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fuori dai denti
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www.deleonardistudio.comBlog sull'arte contemporanea a cura di Federico De Leonardis
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federicodeleonardis · 9 months ago
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Questioni di architettura
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S.Maria della Consolazione (Bramante)
Mi è successo di incontrare un’architettura. Da molto tempo non mi capitava; ha risvegliato in me ricordi vivissimi, ma soprattutto ha suscitato un pensiero che ritengo utile esternare, perché frutto dei tempi mutati rispetto a quelli della prima esperienza del genere (avevo esattamente 18 anni e mi trovavo sotto la volta in moto del S. Carlino alle Quattro Fontane, a Roma). Si tratta del tempio costruito a Todi dal grande Bramante: la dimensione, la cura dei particolari, l’audacia del progetto, il rigore nell’esecuzione di un’idea precisa, il successo nell’averla realizzata esattamente nelle forme in cui l’aveva concepita erano evidenti: dentro si svolgeva una cerimonia antica e sentita: la gente che assisteva al matrimonio era vestita a festa, gli oratori (erano tre) la officiavano con convinzione. Mi sono illuso di star vivendo altri tempi, quelli in cui città non designava un’entità caotica fortemente disomogenea, ma era frutto di una civiltà cosciente della propria cultura visiva e della propria missione, in cui tutti erano chiamati a contribuire alla sua costruzione. I tempi in cui fra le varie comunità della penisola si svolgeva un po’ dovunque una gara a produrre le opere migliori: in Italia e non solo nella Toscana di Firenze, Pisa e Siena la rivalità è stata per secoli altamente feconda.
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Todi, Piazza del popolo
Ma veniamo a noi. Subito dopo la guerra sono stato testimone della svendita ai geometri, ad opera del regime democristiano, del suo incomparabile patrimonio paesistico, quello che aveva retto addirittura sotto quello totalitario precedente. Vado veloce, non sto qui a discutere le circostanze storiche per cui questo è avvenuto, so solo che i sogni del Movimento Moderno si sono infranti in pochi anni e le “Città nuove” inglesi sono state l’ultima illusione a disposizione dei giovani architetti dell’epoca aspiranti urbanisti. Ma ho avuto anche l’avventura di assistere a un fenomeno ancora più grave innestatosi sul precedente: il turismo di massa. La sana curiosità verso altre culture, con buona pace degli ultimi pionieri attivi in un’arte di matrice soprattutto anglosassone (i vari Fulton, Tremlet e Long), ha mostrato chiaramente i suoi limiti.  L’attrazione verso l’ignoto, di romantica memoria, rinfocolata dai vari Conrad e Verne alla ricerca di Passaggi a Nord Ovest, a mio avviso è stata ridicolizzata dalla foga all’evasione purchessia e ha riempito di masse becere col naso in aria dietro imbonitori culturali tutti i luoghi più famosi. La politica, cieca anche sul piano che più le compete, quello dell’economia, è stata costretta all’ultimo minuto a salvare almeno i centri storici, ma i buoi erano ormai scappati. Il turismo di massa la fa da padrone dovunque e comunque, il degrado conseguente è stato velocissimo, inarrestabile. Le prime città a cadere sotto i colpi della “pazza folla” naturalmente sono state le più famose (in Italia prima che altrove; basta pensare a cosa sono diventate Venezia, Firenze, Roma, Palermo ecc), ma a ruota sono seguite un po’ tutte. Per quanto riguarda il patrimonio culturale e paesistico, l’erosione è cominciata dalle coste per penetrare inesorabilmente all’interno, travolgendo un po’ tutto. Il disastro è sotto gli occhi di chiunque non abbia subìto una trasformazione antropologica, è incontestabile.
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Capela do Monte di Alvaro Siza (foto di João Morgado)
Ma finiamola con queste lamentele da vecchio nostalgico e occupiamoci, se possibile ancora una volta, di architettura partendo dal monumento citato. Ero reduce da un viaggio di lavoro nel nord del Portogallo (a Cerveira, ai confini con la Spagna) e sotto l’impressione positiva di trovarmi in un paese in cui si poteva ancora parlare di quel mestiere perché praticato un po’ dovunque, con correttezza oltre che in qualche punto con autentica passione. Accenno almeno all’impressione positiva che ho avuto da spostamenti in macchina, ma anche a piedi, nel tessuto urbano di alcuni piccoli centri e di una grande città: assenza o per lo meno misura nell’uso dei cartelli pubblicitari, quasi nessun abuso visivo vistoso, pochissimi gli stupri graffitari, cura dei particolari urbani, che so per esempio nei box di attesa degli autobus, nella cantieristica stradale mai caotica o ingombrante, nella distribuzione dei cassonetti della spazzatura, nella mancanza di sporcizia per le strade  (non ho visto cicche di sigarette o quanto meno cartacce in giro, ecc).
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La giostra di Cerveira, tutta di legno e azionata a pedali (Foto M. Teles)
La visita al grande Museo di Porto (il Serralves), con la sezione dedicata all’opera di Alvaro Siza, ha aperto le mie speranze: allora è ancora possibile, allora non tutto è perduto, l’architettura non è morta. Il flusso turistico cantabrico dal ponte che unisce Cerveira con la Spagna invade questo piccolo centro rimasto intatto, con la sua fiera affollatissima in cui puoi trovare ancora una giostra per bambini costruita tutta in legno e mossa dalle robuste gambe d’un volonteroso pedalatore, ma senza sconvolgerlo, senza stuprarlo, come invece è avvenuto da noi dovunque.
 L’amarezza per il confronto sfavorevole col mio paese ha fatto posto a una constatazione evidente: l’esempio di due grandi architetti che vivono e operano un po’ in tutto il territorio nazionale (oltre a quello nominato anche Eduardo Souto de Moura) evidentemente ha dato i suoi frutti, almeno in quella parte in cui ho fatto la mia esperienza recente (circa vent’anni fa ero stato a Lisbona e avevo avuto la medesima impressione). Evidentemente la politica post rivoluzionaria in quel paese è stata lungimirante, perché ha investito positivamente risorse nel bene comune: il territorio. Ho tirato un sospiro di sollievo, ma torniamo a Todi.
Un salto nel passato reso significativo dalla precedente esperienza: la città, al contrario di quelle più famose della stessa regione, è ancora intatta dal turismo di massa, è ancora “paese”, e il tempio del Bramante non è isolato dal contesto territoriale. Ho pensato a Città di Castello, feudo del grande Burri, a Montepulciano, dove un altro esempio purissimo rende evidente che l’utopia del Rinascimento non era un fenomeno isolato. Il Cupolone brunelleschiano, l’audacia del quale supera tutti gli esempi, può essere pure invaso oggi dai giapponesi, ma tutto non è perduto: c’è un’altra Italia che resiste alle ultime invasioni barbariche. Naturalmente la mia esperienza, comunque di lavoro, non è completa, ma facendo tesoro di escursioni avvenute in tempi precedenti in altri luoghi del Centro toscano, umbro, marchigiano e laziale, ha rinfocolato le mie speranze.
La parola resistenza non è astratta e deriva, forse un po’ utopisticamente, anche da un’esperienza altamente positiva fatta a contatto con chi come me crede alla possibilità di salvare qualcosa. Si tratta dell’opera intelligente del figlio d’un famoso artista dell’arte povera che, scegliendo di vivere il territorio scelto dal padre in tempi più felici, continua l’opera del genitore sfruttando la ricchezza agricola e culturale del territorio. Si tratta solo di un esempio, ma non isolato: una certa tendenza al “ritorno” si constata un po’ dovunque, soprattutto nelle zone interne, ma quello di Matteo Boetti è particolarmente significativo  (sposa l’attività di gallerista poeta con quella di agricoltore a tempo pieno). Per inciso, in contraddizione con la sua denuncia dell’abbandono dell’Appennino Centro Meridionale (evidente in opere come Nevica, ne ho le prove, ma soprattutto Terracarne) anche l'opera letteraria di Franco Arminio fa sperare che quel triste fenomeno non sia irreversibile. In conclusione: voglio essere ottimista.
Ma è possibile una conclusione per un argomento così vasto, un tema che per essere affrontato adeguatamente avrebbe bisogno di uno spazio ben più vasto di quanto è consentito in un foglio di rivista on line come questo? Sarò sintetico al massimo, sperando che la malignità, merce corrente fra gli intellettuali, lasci da parte i suoi soliti trucchetti e che una certa benevolenza per l’insufficenza necessaria al foglio dia una mano a comprendere la sintesi.
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Padiglione del Portogallo all'Expo del 1998 (Lisbona, Alvaro Siza)
L’architettura non è solo il prodotto di archistar più o meno valide (che so, Siza piuttosto che Ghery, Souto de Moura piuttosto che Pergolesi), ma lo è anche. Certi mastodontici studi professionali (quello di Piano ne è un esempio) sono composti da gente con le palle, perfettamente cosciente che, per esempio, l’immensa copertura del padiglione portoghese dell’expo ’98 di Lisbona, realizzato dal primo dei nominati in un paese fortemente a rischio terremoto, sono frutto, più che della fantasia del capo (pochi privilegiati si sono conquistati il diritto allo schizzo geniale), del lavoro di una troupe di ingegneri che ha fatto la sua parte per mesi, forse per anni: la parola sinergia non è astratta.
La funzione dell’archistar non è solo quella di produrre edifici o manufatti edili, ma nella società in cui opera di dare l’esempio di rigore costruttivo. Solo così produrrà i suoi frutti capillari, nel senso che facciano da guida per altri.
L’archistar non può niente senza un tessuto politico che accolga favorevolmente il suo pensiero, il pensiero del gruppo che dirige e quello che ho cercato di riassumere nella parola “città”: il tempio bramantesco non è nulla senza il palazzo del popolo, senza una piazza in cui inserirsi, senza il tessuto occupato dai vari Matteo, magari venuti d’oltralpe.
L’architettura è prima di tutto l’arte della disposizione degli spazi occupati dalle varie funzioni: il mestiere più difficile e più importante, perché cura la vita nei suoi aspetti essenziali, mangiare, dormire al coperto; in una parola proteggere la stanzialità. Oggi (lo dico con cognizione di causa e con l’amarezza di aver perduto per sempre una bottega) c’è molto più bisogno di architetti interessati alla vita quotidiana della gente comune che di archistar di grandi strutture.
