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Intervista al mago degli effetti speciali Ken Ralston: “Alice attraverso lo specchio, il mio lavoro più libero”
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Dal 19 ottobre approda in veste home video nei negozi italiani “Alice attraverso lo specchio”, sequel disneyano di “Alice In Wonderland”. Basato sui fantasmagorici e visionari racconti di Lewis Carroll, il film diretto da James Bobin e prodotto da Tim Burton è un tripudio di effetti speciali, fondamentali per dare forma all'incredibile realtà del Sottomondo che Alice (Mia Wasikowska) torna a raggiungere passando attraverso uno specchio magico: c'è da salvare l'amico Cappellaio Matto (Johnny Depp), che ha perso la sua Moltezza. Per farlo, la coraggiosa ragazza dovrà raggiungere il Tempo (Sacha Baron Cohen) e impossessarsi della Cronosfera: solo andando indietro nel tempo la nostra giovane eroina potrà riuscire a riparare le cose. Dietro alle parole che plasmano la storia – quelle nate dalla penna di Lewis Carroll e quelle che naturalmente vivono sulla bocca dei protagonisti sullo schermo– c'è tutto un mondo complesso, apparentemente fisico e tangibile, che deve la sua esistenza a un veterano dell'effettistica, lo Special Effects Supervisor Ken Ralston.

Operativo in questo settore strategico sin dagli anni Settanta (i suoi esordi alla Cascade Pictures di Hollywood come realizzatore di sculture, pupazzi animati, effetti ottici e animazione stop motion), Ken Ralston è stato tra i fondatori, nel 1976, della mitica Industrial, Light & Magic. Per vent'anni alla ILM Ralston ha lavorato, tra gli altri progetti, alla creazione dell'universo di “Star Wars”. Oggi è Senior Visual Effect Supervisor and Creative Head ai Sony Pictures Imageworks. Nella sua carriera, ben quattro i premi Oscar vinti per i migliori effetti speciali, oltre a un Oscar Special Achievement Award per gli effetti visivi in “Guerre stellari - Il ritorno dello Jedi”
Mr. Ralston, la prima domanda - considerando il suo curriculum - è d'obbligo: è corretto definirla un “guru”? O l'etichetta le sembra inflazionata?
(sorride) “Assolutamente no. Mi definisca pure guru, in questo abito ci sto comodo”.
Lei è stato un pioniere degli effetti visivi al cinema. L'evoluzione tecnologica in questi anni è stata impressionante: secondo lei è cambiata la percezione di ciò che gli effetti devono dare a un film da parte del pubblico? “Si, penso di si. Oggi l'occhio dello spettatore è diventato più attento, diciamo pure esigente. Gli effetti digitali apparentemente possono realizzare tutto, ma ci sono cose che vengono meglio e altre meno. Il pubblico ha imparato a farsi un'idea della qualità di questi effetti speciali. Certo, lo spettatore medio non comprende cosa noi tecnici facciamo di preciso, ma assistono a scene strabilianti e sanno confrontare quelle di un buon film con quelle di un film meno valido”.
Secondo la sua esperienza che cosa chiede di più il pubblico oggi: rimanere stupefatto dall'inserimento di scene impossibili in una realtà assolutamente realistica (come lei fece in “La morte ti fa bella”), oppure essere trascinati in un mondo totalmente 'altro’?
“In realtà è troppo facile dire che esistono entrambi i tipi di richiesta da parte del pubblico. Per quanto mi riguarda la cosa è indifferente, perché al cuore del segreto c'è sempre e solo quanto valida sia la storia, come il film viene narrato. E se gli effetti speciali visivi rispettano lo spirito di questa narrazione”.
Lei ha affermato che “Alice attraverso lo specchio” è stata la sua sfida tecnica più difficile: è vero? “Le difficoltà sono state molte, a cominciare dagli Oceani del Tempo in cui Alice si muove. Il mondo metallico di Tempo è un dedalo di percorsi e, naturalmente, la scena più spettacolare del film è stata la più impegnativa: parlo di quella in cui la ruggine dilaga come una marea su tutto il mondo del Tempo”.
Lei ha realizzato effetti speciali per film come la saga di “Star Wars”, “Star Trek”, “Men In Black”, “Ritorno al futuro”, “Forrest Gump”: quale di questi titoli la rappresenta di più? “Impossibile scegliere. Ma posso dire che Forrest Gump entra di diritto nel numero dei preferiti: ai tempi l'effettistica visiva non offriva le possibilità di oggi: la famosa scena a Washington, il discorso pubblico davanti a una marea di persone, è stato un'impresa stressante. Ancora non si potevano riprodurre persone in CGI, usavamo immagini di vere persone duplicate. Non solo: le condizioni metereologiche cambiavano continuamente durante le riprese, il vento muoveva le macchine da presa. Ci siamo complicati stupidamente il lavoro, che è durato tantissimo tempo!”
Com'è stato lavorare con un regista e produttore immaginifico come Tim Burton? “Tim è un'artista di grande intelligenza, e sa benissimo cosa e quanto chiedere dai suoi collaboratori. Ovviamente, lui ti dà un sentiero nel cui devi muoverti ma – dentro quei confini – la tua libertà creativa è notevole. Ed è questo che rende stimolante lavorare con lui. Il dialogo con Tim è sempre a pari livello. Quel che posso dire è che realizzare 'Alice attraverso lo specchio' è stato un assoluto divertimento: è stato il lavoro in cui ho avuto maggiore libertà in tutta la mia carriera”.
Qual è invece la sua relazione con gli interpreti del film? Interagisce con loro sul set? Chi è stato l'attore più collaborativo ed entusiasta in 'Alice attraverso lo specchio'? “Sì ho lavorato con ognuno di loro. Gli attori devono muoversi davanti a un grande blue screen, senza sapere cosa diavolo sta succedendo mentre gesticolano seguendo le nostre indicazioni. Senza dubbio Helena Bonham Carter, che è decisamente presente in questo film, come peraltro in quello precedente. In questa storia viene narrato il perché la sua testa, come Regina di Cuori, si sia ingrossata, dunque l'interazione è stata frequente. Ho apprezzato molto il modo in cui ha lavorato con noi”.
Lei ha lavorato a “Star Wars” e “Star Trek”: un bravo special effects supervisor è giocoforza appassionato di fantascienza? “In realtà io ono appassionato di buone storie. E, certo, ero un fan della serie tv di 'Star Trek' quando uscì negli anni Sessanta. Per me è stato emozionante e surreale finire a lavorare in alcuni film della saga”.
La versione Blu Ray di “Alice attraverso lo specchio” può essere paragonata a quella che si vede su grande schermo? “É assolutamente identica. La qualità di risoluzione è la stessa con la quale lavoriamo”.
Cosa la stimola dopo gli Oscar vinti? “Qualcosa che non sia facile. E che non ho mai fatto prima. Mi piacerebbe lavorare a un film ambientato in Italia, questo sì”.
“Alice Attraverso lo specchio” home video Le confezioni home video prodotte da Disney sono in veste Blu-Ray 3D, Blu-Ray, Dvd e cofanetti Dvd e Blu Ray con entrambi i titoli burtoniani “Alice In Wonderland” e “Alice Attraverso lo specchio”. Tra gli speciali allegati al film meritano segnalazione Dietro Lo Specchio in cui il regista James Bonin rivela i dettagli del Making Of del film, Personaggi di Sottomondo in cui vengono mostrate tutte le bizzarre creature del Sottomondo, lo speciale sui costumi commentato dalla costume designer Premio Oscar Collen Atwood, le scene eliminate dal final cut (con commento audio) e altri extra. Le lingue audio comprendono inglese (anche descrittivo), italiano, tedesco e greco; i sottotitoli Italiano, Inglese per non udenti, Greco e le principali lingue scandinave.

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Recensione “L'estate addosso”: Gabriele Muccino torna alle origini con una storia di formazione
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Gabriele Muccino, diciamolo, non parte mai da un pregiudizio favorevole quando ha a che fare con la critica. Come autore ha sbagliato molto: le ultime due pellicole hollywoodiane - “Quello che so sull'amore” e “Padri e figlie” - si sono rivelati dei flop, mentre il precedente sequel de “L'ultimo bacio”, “Baciami ancora”, non aveva alcun senso se non quello di cedere alla tentazione della classica minestra riscaldata. Forse è per questo che il regista romano, ormai 49enne, ha pensato di tornare alla proprie radici. Dopo più di tre lustri dal passaggio a Venezia con “Come te nessuno mai” (il primo film che attirò, meritoriamente, le attenzioni su di lui), eccolo tornare in laguna nella sezione fuori Concorso 'Cinema nel Giardino' con “L'estate addosso”, in uscita nelle sale il 15 settembre. Film a budget risicatissimo (solo 4 milioni di euro), affidato a un cast poco noto al grande pubblico (volti da serial più che da grande schermo), “L'estate addosso” è una classica storia adolescenziale e di formazione che, effettivamente, sembra ormai fuori tempo massimo per la penna di un Muccino alle soglie della cinquantina (i protagonisti della vicenda narrata potrebbero infatti essere i suoi figli).

Marco (Brando Pacitto, noto per la fiction Rai “Braccialetti rossi”) ha 18 anni ed è giunto alla fatidica maturità liceale: poco prima di finire il liceo subisce un incidente in motorino, perde il treno della vacanza memorabile insieme ai propri amici e sembra rassegnarsi a una triste estate romana in solitudine. Ma quando gli viene tolto il gesso e l'assicurazione gli consegna tremila euro, le cose cambiano: finalmente può partire per qualche destinazione, anzi per “la” destinazione, l'America. L'amico Vulcano (Guglielmo Poggi) lo convince a raggiungerlo oltreoceano. Ma una fregatura è dietro l'angolo: Marco scopre che anche la detestata Maria (Matilda Lutz) - bigotta e conservatrice, e per questo esclusa dalle amiche alla vigilia di partire per Ibiza - è stata invitata dall'amico. Si impone una dura convivenza, fatta di frecciatine e boicottaggi psicologici, che però muta in qualcosa di imprevedibilmente diverso quando i due giungono – sempre sotto la regia a distanza dell’amico Vulcano – a San Francisco, a casa di due amici americani, Matt (Taylor Frey) e Paul (Joseph Haro). I due sono una coppia gay, e questo sembra creare iniziali problemi alla rigida Maria. Ma l'alchimia tra i quattro sarà praticamente perfetta: la settimana iniziale come ospiti, per Maria e Marco, si trasforma in tre settimane tra San Francisco e Cuba: Marco si innamora di Maria, Maria si innamora di Matt, Paul prova qualche interesse per Marco, ma qualsiasi cedimento può rovinare l'amicizia e distruggere l'equilibrio creatosi tra i quattro. Alla fine la magica estate vissuta dai quattro naufragherà sui lidi della normalità: l'impossibilità di certi amori, la dura legge della distanza, l'immancabile catena di inseguimenti amorosi che sembra creare solo sofferenza ma porta, inevitabilmente, anche maturazione.

