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PER UNA STRANA COINCIDENZA







Mentre facevo una ricerca superficiale sul mio cognome mi sono imbattuto in Stefano Satanassi di Civitella, contadino nato il giorno di S. Stefano del 1910. Figlio di Giovanni, possidente, e Maddalena Baldoni, massaia, suo fratello Giuseppe, detto Fafì, era mio bisnonno e ciò fa di Stefano mio prozio. Sposato con Carola Ricci di Galeata, nel 1931 è chiamato alla visita di leva ma viene riformato per problemi di salute, per poi esser rivisitato all'ospedale militare di Bologna e assegnato ai servizi sedentari. Il 12 dicembre ‘43 si unisce alla Resistenza con l’8° Brigata Garibaldi e viene riconosciuto partigiano combattente nel distaccamento guidato da Duilio Piolanti, nome di battaglia Bérba (barba). Partecipa alle azioni dei ribelli fino al 18 agosto ’44 quando un rastrellamento nazifascista lo sorprende in un podere presso Pianetto di Galeata. L’operazione ha come obiettivo la base partigiana di Pieve di Rivoschio e porterà alla fucilazione di alcuni partigiani presso la fornace Bisulli di Meldala. Stefano viene portato a Forlì e da lì deportato in Germania. Viene dato per disperso finché non si scopre la sua morte, avvenuta il 9 febbraio 1945 nel campo di prigionia di Wanne-Eickel a causa di un bombardamento Alleato. Era stato assegnato ai lavori forzati come deportato politico. Per una strana coincidenza il 9 febbraio è anche il mio compleanno. Stefano muore a 34 anni, ho cercato una sua foto sul monumento ai partigiani di Civitella ma ho trovato soltanto il nome. Poi mi sono ricordato che tutti i partigiani della provincia sono celebrati anche nel sacrario di piazza Saffi a Forlì, a due passi da casa mia. Un monumento che avevo osservato innumerevoli volte e quella foto era proprio lì, davanti a me; un prozio combattente di cui fino a poco fa non sapevo nulla mi fissava e chiudeva un cerchio. Oggi il suo corpo riposa in Germania, nel cimitero militare di Francoforte. Sulla lapide c’è scritto “partigiano.” Chissà, forse dovrei organizzare un viaggio.
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UN SISTEMA MARCIO

Sembra tutto così chiaro, eppure. Eppure nell'epoca dove le informazioni sono accessibili a chiunque senza fatica, la violenza maschile sulle donne nella quasi totalità delle notizie viene ancora associata a un'amore passionale e tormentato. Come se la componente violenta fosse parte dei sentimenti di un uomo, come se questi atti immondi fossero raptus improvvisi, esplosi dal giorno alla notte, accaduti a causa di atteggiamenti che li hanno provocati. Questa cosa è sistemica ed è allucinante. Se anche fosse colpa di un raptus, ma non lo è, non ha comunque senso continuare ad assumere atteggiamenti, e usare parole, che mettono sullo stesso piano vittima e carnefice o sbilanciano a favore di quest'ultimo tutta la narrazione. Spesso la vittima viene presentata con foto seducenti o ammiccanti, dentro a un meccanismo perverso, conscio o inconscio, di colpevolizzarla fino a quasi giustificarne la morte. Il femminicidio è quasi sempre parte di una lunga storia di mortificazioni e abusi e la violenza contro una donna è un'azione, non è una reazione a un comportamento sbagliato della vittima. Se anche lo fosse, la colpa è sempre e solo dell'assassino. Una persona che ti chiude in un valigia e ti butta da un dirupo non lo fa perché ti "amava troppo", né perché ha perso la testa. Lo fa come atto finale di una gestione del potere violenta dentro a una relazione che non ha nulla di amoroso. Chi lo nega, non lo capisce o lo ignora, fa parte di un sistema marcio che ci coinvolge da secoli e che andrebbe abbattuto a favore di una (ri)educazione sessuale-affettiva che coinvolga tutte e tutti. Nel frattempo teniamo alta la voce e fuochi sempre accesi.
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NON ERAVAMO NECESSARI

