Tumgik
foglieambrate · 5 years
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Il fumo della sigaretta si incastrava fra le sue palpebre e le lenti spesse degli occhiali, impedendogli di sollevare le ciglia durante ogni tiro. Le labbra si allontanavano dal filtro, la nuvola grigia si diradava e si disperdeva nello spazio angusto del locale, dove solo un letto a una piazza e mezzo ne rendeva comprensibile l’utilità. Con gesti lenti e composti le dita logorate nelle quali stringeva la sigaretta si avvicinarono al posacenere, prima di la-sciare cadere il mozzicone all’interno del piattino di ceramica scura. La musica dei locali situati lungo la via, sotto casa sua, giungeva come un sussurro lontano alle sue orecchie, senza che egli vi prestasse davvero attenzione. Era abituato a quell’ambiente, alla luce accecante che filtrava dalle tende troppo chiare durante il tardo pomeriggio, il caldo asfissiante e i rumori che dall’esterno riuscivano a raggiungerlo, nonostante lui si sentisse così lontano da tutto ciò che concretamente lo circondava. Non aveva animali e non aveva mai sentito la necessità di ave-re compagnia. Gli piaceva la sua routine, e soprattutto gli piaceva la libertà che aveva ottenuto una volta trasferitosi da solo. I suoi occhi scorsero lungo le finestre del vecchio palazzo dalla vernice scrostata di fronte al suo. Attraverso due lastre di vetro notò una figura femminile muoversi con grazia disarmante men-tre sistemava i prodotti appena comprati nel frigorifero e nella dispensa. Quei gesti, così abituali e casalinghi, lo fecero tornare a delle memorie antiche, le quali erano rimaste chiuse nella sua mente per anni. «Agata, sono a casa!» Le sue parole rimbalzavano fra le pareti guscio d’uovo mentre lui apriva la porta, la valigia in una ma-no, il cellulare nell’altra. La camicia cominciava a stringergli la pancia, la stoffa tirava e i bottoni parevano dover saltare da un momento all’altro. Si incamminava lungo il corridoio, nel frattempo si toglieva l’impermeabile grigio e le scarpe scamosciate. Il cappello era l’ultimo accessorio di cui si liberava: aveva l’impressione che gli donasse un tocco più serio. Raggiungeva l’arco che divideva il corridoio dalla cucina e la vedeva: i capelli ricci e biondi raccolti in una crocchia spettinata sulla nuca erano coperti da un panno rosso e bianco, le buste della spesa tutte attorno a lei. Quando alzava gli occhi dai vari cassetti e li incrociava con i suoi, un sorriso si apriva sul suo volto. Allora si alzava dalle ginocchia sulle quali era appoggiata, si lisciava la stoffa della gonna e scavalcava le borse per arrivare a stampargli un bacio fugace sulle labbra. Lui, poi, si accasciava sulla sua poltrona e leggeva il giornale, o meglio, fingeva di leggerlo. Le notizie del mondo al di fuori dal suo non lo avevano mai toccato più di tanto. Agata, nel frattempo, finiva di sistemare gli acquisti settimanali, per poi cominciare a preparare cena e apparecchiare la tavola. Le piaceva coccolare il suo uomo con pietanze accattivanti ed esotiche, nonostante lui sembrasse quasi non fare caso all’impegno che lei ci metteva. La donna del palazzo di fianco scostò le tende e uscì sul piccolo balcone ad innaffiare le pianticelle, le quali crescevano nei vasi appesi alla ringhiera in ferro battuto. Aveva l’aria pensierosa, gli occhi persi nel vuoto, le mani pallide. Lui non ricordava di averla mai vista prima, ammettendo a sé stesso che una così, sicuramente non l’avrebbe dimenticata. Una fitta al cuore lo sorprese mentre quel pensiero fugace faceva capolino nella sua mente. Erano parecchi anni che non gli succedeva: si infilò entrambe le mani, che ancora odoravano di tabacco e catrame, nei capelli brizzolati, le lenti degli occhiali si appanarono laddove sfioravano il suo naso. Decise che un caffè e una seconda sigaretta l’avrebbero calmato, quindi si alzò dalla poltrona di stoffa e, senza staccare lo sguardo dalla finestra e dalla donna dall’altra parte del vicolo, si diresse in cucina. La macchina produceva una sostanza che poco aveva a che fare con una vera tazza di caffè italiano, ma lui ormai ne era abituato. Il sole