Al solito, Muccino mette in campo la sua abilità nella direzione degli attori: fa dare il meglio di sé ai quattro giovani protagonisti, sa calare la macchina da presa nell'esatto centro gravitazionale delle loro passioni (soprattutto - seconda aurea regola mucciniana - dei loro litigi) ma non riesce a mantenere la storia lontana dai luoghi comuni, da alcune banalità un po' anacronistiche, e da un esito che pare a dir poco telefonato. I personaggi sembrano acquisire spessore nei momenti di pathos, ma sulle spalle si portano alcuni cliché (perpetrati in fase di scrittura) che si faticano a digerire. Nella prima parte del film (che parte con una pesantissima, insisista voce fuoi campo stile anni '90) risulta addirittura difficile comprendere chi sia il vero protagonista della storia, complice anche un lungo flashback che spiega come sia nata la storia d'amore tra Matt e Paul (ad esserne coinvolta è una ragazza di nome Jules, interpretata da Jessica Rothe: il nome scelto, alludente a Truffaut, sembra voler evocare un'intenzione citazionista di Muccino, trattandosi di un triangolo amoroso). I 103 minuti di pellicola de “L'estate addosso” non si rivelano faticosi ma, se si sono superati i 20 anni di età, è difficile che un film di questo tipo, per l'appunto, resti addosso.
L'estate addosso Regia: Gabriele Muccino Cast: Brando Pacitto, Matilda Lutz, Taylor Frey, Joseph Haro Distribuzione: 01 Distribution Uscita nelle sale: 15 settembre

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Recensione “La Famiglia Fang”: tra arte e vita va in scena l'ennesima famiglia disfunzionale americana
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Ci voleva un film particolare per riportare al ruolo di attrice (attrice vera, intendiamo) Nicole Kidman. Ne “La Famiglia Fang” - di cui è anche produttrice - la diva australiana sfida l'autolesionistico harakiri chirurgico impostosi sul viso e si regala un ruolo e un personaggio dalle colorite sfaccettature. La sua Annie Fang è una donna vera, fatta della materia dei sogni (dei propri genitori, artisti folli) e dunque dei propri traumi, che solo quando sporadicamente sorride, sporgendo i suoi innaturali zigomi di cemento, ci ricorda di essere Nicole Kidman. Stentiamo a comprendere il motivo per cui un'attrice dotata senta l'esigenza di compromettere l'espressività del suo principale strumento professionale – il volto – ma questa è un'altra storia, che in parte peraltro condiziona il giudizio sui film che interpreta.

Dunque “La Famiglia Fang” - diretto dall'altro protagonista Jason Bateman e tratto dall'omonimo romanzo bestseller di Kevin Wilson – è un film dai crismi “indie”, di scarso successo in Usa dopo il passaggio al Festival di Toronto 2015, ma di indubbio valore, finalmente in arrivo nelle sale italiane dall'1 settembre. É la storia di una (ennesima) famiglia disfunzionale americana, condizionata dall'utopia di fondere indissolubilmente Arte e Vita da parte di due genitori - Caleb e Camille Fang (Christopher Walken e Maryann Plunkett nel contemporaneo, Kathryn Hahn e Jason Butler Harner nei flashback anni '70) – apprezzati perfomer capaci di organizzare “opere d'arte” in movimento, inscenando finte rapine a mano armata e altre situazioni eccentriche molto simili a ciò che oggi definiamo “flash mob”. Questa utopia artistica dei genitori coinvolge però totalmente anche i due figli Annie e Baxter (Bateman), cresciuti traumatizzati (venivano chiamati Figlio A e Figlio B...), la prima come attrice in bilico tra spot tv e film d'autore, il secondo come scrittore in cerca di un secondo romanzo riuscito. Da tempo distanti, i due fratelli si riuniscono nella casa dei genitori dopo un incidente subito da Baxter (nella scena più divertente del film): la situazione riporta a galla vecchie ferite, cui si aggiunge un evento imprevisto. Caleb e Camille, infatti, scompaiono nel nulla, lasciando dietro di sé solo un'auto incidentata e delle macchie di sangue nell'abitacolo. Sono morti o, come sospetta Annie, si tratta della loro ennesima performance di cui i due figli devono pagare un doloroso prezzo? La ricerca dei genitori e la convivenza costringono Annie e Baxter a una definitiva maturazione e presa di coscienza sul proprio legame e sul rapporto che avrebbero dovuto tenere (e forse dovranno in futuro tenere) con i genitori morti-o-forse-no.

L'atmosfera del riuscito romanzo di Kevin Wilson sembra restare intatta nella pellicola ben diretta da Jason Bateman (al suo secondo lungometraggio dietro la macchina da presa): a reggere la storia è ovviamente un cast pregevole dove la vulcanicità commovente e patetica di Christopher Walken e il minimalismo emotivo di Jason Bateman fungono da estremi espressivi in un segmento in cui le riflessioni sul senso dell'arte (e sulle sue strumentalizzazioni), della vita e dei rapporti genitori/figli - ben scanditi, tra dramma e commedia, nella sceneggiatura del Premio Oscar (per “Rabbit Hole”, sempre con la Kidman) David Lindsay-Abaire – portano a un capolinea dall'esito imprevisto ma dal significato chiaro: il bisogno, diciamo pure il dovere, della normalità nelle alchimie famigliari. Una menzione speciale alla colonna sonora di Carter Bruwell (“Carol”) il cui spunto molto originale è il mixaggio delle musiche a un volume più alto delle voci degli attori per marcare alcuni momenti topici della storia. Il finale su campo e controcampo dei primi piani di Nicole Kidman e Jason Bateman, volutamente meccanico, è qualcosa che resta nella memoria.
La Famiglia Fang Regia: Jason Bateman Cast: Nicole Kidman, Jason bateman, Christopher Walken Distribuzione: Adler Entertainment Uscita nelle sale: 1 settembre

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Recensione “Jason Bourne”: l'ultimo episodio della saga va dritto al sodo
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Una trama che va dritta come un fuso, una sequela di scene d'azione che divertono, e dove persino l'ennesimo inseguimento automobilistico (tassa dolorosa per ogni film d'azione, non se ne può veramente più: senza contare che da “Ronin” in poi la corsa in contromano è diventata l'equivalente dei tatuaggi sulle braccia della gente, praticamente si è più originali a non averlo) non stanca. Insomma, la saga di Jason Bourne – questa volta consacrata da un titolo essenziale, per l'appunto “Jason Bourne”, nelle sale dall'1 settembre – ha ancora Matt Damon nel ruolo della superspia ribelle, così come Paul Greengrass in cabina di regia. Ma, questa la buona notizia, stavolta l'intento non è provocare l'emicrania dello spettatore con un intreccio astruso, bensì fornire lo stretto necessario della logica, e un'ampia coloritura di inseguimenti, fughe, morti e sfaceli vari.

Jason Bourne tutto, sporco e subito. Per la felicità di chi, terminate le vacanze estive, andrà ad accomodarsi in sala, magari senza pensare che proprio quel giorno la Germania nazista e l'Unione Sovietica invasero la Polonia, scatenando la Seconda guerra mondiale. A proposito di guerra, l'ex agente Bourne deve combattere la sua, anzi le sue: col proprio passato, con la propria memoria, con la propria coscienza e con un direttore della Cia – Robert Dewey – che ha la faccia di pietra di Tommy Lee Jones e l'assoluto cinismo amorale di un carrierista dello spionaggio per cui la sicurezza del Paese passa attraverso il controllo totale dei cittadini (attraverso la Rete, per fare un esempio) e l'assassinio di chiunque comporti un problema sulla strada della missione suprema.
Bourne è riuscito a nascondersi dal mondo, vivendo di espedienti e rovinandosi le mani a cazzotti negli incontri clandestini. Ma prima o poi la Cia ti becca nuovamente, complice anche una donna, quella vecchia conoscenza di Nicky Parsons (Julia Stiles), che vorrebbe aiutarti facendoti scoprire il tuo vero passato, cioè come e quando il tuo nome cambiò, come e quando diventasti una spia e soprattutto quale ruolo ebbe tuo padre, anch'egli agente segreto, nel tuo arruolamento. E siccome in ogni buon film americano che si rispetti la vendetta è un passaggio obbligato, eccola servita attraverso il ghigno spigoloso e mefistofelico dell'Asset (vincent Cassel), sicario agli ordini di Dewey, la cui missione è uccidere Bourne. Una carta vincente, però, Bourne ce l'ha, o meglio scopre di averla: è l'agente Heather Lee (la bellissima, affascinantissima Alicia Vikander, che qualcuno ricorderà in “The Danish Girl”, grazie a cui vinse l'Oscar come migliore attrice non protagonista), collaboratrice di Dewey che si convince della buona fede di Bourne e se ne rende in qualche modo complice.