Già vent'anni fa in piazza gridavamo: “Anche in Jugoslavia morivano i bambini / non c’era Berlusconi ma c’erano i diessini”, e si manifestava davanti all’aeroporto militare di Pisignano, contro gli aerei di D'Alema che andavano a bombardare quelle terre. Per questo le posizioni di una certa sinistra non mi soprendono. Per queste persone un ucraino sarà sempre un eroe e un palestinese sempre un terrorista. Il partigiano Giammarchi a 90 anni suonati ci diceva di stare attenti ai guerrafondai, perché ci sono e ci saranno sempre, a destra e a sinistra. E ricordava che sebbene la Resistenza avesse vinto, lui aveva perso, perché metà della sua famiglia era morta sotto i bombardamenti. La guerra la vogliono i governi, la gente ne esce sempre sconfitta. Ma è un concetto troppo di sinistra per Serra, Scurati e Vecchioni. Continuino pure a esaltare questa presunta superiorità europea, io preferisco ricordare le parole del poeta russo Boris Slutskij, che al fronte c’era stato veramente: “Quando siamo tornati dalla guerra / ho capito che non eravamo necessari.” Questo, a mio parere, è il nucleo di tutta la faccenda.
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DALLA PARTE GIUSTA

Il piano di riarmo per gli Stati europei non solo è un insulto alla storia, ma è la dimostrazione che, per chi comanda, uccidersi a vicenda viene ancora considerato il miglior modo per progredire. Dalla nascita del tempo chi vuole la guerra non è mai stato al fronte, e chi non la vuole muore per la causa di un altro. I nemici non saranno mai le persone che parlano una lingua diversa o che hanno la pelle di un altro colore, i nemici sono narcisisti deviati che pianificano e danno ordini per aumentare potere e denaro. L’unica battaglia da portare avanti dovrebbe essere quella contro queste persone, con l’obiettivo di abbattere ogni confine tra i popoli. Lo so, un'illusione. Filo spinato, muri e frontiere alzate per secoli e secoli hanno soltanto separato persone uguali, alle quali è stato detto di essere diverse. Ci hanno fatto credere di essere migliori di chi viveva oltre la linea tracciata da altri, tutto per lo sfruttamento di tanti e il guadagno di pochi. Non dovremmo più riconoscerci nella patria che ci governa, ma solo nel genere umano al quale tutte e tutti apparteniamo. L’Europa unita che ci raccontano non esiste. Esistono ancora i padroni ed esistono ancora gli sfruttati. C’è chi ordina, chi obbedisce, chi guadagna e chi muore. Ma forse una cosa vera la storia ce l’ha insegnata, dalla parte giusta c’è sempre chi si ribella.
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QUANDO C'ERA LUI

Ciò che l'Italia non vuole ricordare. Nel maggio del ’36 le truppe di Badoglio entravano ad Addis Abeba, capitale di quell’Etiopia “conquistata” scaricando gas sui civili. Ansioso di tornare in Italia a ricevere medaglie, il maresciallo lasciò al generale Graziani il titolo di viceré d’Etiopia, mentre nelle regioni confinanti era ancora attiva la resistenza locale. Per dimostrare la generosità dell’italiano conquistatore, il 19 febbraio del '37 Graziani parlò a 3.000 poveri in fila per ricevere una moneta d’argento. Ma qualcosa andò storto, dalla folla partirono tre bombe a mano, una delle quali ferì il generale. La rappresaglia fascista fu immediata. Uniti alle camice nere, i civili italiani uscirono nelle strade armati di sbarre di metallo uccidendo ogni etiope che si presentava di fronte, incendiando e devastando i quartieri poveri con una violenza senza regole che proseguì fino al maggio successivo. Saccheggi, rapine ed eccidi provocarono l’effetto opposto a quello voluto da Graziani: gli atti di sottomissione agli italiani cessarono e s'ingrossarono le file della resistenza. Dopo una rivola popolare esplosa in agosto, a settembre andò in scena l’ultimo atto di un genocidio criminale, con la decapitazione del capo dei rivoltosi. Ancora oggi le cifre della strage sono incerte, ma si attestano attorno alle 20.000 persone. Nonostante ciò, gli italiani brava gente offrono ancora una lettura celebrativa delle imprese coloniali del fascismo, rimuovendo le colpe di un massacro che solo gli etiopi ricordano ogni anno come il loro “Giorno della memoria.” Assolvendo le colpe del fascismo continuiamo a non fare i conti con il nostro passato, celebrando anzi quel periodo senza affrontare gli atti criminali che abbiamo commesso "quando c'era lui."
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I SATANASSI

