesto di reciprocità interumana. La ragione d’essere della psicoterapia è inesorabilmente legata all’essere essa una delle fondamentali modalità interumane di comunicazione e di inter-ferenza dia-lomediatezza antepredicativa e preriflessiva (intuitiva) del vissuto; senza la quale (almeno in alcune esperienze psicotiche) non è possibile articolare qualsivoglia forma (Gestalt) dia-logica. L’incontro con chi-è nella esperienza psicotica non può avvenire se non sul piano dell’umano così magistralmente rifondato dalla Daseinsanalyse.
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L’articolazione di un incontro interumano, che considerasse il “malato” nella sua auto-nomia esistenziale e che si svolgessenell’area di una immediatezza destituita di qualsivoglia “distanza” ideologica e reificata, è stata teoreticamente concettualizzata dalla Daseinsanalyse; e ha aperta la strada alla radicale presa di coscienza (trans-personale e socioterapeutica) della complessità, e della infinita sequenza problematica, che sono radicate nella esperienza (psicotica) altra-dalla-nostra, dalla psichiatria clinica fatalmente reificata nell’orizzonte tematico esclusivo della frantumazione nel “patologico”. La denegazione, e il rifiuto, di qualsivoglia discriminazione assiologica (di qualsivoglia giudizio di valore) sulla significazione esistenziale della “normalità” (della “sanità” psichica) e della “a-normalità” (della “insanità” psichica), che la Daseinsanalyse ha dialetticamente tematizzato in sequenze fenomenologiche e antropologiche segnate da una consapevolezza metodologica e da una riflessione anche filosofica di una radicalità unica, hanno consegnato (retaggio inconsapevole) una fondazione teoretica a questo sfondamento, e a questo dilagare, del discorso antipsichiatrico.
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Le deviazioni dalla norma così articolate hanno in sé una significazione antropologica che le contrassegna come esperienze altre-dalla-nostra. Come dice Binswanger: “Con nostra meraviglia si è messo in evidenza che queste deviazioni anche nelle psicosi sinora esaminate non debbano essere considerate solo negativamente, e cioè come negazione della norma, ma che esse a loro volta con-rispondano ad una nuova norma, ad una nuova forma dell’essere-nel-mondo. Se ad esempio possiamo parlare di una forma di vita maniacale o meglio di una forma di esistenza maniacale questo significa che si è potuta stabilire una norma che riassume in sé e domina tutti i modi di espressione e di comportamento da noi definiti come maniacali. Questa norma è nondimeno ciò che noi designamo il ‘mondo’ del maniacale”. La stessa analisi, e la stessa esperienza daseinsanalitica, si indirizzano ovviamente ai progetti mondani degli schizofrenici che sono d’altra parte infinitamente più complessi e articolati. Le esperienze “psicotiche” non sono (dunque) se non la espressione unitaria e dotata di senso di una nuova forma (di una forma altra) di essere-nel-mondo a sua volta sorretta da una intrinseca normatività. Le esperienze psicotiche sono analizzate da Binswanger sulla base della struttura del loro essere-nel-mondo; e in esse egli coglie (e descrive) trans-formazioni dell’orizzonte di trascendenza. Cioè: “Nelle malattie mentali si fanno evidenti trans-formazioni della struttura fondamentale, o modale, e delle articolazioni strutturali dell’essere-nel-mondo come trascendenza”; e conseguentemente: “Rientra nei compiti della psichiatria ricercare e stabilire queste modificazioni con scansioni scientificamente esatte”.
La metamorfosi epistemologica è radicale nella sua fondazione. La “norma” (quella che è considerata “sanità” psichica) e la “antinorma” (quella che è considerata “insanità” psichica) non si confrontano antinomicamente l’una come portatrice di valori e l’altra come negatrice di valori; ma si articolano invece come esperienze umane esistenzialmente (non assiologicamente) diverse nella loro fondazione normativa. Quella che è l’esperienza convenzionalmente chiamata schizofrenica (o malinconica e maniacale) non è nella sua ragione d’essere se non una esperienza altra (disperatamente umana e indifesa); non tematizzabile con categorie discriminanti sul piano della “normalità” e della “devianza”.
La Daseinsanalyse come scienza d’esperienza ha consegnato un senso, e una normatività interna, alle esperienze psicotiche (considerate nella loro essenza come modi di essere-nel-mondo) che la psichiatria clinica non poteva fatalmente se non considerare destituzioni di senso; lacerazioni e frantumazioni formali. A questa articolazione tematica la Daseinsanalyse è potuta giungere solo perché si è collocata in un orizzonte di comprensione che sta prima della tematizzazione concettuale della psichiatria clinica; prima delle sue categorie conoscitive. La Daseinsanalyse ha impostato (così) in maniera radicalmente nuova il problema della fondazione epistemologica della “norma”, e della “normalità”, in psichiatria; collocandosi fuori da ogni “ipoteca” comunque ideologicamente contrassegnata. Ciò che di (formalmente) astratto non può non riemergere da questa nostra analisi delle strutture conoscitive daseinsanalitiche si incenerisce nella misura in cui ci si immerga nel contesto, e nella rilettura, delle grandi indagini binswangeriane che dimostrano (da un lato) come esse siano inesorabilmente fondate su stati di cose che non escono mai dal solco della esperienza e (dall’altra) come esse riescano a lacerare il non-senso delle esperienze psicotiche chiarificandone fattualmente l’essenza e la donazione di senso.