Ma soprattutto poi l’architettura è cura del particolare. Una progettazione, nel senso più vasto del termine, che coinvolga chi la abita quotidianamente, che so, nella scelta (operata da Paola, Isetta o chi per lei) della pianta grassa sul tavolo da pranzo, nell’accettazione, anzi nella selezione cosciente della ruggine della seggiola da giardino che mi trovo sotto il culo, nel rispetto dell’enorme gelso che minaccia con le sue radici addirittura la casa, nel caos ordinato di un gusto che rispetta l’antico come il tappeto nuovo, magari venuto dall’Afganistan, nel gradino memoria.
Infatti l’architettura è sostanzialmente memoria e mi vengono in mente le parole di un mio maestro di sessant’anni fa (Ludovico Quaroni): la città non può vivere senza.
FDL
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federicodeleonardis · 1 year ago
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Edward Burtynsky al Museo del 900 di Mestre
Werner Haftman è stato un famoso storico dell’arte curatore delle prime tre edizioni di Documenta di Kassel, assieme a Arnold Bode che l’aveva fondata (1955). Ebbene, mezzo secolo fa lo studioso tedesco (aderì al nazismo hitleriano), commentando una mostra di scultura di cui era il curatore, disse:
“La prospettiva utopica
Se ora torno ancora a riconsiderare la mia presentazione, ho l’impressione che dovrei, come sospinto indietro, riscrivere ogni cosa e da un punto di vista diametralmente opposto. Quel che ho descritto era un aspetto parziale, niente di più del rovescio di un tutto assai più esauriente. Diciamo così: l’ansia ha come rovescio della medaglia ‘la prospettiva utopica’, ma questa si chiama Speranza.”
Extraction/abstraction
Me ne sono ricordato a proposito della mostra del fotografo canadese Edward Burtynsky allestita al Museo 900 di Venezia Mestre col titolo “Extraction/abstraction”, per la cura di Marc Mayr (fino al 12 gennaio 2025). Burtynsky è famoso per avere ripreso aree devastate dall’inquinamento dell’industria.
Una mostra che fa pensare molto e con trepidazione
Più di un centinaio di gigantografie, tutte di almeno 2 metri d’altezza per 3 o più di larghezza, di siti geografici particolari, cave, miniere, deserti, coltivazioni intensive, capannoni gremiti di schiavi al lavoro ecc, riprese da droni in modo impeccabile, con colori sgargianti in inquadrature perfette.
La bestia umana
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La bestia umana ha invaso il pianeta in ogni suo angolo, scavandolo coi suoi voracissimi denti ovunque fosse possibile succhiarne la linfa vitale: i denti acuminati del sistema globale di accaparramento della ricchezza del pianeta non risparmiano nazione, regione, bellezza naturale.
Impressionante è il dispiegamento di mezzi che la tecnologia gli mette a disposizione e la fotografia, raffinatissima, quasi tutta dall’alto, lo testimonia esaurientemente senza lasciare alcun dubbio sul futuro della palla: la sua erosione, in atto da tempo, avrà termine solo con la sua fine.
Dove rifugiarmi, sulla Luna, su Marte?
Un brivido mi ha attraversato: dove rifugiarmi, sulla Luna, su Marte? Non c’è scampo, le generazioni future sono fregate.
Tuttavia, al di là della paura, mi faccio una domanda e ve la giro: queste gigantografie, Edward Burtyinskyperfette nell’equilibrio formale dei colori e nella precisione dei particolari, sono arte? La paura che la sociologia, la politica e la scienza messe insieme siano in grado di suscitare con le immagini di un’enorme mostra, è arte? l’iperrealismo più documentato e preciso del mezzo presentato in un museo è ancora arte?
Al di là della paura
Non mi interesso di mercato delle immagini, grandi o piccole che siano, ma di arte e quindi mi domando dove è finita la speranza che deve connotarla? dove il mistero che accompagna la sua luce?
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federicodeleonardis · 1 year ago
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Enrico Castellati ha fatto centro
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foto dell'Archivio Castellani
Quando più di mezzo secolo fa vidi per la prima volta tre delle sue tele (in casa di un grande gallerista, Carlo Grossetti, in via dei Piatti a Milano), insieme con qualche lavoro giovanile di Spagnulo, altri del dimenticato Hoinka e soprattutto quelli di Kolibal, mi sono immediatamente reso conto della capacità selettiva del Gallerista, del suo coraggio e della qualità del suo lavoro. Ero troppo timido per approfittarne, anche se a quell’indirizzo mi ci aveva spedito Pierre Restany (allora mi affacciavo cautamente al mondo dell’arte). La “vibrazione” di cui parla Vittorio Raschetti mi colpì già allora e non mi ha più abbandonato da quando in giro per il mondo incontro un lavoro di C (l’ultimo, p. e. da Lia Rumma a Milano (attualmente ancora in mostra): la grande tela che si mangia tranquillamente tutto quanto degli altri è stato esposto per documentare l’intramontabilità della Optical art.
Ma per quanto esauriente e molto vicino alla sensibilitù dell’artista V.R. ha detto tutto? Mi viene in mente che l’atteggiamento di attenzione che pone C in una qualsiasi delle sue tele potrebbe essere paragonato a quello di Flaubert sulla pagina da stampare (mai più di una al giorno, anzi spesso una a settimana) e per opposizione i lavori di un Bonalumi o di un Simeti, che per un certo tempo hanno diviso la scena con lui. E’ difficile aggiungere qualcosa al testo di Raschetti e allora perché intevenire? Tra l’altro, cosa deve fare un artista oltre a delimitare uno spazio e occuparlo come se fosse il mondo, il suo mondo, ma anche il nostro? Una lezione di rigore e di purezza, una lezione di Minimalità che è raro oggi incontrare: Il mondo in qualche centimetro quadrato, il mondo della tensione creativa, niente facili simbologie, niente interpretazioni astruse, niente elucubrazioni attraverso incubi personali, un mondo di linee e piccoli rilievi, di colori elementari bianco e grigio, un mondo aggredibile con gli strumenti a disposizione da sempre nel linguaggio elettivo, un mondo finalmente modesto, senza grandi voli pindarici (siamo artisti, dopo tutto, non pretendiamo di spostarlo più di tanto!): “il mondo in un cassetto”.
Ma è detto tutto? Quando, più o meno sempre mezzo secolo fa, incontrai la Natività di Piero della Francesca a Londra (N.G.) rimasi di stucco, in tutti i sensi: ne era rimasto solo poco più della metà, ma era bellissimo. Il tempo era intervenuto pesantemente e P.d F sarebbe svenuto a vedere come aveva ridotto la sua tela, ma per me conservava ancora tutta la sua forza.
Il Tempo; già, questo terribile signore delle nostre vite e soprattutto della nostra fine e purtroppo di quella delle persone e delle cose che amiamo. C’è il tempo nei lavori di C?  Non il tempo esecutivo, non il tempo interno all’opera, intendo il tempo esterno, quello della vita, quello di Beuys, come quello di Opalka. Il tempo della sporcatura, quella del fattorino che sposta il tuo lavoro con le mani zozze, il tempo dell’usura, il giallo che insidia la superficie purissima del tuo bianco (di zinco, di titanio o addirittura d’argento?), il tempo giallo che ha ridotto le opere di Manzoni a pura teoria!
La questione è ardua, me ne rendo conto, ma mi piacerebbe una risposta da parte di Vittorio Raschetti.
Grazie
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federicodeleonardis · 1 year ago
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Fuori dai denti/ Un intervento di Giorgio Netti a proposito di Anselm Kiefer
Giorgio Netti, compositore di musica contemporanea, avendo letto su Fyinpaper il mio articolo sul film Anselm di Wim Wenders, mi ha fatto pervenire un suo intervento sull’argomento. Allarga il discorso da me impostato al mondo della musica “colta” contemporanea. Le virgolette sono d’obbligo, dopo lo sconfinamento verso la musica popolare operato da compositori come Berio negli anni settanta del secolo scorso e dopo il chiaro interesse dei compositori più giovani verso il rock e le altre forme del rap.
Netti puntualizza che Kiefer prova (e ci riesce perfettamente) a
utilizzare gli strumenti stessi del mercato di massa, senza compromessi e con un prodotto che apre gli occhi su quello che il mercato di massa da sempre nasconde. Non conosco altri esempi colti di queste proporzioni, se non – forse e in piccolo –  Wenders (con un linguaggio comunque destinato principalmente alla massa: il cinema) e in piccolissimo Stockhausen (che dai Beatles in poi è arrivato a influenzare la musica pop più intelligente).
Tedeschi entrambi, e non credo sia un caso: il fiume carsico della “grandezza” non ha mai smesso di scorrere là sotto. Nella Germania dell’attuale (loro) musica contemporanea qualsiasi stupidata, se fatta in grande, diventa improvvisamente importante e degna di cospicui (ma sempre meno) investimenti. Non sapendo più distinguere qualitativamente, l’intero circo dell’arte si affida alla quantità, peraltro obiettivo che più direttamente corrisponde alla sua, del circo, necessità primaria: vendere. E il grande Anselm gli dà da vendere, precarietà, impossibilità, gigantismo, in quantità prima di lui inimmaginabili. Grande rispetto.
Riportato il pensiero di Giorgio Netti, sento il bisogno e il dovere di fare presente quanto segue.
Caro Giorgio Netti, il mio articolo è stato una presa di posizione personale a difesa di una poetica post pop, la mia, che non è contro il popolo (basta pensare alla materia che uso, le bocche spalancate della gente senza sovrastrutture culturali che capita nel mio studio, ecc), ma contro l’inquinamento in senso lato, visivo in particolare (quindi il vuoto!). Lo scomodo opposto di Kiefer. Parlo anche di costume, di epoca: tutti da Wenders il sabato sera!
Comunque concordo con la sua analisi pangermanica. Dalla guerra persa hanno tratto vantaggio spirituale: il fiume è tornato fuori, forse non proprio gioioso, ma impetuoso sì. È già molto dopo Auschwiz (ricorda il giudizio di Adorno sulla impossibilità di una qualsiasi speranza, anche quella che possono eventualmente fornire le utopie creative?). Ma nella sua dotta citazione si è dimenticato di Beuys e di noi italiani, Mauri, Berio, Nono ecc, che in qualche modo esprimono la speranza. Certo, a che punto è la notte? Scuretta, tutte le vacche sono nere. Lumicino: tabula rasa.
Capisco e sono d’accordo con la presa di posizione. Non mi sono affatto dimenticato di Beuys e dei vari antecedenti, parlavo dello specifico uso degli strumenti del mercato di massa che Kiefer fa come nessuno prima di lui e senza compromessi. Mauri è quanto di più distante ci sia dagli strumenti del mercato di massa, Nono non ne parliamo nemmeno e Berio in parte sì, ci ha tentato nel 1972 con la sua bellissima serie di 12 puntate televisive. C’è musica e musica, ma erano altri anni e non se ne è fatto più niente. L’ovvia stima che ho di loro non c’entra con il discorso precedente. Citavo Stockhausen per la produzione sterminata: 106 cd: niente di paragonabile a nessun altro compositore contemporaneo (e nemmeno barocco, i romantici si sa, erano stitici).
