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Quando un elefante deve essere trasportato in aereo da un Paese all’altro — ad esempio, dall’India agli Stati Uniti — nella sua gabbia viene posato… un gruppo di pulcini.
Perché, nonostante la sua imponente mole, l’elefante ha un profondo timore di far loro del male.
E così, per tutto il viaggio, rimane perfettamente immobile, attento a non muoversi, a non spostarsi, a non rischiare di schiacciarne nemmeno uno.
In questo modo si mantiene anche l’equilibrio dell’aereo.
Ma è molto più di una semplice strategia di volo.
È la prima, straordinaria dimostrazione della nobile natura dell’elefante.
Affascinati da questo comportamento, gli scienziati hanno studiato il suo cervello.
Hanno scoperto la presenza di cellule fusiformi: neuroni rarissimi, presenti anche nell’essere umano, associati a empatia, coscienza di sé, percezione sociale.
In altre parole: l’elefante non è solo grande nel corpo.
È grande nell’anima.
Sente. Comprende. Ama. Agisce con una saggezza silenziosa.
Non a caso, anche Leonardo da Vinci, incantato dalla natura, scrisse:
“L’elefante incarna la rettitudine, la ragione e la temperanza.”
E descrisse così i suoi gesti:
Entra nel fiume con solennità, quasi volesse purificarsi da ogni male.
Se incontra un uomo smarrito, lo guida dolcemente verso la strada giusta.
Non cammina mai da solo: sempre in gruppo, sempre guidato da un capo.
È pudico: si accoppia solo di notte, lontano dagli altri, e poi si lava prima di rientrare nel branco.
Se incontra un’altra mandria, sposta gli animali con delicatezza, con la proboscide, per non ferire nessuno.
Quando l’elefante sente che la fine è vicina, si allontana dal branco e va a morire da solo, in un luogo appartato.
Forse per risparmiare ai più giovani il dolore di vederlo morire.
O forse per pudore.
O per compassione.
O per dignità.
Tre virtù rare.
Soprattutto tra gli uomini.
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Che errore abbiamo commesso,
illusorio e superbo,
nel pensare di poterci elevare al di sopra della natura.
Come se fossimo altro.
Come se potessimo dominarla, invece che appartenerle.
Eppure è in lei –
nel tremolio dorato di un tramonto,
nell’urlo rovente di un’eruzione,
nello strappo improvviso di una frana –
che si cela il senso profondo dell’essere.
Nel suo abbraccio che accoglie e travolge,
nella sua voce che consola e ammonisce,
c’è la misura del nostro passo,
la memoria della nostra origine,
il limite e l’infinito insieme.
In ogni sua manifestazione,
dolce o furiosa, violenta o materna,
risiede ciò che noi abbiamo dimenticato:
che esistere non è dominare,
ma appartenere.
Federico Quaranta
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Lettera al Mare
(per il Girotonno)
Mare,
padre antico e madre generosa,
culla del mondo e suo mistero profondo.
A te ci rivolgiamo oggi, con rispetto e gratitudine,
come figli che tornano alla casa del tempo.
Tu che non hai muri né confini,
sei il linguaggio universale che ci unisce.
Hai parlato ai Fenici, ai Liguri, agli Etruschi ai Greci, ai Romani, ai Saraceni,
hai accolto preghiere, canti, merci,
e sulle tue onde hai portato uomini e storie,
speranze e salvezze, naufragi e rinascite.
Intorno a te, e grazie a te,
sono nate culture, si sono intrecciate tradizioni,
si sono plasmati mestieri antichi, fatti di sale, sole e fatica.
Ogni onda che si frange
racconta un gesto tramandato,
una rete gettata, una tavola imbandita,
un’umanità che vive insieme,
nonostante le distanze, le lingue, le frontiere.
Tu sei scuola e teatro,
mercato e altare.
Ci hai insegnato che pescare non è solo prendere,
ma attendere, conoscere, restituire.
Che il cibo è memoria,
e il tonno – tuo figlio possente –
è rito, racconto, rispetto.
Nel tuo grembo scorrono millenni di dialogo,
di scambi tra popoli che si sono guardati negli occhi, davanti allo stesso orizzonte.
Perché sul mare si naviga, ma prima ancora si ascolta.