Tra fughe e inseguimenti in un'Atene attraversata da sommosse popolari, tycoon del web lusingati e minacciati dalla Cia nella questione della protezione (o meno) della privacy degli utenti, cambi di location da Roma a Las Vegas passando per Reykjavik, “Jason Bourne” conferma la sua vocazione di “James Bond del nuovo millennio”. Offrendo né più né meno ciò che un pubblico assetato di spettacolarità chiede: azione, una storia dove i buoni e i cattivi siano chiaramente definiti, più qualche riferimento all'attualità in grado di mantenere la saga al passo coi tempi (il caso Wikileaks troneggia nella sottotrama relativa al tycoon Aaron Kalloor, interpretato da Riz Ahmed, che Dewey – una volta appurato di non poter dominare - intende fare uccidere).
Jason Bourne Regia: Paul Greengrass Cast: Matt Damon, Tommy Lee Jones, Vincent Cassel Distribuzione: Universal Pictures Uscita nelle sale: 1 settembre

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Recensione “Il Clan”: la terrificante storia di Arquimedes Puccio e della sua famiglia
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Un caso fino ad oggi quasi dimenticato, in Argentina. Qualcosa di assolutamente sconosciuto, da questa parte dell'oceano. Eppure, una storia che trasuda orrore e normalità, il primo accrescendosi puntualmente della seconda. Uscito in Argentina l'anno scorso, passato all'ultimo Festival di Venezia, “Il Clan” di Pablo Trapero - nelle sale italiane dal 25 agosto – è il film che non potete perdere. Storia, dramma, thriller, addirittura fiammate horror fanno capolino in un racconto che lascia senza parole e con più di un brivido lungo la schiena. Ovviamente, a coloro che conoscono un minimo della storia argentina e di come quel bellissimo e tormentato paese passò da feroci anni di dittatura militare, per poi imbracciare un periodo egualmente doloroso di transizione alla democrazia. Un periodo fatto di luci e ombre, dove la sensazione di un futuro chiaramente democratico non era chiara e scontata.

In questa cupa intercapedine di angoscia e timori si inserisce una famiglia medio-borghese all'apparenza comune, in realtà mostruosa. Arquimede Puccio (Guillermo Francella), fedele al proprio nome, costruisce dentro di sé e attorno alla sua famiglia un sistema “geometrico” di apatia e violenza. Nell'Argentina dei primi anni '80, nella cittadina di San Isidro, mentre la parabola della dittatura militare imbocca la sua discesa (la sconfitta della guerra delle Falklands contro la Gran Bretagna si è rivelata fatale), Puccio è un dipendente dei servizi segreti: la sua posizione strategica gli permette di avere rapporti preferenziali con i vertici militari. Il patto oscuro tra lui e loro è il seguente: Puccio e il suo clan, composto da amici e dai suoi stessi famigliari, sequestra nemici del regime, dei quali chiede riscatto dopodiché - dopo una reclusione nei bassifondi della propria abitazione (mentre al piano di sopra va in scena la normale quotidianità delle cene, dei compiti di scuola delle figlie e delle visioni televisive) - li uccide. Quando la dittatura cede il passo alla democrazia, Puccio e i suoi incredibilmente proseguono l'attività sequestrando giovani facoltosi amici o conoscenti del figlio maggiore di Arquimedes, Alejandro (Peter Lanzani), talento del rugby dal carattere non granitico, plagiato dal padre. Il “tanquillo tran-tran” di sequestri e omicidi progressivamente si inceppa: i protettori militari vengono esautorati, Alejandro si innamora di una ragazza e pensa di costruirsi un futuro altrove, qualche grave errore “operativo” porta allo smascheramento degli orrori di casa Puccio. I testi che scorrono prima dei titoli di coda spiegano al pubblico quale sia stato il destino dei singoli Puccio. E c'è da rimanere a bocca aperta, soprattutto se si pensa che, fino alla sua morte ben oltre l'ottantina, Arquimedes abbia avuto la determinazione, anche di fronte alle prove più schiaccianti, di definirsi innocente.

Il racconto di Pablo Trapero è semplicemente perfetto e si appoggia ad un interprete d'eccezione: Guillermo Francella - attore molto noto in Argentina, anche per ruoli meno drammatici – dà corpo e sangue a una figura algida e magnetica, dallo sguardo fisso e glaciale (Francella ha studiato come resistere dal battere le palpebre). É il mostro che sa scomparire dietro un aspetto di normalità: è il distinto vicino di quartiere che regolarmente lava e spazza il marciapiede di fronte a casa, che non alza mai la voce e che si reca con puntualità al lavoro. Ancora oggi, si dice, i vicini di casa dei Puccio e gli ex compagni di rugby di Alejandro non sono totalmente convinti della loro colpevolezza. Proprio come accade nel pregevole “Tony Manero” del cileno Pablo Larrìn, la mostruosità del protagonista e della situazione narrata, entrambe celate dietro un paravento di normalità, si fanno paradigma di una società corrotta e intrisa di violenza, della quale - come nella celebre tesi che contrappone l'uovo e la gallina – non si sa cosa abbia generato cosa.
La narrazione di Pablo Trapero è astuta nello spostare continuamente – grazie a continui flashback e flashforward nella prima parte del film, e a un uso contrastante della colonna sonora – il punto di vista e la fornitura di indizi. Il personaggio di Arquimedes Puccio ci sfugge, così come il suo ruolo. Sulle prime si è portati a pensarlo come un rivoluzionario che compie azioni terroristiche contro il regime militare, ma la sua noncuranza nell'operare in sicurezza (ad esempio, le sue telefonate minatorie alla luce del sole e in luoghi che sembrerebbero ad alto tasso di rischio) spiazza totalmente lo spettatore. L'orrore prende forma poco a poco, mentre l'evoluzione della vicenda scorre lungo l'asse della ribellione al padre del figlio Alejandro, mosso da coscienza ma anche da egoistiche aspirazione di realizzazione personale. Nulla sembra eccessivo o pruriginoso in questo racconto, a parte un montaggio parallelo troppo lungo e insistito (e prevedibile, diciamolo) di due scene contrastanti: una tortura e un amplesso amoroso, in cui i gemiti della vittima e degli amanti finiscono per sovrapporsi. “Il Clan” è un film che ci butta addosso l'agghiacciante banalità del male (le sue motiviazioni ciniche e banali a un tempo) e che ci resta sottopelle a lungo. Da vedere.
Il Clan Regia: Pablo Trapero Cast: Guillermo Francella, Peter Lanzani, Lili Popovich Distribuzione: 01 Distribution Uscita nelle sale: 25 agosto

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Recensione “Escobar”: Benicio Del Toro è il famigerato narcotrafficante colombiano
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A vole la vita è un cinema. Sicuramente può dirlo Andrea Di Stefano, attore italiano conosciuto ma non celeberrimo agli occhi del grande pubblico (nonostante abbia lavorato con registi come Bellocchio e Ozpetek in Italia e, all'estero, con Rob Marshall) che – per il suo esordio da regista – può contare su un budget a spalle larghe e un cast di tutto rispetto per realizzare “Escobar”, nelle sale dal 25 agosto. La storia da cinema sarebbe quella che vede Di Stefano spedire lo script, di cui è sceneggiatore, a coloro che sarebbero diventati i due attori protagonisti della pellicola, vale a dire le due star Benicio Del Toro e Josh Hutcherson, volto maschile simbolo della teen-saga “Hunger Games”.

Presentato in vari festival – tra cui Toronto e Roma - “Escobar” è un buon mix tra thriller e gangster-movie, nel quale la storica figura del narcotrafficante simbolo del cartello più potente della Colombia incombe regalmente (e diabolicamente) sulla vicenda personale di un ragazzo come tanti, costretto a prendere coscienza nel modo più drammatico dell'illusione di un paradiso perduto. “Paradise Lost” è infatti il titolo per il mercato anglosassone del film che vede Benicio Del Toro, dopo aver vestito i panni del guerrigliero Che Guevara nei due film di Steven Soderbergh, alle prese con un altro personaggio controverso dell'universo latinoamericano. Sì perché Pablo Escobar - il boss criminale dal patrimonio misurabile in miliardi di dollari, re della cocaina internazionale, uomo di potere politico diventato in breve tempo un vero e proprio contro-potere dello Stato colombiano – come molti leader dell'America Latina seppe sfruttare le armi del populismo per costruirsi un'immagine di benefattore delle masse. Per molto tempo popolarissimo in Colombia (i suoi uomini distribuivano denaro a pioggia ai diseredati, in occasioni simboliche), Escobar accettò nel 1991 di consegnarsi al governo colombiano pur di evitare l'estradizione negli Stati Uniti.

Seppure la dote più preziosa del film sia, prevedibilmente, l'Escobar con il volto magnetico e lo sguardo felino di Benicio Del Toro, la storia è quella del giovane surfista canadese Nick (Hutcherson), giunto in Colombia col fratello e la fidanzata di quest'ultimo per godersi un'esperienza di qualche mese tra onde e spiaggia. Il paradiso colombiano non è però, o non è solo, quello che illumina gli occhi di un forestiero al primo sguardo. É la gang di microcriminali che avanza pretese su quell'angolo di spiaggia e che ammonisce i giovani “gringos” di andarsene, ed è soprattutto la miseria della gente e il cinismo di chi ne governa i destini. Quando Nick incontra Maria (Claudia Traisac) e se ne innamora le luci sembrano comunque dileguare le ombre. Se non fosse che Maria è la nipote di Pablo Escobar, e dunque frequentarla, legarsi a lei e diventarne il fidanzato ufficiale comporta entrare nella cerchia del potente boss. Nick conoscerà presto il vero volto del ricco uomo d'affari, tanto da farsi scomodo testimone della sua attività criminale: il suo destino – così come quello del fratello e della stessa Maria - diventa segnato. Costretto a svolgere una missione particolarmente drammatica per conto del boss, Nick diventa protagonista di una rocambolesca fuga, nella quale cerca di coinvolgere anche Maria. Ma è forse possibile sfuggire ai tentacoli di un uomo potente, seppur vicino a consegnarsi alle autorità come Escobar, in un Paese dove le stesse forze di polizia sembrano al suo servizio?