Quanto alla “Tabula rasa”, come dice Lei, la memoria (e io aggiungo: elaborata) è fondamentale. La tabula rasa è sempre stata un tragico episodio all’interno della barbarie: barbarie prima, barbarie dopo, per secoli. Io rimango interessato al costruire, differentemente ma costruire. La massa, e di conseguenza il mercato di massa, non mi ha mai interessato. Leggo in Kiefer il vero artista, e questo è l’importante, che è riuscito attraverso gli strumenti del mercato di massa a realizzare opere impossibili per chiunque si fosse affidato alle sue sole forze (i casi precedentemente nominati e tutti gli altri non nominati). In questo senso dicevo che la sua unica vera opera, della quale tutto quanto ha prodotto sono più o meno preziose variazioni, è il cambio di scala senza compromessi.
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federicodeleonardis · 1 year ago
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Anselm di Wim Wenders
Ph luckyred.it
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I film sono ora la principale forma di divertimento nella civiltà moderna, essi richiedono un completo asservimento, in condizione di totale stato d’ipnosi, ai più facili richiami emozionali …
F.R. Leavis in Mass Civilisation and Minority Culture
In epigrafe questa sentenza di mezzo secolo fa, ma non polemicamente: il film di Wim Wenders è un’eccezione.
Io non sono buono e Fuori dai denti non lo è intenzionalmente. Chi combatte per difendere l’arte dall’inquinamento visivo dilagato ovunque non può permettersi oggi la bontà: l’apparente originalità, che dovrebbe essere un risultato sofferto e oggettivo e non una premessa, è diventata “maniera” accettata, il cardine attraverso il quale si giustifica l’operazione di costipare il mondo delle proprie fantasie più o meno soggettive. L’approssimazione del “sentire”, per intenderci il Dante propinato dai Cazzulli televisivi, sdogana le superficialità degli “artisti” che ignorano che il linguaggio non appartiene a loro ma, se mai ci riescono, aspetta il loro contributo per liberare negli altri, in tutti noi, un sospiro di sollievo dalle magagne del mondo. Ma per offrirlo occorre una profonda conoscenza della lingua nella quale si è scelto di esprimersi, lingua che si rinnova, sì, ma con memoria. Infatti la caratteristica più diffusa nell’attuale mondo dell’arte è l’ignoranza di ciò che è già stato fatto e fatto bene e non ha bisogno né di ripetizione, né di ammiccamenti. Per intenderci, di tagli di Fontana ne basta uno, per il resto occorre entrare nel varco che lui ha creato, magari con mezzi nuovi ma con memoria profonda.
Un’altra delle novità che connotano il mondo dell’arte attuale è il ricatto che la società di massa esercita nei confronti del produttore, e di conseguenza di qualsiasi creatore di immagini: l’avvisaglia si è manifestata all’inizio degli anni sessanta e ha indotto alcuni talenti a un allargamento dell’orizzonte, prendendo in considerazione che il linguaggio deve avere a che fare con le immagini e con gli oggetti della vita sociale quotidiana. Ma se questo allargamento è stato necessario e salutare ciò non significa che attraverso la Pop art non si sia aperto un varco allo sdoganamento di qualsiasi fantasia personalistica attraversi la mente dell’aspirante artista, che palesa un’ignoranza del linguaggio estremamente evidente: non basta aprire a quello pubblicitario o al pensiero debole per dare una risposta al bisogno sempre attuale di affrontare il problema della morte, per esempio, o della violenza, tanto per citare due dei nodi contro i quali si accanisce l’umanità.
La storia (o l’ideologia, secondo Fabio Mauri) è un altro dei punti cardine attorno ai quali gira la mente umana, soprattutto maschilista e in particolare da quando la religione è passata in secondo piano. Mi viene in mente questo punto dopo aver visto il film documentario di Wenders su Anselm Kiefer, un artista tedesco ossessionato da quella del suo paese, alle prese con i conti aperti da Auschwitz e più in generale dal nazismo nascosto sotto il tappeto. Non voglio parlare del valore artistico della pellicola (notevole), ma del pensiero, illustrato dal regista, di questo allievo? sodale? senza dubbio almeno “connazionale dello spirito” del grande Joseph Beuys: il passato storico, che lui ha avuto modo di sperimentare da bambino e vivere in un dopoguerra problematico fra le sue macerie “ancora fumanti” (l’uso del fuoco burriano), incombe pesante in tutte le sue opere.
In modo forse troppo evidente. Uso quest’avverbio per due motivi: il primo perché convinto che niente giustifichi il grido in arte (non lo giustifica in Bacon, non in Munch e nemmeno in Picasso, quando questi altrettanto grandi artisti ci ricorrono, perché essa è prima di tutto canto, equilibrio, voce delicata e sommessa, in poche parole, tangibile barlume di serenità), ma lo dico soprattutto con un occhio al linguaggio: siamo lontani dalle unghiate del suo connazionale o dei tre italiani appena nominati. Il film di Wenders ci mette sapientemente di fronte alle quinte di un immenso teatro, una scenografia impressionate per dimensioni e, bisogna onestamente ammetterlo, coerenza stilistica. La rappresentazione la fa da padrona. Mi faceva notare un giovane musicista che siamo di fronte al sogno narcisistico di ogni artista: ricreare il mondo delle proprie esperienze più profonde, esperienze filosofiche oltre che spaziali: Hoelderlin, Celant e Heidegger accompagnano il viaggio di questo ragazzino invecchiato.
Ma perché occuparsi di Kiefer dopo il largo cappello introduttivo sui condizionamenti che la società di massa esercita sull’arte? perché siamo ostaggio addirittura di un collezionismo di massa. Stupisce la quantità di privati cittadini, banche, istituzioni pubbliche in grado di comprarsi le opere di K. I prodotti del tedesco sono l’esempio eclatante di una contraddizione evidente: non è tanto l’altezza del suo grido a rendermi perplesso, quanto la sua quantità, la sua repetitività: la società che può permettersi anche una sola delle sue opere mastodontiche è molto più insidiosa di quanto sembri. Lo è tanto da reclamare un’impresa: l’acquisto di ettari ed ettari di terreno per accogliere le proprie fantasie, la messa in piedi o lo sfruttamento di ambienti sconfinati per ricostruire in qualche modo la tragedia vissuta dalla Germania, divisa geograficamente e nell’animo del suo popolo: le sette torri della Bicocca diventano venti, le quinte cosparse dei suoi manichini o le pile di libri di piombo innumerevoli, si fatica a percorrere gli immensi padiglioni di questa rappresentazione.
Per carità, vorrei avere un grammo della capacità d’impresa, e di rischio relativo, di un K, un grammo della sua conoscenza del mercato, quel fiuto che gli ha fatto sfruttare, dopo il Moma e il Gugghenheim, il grande successo raggiunto. Onore al merito, ma questo basta? E’ giusto e sacrosanto sfruttare il successo, ma è proprio necessario averlo per parlare di deserto della storia? Del suo vuoto? Delle sue macerie?
Alle porte di Milano, precisamente a Sesto S. Giovanni, s’innalzano al cielo brumoso della pianura padana le braccia metalliche dello scheletro delle Acciaierie Falk. La Milano intellettuale radical chic fa la fila per vedere all’Anteo Multisala Anselm di Wim Wenders. Bene, siamo contenti, ma trent’anni fa, quando la società del consumo spense gli altoforni, resi improduttivi dalle economie globali, mandando a casa un know out prezioso, l’ambiente dell’enorme complesso industriale è stato recintato e chiuso al pubblico. Nel suo interno silenzioso e deserto la natura in pochissimo tempo ha riconquistato terreno. Bene, siamo contenti: clandestinamente vi si incontrano i resti di una tragedia, lo sradicamento violento della vita. Ma ci affidiamo a una speranza: la sua eco (gutta) cavat lapidem.
Comunque i problemi messi in scena dal gioco della vita e della morte sono quelli di sempre: inutile girarci intorno. Meglio dedicarsi a fare sturacessi o coltivare pomodori, magari un po’ più buoni. Il mondo dell’arte visiva ha bisogno di una seria ramazzata, un azzeramento. Ripeto: Tabula rasa. Alle porte di Milano, senza spendere una lira, la si può visitare.
Clandestinamente: la società di massa nasconde le sue vergogne.
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federicodeleonardis · 1 year ago
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Bilbao: Anselmo vs Ghery
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Se nella terza decade del XXI secolo ha ancora senso usare l’aggettivo “figurativo”, è giusto applicarlo all’enorme ragno della Bourgeois che, ondeggiando sulle sottilissime zampe, percorre lo spiazzo antistante il fiume attorno al Guggenheim di Bilbao: chi durante una delle malattie infettive che perseguitano l’infanzia non ha sognato di essere imprigionato nella rete di Aracne e di finire nelle sue grinfie? Invece non ho remore a usare la parola “incubo” per connotare l’enorme edificio progettato da Frank Ghery.
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Mi dispiace per questo fantasioso architetto americano, rappresentante principe del postmodern internazionale, ma dal Ria, dal ponte che lo attraversa e da tutte le strade che lo circondano non si capisce proprio cosa sia destinato a contenere: un asilo per pazzi scatenati? anzi il principe degli asili per claustrofobici? il municipio di amministratori di una città uscita fuori dalla fantasia di uno Swift? Invece è il quarto e più famoso contenitore dell’immensa e prestigiosa collezione d’arte appartenente a una famiglia americana, raccolta soprattutto negli anni del surrealismo da Peggy, ricchissima erede di un magnate perito nel disastro del Titanic (e amante, se non vado errato -anche- di Max Ernst, l’unico di quel movimento di cui forse vale ancora la pena parlare; la collezione è poi stata arricchita successivamente di opere molto importanti un po’ di tutti gli artisti emergenti sulla scena). Il Guggenheim museum è emblema e baricentro di quella Svizzera marina che è la regione basca, di cui Bilbao è chiaramente la capitale (finanziaria e industriale).