Un po' di ricerca sul mio cognome mi ha portato a diversi “Satanassi” coinvolti nella guerra di Liberazione in Romagna. Tra i partigiani dell’8° Brigata Garibaldi c’era Angelo Satanassi, detto ‘Leone’, di Santa Sofia, commissario di distaccamento che diventerà sindaco di Forlì; poi Aurelio detto ‘Fresi’, manovale di Civitella; Dante, barbiere e staffetta di Sarsina; Giovanni detto ‘Gianni’, membro del CLN di Sarsina e ferito in uno scontro coi tedeschi durante l’occupazione del paese; poi Tarcisio detto ‘Lama Mora’, commerciante sempre di Sarsina e capo squadra; e infine Stefano Satanassi di Civitella, catturato durante il rastrellamento d'agosto e deportato in Germania. Per diverso tempo fu dato per disperso. Morì, forse sotto un bombardamento, nel campo di Wanne-Eickel. Riposa nel cimitero italiano di Francoforte. Tra i morti per mano tedesca risulta anche il 78enne Giovanni Maria Satanassi detto ‘Zanmaria’, del podere Torto di Sotto, colpito da un cecchino mentre pascolava le pecore. Riuscì a tornare a casa dove morì dissanguato. La moglie e i proprietari del podere, rimasti a vegliare il corpo, furono raggiunti e uccisi dai tedeschi e la casa incendiata. Un Satanassi Dario di Sarsina risulta anche in un bollettino dell'8 Brigata in data 31 ottobre ’44, il quale "informa che i nuclei di partigiani locali dell'8° Brigata continuano l'operazione verso Forlì.” Credo fosse il padre di uno dei partigiani già nominati. Anche il partigiano Sergio Giammarchi ricordò di un amico, Giovanni Satanassi di Forlì, che lo presentò ad Adriano Casadei prima di raggiungere Corbari. Giammarchi diede proprio a Giovanni il compito di informare la madre che sarebbe andato in montagna. L’immagine ritrae invece un gruppo di partigiani stranieri in zona Biserno. La foto fu scattata da Edwige Satanassi, di cui non so nulla.
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PERCUOTEVAMO LE TUBATURE

Nel dicembre di 22 anni improvvisamente moriva Joe Strummer, cantante dei Clash. Lo vidi suonare dal vivo a Bologna due anni prima. I Clash furono uno dei primi gruppi punk a utilizzare la parola come strumento. Soprattutto per prendere una posizione e appoggiare o criticare interi Paesi. Con il movimento punk condividevano le critiche al sistema, ma rifiutavano le tendenze nichiliste tipiche di alcune band come i Sex Pistols. Peter Townshend, leader degli Who, disse che «i Clash erano dei poeti che lavoravano nel campo della musica; ed esprimevano rammarico per il fatto che le band che li avevano preceduti non erano state abbastanza militanti.» Nella canzone 'London calling' furono registrati diversi effetti sonori, come il grido di un gabbiano aggiunto alle chitarre suonate al contrario. A questo proposito, il chitarrista Mick Jones disse: «Facevamo cose folli tipo strappare lentamente il velcro dalle sedie dello studio e registrare il rumore che faceva. Per le sovra-incisioni andavamo sempre in bagno, perché c'era un effetto eco. Percuotevamo le tubature.» Ancora oggi, i Clash sono considerati da molti 'the only band that matters', l'unico gruppo che conti. C'è una fase, nelle nostre vite, in cui lo abbiamo pensato tutti.
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QUASI 800 SOTTO GLI 11 ANNI D'ÈTA





L'Italia è quel paese in cui con la scusa di una commemorazione, 1.300 neofascisti possono radunarsi per ricordare un regime che di morti ne ha fatti decine di migliaia. Soltanto in base alle stragi documentate, tra il settembre 1943 e il maggio 1945 sono state uccise dai nazifascisti quasi 24.000 persone, di cui oltre 12.000 civili, quasi 800 sotto gli 11 anni. Il 21% di questi crimini sono stati compiuti da italiani e non da tedeschi. Sono numeri reali. Il triste primato va alla mia regione, Emilia-Romagna, e alla vicina Toscana. Regioni che hanno dato un'enorme contribuito alla lotta di Liberazione. A questi numeri vanno aggiunte 4.596 condanne fatte dal tribunale speciale fascista negli anni precedenti alla guerra, per un totale di 28.000 anni di galera per dissidenti e oppositori. Nonostante siano dati pubblici e incontestabili, che proprio a livello statistico, nel caso tornasse quello stesso regime assassino, farebbero rientrare in questi numeri anche parenti, amici e conoscenti dei subumani di Acca Larentia, c'è ancora chi rimpiange un regime criminale e si viene ancora identificati se si grida "W la Resistenza." Sono trascorsi 80 anni ma siamo ancora lì. Cambiare tutto per non cambiare niente.
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NUOVI PROGETTINI