Prelevando l'idea di base da una storia realmente accaduta, Andrea Di Stefano confeziona un thriller dove la scrittura dei personaggi (soprattutto quello di Maria, innocente ma consapevole, scintilla dell'incantesimo-dannazione del protagonista eppure goffamente marginale nel prosieguo della storia) non sempre “quadra”, ma dove al contempo la tensione non cala mai. La sfida è tutta tra il gigante Escobar/Del Toro e il nano Nick/Hutcherson: una sfida che è anche di mestiere attoriale e che vede il secondo due volte sconfitto. Complice, va detto, la sceneggiatura: Nick è personaggio elementare nella lettura, pressoché telecomandato nel ruolo quasi allegorico che lo vede incarnare la disillusione per il paradiso perduto, mentre l'Escobar criminale e spietato ma al contempo legato visceralmente alla famiglia e formalmente molto religioso (anche se in modo inquietante: tra le cose migliori il dialogo finale con il prete che lo accompagna in carcere, nel quale Escobar ammonisce di tenere d'occhio con un potente binocolo Dio, per vedere se saprà considerare le sue scelte fatte per la famiglia) suggerisce sfumature e contrasti interessanti. La Colombia che accerchia questa sfida è una cornice che resta nella memoria dello spettatore.
Escobar Regia: Andrea Di Stefano Cast: Josh Hutcherson, Benicio Del Toro, Claudia Traisac Distribuzione: Good Films Uscita nelle sale: 25 agosto

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Recensione “Ghostbusters”: il reboot al femminile diverte e gioca intelligentemente con la nostalgia
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Ci sono voluti più di trent'anni, ma ce l'hanno fatta. Non che fosse necessario però – diciamolo – si vive ormai in una trista epoca “seriale” dove le saghe sono considerate cosa naturale (incomprensibile per un giovane spettatore non assistere a un numero 2, 3 e 4 di un film riuscito) e i reboot cosa buona e giusta. Non siamo tra coloro che si sono spellati le mani al cospetto di tanti cult movie degli anni Ottanta come “Ghostbusters” ma, certo, non ci vuole molto a considerare la commedia di Ivan Reitman un titolo di culto. Thrilling e risate si sposavano, nella pellicola con Bill Murray e soci, in un mix capace di creare, negli anni, un popolo fedele dai tratti quasi “religiosi”. Quello stesso popolo tra le cui file una parte di isterici “puristi” ha deciso di vomitare insulti sul reboot omonimo - “Ghostbusters” - in arrivo nelle sale il 28 luglio. Come spesso ci accade di dire, i puristi possono anche andare a quel paese, così come i censori cinesi. Non è il caso di prendere sul serio un fenomeno divertente che resta, comunque, un prodotto “pop”. Di questi tempi il “pop” viene eletto a materia suprema di cultura, ma è solo il segno di un'epoca ferita dall'analfabetismo di ritorno, incapace di elevarsi a qualcosa di più sostanzioso, e desiderosa di “darsi un tono” con materiale che, all'atto della nascita, denunciava chiaramente un intento giocoso. Prenderlo fanaticamente sul serio è sinceramente patetico.

Dunque eccoci a “Ghostbusters” di Paul Reig, già regista del serial “Freaks and Geeks” e di pellicole come “Le amiche della sposa”, “Corpi da reato” e “Spy”. Il reboot delle avventure dei mitici Acchiappafantasmi si rivela un astuto e leggero gioco di avventura e citazioni, in un'altalena tra stilemi degli anni Ottanta (una fotografia vagamente dell'epoca, camei rigorosamente attesi e studiati, con presenze di Bill Murray, Sigourney Weaver, Dan Aykroyd e altri volti noti del cult movie originario, più un imprevedibile Ozzy Osburne) e rilettura in chiave innocuamente femminista. Le eroine della situazione sono Melissa McCarthy, Kristen Wiig, Kate McKinnon e Leslie Jones nei ruoli di Abby, Erin, Jillian e Patty, le prime due ex amiche separate dal destino e dalle incomprensioni, la terza uno scienziato pazzo molto simile al Christopher Lloyd di “Ritorno al Futuro” e la terza una simpatica e ben piazzata donna nera. Erin si è rifatta la vita come docente universitaria in un'università scientifica, l'ultima cosa che vorrebbe è essere ricordata come autrice di un libro sul paranormale, ma Abby ha la poco felice pensata di pubblicizzare sul web il suo passato. Quando una minaccia fantasma sembra incombere su New York, le due ex amiche tornano a fare squadra: un individuo un po' balordo e outsider, ma dall'intelligenza superiore, ha trovato il modo di costruire un macchinario in grado di raccogliere fantasmi e non-morti dall'altra dimensione per scagliarli, tutti insieme, sulla metropoli. Per il tizio in questione l'Armageddon è la catarsi per vendicarsi della cattiveria della società, per le nostre Ghostbusters è invece l'occasione di dimostrare che i fantasmi esistono e che loro sono le persone giuste per fermarli.

Prodotto da Ivan Reitman e Dan Aykoryd, “Ghostbusters” ha il pregio di giocare con la nostalgia ma allo stesso tempo legare alla personalità dell'ottimo cast femminile i nuovi personaggi. Melissa McCarthy e Kristen Wiig sono il meglio della dotazione interpreti, Kate McKinnon si rivela alquanto irritante nel suo continuo sbandierare facce impostate e follia costruita, Leslie Jones si cala scrupolosamente nel ruolo della simpatica donna afroamericana dalle spalle larghe e dal carattere vulcanico in stile Whoopie Goldberg. Ma è il “Thor” Chris Hemsowrth, adone dalla bellezza indiscussa ma (lo sapevate?) tipo positivamente dotato di autoironia, a calare sul piatto uno dei personaggi più riusciti del film, vale a dire il segretario muscoloso e stupido Kevin, meritevole – nei titoli di coda – di un sipario di tutto rispetto. Alcune battute cinefile di “Ghiostbusters” sollazzeranno l'uditorio con memoria storica, così come il disastro distruttivo finale ad opera del gigantesco fantasma, dalle dimensioni di un moderno King Kong, si rivela effettivamente spettacolare.
Ghostbusters Regia: Paul Feig Cast: Kristen Wiig, Melissa McCarthy, Chris Hemsworth, Kate McKinnon, Distribuzione: Warner Bros. Italia Uscita nelle sale: 28 luglio

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Recensione “Star Trek Beyond”: azione senza sosta nell'ultimo capitolo della saga
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Justin Lin ha un cognome onomatopeico, scattante e veloce come i film che sa portare sullo schermo. É senza dubbio lui il primo uomo giusto posto dietro l'ultimo decollo dell'astronave USS Enterprise in “Star Trek Beyond” - nelle sale dal 21 luglio – ultimo capitolo di una saga fantascientifica la cui popolarità non accenna a diminuire. Il regista di diversi episodi di “Fast And Furious” - erede del “guru” della saga J.J. Abrams - profonde in questa nuova avventura di Kirk e soci dosi da cavallo di azione, mantenendo tesa, anzi tesissima, per due ore nette la corda della spettacolarità. L'operazione ci sembra dunque riuscita, per il semplice fatto che l'intreccio della storia è tutt'altro che complicato, tutt'altro che autoreferenziale (a parte la dovuta e poetica “fotografia” tra le mani di Spock nel finale, di cui non diciamo di più) e al servizio di una messa in scena sontuosa.

La premessa è comunque d'obbligo: ciò che segue non è il commento a un episodio di “Star Trek” da parte di un “fedele”, e anzi siamo certi che i talebani della saga si mantengano a distanza da qualsiasi recensione che non spieghi quante otturazioni avesse ai denti Chris Pine nella tal scena e se Zachary Quinto avesse digerito o meno il milk shake bevuto sul set prima di girare la tal altra scena. Queste cose non ci interessano. La nostra semplice aspirazione è cercare di spiegare al lettore i buoni o non buoni motivi per spendere il prezzo del biglietto, accomodandosi a vedere un film. Quel che possiamo dirvi è che in “Star Trek Beyond”, sempre che amiate il genere sci-fi, i motivi ci sono eccome.
Si torna dunque a bordo della Enterprise, dove un malinconico Capitano James T. Kirk (Pine) riflette sulle proprie responsabilità di comandante e sulla necessità o meno di abbandonare la navigazione interstellare – diventata, a suo modo, una routine - a beneficio di una “promozione da scrivania”. Il dubbio che alligna nel cuore di Kirk sarà velocemente dissolto dall'ennesima avventura adrenalinica. Una comandante di un equipaggio alieno (a proposito, per il film gli artisti del make up hanno creato 50 razze aliene, stabilendo il record nella saga), unica sopravvissuta di un attacco non meglio specificato, chiede aiuto alla Federazione: c'è da recuperare un equipaggio all'interno di una nebulosa collocata in una zona di spazio per lo più sconosciuto. Kirk e i suoi si offrono di aiutarla ma, appena giunti nella nebulosa, subiscono un violento attacco di mini-astronavi simili a uno sciame di vespe. In breve, i nostri eroi vengono catapultati in una realtà dove il potente Krall (Idris Elba, per quasi tutto il film irriconoscibile) domina un pianeta – Altamid - trasformato in prigione per vari equipaggi spaziali catturati.

Inutile addentrarsi nelle motivazioni di Krall e nell'avventura che seguirà (come detto, un ipercinetica battaglia senza soluzione di continuità, figlia di una semplice verità produttiva: lo script dell'episodio e l'intera realizzazione del film non hanno superato i diciotto mesi!), ciò che conta è che i ruoli dei personaggi, le minime concessioni al profilo degli stessi e alle dinamiche che si creano tra loro (ad esempio, la relazione esaurita e poi, forse, destinata a ricominciare tra l'algido Spock e la bellissima Tenente Uhura, interpretata da Zoe Saldana) funzionano, in un intreccio decisamente asciutto di commedia e dramma. Ci sono poi due riferimenti al nostro contemporaneo che non sfuggiranno certamente allo spettatore: il primo, riguarda la scena, di cui si è ampiamente discusso, in cui il Tenente Sulu, di ritorno dall'ultima missione, dichiara al pubblico di “Star Trek” la propria omosessualità semplicemente riabbracciando la propria famiglia composta dal compagno e da una bambina; il secondo sta tutto in uno degli ultimi primi piani su Chris Pine/Kirk. Nel combattimento finale con Krall, che intende uccidere con sé ogni essere vivente a Yorktown (metropoli evocativa di New York, incontro di razze e culture), il Capitano, anch'egli a rischio di morte, ribatte al malvagio avversario che “c'è una netta differenza tra chi muore per salvare delle vite, e chi cercando di distruggerle”. Ci voleva il il Capitano Kirk, dal futuro, a ricordare a noi e ai folli integralisti della jihad che i veri “soldati”, i veri “eroi” e, eventualmente, i veri “maritiri” sono coloro che si sacrificano per il Bene. Per la vita, soprattutto.
Star Trek Beyond Regia: Justin Lin Cast: Zoe Saldana, Chris Pine, Zachary Quinto Distribuzione: Universal Pictures Uscita nelle sale: 21 luglio

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Recensione “La Notte del Giudizio – Election Year”: un fiume di adrenalina (ma anche di ipocrisia) nel thriller distopico di James DeMonaco
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James DeMonaco trasforma il suo franchise distopico “The Purge” (un'intuizione da 200 milioni di dollari al botteghino fino ad oggi) in una trilogia. La formula seguita in questo terzo episodio in tre anni è naturalmente quella prevedibile: alzare la posta. Trattandosi di un thriller violento ambientato in un futuro a noi molto vicino - diciamo pure un presente che si fa chiamare futuro solo perché, grazie al cielo, la sua ambientazione angosciante non è ancora realtà – la posta è naturalmente il sangue. Dopo “La Notte del Giudizio – The Purge” (2013) e “Anarchia – La Notte del Giudizio” (2014) il regista e sceneggiatore newyorchese ambienta il suo terzo “massacro legalizzato” nientemeno che in piena campagna elettorale presidenziale.