La città, circondata da colline verdi e attraversata da un fiume, mostra chiaramente di essere una sede adatta agli agi di quella piccola borghesia che ormai trionfa su tutto il pianeta e in particolare in Europa. Qui si dimenticano volentieri le contraddizioni che ci propina quotidianamente internet, le guerre, le favelas, i mucchi di garbage in cui frugano “i dannati della terra”. A Bilbao, con un portafoglio tutto sommato medio, si vive bene: vino eccellente, alta cucina nei numerosissimi pubs sparsi un po’ dovunque (fortissima l’influenza dell’epoca vittoriana inglese coi suoi cottages e le sue ville revivals nel porto affacciato sul Golfo di Biscaglia), donne fresche di parrucchiere, marciapiedi immensi, non un graffito, parchi senza un filo d’erba fuori posto dove pullulano panchine e sculture rigorosamente del bronzo più retorico comune in tutto il mondo, ecc.  Sarà un caso che il quarto Guggenheim sia stato localizzato qui?
Basta con le maligne analisi urbanistiche, qui sista bene e tutte le strade conducono a Roma, pardon, al museo (non un angolo che non ne faccia pubblicità, anche nel centro storico (dove qualche graffito, è la prima volta vi confesso, mi tira un po’ su). Tutte, compresa quella che attraversa il Ria sul ponte frutto dell’’inventiva di un Calatrava, forse il più leggero che mi sia stato dato di attraversare. Ma che ci sta a fare questo tocco di eleganza nerviana (onore a te, Pierluigi, padre e mentore dello spagnolo) accanto al mostro gheryano, uno sputo nel mare ondeggiante dei suoi contorti e un po’ ridicoli volumi?
Per essere espliciti una volta per tutte e spero chiari: l’architettura è chiamata, sempre, a proteggere la vita nelle sue forme più varie e, nel caso di un museo, quella dell’arte e delle memorie dello spirito inventivo dell’animale più curioso sulla faccia della terra. L’architettura è decisamente un mestiere difficile, proprio a causa del suo diretto coinvolgimento con il sociale; insomma deve essere anche pratica, alla portata di ogni più elementare bisogno e non solo quello di proteggerci dalla pioggia o dai terremoti. Nel caso di un edificio museale è chiamata a conservare ed esporre la memoria della punta di diamante dello spirito, l’arte, di cui essa stessa fa parte. Ma per riuscirci deve fare non uno bensì più passi indietro. La sua funzione è quella di dare spazio ai colleghi, coloro che dovranno occuparlo, sia pure momentaneamente. L’ha avuto ben chiaro uno come Zumthorn a Bregenz, dove ha progettato un museo che rappresenta uno splendido esempio nel contempo di modestia, funzionalità e bellezza minimale. “Reduced” direbbe Wiener (un connazionale dell’architetto americano che campeggia in una sala a piano terra del G., a commentare le splendide e un po’ eccessive spirali di un altro americano, Richard Serra che, come tutti loro, pensa alla grande, alla rinascimentale. Il conflitto moderno-postmoderno, è un’invenzione recente di menti incolte: alla faccia di Ghery, Borromini muove lo spazio inventato da Brunelleschi e Piero, perché la vita, comunque precaria e difficile, non perde il suo rapporto con la religiosità. La tensione spirituale che dovrebbe impegnare l’arte contemporanea è il corrispettivo laico della fede dei secoli di Monteverdi e Bach: è un fatto innegabile. Ma se l’americano s’è agitato forsennatamente nello spazio è solo per esprimere la propria singolarità, la propria originalità, impedendo in qualche modo di parteciparla ai colleghi che espongono nelle viscere di quello da lui esibito. E’ proprio una questione di misura, la stessa che distingue i pesantissimi orpelli del S. Nicola di Bilbao dal S. Carlino o il S. Ivo di Roma. Una misura che manca del tutto all’edificio progettato da Ghery. Basta un’occhiata a denunciarlo: il museo mette a disposizione dell’esposizione forse nemmeno un terzo dello spazio occupato dai suoi contorti volumi: qualsiasi fotografia lo rende evidente senza bisogno di ricorrere a piante e prospetti.  
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E qui chiudo con il tanto osannato edificio. Ma ancora una domanda: che ci fa Giovanni Anselmo lì dentro? Come ha potuto confrontarsi con l’americano? Come ne è uscito?
2°  Oltre l’orizzonte
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Se ho tirato in ballo Piero, Filippo e il Francesco d’un secolo dopo è perché questo connazionale contemporaneo ne conserva la memoria. E che altro deve fare un artista se non ridire quanto già affermato dai colleghi che lo hanno preceduto e ridirlo con parole comprensibili nel secolo in cui è vissuto? Magari aggiungendo qualcosa per cui non si possa più tornare indietro? Sì, perché Giovanni Anselmo è stato il poeta che, col suo pallino dell’energia fisica, ha fatto tramontare definitivamente i “valori plastici”, faticosamente tenuti in vita dall’arte del secolo scorso, e lo ha fatto con la semplicità di un Piero della Francesca e la fantasia spaziale di un Borromini. Non ci sarebbe altro da aggiungere per commentare la sua retrospettiva ospitata al secondo piano dell’immenso edificio di cui ho parlato nel post precedente e mi auguro che questo sia sufficente a convincere tutti gli artisti che oggi intendono ancora lavorare a muovere le chiappe per constatare de visu la verità di quanto ho affermato: c’è trippa per gatti, per tutti, ad esclusione di quelli floreali di quel zuzzerellone di un Koons (davanti all’ingresso del monstrum).
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Ma la mia fiducia nella perspicacia dei visitatori non pigri può ingannarmi e mi rimane il compito certamente difficile di argomentarre un po’ queste affermazioni, senza tradire quanto deve prima essere constatato coi propri occhi. Sono venuto apposta da Milano nella lussuosa Bilbao perché il lungo sodalizio spirituale avuto con il torinese lanciato da Germano Celant lo esigeva: una retrospettiva completa è ben più complessa da organizzare di una sia pur impeccabile mostra come quella recente dalla Lia Rumma a Milano. Il compito dei suoi curatori è stato arduo, non solo perché si è trattato di mettere in piedi 70 anni di attività dell’artista, ma anche di farlo in un luogo che, l' ho cercato di dimostrare, fa a pugni con chi ospita in generale, ma in particolare con l’opera di quest’artista.
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Ho parlato di semplicità, ma devo specificare esclusivamente visiva e suffragarlo con qualche esempio: non basta dire energia della sofficità, bisogna vederla coi propri occhi in azione attraverso un cespo d’insalata piuttosto che una spugna; non basta sentire la stretta di un panno strizzato, occorre verificarlo attraverso la resistenza della sua massa compatta; non basta dire tramonto, ma dispiegare l’evento attraverso una sequenza di quanto più banale si possa inquadrare in cornicette modeste in fila indiana; e ancora, non basta parlare di paesaggio grigio  verso oltremare, ma occorre metterlo in scena nella sua drammaticità pesante (i tempi sono questi, ahimé) e a ciò è sufficiente la posizione audace e la dimensione ridottissima di un rettangolo spatolato di colore denso.
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Tutto è tensione nella retrospettiva, anche quella dolce della capillarità o di un panno tirato in orizzontale. Dico solo che vale la pena di un viaggio di cinque ore per immergersi in questo mondo poetico proprio per la sua semplicità, per la sua elementarietà, oserei dire per il suo ottimismo. L’orizzonte oltre il quale Anselmo ci invita ad andare (“Beyond the horizon” il titolo della mostra) è di una semplicità sconcertante, di un naturalismo calmierante (tutti oggi parlano di ecologia, ma chi lo fa senza tradirla?) L’architettura di riferimento per lui è l’universo attraversato dal lieve magnetismo indicato dall’ago di una bussola immerso nella pietra più dura della terra: il granito. I massi incombenti retti da un assembramento di tele intelaiate (lo strumento principe dell’arte del passato - sottolineo passato) sono dinamica pura, senza ambiguità, al limite del banale.
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Castello di Rivoli: sulla sinistra il sunset, sulla destra la mano che lo indica
Nella retrospettiva gli esempi si sprecano e io ora non ho nessuna voglia di proseguire nell’elenco. Ho parlato di ottimismo, un atteggiamento che, insieme alla convinzione che l’energia non sia solo fisica ma anche psichica, accomuna Anselmo a un altro grande artista, il tedesco Joseph Beuys. E poi, a girare attorno al concetto, ma questa volta senza alcun ottimismo, dobbiamo annoverare il lavoro di un altro italiano, Fabio Mauri che, in apparente contrapposizione, afferma essere l’energia anche politica, nel senso più nobile della parola. Essa cioè deve fare i conti con la storia, quindi l’ideologia, pena il precipitare inesorabilmente nei disastri planetari che nulla hanno a che vedere con quelli naturali; ne sono prova addirittura due guerre mondiali con un paio di olocausti di mezzo. Ma questo è un discorso che impegna uno spazio ben più ampio.
Devo proseguire?
Due parole ancora sul rapporto di Anselmo con l’architettura, quest’ancilla delegata a ospitare il suo grande teatro. Il penchant per il naturalismo lo porta oltre, appunto: beyond. L’architettura è l’universo del cielo stellato, delle forze elementari come la peso o la magnetica (mi stupisce che non abbia mai fatto niente con l’elettrica o la cristallizzante (l’energia intuita da Euclide 2500 anni fa): l’architettura è un incidente di percorso, che sia un Guggenheim, un Rivoli o un Maxi, non importa: il concetto di energia è puro, è quello offertoci da una mano disegnata a punta d’argento su un grande foglio di carta spolvero; la storia che coinvolge l’architettura, la memoria che si porta pesantemente appresso, sono fatti contingenti.
E le stelle stanno a guardare,
 le stelle che lo hanno accolto circa due mesi fa.
FDL
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federicodeleonardis · 1 year ago
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Anselmo vive
Poco meno di un mese fa moriva Giovanni Anselmo e il fatto mi ha colto di sorpresa: la mostra a Milano di qualche mese prima (nella galleria di Lia Rumma, da me commentata su questo foglio in un articolo precedente) mi era sembrata l’espressione poetica di una persona nel pieno delle proprie energie, più che una summa del suo lavoro. Dopo averla visitata, pur sapendolo molto anziano (aveva 89 anni) ho constatato che non aveva perso la verve giovanile che ha sempre dimostrato.
Come ho detto a suo tempo, attraverso gli interventi su questo foglio e sul mio blog, considero le sue opere, per rigore esecutivo, inventiva e coerenza, tra le poche oggi in circolazione veramente uniche.
Non si è riflettuto abbastanza su quanto importante è stato ed è tuttora il messaggio particolare che lui ha lasciato a noi con quella che si può ancora definire autentica scultura. Le categorie nelle quali si è portati a dividere il visivo sono da tempo superate, ma la confusione dei generi e gli sconfinamenti che hanno introdotto nell’arte visiva nuovi modi d’espressione, pur fecondi, a un certo punto hanno dato la stura al dilagare di una superficialità di cui soffriamo ogni giorno le conseguenze.