Oggi ti celebriamo,
non come risorsa da sfruttare,
non come catino da inquinare o grembo da violare, ma come compagno di esistenze.
Come via di apertura e non di separazione.
Come trama liquida di un telaio
che intreccia mani diverse in un solo gesto.
Questo è il Girotonno:
non solo una festa,
ma un abbraccio che attraversa le acque,
che unisce le rive,
che ricorda a tutti noi che senza il mare
non saremmo nulla.
A te dedichiamo ogni parola,
ogni piatto, ogni canto, ogni sguardo, ogni gesto.
Perché in te ci riconosciamo,
e grazie a te possiamo ancora chiamarci
umanità.
Federico Quaranta
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Col tempo, ci si allontana dalle feste,
dagli eventi, dalle folle rumorose…
E chi guarda da fuori, a volte pensa:
“Ha perso la luce, ha perso la voglia.”
Ma non è così.
È che abbiamo imparato a scegliere.
Abbiamo capito che non dobbiamo più
essere ovunque, sorridere sempre,
adattarci dove non apparteniamo.
Abbiamo imparato a non forzare
la nostra presenza nei luoghi
dove il cuore non batte più.
E così, con una leggerezza
che un tempo sembrava impossibile,
diciamo:
“Questo non fa più per me.”
Chi ascolta, a volte, prova dispiacere.
Ma solo chi è arrivato fin qui capisce:
non è tristezza. È sollievo.
È la pace di chi non ha più bisogno
di dimostrare nulla.
È la bellezza di poter dire,
con fermezza e serenità:
“Questo lo voglio. Questo no.”
Questo, amico mio… questo è libertà.
E la libertà vera, quella che abbraccia l’anima,
non ha età.
Arriva quando smettiamo di correre
dietro a tutto e iniziamo a correre
solo verso ciò che ha senso.
Se c’è un rimpianto, è solo questo:
Che non l’abbiamo imparato prima.
Ma va bene così…
Perché quando arriva, anche se tardi, comprendiamo:
Non è mai stato questione di arrendersi.
È sempre stato un tornare a casa.
~ Dalcides Biscalquim ~
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«Un lingotto di ferro: il suo valore è di circa 100 dollari. Se fosse ferro usato varrebbe circa 25 dollari. Se decideste di farne dei ferri da cavallo, il suo valore salirebbe a 250 dollari. Qualora, invece decideste di farne aghi per cucire, il valore salirebbe a circa 70.000 dollari. Se invece decideste di produrre molle per orologi il valore salirebbe a circa 6 milioni di dollari. Il vostro valore non è solo "in ciò di cui siete fatti" , ma soprattutto " in quali modi siete in grado di trarre il meglio da ciò che siete».
Wayne Walter Dyer
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Nelle profondità dell'addome c'è un sistema nervoso completo, noto come sistema nervoso enterico. Contiene più di 100 milioni di neuroni, più del midollo spinale e più del cervello di molti piccoli animali, come un gatto o un topo.
Questo “secondo cervello” non solo gestisce la digestione, ma produce anche il 90% della serotonina del tuo corpo, il neurotrasmettitore del benessere. Inoltre, comunica con il suo cervello reale attraverso il nervo vago, influenzando il suo umore, le sue scelte e il suo intuito.
Ecco perché sentiamo le farfalle quando siamo innamorati o noi quando abbiamo paura.
Il tuo stomaco non solo digerisce... pensa, decide e sente.
"Abbiamo portato un cervello nascosto nella pancia... e lo sentiamo raramente. "
Fonti:
Michael Gershon, il secondo cervello
Scientific American, "Il cervello nel tuo intestino"
La natura valuta le neuroscienze, “Comunicazione intestino-cervello
Via Stoic Man
Condiviso da Rhodia Flores
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La figlia che non dà problemi…
Ti è mai toccato essere quella figlia?
Quella che sembra avere tutto sotto controllo, che non ha bisogno che le stiano dietro, che la proteggano o le ricordino cosa deve fare.
Quella di cui i genitori non si preoccupano mai, perché è “molto matura e responsabile”.
Ecco… è molto probabile che quella figlia oggi viva piena d’ansia.