“La Notte del Giudizio – Election Year” - nelle sale dal 28 luglio – ci riporta in quel folle scenario in cui, per mantenere la soglia di criminalità sotto l'1% annuale, il governo Usa, supervisionato da un'inquietante oligarchia chiamata Nuovi Padri Fondatori d’America, organizza “lo Sfogo”: trattasi di un arco di dodici ore notturne, permesso una volta all'anno, in cui qualsiasi illegalità, dal furto, all'omicidio passando per qualsiasi altra diabolica declinazione criminale, non viene punito dalle autorità. Gli americani che possono permettersi di chiudersi in case protette da sistemi di sorveglianza e difesa, e che scelgono di astenersi dall'orgia di violenza, hanno la facoltà di farlo: ovviamente, non possono farlo i meno abbienti e, soprattutto, i senza tetto. “Lo Sfogo” diventa così un cinico sistema di pulizia etnica e di classe. Le storie destinate a intrecciarsi in questo terzo episodio sono quelle di due candidati presidenziali avversari - la Senatrice Charlie Roan (Elizabeth Mitchell), decisa a eliminare lo Sfogo, e Caleb Warrens (Raymond J. Barry), politico al servizio dei Nuovi Padri Fondatori – e una ristretta comunità “famigliare” guidata dall'afroamericano Joe (Mykelti Williamson), titolare di un piccolo supermercato. Risparmiando ai potenziali spettatori la descrizione degli eventi che porteranno questi personaggi a intrecciarsi, basti sapere che, in questa terrificante Notte del Giudizio, le immunità per i personaggi politici sono state sospese, e dunque gli stessi candidati presidenziali potrebbero essere uccisi. A difendere la Senatrice Roan, la cui famiglia è stata interamente sterminata in uno Sfogo di qualche anno prima, è Leo (Frank Grillo), che i fan del franchise hanno imparato ad amare nel secondo episodio. Anche lui, come il politico che oggi difende, ha subito una tragedia famigliare legata allo Sfogo, riuscendo a non macchiarsi le mani del sangue della vendetta. Non è poi così impossibile intuire che, dal comodo e sicuro appartamento in cui avrebbero dovuto passare la notte, Leo e la sua protetta finiranno nelle strade di una Washington impazzita di violenza sabbatica, dove figli sterminano genitori per puro divertimento o ripicca, turisti europei giungono in America solo per il gusto di ammazzare o essere ammazzati in piena anarchia, e linciaggio e impiccagioni per le strade sono la normalità fino al risuono delle sirene che terminano lo Sfogo.

Non vi è dubbio che “La Notte del Giudizio – Election Year” - accanto al tripudio di sangue, di horror e di suspense che profonde in dosi industriali – un minimo di crudele “satira” sociale e di critica sulla politica-spettacolo li proponga. In un'America che si accinge a scegliere tra la democratica veterana della politica e del potere Hillary Clinton e l'outsider repubblicano Donald Trump, surreale, provocatore e astuto nel saper solleticare la pancia di un elettorato arrabbiato, e in un Paese in cui il possesso delle armi è diventato un tema purtroppo sempre più attuale e drammatico, l'ipotesi distopica di DeMonaco contribuisce a far correre un brivido lungo la schiena. Il lato debole della storia, però, risiede nel taglio decisamente di parte che se ne dà. Al netto di una Hollywood dal cuore sempre e comunque conformisticamente Democratico, l'Autore si fa prendere la mano e raggiunge (si fa per dire) vette quasi radicali.
Il politico “eroe” è naturalmente la progressista (e chiaramente Democratica: come palesa nel finale un grafico elettorale con i colori dei due partiti avversari) Roan, la parte dello spregevole candidato wasp (bianco anglosassone, protestante) tocca al Repubblicano Warrens,. La prima seguita dal popolo, soprattutto dalla comunità nera, il secondo da sostenitori integralmente bianchi e ricchi. Nello scenario di una Washington trasformata nel più sanguinario far west, a parte una pargola upper class nera piscopatica decisa a prendersela con il povero droghiere Joe, tutti i criminali e i personaggi negativi sono bianchi, mentre addirittura le gang fuorilegge di quartiere composte da afroamericani e immigrati messicani mostrano un senso di solidarietà e di buon cuore intrisi di positività. Il pericolo numero uno per le strade è invece costituito da un commando ariano neonazista. Nella realtà distopica di DeMonaco vibra dunque un'utopia capovolta, qualcosa che prende le statistiche dell'America reale contemporanea (dove la grande maggioranza dei crimini, per motivi economici e sociali, certo non razziali, viene compiuta da neri) e le trasforma in uno scenario, questa sì razzista (qualcuno ricorrerebbe alla formula “razzista al contrario”, ma per noi il razzismo è razzismo, punto e basta) dove la malvagità alligna esclusivamente tra i bianchi, il cui peccato originale è per di più quello di essere ricchi (se poi sono anche maschi il disastro è completo) e dove i neonazisti (ma quanti sono, in America?) sembrano spuntare come funghi. Un manicheismo un po' balordo che, trattandosi di un action thriller di puro entertainment, fa sorridere, ma che è chiaramente indice dei tic politicamente corretti di un paese paralizzato dai propri sensi di colpa atavici.
Quanto alla materia da suspense, “Election Year” non tradisce, anzi soddisfa appieno: la violenza è a tratti disturbante (soprattutto quella all'arma bianca), alcune scene di ritualità religiosa distorta potrebbero infastidire un certo tipo di spettatore, ma l'intreccio e il tratteggio di alcuni personaggi mantengono alta l'attenzione, fino all'epilogo un po' “dovuto” (sempre per quelle regole del “politicamente corretto” di cui sopra...). La guardia del corpo Leo, armato di mascolinità “alfa”, offre il volto saldo di Frank Grillo come àncora in mezzo a tutta quella anarchia, mentre Mykelti Williamson/Joe è il negoziante che tutti noi vorremmo avere all'angolo di casa. Un tipico elettore di Obama, par di capire dagli indizi seminati nella storia: al quale si potrebbe chiedere perché, dopo otto anni di sua permanenza alla Casa Bianca, l’America sfoggi tensioni razziali ovunque, anche all’interno di un semplice film di cassetta.
La Notte del Giudizio – Election Year Regia: James DeMonaco Cast: Elizabeth Mitchell, Frank Grillo, Edwin Hodge Distribuzione: Universal Pictures Uscita nelle sale: 28 luglio

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Recensione “Una spia e mezzo”: Dawyne Johnson, muscoli e comicità in un divertente buddy movie stile anni '80
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La nostalgia per gli anni Ottanta è forte in “Una spia e mezzo”, divertente buddy movie diretto da Rawson Marshall Thurber in uscita il 14 luglio. Periodo di uscita e formula di questa commedia potrebbero creare un effetto virtuoso, per il pubblico e per il botteghino. Con uno sguardo appassionato a film che hanno saputo mischiare, in dosi diverse, commedia e azione - pensiamo a titoli come “Arma Letale”, “Tango & Cash”, “48 ore” e “I Gemelli” - e ricorrendo anche a qualche evidente citazione risalente sempre al decennio “reaganiano” (“Sixteen Candles – Un compleanno da ricordare” di John Hughes, protagonista l'icona eighties Molly Ringwald), “Una spia e mezzo” vive sulla vis comica della coppia Dwayne Johnson/Kevin Hart . L'imponenza fisica di “The Rock” Johnson e la taglia minuscola di Hart sono un chiaro rimando ad altre coppie interpreti dei film succitati, alludiamo a Schwarzenegger/DeVito e Nolte/Murphy.

Al californiano Rawson Marshall Thurber si devono due film comici come “Dodgeball” (2004) e soprattutto il più recente e divertente on the road “Come ti spaccio la famiglia” (2013). Con la stessa abile costruzione di gag messa in campo in queste due commedie e, per l'appunto, con un ritorno “vintage” a una comicità scevra di demenzialità trash (se si eccettua il nudo integrale oversize del prologo...), Thurber ci porta nell'assurda storia di amicizia e riscatto i cui protagonisti sono Calvin (Kevin Hart), ex studente modello al liceo trasformatosi in un insoddisfatto contabile, e Robbie (Dwayne Johnson), ex ciccione crudelmente preso in giro dai compagni, “rinato” fisicamente nelle statuarie fattezze iper-allenate di un agente segreto della Cia. Ci vuol poco per capire che la vita è una ruota che gira: se il “picco” esistenziale di Calvin fu il liceo, quello di Robbie, ora diventato Bob Stone, è il presente. Complici Facebook e una festa-rimpatriata dei vecchi compagni di scuola a distanza di vent'anni, Bob torna nella vita di Calvin. E ci torna prepotentemente. Insomma, Calvin era stato uno dei pochi ad aver mostrato sensibilità verso il “povero ciccione” ed è normale che questi, seppur trasformato, cerchi prima di tutto lui. Ovviamente, c'è un problema. Calvin non sa nulla della nuova vita di Robbie/Bob, e non sa nemmeno che il Nostro sta fuggendo, etichettato come traditore, da una squadra di colleghi della Cia intenzionati a fargli la pelle prima che consegni importanti informazioni al nemico. Da un circo incessante di pericoli infarciti di assurdità Calvin emergerà con una nuova consapevolezza di sé, potendo guardare a sé stesso e al proprio futuro con occhi più benevoli e nessuna frustrazione.