Anselmo da più di mezzo secolo ha affermato e tenuto in evidenza, con tenacia e coerenza poetica, una verità importantissima, che purtroppo è passata inosservata ai più, anche alle persone che si sono dimostrate vicine ad altri aspetti del suo lavoro e del lavoro di suoi sodali più stretti. In parole molto semplici: da quando l’uomo ha lasciato gli alberi e percorre il pianeta in lungo e in largo ha instaurato un rapporto particolare con l’energia e prima di tutto con la massa, nella sua espressione più elementare e diretta che è il peso. Lo sa bene qualsiasi vecchio ma anche, per fare un paio di esempi, la casalinga con i sacchi della spesa o un comune manovale costretto a scaricare quotidianamente sacchi di cemento in betoniere.
L’energia è alla base della vita. E’ una banalità, ma spesso sono le evidenze più comuni a costituire l’importanza di un lavoro. Infatti è proprio la presenza costante dell’energia fisica illustrata in tutte le sue forme nelle sue opere a far tramontare i cosiddetti “valori plastici”. Ed era tempo.
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L’aver tenuto fermo il dato di cui ho parlato sopra fa del lavoro di Anselmo un punto di riferimento imprescindibile che va sottolineato e sostenuto. Penso che questo sia il suo legato principale e più duraturo. La fisicità elementare sempre presente nei suoi lavori li rende particolarmente chiari e pregnanti. La Mano che lo indica, anche trasversalmente, come era cinquant’anni fa alla galleria di Salvatore Ala a Milano, è il raffinatissimo segno della leggerezza poetica con la quale quest’artista ci ha liberato del grigio e pesantissimo paesaggio che incombe oltremare su tutti noi.
P.s.  A giorni nel celebre Museo di Bilbao si terrà un retrospettiva dell’artista.
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Installation view of "Grigi che si Alleggeriscono verso Oltremare" (Grays Lightening toward 'Oltremare') (1984) by Giovanni Anselmo in the exhibition "The Knot: Arte Povera at P.S. 1" (October 6–December 15, 1985). Ph moma.org. Sopra : Mano che indica (Hand indicating), 1981. Drawing on paper. Courtesy Archivio Giovanni Anselmo, Turin. Photo Paolo Mussat Sartor
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federicodeleonardis · 2 years ago
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Ravatti
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I social network mettono alla prova la spocchia dei dotti, dei vecchi. La mia, per esempio. L’unico dovere degli artisti, se per costoro si può parlare di obblighi, è quello di occupare ogni spazio a disposizione. Alla faccia di quelli tradizionali, ormai quasi tutti resi innocui da solerti operatori d’arte impegnati a disinnescare le mine vaganti che per cambiare un po’ le cose i veri artisti cercano di collocare dove possono.
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La storia dell’arte è sempre stata infarcita di compromessi e sotterfugi e il periodo in cui viviamo non fa eccezione quanto a disastri, invasioni barbariche e Guerre dei trent’anni, quindi mai perdersi d’animo. Hanno inventato i social e qualcuno meno spocchioso del sottoscritto li adotta con successo. Beh, non un successo paragonabile per quantità a quello degli influencer vari, diciamo meglio, un successo di coscienza e di coerenza spirituale.
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Cosa troviamo nella “stanza” di quest’artista oltre al suo ritratto?  E’ difficile specificare. Come in tutti i ravattumi che si rispettino (ravatti è ligure, ciarpame in italiano, res nullius dicitura giuridica aulica), anche in questo i sostantivi surclassano gli aggettivi: 3 f, fica, ferita e fetore (Kaurismaki e Federigo Tozzi), il coltello del macellaio accanto al bisturi del corniciaio (Courbet accanto a Velasquez), il foulard di Hermes sul materasso sfondato del barbone.
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“Ancora quasi naturale”? Nient’affatto: il mare consuma e mimetizza sulla battigia le sue vittime: a Viareggio quarant’anni fa non distinguevo dai ravatti della mareggiata recente un barbone sdraiato al sole e coperto da sacchetti di plastica colorati. In quest’ambiente metropolitano da cui Lotto è fuggito per la campagna, domina un sentimento, anzi un dis-gusto: l’horror vacui.
Scappo, mi rifugio nel mio Vuoto.
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FDL
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federicodeleonardis · 2 years ago
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Il monumentalismo di James Lee Byars
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Si ripropone oggi in uno spazio d’avanguardia una grande mostra dell’artista americano morto 25 anni fa. All’Hangar Bicocca il monumentalismo è d’obbligo e il suo lavoro si presta all’ambiente dominato dalle Sette Torri di Kiefer. Il suo successo giustifica la spesa per le installazioni presentate, la grande colonna coperta da lamine d’oro all’ingresso e l’enorme parete di tessuto di seta anch’essa color oro a metà del capannone: oro a fiumi nell’ex officina di “black tires”. Sono i tempi! Le altre, di dimensione solo un poco più modesta e sapientemente illuminate, sembrano il risultato di una lezione d’arte (e di lusso): corpi geometrici e fantasie un po’ orientaleggianti in vari materiali piazzati su tavoli o per terra, sistemati nell’ambiente a creare prospettive ottiche rigorose, insieme con interni di tende di un colore smaccatamente intenso a giocare con quello del pigmento principale di un corpo di seduta piazzato proprio davanti all’ingresso (ovviamente senza nessuno seduto sopra). La lezione si conclude qui.
Confesso: ho rispettato l’appuntamento perché in passato avevo visto tre opere di quest’autore che mi avevano convinto: due molto vecchie e una recente. La prima quasi quarant’anni fa a Kassel 4, la seconda all’ingresso del Castello di Rivoli, almeno 20, e la terza recentissima, in una chiesa di Venezia (quest’ultima da me già commentata in un post precedente). Purtroppo esco dall’Hangar deluso: avevo sopravvalutato quest’artista, forse influenzato dal fatto che era amico del grande Beuys. Se ne parlo è perché questa mostra mette in evidenza come il mercato, il grande mercato degli artisti di successo che perdono tensione creativa, gioca loro  brutti tiri: il monumentalismo gratuito, cioè non sorretto da ragioni spaziali (e per spazio intendo quello che ha una storia oltre che una fisicità incombente), stride col messaggio che mi sembrava evidente nelle opere citate prima. Forse la lancia nel grande ingresso settecentesco del castello torinese ha generato tutte le opere dell’Hangar, ma l’ovattazione della luce nel capannone milanese nasconde la sua storia e rende il monumentalismo fine a se stesso: grande fisicamente non significa grande esteticamente e non basta la sensibilità per il colore a giustificare l’impiego di tutto quell’oro. Se questo aveva un senso nella chiesa veneziana, perché le lamine non erano spiaccicate sulla superfice della “caverna platonica”, ma vibravano lievemente al moto dell’aria, commentando così quello che mi sembrava un autoepitaffio, nello spazio milanese diventano pura esibizione di colore. Ma che altro deve essere un’opera d’arte? Si certamente questo gioca il suo ruolo, ma per dire qualcosa sulla vita. E sulla morte, come mi sembrava evidente a Venezia.
E anche nella stanza di Kassel, resa praticamente accecante dal bianco assoluto con il quale era stata rivestita e illuminata. Una promessa non mantenuta di tabula rasa sul terrorismo dell’immagine.
FDL
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federicodeleonardis · 2 years ago
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Pistoletto impazza
                                                           Specchio, specchio delle mie brame
                                                           Chi è il più bello del reame?
                                                            Sei tu, sei tu Sansone
                                                           Il più bello del rione1
                                                                       Da Il Mistero buffo di Dario Fo
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Richard Serra: Spirale
Faccio fatica a prendere la cosa sul serio, c’è da non credere ai propri occhi, “un grande evento”: su Artribune scorrono le immagini del rogo della Grande Venere degli stracci di Napoli, in piazza del municipio davanti al Maschio Angioino, e poi sulla performance del Grande Autore alla stampa. Sansone ci spiega, magnanimo, che occorre un po’ di pietà nei confronti del miserabile barbone, in carcere perché ha appiccato fuoco alla sua gigantesca scultura. Un tempo, quando ancora non s’era bevuto il cervello (ma sapeva già comunque da che parte era imburrato il proprio panino), in formato ridotto l’aveva chiamata “dell’Arte Povera” (i compagni della rispettabilissima scuderia di cui faceva parte - staffiere Germano Celant- avevano mal digerito lo scippo d’un cotale titolo). Lungi da me i sospetti di orchestrazione dell’evento, del “rumore”, assicurato in tempi come questi, oltre che infernali per clima, funzionali a tutti i “gazzettieri” (Carmelo Bene). Ma, non bastavano la Mela di Piazza Diaz a Milano, la “Donna col mal di testa” a Firenze (Porta Romana), la miriade di Terzi paradisi con i quali ha cosparso mezza Italia (ma tutti con la furbata della tripla giravolta del simbolo (eh, si sa, occorre qualcosa di nuovo, una zampata di genio! Non mi chiamo Michelangelo?)?
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FDL Specchio Roma,Nuova Pesa, 1996
Per carità non facciamo paragoni, almeno questo! E’ da quel dì che Pistoletto ha subìto la metamorfosi. Qualcuno mi sollecita a essere serio, a trattare questa tragedia col rispetto dovuto a un artista che una volta aveva pur prodotto qualcosa di buono (che so, il lavoro per Arte all’Arte al Chiostro di Volterra, il mappamondo rimpicciolito di giornali, l’ultima sua mostra di grandi specchi da Sergio Casoli a Milano, gli autoritratti coi riflessi nelle bacinelle della Camera oscura, forse qualcos’altro che ora non ricordo); devo impegnarmi. Onore al merito, grande o piccino che sia (lo decideranno i posteri), ma le origini di cotale ubriacatura mentale sono già a metà della carriera. Gli specchi serigrafati con cui ha cosparso il cosiddetto Mondo dell’arte (che per la verità è molto piccolo e si specchia solo in se stesso) erano una genialata, titillavano il narcisismo di tutti (”ci siamo anche noi”, colleghi, amici, gente di potere ecc), una trovata popartistica anticipatrice del postmodern. L’arte, a partire dall’impressionismo, s’era buttata alle spalle la vecchia pratica della ritrattistica, che aveva dato da mangiare un po’ a tutti per almeno cinque secoli, ma ci sono voluti Warohl e Pistoletto a rimetterla in auge: quel Mondo non ne poteva più di cotanto rigore, Pollock, gli Action Painters e poi questi fracassoni di poveristi, per non parlare di tipi come Agnetti o Mauri!