Ogni volta che qualcuno mi dice che i propri figli o figlie sono “molto maturi”… mi preoccupo.
Perché maturità e infanzia sono concetti opposti.
Se c’è una fase della vita in cui bisogna poter essere immaturi, è proprio l’infanzia — e c’è un motivo per questo.
Certo, per gli adulti è comodo che i bambini siano “maturi”, perché significa meno lavoro per noi.
Ma il prezzo che pagano loro è altissimo.
Quella figlia che non dava problemi, probabilmente:
Ha imparato che non può contare su nessuno.
Che le sue emozioni vengono dopo quelle degli altri.
Che è meglio tenersi tutto dentro, perché parlare dei propri sentimenti è un peso per chi le sta intorno.
Che non è abituata a essere vista, e quindi continua a fingere di farcela… anche quando non è così.
Finché un giorno tutto questo diventa insostenibile.
E da adulta, arrivano il dolore cronico, le emicranie, le malattie autoimmuni, il crollo energetico, l’ansia.
Perché ha passato la vita a stare scomoda per far sentire comodi gli altri.
E in più… la lodavano per questo:
"Guarda quanto sei matura, quanto sei responsabile, saggia, ordinata, obbediente…"
Quella bambina ha imparato che i suoi bisogni non erano importanti quanto quelli degli altri.
Se tu sei stata quella figlia che “non dava problemi”,
abbraccia quella bambina dentro di te.
Quella che ha pensato di dover essere grande troppo in fretta.
Ascolta i suoi bisogni, e concedile il permesso di avere una rete di supporto.
Ricorda: chiedere aiuto non è debolezza, è guarigione.
Ti abbraccio con amore,
e abbraccio anche quella piccola parte di te che forse, solo adesso,
ha il permesso di essere piccola. 💛
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Cosa significa sentirsi visti?
È quando ti senti luce
anche se sei spettinato dentro
È trovare un cuore
che non ti corregge,
ti celebra
È quando qualcuno si accorge
del nodo che hai in gola
prima che diventi silenzio
È quel momento minuscolo
in cui smetti di spiegarti
È quando ti dicono “ci sono”
ma lo dicono con la presenza, non con la voce
È quando il tuo caos
non fa scappare nessuno
È quando qualcuno
si accorge della tua stanchezza
senza che tu dica una parola
È essere presi sul serio
anche quando si ha la voce piccola
È non dover alzare il volume
per esistere
È un abbraccio che arriva
senza averlo chiesto
ma proprio quando serviva
È quando ti chiamano per nome
come se fosse una poesia
È che c’è chi resta
quando non sei brillante
né utile
né divertente
È qualcuno che ascolta
come se le tue parole
fossero sacre
È trovare occhi
che non hanno paura della tua ombra
È sentire che non devi meritare
il bene che ricevi
È quando ti guardano
e vedono anche quello
che non sai dire
È non sentirsi mai di troppo
nemmeno nel proprio silenzio
È quando non sei un ruolo
ma una storia
È qualcuno che ti tiene il dolore
per un minuto
mentre tu riposi
Andrew Faber su Essere Indaco
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Fare la madre è un mestiere solitario.
Dico “fare“, perché sull’essere ci incartatemmo in discussioni troppo lunghe.
E’ un po’ come fare il portiere, guardi tutta la partita ma da lontano, segui le azioni senza poter intervenire, urli qualcosa ma o non ti sentono o non ti ascoltano. Devi solo essere pronta a evitare le bordate.
E, comunque la si giri, è un’esperienza smembrante, perché ti vengono via un sacco di pezzi e il tuo posto è sempre “dopo“.
Belli tutti i discorsi sul rispetto di sé, sul non sacrificarsi, sull’imporre il proprio ruolo di persona, belli, sì, ma sul campo è un altro mondo. Una cosa saggia l’ha detta una che è diventata madre prima di me: per i figli tu non sei una persona. Sei tante cose, una funzione, un punto di riferimento anche, ma pure oggetto di affetto, imitazione, feticismi.
Persona, però, mai.
Il secondo punto ho dovuto impararlo a martellate: i figli non ci devono piacere né compiacere, dobbiamo amarli e, finché è possibile, proteggerli.
Fine.
Il resto è in gran parte fortuna.