“Una spia e mezzo” - questa la buona notizia – diverte, e non poco. I dialoghi non sono l'arguto parto di un Woody Allen o di una Nora Ephron, ma certo garantiscono comicità e sano entertainment. L'alchimia tra Johnson e Hart è azzeccata: un “dialogo” fatto di contrasti e vicinanze fisiche e caratteriali, cui si accostano buone scene d'azione. Da segnalare anche Jason Bateman calato nell'odiosissimo ruolo di un ex compagno bullo del liceo: una parte marginale che però – proprio per il fatto che la morale alla base del film, sempre che ce ne sia una, è quella della critica al bullismo – non poteva essere affidata al primo arrivato.
Una spia e mezzo Regia: Rawson Marshall Thurber Cast: Dwayne Johnson, Aaron Paul, Kevin Hart Distribuzione: Universal Pictures Uscita nelle sale: 14 luglio

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Recensione “Tokyo Love Hotel”: un giorno e una notte in un albergo a ore
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Volti, corpi, ossessioni e delusioni si inseguono nell'albergo a ore che il regista giapponese Ryuchi Hiroki ambienta a Tokyo, nel quartiere a luci rosse di Kabukicho. “Tokyo Love Hotel” - nelle sale dal 30 giugno (distribuzione Tucker Film) – è una storia corale ambientata nell'arco di un giorno e una notte durante i quali il giovane Toru (Sometani Shota), addetto alla reception e a suo modo direttore della struttura, vede scorrere davanti a sé una galleria di personaggi bizzarri. Qualcuno, decisamente imprevisto: perché quando ad apparirgli di fronte è la sua fidanzata musicista pronta ad andare a letto con il produttore che le promette un bel balzo di carriera, il mondo sembra crollargli addosso. O meglio, crollargli dentro: perché il sonnolento, felino Toru non è di quelli che esplode la propria rabbia, è come se si afflosciasse su sé stesso, sconfitto. Il suo sogno, in realtà, è quello di liberarsi del suo hotel – lo squallido Atlas – per andare a lavorare in un hotel di lusso. Ma è possibile rifarsi una vita e scrollarsi di dosso le mille storie notturne cui ha assistito in tutto questo tempo? L'autore di “Tokyo Love Hotel”, Ryuchi Hiroki, ha trascorso una buona fetta di carriera nel settore dei 'pink eiga', i film soft-erotici fioriti nel Giappone degli anni Settanta: una palestra ineludibile di molti cineasti della sua generazione, unica via per farsi le ossa sopravvivendo in un'industria colata a picco.

L'erotismo che scorre nel film non sconfina mai nel porno e - secondo tradizione nipponica – ricorre alla “smerigliatura” dell'immagine nelle parti sessuali dei protagonisti. L'umanità che passa per l'albergo Atlas non ha scuse, né alibi: sfoggia tutte le piccolezze della razza umana, dall'aspirante cantante (la bellissima attrice ed ex idol della girl band AKB48 Maeda Atusko) disposta a vendersi, alla prostituta sudcoreana (interpretata dall'altrettanto bella Lee Eun-woo) giunta al suo ultimo “servizio” prima di tornare a casa, ai realizzatori di filmetti porno che affittano una stanza come set, fino alla coppia di poliziotti amanti che, proprio nel giorno della loro “scappatella”, riconoscono nella donna delle pulizie dell'hotel una criminale scomparsa nel nulla, e non sanno cosa fare: fermarla, rendendo nota alle loro famiglie la loro relazione o voltarsi dall'altra parte? Molti di questi personaggi sono legati al quartiere di Kabuchiko e sognano di poterlo finalmente abbandonare. L'arguzia di Hiroki è quella di raccontare drammi, squallori ma anche accenni di poesia metropolitana attraverso (anche) l'ironia e con uno sguardo che è, alla fine, velato di comprensione umana.

Apprezzato in vari festival (come il Far East Film Festival di Udine e il Toronto International Film Festival) “Tokyo Love Hotel” ha la dimensione evidente di un film “indie”. Il film si rivela peraltro un'arma a doppio taglio: da una parte, la rappresentazione del microcosmo scelto, con la sua curiosa galleria di personaggi, conquista la curiosità dello spettatore, i drammi narrati hanno in sé la potenzialità di creare empatia e commozione in chi guarda. L'esasperante lentezza di alcuni passaggi (soprattutto di quelli melodrammatici), però, sono una vera sfida: silenzi, pianti, pause, compiono vere e proprie frenate lungo il percorso. I 136 minuti di pellicola non sono, da questo punto di vista, una passeggiata.
Tokyo Love Hotel Regia: Ryuichi Hiroki Cast: Sometani Shota, Maeda Atsuko, Lee Eun-woo Distribuzione: Tucker Film Uscita nelle sale: 30 giugno

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Recensione “Passo falso”: Yannick Saillet all'esordio con un riuscito action movie bellico
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Una produzione italo-francese (tra le varie presenze Canal+ e Istituto Luce) consegna al videoclipper Yannick Saillet le cosiddette chiavi in mano per realizzare un action movie bellico d'esordio - “Passo falso”, nelle sale dal 23 giugno - da lui stesso scritto con Jeremie Galan. Saillet, classe 1966, non è evidentemente un ragazzino, sfoggia al suo attivo più di 160 video musicali con artisti come Curt Smith, Marc Almond, Celine Dion, Garou, Yannick Noah e Jay Jay Johanson, ma è al suo esordio al lungometraggio. É il caso di dire meglio tardi che mai, perché pur con tutta la sua essenzialità e un budget prevedibilmente tutt'altro che faraonico, il regista di Caen confeziona un riuscito film ricco di suspense, avvinghiato ai fatti, anti-retorico, laconico, esteticamente intrigante (buoni il montaggio di Eric Jacuqemin e soprattutto la fotografia di Raymond Dumas), che sa catturare lo spettatore per tutti i suoi settantasei minuti di durata.

Durante una missione militare in Afghanistan, il plotone del sergente dell'Esercito francese Denis (Pascal Elbè, già “militare” nell'ottimo “Il figlio dell'altra”) cade vittima di un'imboscata. La pioggia di proiettili che i soldati trovano fuori dal loro blindato è implacabile: lo scenario desertico e roccioso non permette di identificare immediatamente la fonte di fuoco. Nel giro di pochi minuti Denis e il commilitone Maurat (Laurent Lucas) si ritrovano gli unici sopravvissuti. Il nemico è temporaneamente neutralizzato ma la situazione è a dir poco critica: Denis è immobilizzato sopra una mina anti-uomo che ha inavvertitamente calpestato, Maurat ha appena scoperto, a bordo di un camion, una gran quantità di pacchi di eroina. I due soldati sono in campo aperto. Maurat ha la tentazione di sfruttare la ricca occasione costituita dalla droga, Denis si rifiuta ma non è nella posizione di poter reagire. Maurat lo aiuterà a salvarsi? Denis riuscirà a resistere, in piedi, per ore prima che dalla base un'operazione di salvataggio identifichi la sua posizione e venga a disinnescare la mina? E se i talebani tornassero a recuperare la droga? Se Maurat decidesse di ucciderlo? E se a bordo del camion non ci fosse solo il carico di droga?

Saillet costruisce una storia in spazio aperto, in un habitat essenziale eppure capace di produrre svariati colpi di scena. Qualche soluzione non è originalissima (alcune telefonate del protagonista ricordano più di un film bellico, ma per la sua declinazione paradossalmente “claustrofobica” il pensiero corre al semisconosciuto, e sempre bellico, “Buried” di Rodrigo Cortès con Ryan Reynolds) ma il meccanismo generale funziona egregiamente. Non ci sono particolari sottotesti, non si inseguono morali, non si aspira a raccontare più dei fatti al centro della storia entro cui si muove un uomo immobile costretto a gestire gli eventi.
Uscito in Francia nel 2014, “Passo falso” (Piégé) ha convinto pubblico e critica. L'uscita in Italia all'esordio dell'estate potrebbe non aiutare: queste nostre righe, si spera, invece sì.
Passo falso Regia: Yannick Saillet Cast: Pascal Elbè, Laurent Lucas, Caroline Bal Distribuzione: Istituto Luce - Cinecittà Uscita nelle sale: 23 giugno

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Recensione “Kiki & i segreti del sesso”: quando il sesso si fa complicato
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Saranno gli anni passati sotto il perbenismo bigotto del caudillo Franco. Sarà che l'operazione dittatoriale bigotta di cui sopra mal si sposava con la natura passionale degli spagnoli. Certo è che il sesso, declinato in una forma narrativa giuliva, pop e “pensata” (se non necessariamente rappresentata) a tinte forti è una conclamata ossessione (da reazione?) del cinema dei nostri “cugini latini” al di là dei Pirenei. Nel solco di Almodovar più che di Luna si inserisce questa commedia di Paco Leon initotlata “Kiki & i segreti del sesso”, in uscita nelle sale dal 23 giugno: Leon, attore e regista, ha la sua biografia bisex, dunque per natura libertaria, ed è altrettanto naturale che questa sua commedia abbia come morale di fondo che le nostre inclinazioni non vadano censurate. L'esito di questa repressione è solo la frustrazione, mentre – una volta trovato un compagno di vita che ci accetti – tutto finisce bene.

Indubbiamente, una visione ottimista, che è alla base di questo film costruito su diverse storie d'amore, ognuna delle quali ha a che fare con una “deviazione” stramba: la moglie affetta da “dacrifilia”, che si eccita quando vede piangere il marito; la telefonista forzatamente single affetta di “efefilia”, e raggiunge l'orgasmo toccando determinati tessuti; il maturo chirurgo estetico che soffre di “sonnofilia” e, rifiutato fisicamente dalla moglie, torva il modo di possederla somministrandole un sonnifero; la ragazza affetta da “arpaxofilia”, che raggiunge vette di piacere quando viene aggredita per essere derubata, portando all'esasperazione il proprio fidanzato deciso a sposarla e pronto a organizzare finte rapine per farla felice. C'è poi, appena accennata, la moglie affetta da “dendrofilia”, per la quale fare una gita in un bosco è come finire sul set di un film porno, dal momento che strusciarsi contro le piante la porta all'estasi. A questo punto il personaggio interpretato dallo stesso Paco Leon, marito che scopre di avere una moglie bisex e si fa una famiglia su misura, è il più tranquillo di tutti.