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Richard Serra, Spirale a NY, 2001
E’ un fatto che la genialata era funzionale al mercato: troppa fatica mantenere la tensione della creazione e allora mettiamoci a scopiazzare in giro: gli stracci sono di Boltanski (altra levatura, altro spessore), le rotture (beh, lasciamo andare, siamo in tanti; per citarne solo uno: Mario Merz), la Venere stessa è pescata nell’armamentario del ben più serio Paolini. Devo proseguire? Per carità il furto deriva anche dall’ammirazione per un collega; chi non ruba, chi non ha mai rubato? Ma a guardar bene nessun furto serio riesce in pieno, per lo meno a chi non può dimenticare la propria originalità, la propria ossessione, la propria tensione. E’ il rispetto per il linguaggio a giustificalo, per l’arte. Che non appartiene a nessuno.
Ripescarlo oggi nella cloaca maxima del mercato è diventata un’impresa.
Sì, il discorso andrebbe approfondito, ma il rogo non lo merita.
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Richard Serra, Spirale, Biennale di Venezia
1 Sanità del, questo sì Grande, Edoardo De Filippo
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federicodeleonardis · 2 years ago
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Lisboa- Milano, guida all’ascolto del sassofono di Manuel Teles
Guida all’ascolto, titolo imbarrazzante per un amateur, un dilettante come il sottoscritto fabbricatore d’immagini, come si considera: con quale diritto occuparsi di introdurre i compositori scelti da Manuel Teles per regalarci alcune delle sue intepretazioni? Ma in arte non esistono confini, come non ne esistono nell’umana scatola cranica. Il miscmasc neuronico è appannaggio anche dei cretini come me, appassionati ascoltatori, ma anche convinti sostenitori che la specificità del linguaggio elettivo si alimenta comunque a trecentosessanta gradi, cioè attraverso tutti gli organi del contatto col mondo donatici da Domeneddio per esistere e soprattutto per comunicare: l’orecchio è fra questi; non ultimo.
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Pastorale Martesana di FDL, 2023
Guida all’ascolto, titolo imbarazzante per un amateur, un dilettante come il sottoscritto fabbricatore d’immagini, come si considera: con quale diritto occuparsi di introdurre i compositori scelti da Manuel Teles per regalarci alcune delle sue interpretazioni? Ma in arte non esistono confini, come non ne esistono nell’umana scatola cranica. Il miscmasc neuronico è appannaggio anche dei cretini come me, appassionati ascoltatori, ma anche convinti sostenitori che la specificità del linguaggio elettivo si alimenta comunque a trecentosessanta gradi, cioè attraverso tutti gli organi del contatto col mondo donatici da Domeneddio per esistere e soprattutto per comunicare: l’orecchio è fra questi; non ultimo.
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A tempo! di FDL
La Musica dei pezzi scelti da quest’esecutore nel Cd di cui sto facendo pubblicità (ohibò) è tutta dei nostri giorni, anche se alcuni dei compositori potrebbero essere benissimo padri o addirittura, come il sottoscritto, suoi nonni. E qui vorrei spezzare una lancia in favore della classicità: l’anagrafe in arte non mi interessa: ascolto Quella della Fuga esattamente come l’ultima composizione del non ancora quarantenne Vincenzo Parisi (E gridare…). Ridimensioniamo per favore il mito molto contemporaneo del contemporaneo: il contemporaneo ha come non ultimo compito quello di aiutarci oggi ad ascoltare Bach o Monteverdi attraverso tutti i grandi artisti 1 - compresi i visivi, sottolineo - che hanno lavorato dopo di loro; niente di meno. Ma cerchiamo di essere più specifici. Per esempio, ho ascoltato l’interpretazione di Tracce eseguita dal norvegese Nyström non molti anni fa e poi quella di Teles e ho avuto conferma della grande responsabilità che hanno gli interpreti nei confronti di un compositore, della loro libertà di manovra nell’eseguire uno stesso pezzo musicale. Nello specifico ho trovato il primo eccessivamente preoccupato della contemporaneità della composizione, di rendere cioè l’indiscusso penchant del giovane Francesconi nei confronti del Jazz, mentre nel secondo quest’amore arretra, per accogliere invece la sensibilità introdotta potentemente da Berio e presente poi in tutte le composizioni successive di quest’autore.
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Allora cosa è il contemporaneo per un amateur se non un nuovo modo, più allargato, più dotto e più colto di ascoltare un pezzo? Dell’anagrafe ce ne freghiamo, ci interessa semplicemente la costruzione, ambigua, sempre discussa, sempre rinnovabile e aperta di ciò che aspira a diventare classicità. Viktor Sklowskij diceva 2 che la cattedrale dell’arte è costruita con le pietre delle eresie artistiche. Vero, ma io sottolineo nel suo aforisma la parola Cattedrale.
Tirem innanz 3: sono onorato che Teles m’abbia incaricato di introdurre alcuni dei suoi pezzi di bravura al sassofono e non so se sono all’altezza del suo ascolto: ho registrato la presenza di un’ancia capace di passare improvvisamente, nella composizione di Bochmann (Essay XIII), dai toni dolci, atmosferici, a quelli “gridati” da un soffio potente e un uso dello strumento estremamente colto, quando, come ho detto prima, deve interpretare il primo Francesconi (Tracce è di quasi quarant’anni fa) alla luce delle sue composizioni successive. Per tornare al concetto di cultura dell’ascolto, l’epoca è chiaramente presente nella composizione del portoghese Bochmann (classe 1946), perché il clima della dittatura salazariana ha lasciato le sue impronte evidenti nella cupezza della prima parte del pezzo, cupezza che va progressivamente sciogliendosi nella seconda: l’arte, lo sappiamo, è soprattutto catarsi, se no che ci sta a fare? Il pezzo di Oliveira, più giovane del collega portoghese di quattro anni, sembra addirittura composto prima della tragedia della seconda Guerra mondiale e impegna l’interprete in un virtuosismo di pianissimi in accordo proprio allo spirito del Fado, ma ricco di sfumature che non si incontrano nel canto popolare. Sarebbe idiota cercare di sostituire con le parole ciò che la musica esprime direttamente con il timbro generato dall’ottone dello strumento, per esempio il suo modo di produrre il pizzicato degli archi con improvvisi stacchi ecc, presenti soprattutto, ma non solo, nei pezzi di Parisi e di Sciarrino.
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FDL in posa leonardesca dietro la sua Tagliatella
Non è da tutti passare dalle intemperanze del primo, molto attuali, molto postmoderne, all’evidente influenza nella musica di Francesconi di un compositore come Berio, sia in Tracce che in Notturno. E’ evidente il lungo esercizio necessario a rendere tutte le potenzialità di uno strumento. Si può apprezzare in pieno la gamma di sfumature possibili, dal colpo netto al sottilissimo fiato sussurrato nel tubo metallico, soprattutto nell’interpretazione dell’ultima delle composizioni: riusciamo a cogliere la sicilianità di Sciarrino, l’importanza dell’influenza del barocco nelle sue leggerissime invenzioni. Proprio quest’ultimo pezzo motiva l’invito che Teles mi ha fatto di partecipare attivamente alla messa in funzione del suo CD: se L’orologio non è descrittivo e molto visivo, mi ritiro in buon ordine, ma anche nella musica dei due portoghesi rappresentati (Bochmann e Oliveira) l’ambiente locale è evidente. E’ quasi superfluo ricordare quello in cui visse l’autore moderno più importante di tutto il Portogallo. Per suffragare il mio discorso iniziale sottolineo che si tratta di uno scrittore 4: la scatola cranica umana al suo interno non ha confini.
Ah, dimenticavo: Manuel Teles ha vent’anni (21, per la precisione e per il discorso sulla contemporaneità!)
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  1.        Ricordo che Cage e Scodanibbio sono autori, fra tanti, di splendidi d’après dai Madrigali di Monteverdi
2.       Ne La mossa del cavallo, 1923
3.      Per non dimenticare gli eroi: celebre frase in milanese pronunciata da Amatore Sciesa, costretto dagli austriaci, prima dell’impiccagione, a passare in manette davanti a casa sua perché si decidesse a denunciare i compagni cospiratori: “Passiamo oltre” (1848)
4.      Fernando Pessoa, alias Alberto Caeiro, alias Riccardo Reis, ecc, autore, sottolinea Oliveira nel suo pezzo, del Dessassosego
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federicodeleonardis · 2 years ago
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Antidesign
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FDL, quattro Alba e a sinistra Pasifae alla Duodial a Milano, 1985
 Design, a foreign word used in Italian with a single sense. The literal translation is a project but, with the uncritical genuflection towards the Anglo-Saxon language, in ours it has almost exclusively taken on a single specific meaning: a project aimed at the production of everyday objects. Antidesign, which I have used for some time, also has a single meaning: the production of objects "of use and of charm", as Pierre Restany suggested in the distant 80s.
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FDL, Flamenco (lampada da tavola, 2003) su Ballerina 1 (tavolo in acciaio di cantiere e vetro, 1970)
Anti-design has its ambitions and the main one is to minimize the enslavement of the people who contribute to the production of the above objects. By slavery I mean that which, for reasons of survival, forces millions of unfortunate people to keep up with mass production machines, from the simple ones for making a screw to the more complex ones called five-way pantographs or robotics (the new frontier of technology, which tends to eliminate the mechanical work of the unfortunate - but also workitself tout court): have you ever met them on the assembly lines of small and large industrial production companies? The immense sadness of these poorly paid young people is standard. In short, to return to ambition, if you can reduce the screws or eliminate them altogether (we have understood each other).
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FDL, Pasifae, tavolo da studio in quattro mezze pelli intere di vacca, 2011
Cutting it short: I'm interested in reducing slavery without affecting the volume of production: the first can be lessened by also entrusting the second to the consumer: if I'm able to make my own dining table, why buy one? But we are not so utopian and we take into account the old, the handicapped, “la casalinga (housewife) di Voghera” and the lazy because fatigue makes me a slave to execution. But maybe I'll get a taste for it! Of course, but I must have the tools, at least elementary if not complex, tools that are  produced by others, thus expanding the ranks of unfortunate non-robots. In short, anti-design brings with it a lot of contradictions, not to mention that humanity in the last 50 years has gone from 3 to 8 billion individuals who need tables and not utopian discourses
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FDL, Berenice, lampada in scarti di vetro pirex e scarti di rame, 1986
I do not make the preposterous claim to a solution to the arduous problem of slavery, not even in passing. Equipped with a minimum of dexterity, I stress minimum (my mother, since I wasn't studying, sent me to be a carpenter's apprentice in the eighth grade), however I suggest that you take into consideration that there is the concrete possibility of building your own objects of use (if not of charm) necessary to sit down at banquets, converse in the living room, perhaps sitting on an armchair, illuminate one's book with an abatjour or lamp of another type, place the same in a cheap bookcase, etc. I suggest, I don't impose. On the contrary, I follow up the suggestion with some practical advice that requires manual skills to a minimum, visual advice.