Romagna Ribelle è un progetto di raccolta resistente. Un archivio virtuale per ricordare le donne e gli uomini che hanno contribuito alla Resistenza in Romagna. Gente comune, partigiani, sovversivi, banditi e ribelli spesso dimenticati, ma anche episodi, luoghi e ricordi di un tempo che non ritorna. Un piccolo spazio per coltivare la memoria antifascista locale e ricordare da dove veniamo.
Lo trovi, per ora solo su Instagram, QUI.
(aiutatelo a crescere)
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UNA SOLA PAROLA D'ORDINE

Questa foto del 1972 ritrae la conclusione in piazza Saffi di un corteo antifascista a Forlì, per ricordare la strage di piazza Fontana avvenuta tre anni prima a Milano. Era il 12 dicembre '69 quando una bomba esplose alla Banca Nazionale dell'Agricoltura, uccidendo 17 persone e ferendone 88. La colpa ricadde sugli anarchici. Il ferroviere Giuseppe Pinelli, estraneo ai fatti, morì dopo due giorni di interrogatori "cadendo" dalla finestra degli uffici della questura. I veri responsabili della strage furono riconosciuti nei terroristi di estrema destra coperti e guidati da settori dello Stato. In Romagna si diffuse subito un forte sentimento di rabbia. Sorsero ovunque i comitati unitari antifascisti, organismi popolari che misero in atto una forma diffusa e organizzata di auto-difesa, promuovendo incontri, convegni, cortei, manifestazioni e picchetti di sorveglianza antifascista. Una sola parola d'ordine: nessuno spazio ai fascisti, nessuna tregua. Sullo striscione fotografato nel dicembre 1972 si legge: "Le bombe le hanno messe i fascisti, pagati dai padroni, guidati dalla polizia, protetti dalla magistratura, coperti dalla stampa. La vera giustizia è quella proletaria." Accanto, si nota una bandiera con la diagonale rosso-nera. Purtroppo, se ne vedono sempre meno.
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IL NASO

Il 10 dicembre '44 Forlì era già libera da un mese. Dopo aver spinto i tedeschi oltre il fiume Montone, i gappisti hanno atteso l’ingresso in città degli Alleati, con un reparto scozzese in prima fila. L’illusione della pace viene interrotta dal passaggio di due aerei tedeschi, che sganciano sulla città bombe ad alto potenziale, capaci di esplodere poco prima dell’impatto al suolo, sbriciolando gli edifici senza creare crateri. Sono bombe nuove, mai viste, che vengono testate per la prima volta proprio qui. Gli obiettivi sono la ghiacciaia Monti, deposito logistico dell’esercito britannico vicino alla chiesa di San Biagio, e il palazzo della famiglia Merenda, in corso Diaz, quartier generale Alleato. Il primo ordigno sbaglia e colpisce la chiesa quattrocentesca polverizzando le opere di Melozzo e Palmezzano, portandosi via 20 vite umane. La seconda va a segno e travolge decine di inglesi e una famiglia romagnola. Oggi si nota ancora la discrepanza tra i palazzi storici di corso Diaz e gli edifici “nuovi” che hanno riempito i vuoti dovuti all’esposione. Uno di questi è il teatro Diego Fabbri, che qualche vecchio forlivese chiama ancora Astra, dal nome del cinema inaugurato nel '47. Di San Biagio si è salvato il sepolcro di Barbara Manfredi, moglie di Pio III Ordelaffi, ma il naso si è staccato e perso tra le rovine. Lo studioso Pietro Reggiani lo ritrova dopo alcuni giorni sotto le macerie, spostando ogni centimetro di polvere con un bastone da passeggio.
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BATTAGLIA