La Daseinsanalyse non è in sé né psicopatologia né indagine clinica; e nondimeno, come dice Binswanger, essa consegna alla psicopatologia clinica la possibilità di una più profonda penetrazione dell’essenza dei fenomeni psico(pato)logici. Questi non sono nel senso di Binswanger se non disturbi della comunicazione; e sono tematizzati dal fatto che i “malati” psichici vivono in un mondo diverso dal nostro. La conoscenza, e la descrizione scientifica, di ogni loro progetto mondano sono compito essenziale della psicopatologia; ma questo compito la psicopatologia clinica non può affrontare senza la articolazione tematica daseinsanalitica. Solo nel contesto (infatti) di una indagine fenomenologico-antropologica l’abisso-senza-fondo (Ab-grund), che separa il “nostro” mondo dal mondo dei “malati mentali” e che infrange ogni comunicazione im-mediata con loro, si fa scientificamente comprensibile e scientificamente oltre-passabile.
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Il “malato” psichiatrico non può essere connotato come portatore di “sintomi” ma come portatore di “segni” (Kisker); di “significanti” che si connotano nella loro infinita cascata di “rimandi”. L’esperienza delirante, e l’esperienza allucinatoria (come quella della estraneazione, del resto), sono (così) segni di una realtà umana dilemmatica e lacerata dalle antinomie ma consegnata al senso (non alla insignificanza degli “e-venti” naturali). La inesorabile disperata analisi schneideriana ha fatto “saltare” le strutture portanti, e ogni ragione d’essere, di una psichiatria “scientifica” indirizzata ad assolutizzare categorie conoscitive in sé radicalmente incompatibili non solo (ovviamente) con l’uomo-“malato” ma anche con quelle che sono nella loro essenza le realtà (e la natura dell’oggetto) con cui la psichiatria ha a che fare. La psichiatria come scienza della natura non ha fondazioni che non siano ancorate alla “riduzione” dell’umano sul piano del “biologico” e del “somatologico”. Dunque: non ha fondazioni. La psichiatria ha come suo fondamentale “oggetto” di ricerca (e orizzonte tematico) alcune formazioni psicopatologiche che la convenzione induce a chiamare “malattie mentali” (anche se nulla è in esse che una tale designazione possa giustificare) e a denominare nel solco di una storia ermeneutico-semantica forse conchiusa come “schizofrenia” e come “mania” (e “malinconia”). Nella loro ultima fondazione eidetica queste e-sperienze psicotiche sono (dunque) “formazioni” (Bildungen) ma, analizzando sino in fondo le radici semantiche e etimologiche del discorso, Bildungen sono “formazioni per immagini”; Bild essendo ovviamente immagine. Quella che noi chiamiamo “schizofrenia” o “malinconia” non è allora se non una “immagine” che ad altre “immagini” si sovrappone, e con altre immagini si articola. Non è possibile (epistemologicamente) andare al di là di questo orizzonte conoscitivo se s’intende rimanere rigorosamente ancorati a quella che è l’esperienza psicopatologica più radicale. Di questa realtà umana e clinica (devastata dalle ideologie e profanata in alcune epoche storiche in maniera terrificante) che è la esperienza psicotica, non sopravvive dunque se non questa dissolvenza di “immagini” che nondimeno testimoniano sino in fondo (nel senso del discorso di Kurt Schneider) della infinita sensibilità, e della estenuata finitudine, che sono al di là di ogni “formazione di immagini” e di ogni “segno” (elementi meramente conoscitivi, questi) e costituiscono la realtà umana della esperienza psicotica.
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Dalla psicopatologia schneideriana alla Daseinsanalyse binswangeriana c’è nondimeno il “salto” che separa il metodo fenomenologico-jaspersiano (soggettivo) dal metodo fenomenologico-husserliano (eidetico); così che il rovesciamento metodologico, che nella Daseinsanalyse conduce alla fondazione di una realtà eidetica altra della esperienza psicotica e alla articolazione di una antropologia ontologicamente fondata, non si colloca in antitesi contestativa al discorso schneideriano che ha un altro orizzonte di ricerca e di indagine da quello proprio alla fenomenologia antropologica. Solo nondimeno con un discorso ancorato alla fenomenologia husserliana e alla ontologia fondamentale heideggeriana è stato possibile giungere alla fondazione, e alla articolazione, della psichiatria come scienza dell’uomo.