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FDL, Meridiana, tavolo da salotto in crosta di marmo Pario e legno di segheria,1987
Don't worry, there is no copyright (another contradiction, the use of the hated English): the suggestion can be followed by anyone without problems. But you have to know how to look: my objects, that is, those produced to furnish my home and that of a few admirers (too few to be a hero - quote from Carver) are very simple and can be copied by any housewife. Just have a little optimism.
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FDL, Vie minate, lampada in vetro e pietre, Ballerina e Pastorale, 1995
Of course you must like the suggestions, but the materials that I am attaching to the project (ohibò, design) are the cheapest and most common: no plastic, “ravaneto” marble, wood already used or recovered from any landfill, scrap iron from the forge, scrap glass from neon production etc. In short, a real trash can. But who doesn't have a trash can available?
FDL
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federicodeleonardis · 2 years ago
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L’antidesign
Design, parola straniera usata in italiano con un unico senso. La traduzione letterale è progetto ma, con la genuflessione acritica nei confronti della lingua anglosassone, nella nostra ha assunto quasi esclusivamente un solo significato specifico: progetto finalizzato alla produzione di oggetti d’uso. Antidesign, da me usato da tempo, ha anch’esso un unico senso: la produzione di oggetti “d’uso e d’incanto”, come suggeriva Pierre Restany nei lontani anni 80.
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FDL, Aracne, poltroncina 1987, legno e rete
L’antidesign ha le sue velleità e la principale è quella di ridurre al minimo la schiavitù delle persone che concorrono alla produzione degli oggetti di cui sopra. Per schiavitù intendo quella che per ragioni di pagnotta costringe milioni di malcapitati a star dietro a macchine di produzione di serie, da quelle semplici per fare una vite a quelle più complesse chiamate pantografi a cinque vie o robotiche (la nuova frontiera della tecnica, che tende a eliminare il lavoro meccanico dei malcapitati - ma anche il lavoro tout court): li avete mai incontrati alle catene di montaggio delle piccole e grandi aziende della produzione industriale? L’immensa tristezza di questi giovani malpagati è di casa. Insomma per tornare alla velleità, se puoi riduci le viti o eliminale del tutto (ci siamo intesi).
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FDL, Ballerina, Tavolo da pranzo in tubi e vetro, 1977
Tagliando corto: mi interessa ridurre la schiavitù senza intaccare il volume della produzione: la prima è ridimensionabile affidando la seconda anche al consumatore: se sono in grado di fare il mio tavolo da pranzo, perché acquistarne uno? Ma non siamo così utopici e teniamo conto dei vecchi, degli andicappati, delle casalinghe di Voghera e dei pigri perché la fatica rende me schiavo dell’esecuzione. Magari però ci prendo gusto a menar le mani! Certo, ma devo avere gli strumenti, almeno elementari se non complessi, strumenti che producono altri, allargando così la schiera dei malcapitati non robotici. Insomma l’antidesign si porta dietro un sacco di contraddizioni, senza contare che l’umanità negli ultimi 50 anni è passata da 3 a 8 miliardi di individui che hanno bisogno di tavoli e non di discorsi utopici.
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FDL, Orma, tavolino da salotto in scarti di forgeria e vetro, 1987
Io non ho l’assurda pretesa di una soluzione all’arduo problema della schiavitù, neanche di sfuggita. Dotato di un minimo di manualità, sottolineo minimo (mia madre, visto che non studiavo, in terza media mi mandò a fare l’apprendista d’un falegname), suggerisco però di prendere in considerazione che esiste la concreta possibilità di costruirsi i propri oggetti d’uso (se non d’incanto) necessari a sedersi in convivio, conversare in salotto, magari seduti su una poltroncina, illuminare il proprio libro con un’abatjour o lampada d’altro tipo, riporre lo stesso in una libreria economica ecc. Suggerisco, non impongo. Anzi faccio seguire il suggerimento da alcuni consigli pratici che impegnano al minimo le abilità manuali, consigli visivi.
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FDL, Pasifae, Tavolo di sole 4 pelli di 1/2 vacca intere, 1986
Tranquilli, non c’è nessun copyright (altra contraddizione, l’uso dell’odiato inglese): il suggerimento può essere seguito da chiunque senza problemi. Però bisogna saper guardare: i miei oggetti, cioè quelli prodotti per arredare casa mia e quella di pochi ammiratori (troppo pochi per fare l’eroe – citazione da Carver) sono molto semplici e copiabili da qualsiasi casalinga. Basta avere un minimo di ottimismo.
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FDL, Libra, libreria in assi di scarto di cantiere e tubi Innocenti, 1975
Naturalmente devono piacere i suggerimenti, ma il materiale che allego al progetto (ohibò, design) sono dei più economici e dei più comuni: niente plastica, marmo di ravaneto, legno già usato o recuperato in qualsiasi discarica, ferro di scarto di forgeria, residui della produzione di neon ecc. Insomma una vera pattumiera. Ma chi non ha una pattumiera disponibile?
FDL
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FDL, Cinderella, lampada ozonizzatrice in solo vetro e scarti di neon, 1990
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federicodeleonardis · 2 years ago
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FDL, Alba (Stelle nere), 1985, Statuario di ravaneto di Carrara
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federicodeleonardis · 2 years ago
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Bill Viola at Milan’s Palazzo Reale
It is challenging to exercise one's polemical verve with a "great artist" (according to the definition of the exhibition's authors), because great is an adjective that is always debatable: great is Pontormo, great perhaps are, in BV's favorite subjects, de Hooch, ter Borch, certainly Vermeer and Rembrandt, and, in the exercise of their exclusive tool, Beuys, Warhol, Bela Tarr and certainly Carmelo Bene. But I didn’t mentioned the Dutch and Pontormo randomly, because the deference paid to them by BV is explicit (see the captions) as well as indubitable at a glance. And this makes the exhibition at Palazzo Reale perfect and its author, if not great, at least, very good. In fact, one of the indispensable tasks of an artist, of any self-respecting artist, is precisely to help look at art with new eyes, to revive it, to protect it from the multitude of idiots bombarding it from all sides. But there’s more: a skillful and undoubtedly very bold use of the favored medium: large-format video. Meanwhile, there is a characteristic that has been evident since his first works appeared on the scene (I’m thinking of the famous dive shot in slow motion and up close, exhibited at the Venice Biennale many years ago): I am talking about the slowness, the potential of slow motion, pushed to the extreme by new digital technologies.
I didn’t mention the Hungarian film-maker and the famous fathers of video, Warhol and Beuys, randomly: they not only preceded him in the use of slowness and the fixed frame (if you think about Chelsea Girls, 24Hours, the stillness of the German artist seated impassible in the foreground for 15 minutes) but also revealed the dysfunctions of Cinema through their works It is certainly a merit the fact that BV takes advantage of today’s last technical possibilities and means to improve his creations. Every artist should.
Then what leaves me unsatisfied?
Modern-day art shows a dangerous weakness precisely in its uncritical kneeling to last new technologies. BV rightly decides to pursue those obsessions that make up human spirituality, those that make us different from animals, such as the concept of life, birth, decay, death, the unexpected event, the act of praying, but at the same time and to his discredit he minimizes the contact with matter (in physical terms) (in this case, water and fire) to a merely digital expression. Is this the result of the limitation imposed by the digital means? Imperfection, vulgarity, the human evilness (so clear in an artist as Bela Tar); the love for detail, the beauty of dirtiness, so evident in Pelešjan’s work and, with a more than justified excess, in Carmelo Bene; the barochism, so important in the European culture from Borromini onward (toward which artists like Carmelo Bene and Beuys show great attention); all these things are completely absent in his work. Everything is perfect, the “painting” accurately portraits the memory of Visual Arts. Nevertheless, however unfair I may sound towards a very meaningful and communicative work such as BV’s, I would summarize with a Rococo line: "Perdrix, perdrix, toujours perdrix! Un peu de merde [s’il vous plait]” (my contribution to Louis XIV’s quote).
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Bill Viola, Catherine’s Room, 2001 Color video polyptych on five LCD flat panel displays mounted on wall, 38x246x5,7 cm 18:39 minutes Performer: Weba Garretson Photo: Kira Perov © Bill Viola Studio
Bill Viola a Palazzo Reale di Milano 
E’ impegnativo esercitare la propria verve polemica con un “ grande artista” (secondo la definizione degli autori della mostra), perché grande è un aggettivo sempre discutibile: grande è Pontormo, grandi forse lo sono, nei soggetti prediletti da BV, de Hooch, ter Borch, certamente Vermeer e Rembrandt e, nell’esercizio del suo strumento esclusivo, lo sono Beuys, Warhol, Bela Tarr e certamente Carmelo Bene. Ma non ho citato gli olandesi e Pontormo a caso, perché l’ossequio tributato a costoro da BV è esplicito (v didascalie ) oltre che indubbio a colpo d’occhio. E questo rende la mostra a Palazzo Reale perfetta e il suo autore, se non grande, almeno bravo, molto bravo. Infatti uno dei compiti imprescindibili di un artista, di qualsiasi artista che si rispetti, è proprio quello di aiutare a guardare l’arte con occhi nuovi, a farla rivivere, a proteggerla dalla marea di cretini che la assediano da tutte le parti. Ma c’è di più: un uso sapiente e senza dubbio molto audace del mezzo prediletto: il video a grande formato. Intanto c’è da sottolineare una caratteristica evidente fin dalle sue prime opere comparse sulla scena (sto pensando al famoso tuffo ripreso al rallentatore e da vicino, esposto alla Biennale di Venezia molti anni fa): parlo della lentezza, delle potenzialità del rallenty, spinto all’estremo dalle nuove tecnologie digitali. Ma non ho citato a caso nemmeno l’ungherese e i famosi padri del video, Warhol e Beuys, non tanto perché lo hanno preceduto nell’uso della lentezza e del quadro fisso (si pensi per es. a Chelsea Girls,  a 24Hours, all’immobilità del tedesco dietro la camera che lo riprende seduto in primo piano), perché le deficenze del cinema, anche quello d’autore, diventano scoperte proprio in virtù del lavoro di costoro. Che BV ne tenga conto usando le potenzialità del mezzo odierno è titolo di merito: un artista ha il dovere preciso di sfruttare al meglio i propri mezzi. E lui lo fa.Cosa mi lascia insoddisfatto allora?L’arte dei nostri giorni mostra una debolezza pericolosa proprio nella genuflessione acritica alla tecnologia d’avanguardia. BV decide giustamente di percorrere le ossessioni che producono la spiritualità umana, quelle che lo differenziano dalla bestia, la vita, la nascita, la decadenza, la morte, l’evento imprevisto, la preghiera, ma assoggetta il contatto con la materia, in questo caso l’acqua e il fuoco, al solo mezzo digitale. E’ il limite della scelta del mezzo? La sbavatura, la volgarità, la cattiveria umana (così pregnanti in un artista come Bela Tar), l’amore del particolare, la bellezza della sporcizia, evidenti nell’opera di Pelešjan e, con un eccesso più che giustificato, in Carmelo Bene, il barocchismo, così importante nella cultura europea da Borromini in poi (verso il quale artisti come appunto Carmelo Bene e Beuys mostrano grande sensibilità) sono in lui completamente assenti. Tutto è perfettissimo, il quadro sposa la memoria dell’arte, però se non passassi per eccessivamente ingiusto nei confronti di un lavoro che fa riflettere, sintetizzerei con una battuta, datata appunto rococò: “Perdrix, perdrix, toujours perdrix! Un peu de merde” (SVP, aggiungo io a Louis XIV).   