In questi primi giorni di dicembre, cinque anni fa, se ne andava nonna Elena. Se ci penso, ancora mi manca. Al suo funerale la chiesa era piena, nonna era bellissima e aveva dei fiori sulla bara di legno. Io piangevo perché lei non c'era più e quando una nonna non c'è più puoi avere anche 30 o 40 anni, le gambe ti tremano lo stesso. La persona che più mi proteggeva al mondo era svanita nel nulla, forse mutata in qualcos'altro, forse niente, soltanto ossa sepolte nella terra fredda. La morte cancella ciò che siamo e ci trasforma in ricordi che i vivi sfogliano quando il cielo si fa il grigio, per far entrare la pioggia, riempirsi fino all'orlo e farla uscire come lacrime che sanno di mare. Sento ancora la sua voce e mi costringo a non dimenticarla. Sento il rumore della sua macchina da cucire, sento il profumo di ragù uscire dalla sua piccola cucina sgangherata. Elena ha vissuto 96 anni con la mente limpida come le notti di montagna. Per me era impensabile che morisse, e quando è successo ho capito che in realtà le nonne non muoiono. Le nonne, come diceva Fredrik Backman, sono persone da portare in battaglia.
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HO COMPRATO LE SCARPE

Nel marzo del '44 arrivò tra i partigiani romagnoli un americano, si chiamava Leo Lucas. Il suo aereo era stato abbattuto e si era nascosto tra le famiglie contadine della zona. Parlava bene l'italiano e i gappisti della pianura lo mandarono in montagna perché si pensava fosse più al sicuro. Rimase diversi mesi aggregato alla Brigata Garibaldi. "Eravamo sempre assieme - raccontò il partigiano Artico Graziani - Quando in agosto fu liberata Firenze noi dormivamo in delle capanne tra Strabatenza e la Casaccia perché le pattuglie tedesche percorrevano tutte le strade. Leo ci raccontava dell'America e della ragazza che avrebbe sposato appena tornato a casa. Una notte mi svegliò e mi disse che non se la sentiva più di aspettare l'arrivo dei suoi connazionali e voleva andare loro incontro. Si erano svegliati anche gli altri, lo abbracciamo e ci salutammo. Eravamo tutti molto commossi. Regalò il suo orologio a Boris e partì nel cuore della notte. Non seppi più niente di lui, ma alla fine del '46 arrivò una lettera dall'America, ci scriveva dallo Utah, dove si trovava in viaggio di nozze con sua moglie Carmen. Ci mandava dei soldi, fatti sparire dalle poste, e un pacco di vestiti. Leo ce l'aveva fatta, aveva raggiunto le linee alleate e poi aveva fatto quello che si era sempre proposto, sposare la sua Carmen. Col tempo persi ogni contatto con lui, un giorno chiesi però a Boris se aveva ancora quell'orologio. L'ho venduto, mi rispose, ho comprato le scarpe per sposarmi."
(Foto: Boris il primo a destra)
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LONTANO DA VOI

Nei giorni in cui luminarie e videomapping si accendono sulle vetrine vuote del centro, alla stazione di Forlì hanno alzato una gabbia di sbarre per evitare la presenza dei senzatetto. Stretti nei loro sacchi a pelo, forse non erano 'belli' per chi ogni giorno salta sui treni in ritardo per correre a timbrare il cartellino. Li chiamano invisibili, ma invisibili per chi? Per noi privilegiati che vogliamo nasconderli e voltare gli occhi di fronte al fallimento della società capitalista. A nessuno importa di loro, basta non averli davanti mentre facciamo colazione al bar, entriamo al supermercato e aspettiamo il black friday. Ma se ci infastidiamo quando ci chiedono una moneta per perdersi in un vino scadente, forse il problema siamo noi. Scavalcati dalla nostra indifferenza, esistono ma non esistono. Eppure sono tanti, e quelli che conosco e ho conosciuto si portano dietro storie di ogni tipo. Timidi, riservati, arrabbiati, aggressivi, maleducati, romantici. Sono come noi, ma per scelta o per necessità restano invisibili perché troppo visibili. Liberi da ogni cosa, resistono ai margini di un mondo corrotto che li ha rifiutati o che hanno abbandonato. Forse ha ragione quella canzone che dice "Lavorate voi, schiavi dei soldi, che non sentite la puzza della schiavitù / Con una carrozzella spingerò i miei guai, i cartoni e la vita lontano da voi".
(foto: opera della pittrice Wally Waser)
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FUOCO FIAMME VENDETTA