Di deviazioni, ci fa sapere il film e la psicologia, ne esistono tante altre: dalla “abasofilia” (eccitazione nel vedere persone con difficoltà motorie”) alla “acrotomofilia” (stessa eccitazione, ma per le persone amputate”). Ora, che non serva lo psicologo/psichiatra ma la semplice liberazione sessuale è la curiosa tesi dell'autore di “Kiki & i segreti del sesso”. Opinioni. Certo, però, opinabili non sono le cifre: il film di Leon ha incassato in Spagna ben sei milioni di euro, guadagnandosi i galloni di film “trasgressivo”, “superbo” ed “esilarante”. Il nostro parere è che non abbia nessuna di queste tre qualità: non è trasgressivo perché non sfoggia scene scabrose o imbarazzanti, né ha una narrazione tale (essendo una commedia) da porre una “sfida” allo spettatore; non è superbo perché siamo ben lontani dai crismi del capolavoro; non è, infine, esilarante perché alcune delle gag che potrebbero essere classificate come divertenti vengono ampiamente bilanciate da altrettante scene non solo poco divertenti, ma addirittura noiose per meccanicità e dilatazione (onde evitare equivoci, considerato il tema del film, rendiamo chiaro che stiamo ricorrendo a categorie temporali) come quella, ad esempio, della telefonata un po' complicata tra un ragazzo sordomuto e una call girl erotica.
Tra le cose più riuscite del film, i titoli di testa: il collage anatomico tra parti di animali e di uomini intenti nell'atto sessuale. A ricordarci che le regole di riproduzione della specie sono simili. Vero. Ma che c’azzecca con una serie di storie legate a varie ossessioni sessuali che non nascono dal semplice istinto “bestiale”, bensì dalle implicazioni psicologiche che dovrebbero appartenere solo a noi umani?
Kiki & i segreti del sesso Regia: Paco Leon Cast: Paco Leon, Natalia de Molina, Alex Garcia Distribuzione: Videa - CDE Uscita nelle sale: 23 giugno

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Recensione “Il Piano di Maggie”: l'impossibilità di pianificare l'amore nella bella commedia di Rebecca Miller
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Innanzitutto, il sottotitolo. “Il piano di Maggie” di Rebecca Miller - nelle sale dal 30 giugno – ne sfoggia uno che, istintivamente, viene pensato con un sottinteso punto di domanda. Ma il punto di domanda, si rassegni il pubblico maschile che avrà modo di assistere a questa gustosa e intelligente commedia, non c'è. Dunque il dubbio non esiste. Non è “A cosa servono gli uomini?”, bensì: “A cosa servono gli uomini”. Punto. Ecco a cosa servono. Tuffandosi nella storia tratta dal romanzo d'esordio di Karen Rinaldi (edito in Italia da Rizzoli, pp.288, 18 euro, 9,99 euro in e book), assistendo a ciò che fa, pensa e dice il personaggio maschile principale, l'antropologo e scrittore John Harding (Ethan Hawke), il risultato è desolante, e la morale è diretta: servono a poco.

Insomma, gli uomini non escono un gran bene dalla commedia diretta da Rebecca Miller, autrice e regista di film mai banali come “Angela” e “La storia di Jack e Rose”, nonché consorte di Daniel Day-Lewis e - lo si percepisce ad ogni passaggio de “Il piano di Maggie” - attenta discepola di Woody Allen ed estimatrice di Noah Baumbach, autore di commedie sofisticate come “Giovani si diventa” e “Mistress America” non a caso, quest'ultimo, interpretato proprio da Greta Gerwig. Con la sua lunarità assolutamente naive, l'attrice californiana (già protagonista di “Mistress America”) domina questa commedia sull'impossibilità di gestire l'amore e, di conseguenza, la vita. E ci ricorda, in senso molto lato, un personaggio storico della letteratura anglosassone come la protagonista di “Emma” di Jane Austen. Colei che pretendeva di poter gestire la vita altrui (e propria) in modo razionale, senza coinvolgimento sentimentale.
In una New York per lo più modellata dalle rigidità invernali, Maggie (Gerwig) è una ragazza sulla trentina che lavora come insegnante: la sua indole è pianificare ogni aspetto della propria esistenza, in assoluta autonomia. Ovvio che, quando l'orologio biologico chiama, Maggie decida di avere un figlio senza legarsi a un uomo: l'inseminazione artificiale è la risposta, un ex compagno di studi è il mezzo. Eppure, la vita ci mette del suo: giusto dopo il tentativo di inesiminazione, Maggie incontra John, professore antropologo e aspirante romanziere padre di famiglia, schiacciato dalla personalità carismatica e carrierista della moglie, la nord-europea Georgette (Julianne Moore). Pensando di salvarlo da una prigione che ne limita le potenzialità, Maggie intrattiene una relazione con John dopodiché lo conquista e lo sposa. Quando la vita, nella sua prosaicità, le fa comprendere come la natura di “ordinatrice” le abbia fatto sacrificare le proprie aspirazioni a vantaggio di quelle di John (i due hanno avuto una figlia, lei fa la madre quasi a tempo pieno, lui pensa solo alla scrittura e intrattiene rapporti sociali continui con la ex moglie), Maggie pensa l'impossibile: pianificare insieme a Georgette – che non ha mai smesso di amare John – un ritorno all'ovile dello stesso. Ma la vita non è così semplice. E - forse - gli uomini non possono essere considerati pupazzi inseminatori da spostare qui e là.

L'affresco costruito da Rebecca Miller (che interpreta liberamente il romanzo originario della Rinaldi) è perfetto: i personaggi appartengono a quella borghesia benestante nevrotica e politicamente corretta di New York che in tanti film di Allen ha raccontato il meglio, ma soprattutto il peggio, di sé. I dialoghi sono cesellati con intelligenza, gli interpreti - il terzetto Gerwig/Hawke/Moore ovviamente su tutti- non sbagliano un tempo, una sfumatura. La Gerwig dà corpo e anima a una giovane donna a suo modo candida e idealista, nonostante il piano formalmente algido che ordisce per “rimettere le cose a posto”. La morale pungente al fondo della storia, oltre a quella che ci dice che gli eventi sono difficilmente controllabili, è quella che non si sfugge dalla propria natura. In una implacabile legge darwiniana, le coppie si formano e si adeguano decretando un vincente e un soccombente: c'è chi come Georgette domina sempre e comunque, chi passa da un ruolo all'altro a seconda della forza del compagno di vita che si trova di fronte (come John) e chi finisce, sempre e comunque, nel ruolo subalterno. Come Maggie.
Il piano di Maggie Regia: Rebecca Miller Cast: Greta Gerwig, Julianne Moore, Ethan hawke Distribuzione: Adler Enttertainment Uscita nelle sale: 30 giugno

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Recensione “Tutti vogliono qualcosa”: ancora una volta, Richard Linklater coglie l'attimo
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Tu chiamalo, se vuoi, l'Animal House intellettuale. Ovviamente, procediamo per semplificazioni. “Animal House” di John Landis e “Tutti vogliono qualcosa” di Richard Linklater hanno, l'uno verso l'altro, qualcosa in più e in meno. Ma lo spirito di libertà, quella gioiosa aderenza a un'epoca determinata (anzi a due epoche: una esteriore sociale e una interiore anagrafica) rendono questi titoli un po' parenti. Meno demenzialità e più estemporaneità, sicuramente, nel film di Richard Linklater – in uscita nelle sale il 16 giugno – ennesima prova del talento unico di questo regista texano di cogliere l'attimo. Di immergersi in quel territorio che è allo stesso tempo sottile e dilatato, a seconda di quale sia la distanza da cui lo si vede: sottile, se ricordato dopo anni, dilatato in un avvolgente presente se ci si trova immersi.

Legandosi a un suo vecchio titolo che è un piccolo culto - “La vita è un sogno” (Dazed and Confused, 1993), storia di un ultimo giorno di scuola di alcuni liceali alla metà degli anni Settanta – Linklater fa un passo avanti e realizza sullo schermo l'impresa affascinante e apparentemente impossibile: portarci dentro l'attimo di 72 ore, tre giorni di vita di un gruppo di giovani alla vigilia dell'inizio dell'anno universitario. Nell'Anno del Signore 1980, un anno “anfibio”, in mutazione, decisamente arduo da rappresentare poiché esattamente sul crinale tra due decenni radicalmente diversi. Da una parte i secondi '70, gli anni americani della sconfitta in Vietnam, della sfiducia, delle incertezze carteriane, della recessione economica, dell'impegno in ogni risvolto sociale (dalla politica alla musica); dall'altra parte, i primi '80, i prodromi di un'America che è stanca di commiserarsi, che sta per abbracciare l'ottimismo reaganiano, con l'edonismo , la superficialità, il sesso non ancora spaventato dall'Aids (e quindi non protetto) e il body language che dominano la scena. Una transizione che il film marca astutamente con ciò che – esattamente come l'abusato profumo proustiano – ci porta al cuore del tempo che fu: la musica. Una colonna sonora tra rock, punk, funky, dance music e rap che definire pregevole è poco.

Linklater sceglie una giovane matricola come centro di gravità della storia: Jake (Blake Jenner), questo il suo nome, giunge al campus di Austin, Texas, dove dovrà vivere e studiare per diversi anni, è un abile lanciatore a baseball, e questo gli garantisce già un posto in squadra. Ha una camera in un appartamento retto con parecchia anarchia da un gruppo di “veterani”, anch'essi giocatori di baseball, la cui regola suprema è una: racimolare i voti minimi nelle materie intellettuali, e confidare nel proprio ruolo sportivo per andare avanti. Il tutto corredato da tanta birra, feste, caccia alle ragazze. Ma Jake è un bravo ragazzo e, guarda un po', ci mette poco a incontrare la studentessa d'arte Beverly (Zoey Deutch, recentemente avvistata nel terrificante “Nonno scatenato”), e innamorarsene.