del tardo mattino scaldava le strade, facendo risalire il calore dall’asfalto fino ai volti degli sconosciuti che camminavano frettolosi sotto di loro. Chi guardava l’orologio, chi si abbuffava con un panino durante la pausa pranzo troppo breve per un lavoro troppo poco pagato, chi, principalmente bambini, giocava a pallone senza prestare attenzione ai veicoli che passavano lungo la strada. All’improvviso si sentì sopraffare da quella vista, da tutte quelle persone. Il mondo gli sembrava troppo grande, e lui era decisamente troppo piccolo. La morsa allo stomaco che lo perseguitava ogni volta che i suoi pensieri si azzardavano in quella direzione lo sopraffece, e si sentì costretto ad abbandonare la poltrona ingiallita su cui aveva passato buona parte di quella mattinata. *** Il sole estivo era ormai alto in cielo, mezzogiorno era passato, anche se non avrebbe saputo dire da quanto. Il tempo era sfuggente, e lui troppo pigro per cercare di rincorrerlo. Lo sguardo che fino a poche ore prima si era perso nelle curve della ragazza al balcone ora era vacuo mentre guardava il foglio bianco da-vanti a sé. La mano gli tremava, come se non fosse stato più in grado di reggere il peso della penna a sfera, e sapeva che non era per via dell’età. Nonostante i suoi quarantasette anni e un pacchetto e mezzo di sigarette al giorno, il suo fisico reggeva bene alle perturbazioni alle quali la vita lo aveva sottoposto — e lo sottoponeva ancora. Erano anni, però, che la sedia in pelle scura di fronte alla scrivania, anch’essa dai toni rigorosamente cupi, era rimasta vuota, quasi abbandonata. Il plico di fogli, quelli che adesso stava accarezzando con le sue dita tozze e ruvide, immobile. Il portapenne, perché mai si sarebbe sognato di comprarsi uno di quei dannati affari ultramoderni dei quali non capiva assolutamente niente. La scrittura era sempre stata una cosa sacra, per lui, il suo mezzo per scappare, per allontanarsi da tutto e da tutti. Le sue gambe nude e lisce erano allungate sulla sabbia, e Agata non si curava dei granelli che le si appiccicavano insieme alla salsedine lungo i polpacci, le cosce, le natiche. La sua pelle era incredibilmente chiara, le vene ne decoravano la superficie sui polsi e sul collo dei piedi. Lui sapeva che se non si fosse messa immediatamente la crema solare, Agata si sarebbe scottata tutta la schiena, siccome si ostinava a stendere il proprio telo da bagno non sotto l’ombrellone, bensì esposto completamente al sole. Il rito era sempre lo stesso: Lui apriva l’ombrellone e sistemava la sedia all’ombra, lei si sistemava al sole, lui le faceva la ramanzina, lei sbuffava, gli schioccava un bacio sulle labbra, uno sul naso, poi faceva comunque di testa sua. Come poteva arrabbiarsi, però, quando quegli occhi languidi inchiodavano i suoi, togliendogli il respiro? «Ti guardano tutti se fai così.» La rimproverava quando lei si stendeva a pancia sotto, i seni premuti contro la sabbia calda, e si slacciava i nastri della parte superiore del bikini. «Chi vuoi che mi guardi, oltre a te?» Lo prendeva in giro lei, ogni volta, con quella voce dolce e tagliente al medesimo tempo, cosa che rendeva pressoché impossibile capire quando stesse scherzando e quando fosse seria. Ad ogni modo il reggiseno rimaneva slacciato, la pelle candida esposta al sole, lo spazio all’ombra accanto a lui, vuoto. Il foglio rimaneva bianco, e la pelle di Agata si dissolveva nella sua mente. La tazza di caffè si era svuotata, nel frattempo, e sul fondo lo zucchero depositato aveva assunto un colore ambrato. Non aveva voglia di uscire di casa, ma ancor meno di rimanere seduto sul divano la cui stoffa di un colore difficilmente definibile era logora e puzzava di fumo, caffè e vino andato a male. Le sue gambe si distesero e gli imposero di mettersi in posizione eretta. Si chinò per infilarsi e allacciarsi le scarpe. Tracce di terra  e fango segnavano gli anni che quelle calzature avevano vissuto in suo possesso. Una mano si allungò e afferrò il pomello, permettendo alla serratura di aprirsi e lasciare che lui si affacciasse al pianerottolo.
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