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federicodeleonardis · 2 years ago
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Ann Veronica Janssens at Hangar Bicocca in Milan
How nice to be an artist! How nice, with a space available like the Hangar, and not just the space, also the organization, the money to do what you want. Everything is conceived on a grand scale, walls are assembled, spaces closed, lights of all types, screens of the size you want, jets of steam, sounds;  you can go up to twenty and more meters in height to hang your fantasies, like sprinkling the floor with whatever you like. Even Melotti, at the entrance, the shy, minute, imaginative sculptor of the delicacy of welded brass wire, the introducer of music into visual art, even he at the Hangar indulges in the monumental (the long pillars of corten , they are not all erect, three or four have fallen forward. But not by chance: as if they have fallen into the well-kept grass of the garden, to allow the spotlights to have their effect – but I allow myself the suspicion: it will really be all his or his drawing translated into a gigantic ad usum delphini?
How nice to be an artist at the Hangar! Do I emerge enriched?
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Well, nothing new under the sun, under its eclipse, under the sea that reflects the moon, in the artificial fog that obscures the football match at the stadium. Nothing new under the immense wall overloaded, but neatly, with B&W photos of the same size: that’s life, man! They are life, the line of cars passing in the monotony of a highway, the pebbles rounded by the sea and scattered on the floor are life. Even the sense of great solitude of the interstellar spaces, the telescopic penetration into the swarm of stars of the Galaxy, the moon crossed by our clouds; bright jokes on TV screens are life. It takes work to put everything together with perfection and cleanliness in order to enjoy them all next to each other,  that is great professionalism: hats off to you, teacher!
I repeat, nothing new. But perhaps precisely for this reason and for this cleanliness, this purity, beauty, far from the decomposition and daily crap that today’s life dispenses us in spades; if we have a moment to stop and contemplate, if life allows us to “disconnect”,  to overcome the obsession of having to think about the daily loaf of bread, of human wickedness and cunning, when for a moment you are allowed to forget death (is it possible ?) .
Everything is very clean, even the beam on the ground, all shiny and of course also the glass and mirrors scattered everywhere to reflect the dark charm of the ancient Pirelli. There is no doubt that the lady has visual sensitivity to sell, just think of the large crepe, pleated panel hanging high up in front of the natural side lights, the curtains that filter the light in front of the garden entrances, the small prisms placed on the glass: the dimensional play between the mammoth and the crystal is the bread of any self-respecting work and those of Ann Veronica is self respecting. There is no filling, we are not overwhelmed, everything is calibrated and studied to the millimetre, the space is not cluttered.
It’s a lot today. A.V. he even manages to overcome certain Turrell-like effects, to play with emptiness even better than the first Kapoor; in one work, one of the best, the influence of Beuys can even be felt: on a large screen an old man (archistar Oscar Niemayer) smokes a toscanello on a loop in front of his library, he is austere, meditative (thinking of death? It is probable, he’s very old and doesn’t give a damn about anything). But no plagiarism: the whole is authentically by Janssens, its measure, its cleanliness, its visual balance are rare.
Very good.  And what about the novelty that every artist owes to  their audience? The era is distracted, stupid, full of itself and ignorant: it must be re-educated to look, to stop in front of the immensity of the universe; this serves as a lesson to it: the most cruel and intelligent beast on earth perhaps drops its crest. It is a lot, I agree, and it justifies the wealth of spaces and means made available: one of the cleanest and most spectacular exhibitions in the Hangar. Let’s give credit where credit is due.
But the hangar? The sound of the old presses of the ancient workshop, the noise of the bridge cranes, of the blow torches, of the trolleys transporting everyone’s intimate clothes accumulated by Boltanski not many years ago? Where did they end up in the darkness of the sheds masked by impeccable paint? Where is the work, where are the traces of dirt, of the sludge on the hands that such work gives us every sacred day? Where has the memory gone? In counterpoint the towers of Kiefer swayed precariously and in the air of the immense steel trusses the aerial seeds of the poplars had penetrated to recall the nature of the spermatic, vegetal, philo-anemonic, light, casual, unexpected, white, luminous pollution.
I’ll go look for them outside. But before leaving, I passed into a small 2×2 room: a single small photo of a wood inside a simple simple frame, with a pencil scrawl next to it, not even a question mark. Beautiful, authentic: poetry passed through it. I started, its shiver shook me: art doesn’t need large spaces, theaters of entertainment, it must also be in the most insignificant and miserable corners: it is the fruit of a moment, it does not belong to you, it belongs to no one.
Art, he said, is part of private history long before it is part of the history of art proper, art, he said, is private history… and the matrix of private history is secret history (Roberto Bolaño)
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federicodeleonardis · 2 years ago
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Una lettera sul Pitocchetto
Caro Piero 1, ho visto: Lotto, Palma il vecchio, Cariani, Savoldo, Romanino, Morone, Moretto e poi ancora Fra Galgario, Piazzetta, 
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e perché no, Baschenis, Bettera ecc. tutti operativi nei due secoli d’oro della pittura Bergamasca e Bresciana (che allora però era sotto Venezia).
Perché no il Ceruti? No, non il Gino di Gaber, che “lo chiamavan drago”; Ceruti Giacomo soprannominato il Pitocchetto (Milano 1698- 1767), quello di Miseria e Nobiltà. No, non la commedia del grande Eduardo napoletano, quella del Museo di S. Giulia nella Brescia Capitale della Cultura dell’anno del Signore 2023 appena cominciato e bisognerà pure precipitarsi a Bergamo, associata  per la grande occasione!
Perché no il Pitocchetto? A parte un paio di nature morte decenti della cucina bresciana (polenta e usei + graspa da raspi di Franciacorta filtrata nel cappello del montanaro, ah indelebile ricordo dell’amico ospite egregio negli anni ’60 / ‘61), pura fotografia, pura documentazione realistica della faccia di popolani e di signori. Sì, anche di quelle dei poveracci. Si occupa uno spazio un po’ negletto (ma l’idea non fu solo sua, è un po’ nell’aria spagnola-asburgo-veneta, e anche del grandissimo Velasquez) e si soddisfa una clientela con senso di colpa. E cosi il ritratto di chi ti dà del pitocco, perché non ce la fa a comprartelo,finisce nella sala da pranzo con camino fumante, insieme con la granseola appena arrivata da Venessia: Toh, l’è propio l’ciabatin, l’è lu!
La somiglianza non è facile a cogliersi! Allora perché no il Pitocchetto?
Perché l’arte non è solo mestiere, non imita la realtà, è invenzione. Per rendere la somiglianza poi di mestiere ne basta poco e ammesso e non concesso che ci sia, l’arte non è solo la toppa nel vestito, lo straccio, il cappello sfondato. La realtà, tutta la realtà è transeunte: una teoria di facce scomparse, nobili e poveraccie. Cosa crei a imitare la realtà ? l’arte è luce, tocco, sorpresa; è oltre la realtà. Al massimo, se ci riesce, consolazione per la morte. Qui casca l’asino, mentre il colore meravigliato nell’occhio di Fra Galgario è invenzione, aggiunta a qualcosa che non c’era, irrealtà. Perfino il parruccone in grigio matita del von austriaco (non mi ricordo più come si chiama) è luce autentica, sensibilità delicata dell’occhio del Piazzetta, lì nella stessa sala!
Ma allora perché tanto casino, tanto rumore (“Un grandissimo pittore” gli organizzatori) per questo produttore in serie di scatti fotografici su stracci ineccepibili? Ma è logico: è la democrazia! W il ritratto dei poveri migranti, quelli scampati alle carestie con la polenta delle americhe spagnole o ai naufragi nel Canale di Sicilia (7.3.23): mettiamoglieli in casa a sti borghesi arricchiti! Hai visto come siamo democratici? oggi come ieri e senza bisogno della cura suprema dell’atmosfera, alla Chardin, o più modesta, alla Baschenis (bergamasco con liuto cremonese). Oggi come ieri, perché anche oggi siamo furbi e sappiamo sfruttare le mode, le orde di piccoli schiavi della burrrocrazia (non è un lapsus) a caccia di patenti intellettuali, intruppati dietro le guide museali, biglietto 28 Euri sonanti (14 Museo di Villa Giulia + 14 Martinengo) per un centinaio, dicesi almeno cento, fotografie antelitteram, come quelle dei telefonini odierni alla portata di tutti i cretini, anzi soprattutto di genere femminile, cretine: è così bello apparire con la propria coiffure nel selfie davanti al Pitocchetto della Capitale della cultura!
Bah, che nausea, caro Piero! Perché ho scelto quel mestiere? Che nausea la realtà, i telefonini, le mostre di fotografia, la democrazia, il Pop. Sfoglio un contemporaneo del pitocco, niente popò di meno che Denis Diderot: “l’imagination ne crée rien, elle imite, pour creer il faut avoir de l’exprit critique” (1750 o giù di lì e Oscar Wilde 1880, citato da Carmelo Bene 2002). W la tabula rasa (3)  
1  ½ Botta, che mi ha consigliato la mostra.
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