Linklater – come ha già dimostrato in film come “Prima dell'alba” e il più recente, celebrato “Boyhood” - è un maestro nel portare la vita come scorre sullo schermo, ricordandoci che i legami più forti tra gli esseri umani non si formano attraverso svolte clamorose, bensì nello scorrere del tempo “normale”, nelle lunghe pause apparentemente, solo apparentemente, fatte di nulla. Le sue storie fluttuano in una strana atmosfera di noncuranza, sempre alla viglia di un appuntamento importante. E colgono una magia che è, essenzialmente, la magia della vita: questo straordinario privilegio di esserci, cui ognuno di noi dà una risposta personale.
Tutti vogliono qualcosa Regia: Richard Linklater Cast: Blake Jenner, Juston Street, Ryan Guzman, Tyler Hoechlin Distribuzione: Notorious Pictures Uscita nelle sale: 16 giugno

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Recensione “Now You See Me 2”: una matrioska di colpi di scena (troppi?) nel sequel illusionista
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Una storia di asticella, più che di bacchetta magica. La prima la vogliono alzare i produttori e realizzatori di “Now You See Me 2” - in uscita l’8 giugno distribuito da Medusa Film in collaborazione con Leone Film Group - dopo lo straordinario, imprevedibile risultato (300 milioni al box office internazionale) del primo episodio. La seconda ovviamente non viene maneggiata dagli eroi protagonisti di questa curiosa tipologia di heist movie all'insegna dell'illusionismo. Anche se a questo giro appare nel cast – ma guarda un po' – uno che la bacchetta la maneggiava mica male, vale a dire Daniel Radcliffe, l'ex Harry Potter.

Certo, in questo caso, l'attore britannico di Fulham si dà un bel daffare per farci credere di essere cresciuto ma, purtroppo per lui, la barba non basta. Gli occhi da panda spaventato e le taglie della giacca a spalla stretta ci raccontano ancora di un interprete a metà strada tra il passato e il futuro, e nemmeno un ruolo da tycoon della tecnologia, psicopatico il giusto, lo può affrancare dalla condizione di “figlio”. Figlio di un altro psicopatico che qui ha il volto da felino stanco e astuto, e la solita classe, di Michael Caine. Sono loro i “villain” indiscussi della storia, nella quale i Quattro cavalieri illusionisti - il cartomago Atlas (Jesse Eisenberg), il mentalista McKinney (Woody Harrelson), il prestigiatore Wilder (Dave Franco) e la bnew entry escapologa Lula (Lizzy Caplan) – vengono catapultati proprio quando pensano di avere in mano le redini di un gioco spettacolare.
Sì perché i nostri Quattro – come al solito protetti dall'agente FBI Dylan Rhodes (Mark Ruffalo), abile a depistare i propri colleghi nella caccia a questi “Robin Hood della magia” - vorrebbero smascherare, durante uno showcase internazionale, il magnate della tecnologia Owen Case (Ben Lamb). Il numero a sorpresa però fallisce: c'è qualcuno di potente che fa saltare il loro piano e li costringe alla fuga. Una fuga che coinvolge anche Rhodes, smascherato come sodale dei Quattro Cavalieri. In modo sorprendente, Atlas & Co si ritrovano inspiegabilmente a Macao, in Cina, al cospetto di un altro magnate, Walter Mabry (Radcliffe) e del suo anziano patrigno Arthur Tressler (Caine) che li obbligano a recuperare un chip potentissimo (in grado di violare la privacy di tutti i terrestri muniti di un cellulare) proprio da quell'Owen Case che volevano smascherare. In tutto ciò, non può mancare il ruolo oscuro dello “scettico” Thaddeus Bradley (Morgan Freeman), vecchia conoscenza del primo episodio.

Questa è solo la cornice di una vicenda che si rivela, in una rutilante slavina di colpi di scena (quasi tutti stucchevolmente spiegati, mentre altri, chissà come, non riceveranno mai delucidazione...), una matrioska di cambi di ruolo: i nostri eroi passano da vittime a truffatori per poi ritornare vittime, nella speranza che, all'ultima scena, siano loro a fregare i cattivi. A dirigere questa pellicola condita di effetti speciali ma altresì piena di veri e propri giochi di illusionismo eseguiti, più o meno in tempo reale (con il contributo del grande David Copperfield, anche co-produttore), sul set c'è Jon M. Chu, specialista dei visual effects e del genere action, già autore di film di cassetta come “Step Up” e “G.I. Joe”. Una regia, dunque, senza sensi di colpa e giulivamente ben disposta verso le situazioni più “crasse” e ruffiane. Con un taglio narrativo che, nelle scene mago-di-fronte-a-pubblico, evocano un'atmosfera addirittura televisiva (a dire il vero un po' irritante).

Alla fine, “Now You See Me 2” è un titolo che non fallirà il proprio proposito: è fatto su misura per richiamare davanti allo schermo un pubblico giovanile o comunque desideroso di “esserci”. Forse non soddisferà appieno quella parte di spettatori più esigenti che, comunque, nel primo episodio avevano trovato motivi di sollazzo: ma intanto, complice il richiamo al sequel, costoro si accomoderanno in sala. Non c'è molto da chiedere ai personaggi dell'avventura, scritti con la mano sinistra, né ai loro interpreti molti dei quali, come Harrelson e Eisenberg, sono eccellenti attori pronti ad andare di inerzia (Harrelson deve addirittura interpretare un suo gemello...) ma altri, come lo sciorina-facce gommose Dave Franco, sarebbero da cancellare dalla memoria. Nel caso specifico di Franco, da spedire su Plutone sadicamente privo di qualsiasi strumento “beauty” con cui potersi sistemare le sopracciglia (alle quali evidentemente sembra tenere in modo un po’ insano). La graziosa Lizzy Caplan (“Masters of Sex”) non lascia il segno e si perde un po' come quelle tante carte da gioco che svolazzano di qua e di là sullo schermo. L'umorismo insaporisce qualche passaggio, ma la ruffianieria in dosi da cavallo finisce per disinnescarlo nei ricordi di chi esce dalla sala a fine film. Da mandare a memoria una scena: quella in cui i nostri Cavalieri devono riuscire a passarsi al volo una carta da gioco con microchip incollato, mentre vengono perquisiti all'uscita da una sala controllatissima dal metal detector. Come faranno? Sul come, però, non ci vengano a dire che si tratta di allenamento con le carte e non di visual effects. Non ci crederemmo mai.
Now You See Me 2 Regia: Jon M. Chu Cast: Jesse Eisenberg, Mark Ruffalo, Woody Harrelson, Distribuzione: Medusa Uscita nelle sale: 8 giugno
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Recensione “L'uomo che vide l'infinito”: la vera storia di Ramanujan, genio della matematica indiano
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Cinema e scienza, un territorio ampiamente esplorato. Cinema e matematica: ultimamente si può parlare di una vera e propria infatuazione. Senza dover marciare all'indietro fino al celebre “A Beautiful Mind” (2001) di Ron Howard, o, ancora più indietro raggiungendo “Will Hunting Genio ribelle” (1997) di Gus Van Sant basti citare - giusto dietro l'angolo - “The Imitation Game” (2014) di Morten Tyldum, con Benedict Cumberbatch nei panni del matematico crittoanalista Alan Turing, o “La teoria del tutto” (2014) di James Marsh, con Eddie Redmayne vincitore dell'Oscar come migliore attore nel ruolo del fisico Stephen Hawking. “L'uomo che vide l'infinito” di Matthew Brown – in uscita il 9 giugno – pur non avendo lo spessore drammaturgico delle pellicole succitate approda nelle sale armato di una storia (vera) indubbiamente affascinante.

É quella di Srinivasa Ramanujan, matematico indiano autodidatta, vissuto per gran parte della sua breve vita (morì di tubercolosi nel 1920 a 33 anni) in povertà, da sempre innamorato dei numeri e dotato di una mente che definire geniale è poco. La sua straordinaria capacità lo portò inizialmente a conquistare un impiego presso un architetto inglese in India, poi a ottenere, in modo quasi miracoloso, una borsa di studio al prestigioso Trinity College di Cambrdige. Pur dovendo abbandonare la giovane moglie e la madre in patria (in un'epoca, la prima metà degli anni Dieci del '900, in cui le convinzioni religiose mettevano all'indice qualunque indiano si macchiasse del peccato di attraversare l'oceano e raggiungere l'Occidente, contaminandosi con cibo e usanze non indiane), Ramanujian raggiunse Cambridge dove ricevette l'indirizzo e l'aiuto – inizialmente spigoloso e anaffettivo – del professor G.H. Hardy. Al college, sfidando le perplessità e il razzismo dell'ambiente accademico, riuscì a dimostrare le proprie qualità, dando un contributo impressionante all'analisi matematica, alle teorie numeriche, alle serie infinite e alle frazioni continue. E diventando addirittura Fellow della Royal Society. Ancora oggi, gli studi sui buchi neri nello spazio ricorrono a calcoli stilati da Ramanujan.

Nel film di Matthew Brown (scrittore oltre che regista) questa straordinaria storia assume i contorni di un dramma un po' sentimentale e convenzionale, sostenuto peraltro da un ottimo cast letteralmente dominato dal miglior Jeremy Irons da un bel po' di anni a questa parte. L'attore britannico – che ultimamente ricordavamo con qualche imbarazzo ne “La corrispondenza” di Giuseppe Tornatore, a dimostrazione di come non si possa guidare una Ferrari come se fosse una 500 (la Ferrari è ovviamente Irons e il pessimo pilota fu in quel caso il regista siciliano) – ipnotizza lo spettatore vestendo magistralmente il ruolo del prof. Hardy, introverso ma nobile, di convinzioni atee eppure, dopo qualche fatica, disposto ad aprirsi alla comprensione della profonda religiosità del suo originale pupillo. La quasi totalità di questa eccellente performance, purtroppo, verrà persa da coloro che ascolteranno Irons doppiato, ma tant’è: il discorso è vecchio, le pigre abitudini del pubblico italiano le si conoscono bene. Al suo fianco, il giovane Dev Patel (il grande pubblico lo ricorderà per “The Millionaire”) si difende con onore, reggendo bene almeno due confronti dialettici e drammatici con il suo co-protagonista. Impeccabili (aggiungiamo: britannicamente impeccabili) anche Toby Jones nel ruolo del prof. Littlewood amico e sodale di Hardy e Jeremy Northam in quello dell'arguto, ironico filosofo Bertrand Russell.
A deludere è, invece, la “parte indiana”: un affresco abbastanza superficiale (a tratti paternalista), interpretato da un cast senza infamia e senza lode (la bellissima moglie di Ramanujan, Janaki, è Devika Bhise). Meritevole di citazione la bella fotografia di Larry Smith e le scenografie di Luciana Arrighi.
L'uomo che vide l'infinito Regia: Matt Brown Cast: Jeremy Irons, Dev Patel, Toby Jones Distribuzione: Eagle Pictures Uscita nelle sale: 9 giugno

#L'uomochevidel'infinito MatthewBrown JeremyIrons DevPatel DevikaBishe#The Millionaire EaglePictures
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