Ma il lato peggiore è proprio questa solitudine che si prova, per quanto si possa parlare con la controparte, con altre madri, psicologi, psichiatri, pedagoghi.
Siamo sole.
E prendiamo decisioni pregando di azzeccarci.
Mangiamo avanzi per un numero di anni che è indicibile.
Ci sentiamo dire di tutto, da un figlio che dice di non poter vivere senza di noi a un altro che ci augura la morte. Il tempo di elaborazione della risposta non te lo suggerisce nessuno, non ci sono ticchettii, cronometri, devi rispondere subito, perché i figli sono come gli uccellini nel nido, ciechi con il becco aperto, la risposta mancata è un verme che non c’è.
Tra i tanti ruoli che, saggiamente, gli psichiatri ci dicono di dover ricoprire da sole, e quindi doverci essere madri e figlie e sorelle e amiche e compagne e guerriere protettrici e bambine da preservare, quello che deriva dalla maternità è il più ingiusto.
Siate sole.
Con tutto l’aiuto possibile, ma nel momento cruciale, sappiate essere sole.
Un abbraccio a tutte le madri che fanno fatica.
Paola Barbato
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Le api nascondono un segreto sorprendente.
Quando l’alveare perde la sua regina – l’unica in grado di dare vita alla colonia e mantenere l’ordine in una società perfettamente organizzata – tutto sembra perduto. La vita nell’alveare rallenta. Senza nuove uova, il futuro scompare. Nel giro di poche settimane, la colonia rischia di estinguersi.
Ma le api non vanno nel panico. Né aspettano la salvezza dall’esterno.
Con un’eccezionale dimostrazione di intelligenza collettiva e istinto profondo, attivano una procedura d’emergenza spettacolare, difficile da immaginare.
◆ La trasformazione inizia con una scelta semplice, ma essenziale
Le api operaie selezionano alcune larve comuni – le stesse che normalmente sarebbero diventate semplici lavoratrici. Non sono speciali. Non sono nate diverse. Ma ora, il loro destino cambia completamente.
Vengono scelte per ricevere un nutrimento speciale: la pappa reale. Una sostanza rara, prodotta dalle api nutrici, ricca di proteine, vitamine e composti bioattivi. È un cibo regale nel senso più puro.
La larva nutrita esclusivamente con questa sostanza non segue più il percorso ordinario. In pochi giorni, il suo corpo si sviluppa in modo diverso. Le ovaie si attivano. Il corpo diventa più grande, più forte. La durata della vita si moltiplica per quasi venti volte.
Non lavorerà. Regnerà. Non seguirà la routine. Darà vita.
◆ La regina non è scelta in base ai geni. Viene creata.
Ciò che rende davvero affascinante questo processo è il fatto che le api operaie e la regina condividono lo stesso codice genetico. Non è il DNA a determinare il destino. È la nutrizione. La cura. La decisione dell’alveare.
È come se, in una società umana, si potesse prendere un bambino comune e, offrendo il giusto nutrimento, l’ambiente adatto e il sostegno necessario, trasformarlo in un leader straordinario. Senza interventi genetici. Senza artifici. Solo grazie a supporto e visione.
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◆ Un leader nasce dalla crisi
Questa metamorfosi non salva solo la larva. Salva l’intera colonia.
Una volta che la nuova regina è pronta, assume la guida dell’alveare, inizia a deporre uova, ristabilisce l’ordine e dà inizio a un nuovo ciclo vitale collettivo. Da una minaccia di estinzione, la colonia rinasce più forte, più organizzata, più equilibrata.
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◆ Una lezione silenziosa, ma profonda
Le api ci mostrano, senza parole, che nei momenti di grande crisi non serve la disperazione – ma la chiarezza. Un piano. La scelta giusta. Cura e direzione.
Nel loro mondo, una regina non nasce. Viene sostenuta. Nutrita. Guidata.
E forse, proprio come nell’alveare, anche nella vita – non conta chi sei all’inizio, ma ciò che ricevi, come vieni accudito e quali decisioni prendono gli altri nei momenti difficili.
Perché a volte, nei momenti più duri, nasce il leader più forte.
Non per fortuna. Ma dalla crisi, dalla visione e dalla trasformazione.
dal web
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