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La modernità non è solo un’epoca identificabile tramite la differenza specifica da ciò che è pre o, eventualmente, postmoderno; il suo problema non si risolve nella ricerca del “nucleo essenziale della razionalità” al quale è ancora possibile attingere e essa si sottrae al “ricatto” dei pro e dei contro. Più che un periodo della storia, la modernità consiste in una disposizione etica che può essere attualizzata. Foucault dice che questo ethos filosofico si caratterizza come “un atteggiamento limite” tra una critica che riporta ciò che ha la parvenza del necessario e dell’universale all’infinita trama di contingenze ed eventi che sostanziano l’essere in quanto storia e un’etica, ovvero una costituzione di se stessi, “che coglierà dalla contingenza che ci ha fatto essere quello che siamo, la possibilità di non essere, di non fare o di non pensare più quello che siamo, facciamo o pensiamo”.7 Questo “atteggiamento limite” è la risposta più aderente alla natura dell’attuale, il concetto più interessante e difficile dell’ultimo Foucault. L’attuale non è una determinazione del tempo, né una categoria della sua apprensione; non è uno stato di cose, né un vissuto, è piuttosto ciò che, dividendo il presente, non può più essere ricondotto a ciò che si fa e a ciò che si sa, benché si effettui in ognuna di queste determinazioni. L’attuale è la contestazione radicale che porta ai propri limiti le esistenze e i valori, interrompendone la vigenza.8 Assolutamente incontenibili per le prese del potere e le pretese del sapere, l’attuale o l’intempestivo non possono mai essere rappresentati come un ente semplicemente presente, benché siano ciò a cui la filosofia è assegnata per costruirne il concetto. La filosofia è una gigantesca allusione (Deleuze)?
La ricognizione nell’Illuminismo costituisce uno dei momenti più importanti della ricerca intrapresa a partire dalla seconda metà degli anni settanta, con la quale Foucault ha progressivamente aperto un passaggio dalla parte dell’etica. Foucault ha cioè fatto ruotare la domanda filosofica sino a raggiungere il rovescio dei piani sui quali si erano esercitate l’archeologia e la genealogia. Le innumerevoli testimonianze reattive e resistenti della sua esistenza – “una serie infinita e multipla di soggettività differenti” – certificano che il soggetto è sempre stato e si è sempre costituito laddove si applicavano le pratiche del potere e si elaboravano le oggettivazioni del sapere. Con l’introduzione dell’ethos dell’Illuminismo, Foucault ten ta però un passo ulteriore. L’etica è un movimento che, aprendosi all’attuale, divide (déprise) da ciò che è dato nel presente – le trasformazioni del potere e del sapere hanno condotto sino agli estremi limiti dei loro assetti precedenti – per dare spazio a una costituzione di se stessi non più necessariamente reattiva, non più costretta nell’infinita replica della resistenza, ma che si incarica positivamente della propria autonomia: “Un ethos, una vita filosofica in cui la critica di quello che siamo è, al tempo stesso, analisi storica dei limiti che ci vengono posti e prova del loro superamento possibile”.
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Il compito del filosofo genealogista e archeologo è allora quello di diagnosticare i varchi attraverso i quali può passare un mutamento e di individuare i piani sui quali si giocano i destini delle forze e dei processi. Questo lavoro, meticoloso e interminabile, richiede un impegno programmaticamente ottimistico: scardinando la contingenza cristallizzata che sembra sigillare le nostre sempre più precarie identificazioni, “mettere a disposizione del lavoro che possiamo fare su noi stessi la maggior parte di quello che ci viene presentato come inaccessibile”.3L’“ontologia storica di noi stessi” funziona, per Foucault, come una verifica selettiva e sperimentale: “Non ci sono forse delle esperienze nelle quali il soggetto può dissociarsi, distruggere il rapporto che ha con se stesso, perdere la sua identità? Non è forse stata questa l’esperienza di Nietzsche con l’eterno ritorno?”4 La domanda intorno all’attualità fa emergere la fisionomia di questo genere di esperienze, spesso ordinarie e quotidiane. Foucault prende così le distanze da una tra le abitudini più discutibili del pensiero contemporaneo che insiste nel drammatizzare il presente come luogo di un compimento e di un ri-cominciamento storico epocali. Forse, più modestamente, l’“ontologia storica di noi stessi” vuole contribuire a mettere in movimento ciò a cui siamo assegnati dai poteri e dai saperi – che sono in noi e fuori di noi – sul presupposto dell’iperbolica normalità del nostro presente: “Si tratta di un giorno come gli altri, o piuttosto, di un giorno che non è assolutamente mai come gli altri”.
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