Secondo il cristianesimo, le colpe della donna sono antecedenti alla nascita del mondo. Fu Eva a convincere Adamo a disobbedire a Dio, perciò a causa sua esistono la morte e il peccato. Da quel momento la donna è stata dipinta come una tentatrice opposta alla divinità, perciò da lapidare e bruciare viva. La donna dell’antica Roma non poteva bere vino perché ciò l'avrebbe spinta alla libidine e a far perdere su di essa il controllo da parte dell’uomo. La convinzione che la sessualità della donna fosse qualcosa di selvaggio portò a pensare che essa provasse piacere nell’essere stuprata. Per Ovidio “la donna pur combattendo vuole essere vinta e quando potresti credere che lei non voglia, poi cede." Per Platone era la reincarnazione degli uomini che avevano fatto errori nella vita precedente, reincarnava cioè un essere inferiore. Nell’Odissea, Agamennone consiglia a Ulisse di non essere dolce con una donna perché lei “è un essere infido.” Gli esempi di uomini che hanno mortificato, offeso e ucciso una donna nei secoli sono infiniti, per questo non capiremo mai cosa significa lottare ogni attimo per distruggere un pensiero millenario. Ogni donna ha subìto una violenza, che sia una battuta sessista o peggio; e tutti gli uomini hanno fatto almeno una volta ‘quella’ battuta. Tutti. Il patriarcato è un cancro. Dobbiamo agire su di noi, ma se ciò non bastasse: fuoco, fiamme e vendetta.
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ACCETTALA

Se la storia è ciclica, noi abbiamo beccato la fase di merda. Una fase mai cambiata per chi fatica ad arrivare a fine mese, a trovare lavoro, a cercare di vivere una vita bella. Succede coi governi di destra e coi governi di sinistra. La vera domanda non è perché questa sia la fase di Trump e Meloni, ma perché molte categorie emarginate abbiano iniziato a sentirsi rappresentate da loro. La sinistra ha abbandonato la lotta di classe da anni. Ci hanno fatto credere che il nemico non deve più essere il padrone, ma il collega sfruttato che parla un'altra lingua. Lavoro, istruzione, sanità, ambiente, diritti civili..la lotta va allargata e alimentata senza respiro. L'esempio ce lo danno i giovani che scendono in piazza, schivano i manganelli e prendono denunce, mostrando che fuori dai "palazzi" esiste un cuore che batte e si batte per tutti e per tutte. Ci stanno dicendo che siamo in una fase di merda e dobbiamo "accettarla". Ma non nel senso di prenderne atto, nel senso di spaccarla in due con un'ascia rivoluzionaria. Abbiamo il dovere di seguirli.
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PEL DI CAROTA




Pochi giorni fa si ricordava la liberazione di Forlì. Come ogni anno, mi piace raccontare un evento legato a quei giorni. La prima frazione a essere liberata fu San Martino in Strada, il giorno prima. Il paese è avvolto dalla nebbia e il caporale Irvine, a capo della 4° divisione inglese, sta avanzando casa per casa. Si avvicina al Mulino de’ Fig’, cioè del fico, per le piante che lo circondano: “Ci fermammo dietro l'ultima casa mitragliata. Entrai con della carne in scatola per fare uno scambio e trovai il vecchio mugnaio. Suo figlio, dalla testa color carota, mi accompagnò di sopra, dove c’era il foro di una cannonata. Il mugnaio disse che era successo la mattina prima e mi resi conto che era stata la 5° squadra a farlo. Un po’ arrossendo glielo spiegai, ma con sorpresa mi diede una pacca sulla schiena e disse “Bravo!” Il fatto aveva scacciato i tedeschi. Tornato fuori, vidi i civili con al braccio la fascia dei patrioti percorrere la strada in bicicletta, ciascuno armato di un fucile. Alle 11 andammo nelle barricate attraverso la foschia. Eravamo a circa a 1 km da Forlì. Per la strada c'erano folle acclamanti che battevano le mani e offrivano vino, una roba terribile, ogni volta che ci fermavamo.” Alcuni anni fa, Bruce Irvine, figlio del caporale, visitò i luoghi del diario del padre. Bussando alla porta dello stesso mulino si ritrovò davanti l'ottantenne Virgilio Gardelli, scoprendo con commozione che si trattava del bambino dai capelli color carota.
foto 3: il foro sul mulino foto 4: Virgilio e Bruce
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