Che fatica metterci il cuore sempre, in tutto, anche nello scegliere una penna, anche nel decidere cosa mangiare per cena. Che fatica la solitudine, certe sere, quando vorresti con tutte le tue forze essere presa per mano. Che fatica piangere, che fatica non riuscire più a farlo. Che fatica essersi persi e non sapere dove andarsi a cercare, da che parte rifarsi. Forse da quella chiesa semi-abbandonata in periferia? Forse da un libro? Forse da un paio di occhi? Che fatica quando incontri qualcuno che ti ingarbuglia i pensieri, che rimette i tuoi desideri in moto, che rimette le tue emozioni in circolo. Che fatica crederci di nuovo, per poi rendersi conto di doverlo lasciare andare. Ancora una volta, una volta ancora. Che fatica dire addio, ammettere che farlo è necessario, stringere i pugni nelle tasche e fare finta che non faccia poi così male. Che fatica fare finta continuamente, con tutti, che siccome hai due gambe due braccia e un cuore che batte ti senti abbastanza felice. Non è vero niente, va bene? Mi verrebbe da dire a tutti quanti, proprio in faccia, proprio con voce decisa “non va bene un tubo anche se voi avete deciso di sì, anche se voi avete deciso che io ho tutto quello che mi serve per essere contenta”. Che fatica sentirsi abbastanza felici e aver perso qualche sogno per strada, saper già di dover rinunciare a qualcosa, di non poter proprio andare lì, non poter proprio fare questo e nemmeno quello. Che fatica il cielo, certi giorni. Che fatica rimanere gentile, romantica e ribelle. Che fatica non cedere al pensiero “non sarebbe meglio essere una stronza?”. Forse sì, che ne so io, ma non sarei la stessa e che fatica essere un’altra. Che fatica la palestra, anche, e infatti non ci vado, nemmeno mi ci segno così un pensiero è eliminato. Che fatica essere figlia, essere madre, non esserlo, essere fragile, ma pure forte. Che fatica le parole, quando non trovi quelle giuste, quando trovi quelle giuste ma ormai è troppo tardi. Che fatica anche lamentarsi, ...
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“Le risposte non vengono ogniqualvolta sono necessarie, come del resto succede spesse volte che il rimanere semplicemente ad aspettarle sia l’unica risposta possibile.”
Josè Saramago, Cecità
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“Ecco come sono le parole, nascondono molto, si uniscono pian piano tra di loro, sembra non sappiano dove vogliono andare, e all’improvviso, per via di due o tre, o di quattro che all’improvviso escono, parole semplici, un pronome personale, un avverbio, un verbo, un aggettivo, ecco lì che ci ritroviamo la commozione che sale irresistibilmente alla superficie della pelle e degli occhi, che incrina la compostezza dei sentimenti, a volte sono i nervi a non riuscire a reggere, sopportano molto, sopportano tutto, come se indossassero un’armatura.”
— José Saramago - da “Cecità”
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T’immagino come un salvagente tra le onde del mio mare: agitato, cullante, puro, tempestoso. È un mare che si chiede il motivo della sua irrequietezza, costante come lo scorrere del tempo, sofferente come un neonato che piange ininterrotte lacrime. Lacrime salate e limpide, ma piene di dolore, come le infinite gocce del mio mare.
Tu, salvagente, mi hai condotto nel porto della mia città sperduta e anonima, e guardandomi alle spalle ho compreso che il mare di lacrime in cui ho nuotato era un oceano di sforzi, tanti quante sono le gocce che lo compongono.
Ora che sono arrivata al porto, è compito mio salire sul molo e raggiungere la mia città, la quale non è più anonima e sperduta, ma prende il nome di Futuro. Questa splendente città è fatta di grandissimi parchi verdi come la speranza, enormi biblioteche, numerosi teatri, edifici resistenti come la tenacia.
Ma, perlustrandola meglio, anche insistentemente, mi accorgo che è fatta anche di vie buie ed insidiose, di lampioni fulminati, strade bloccate, nebbia accecante.
E allora mi allontano di nuovo dalla città Futuro, tuffandomi nuovamente nell’Oceano di lacrime infantili, di innumerevoli gocce di sudore dovute agli scogli scavalcati.
Ma ecco che tu, Salvagente, mi riconduci silenzioso nella via maestra, e, dopo avermi salvato, mi attendi nuovamente al porto, pronto ad accorrere al mio disperato aiuto.
Allo stesso tempo, però, confidi che io riesca ad arrivare in quei speranzosi giardini verdi, e che tu sia per me un Cerchio, tondo come un salvagente, ma che faccio roteare attorno alla mia Vita per provare felicità e serenità.
E in seguito, per far sapere a tutti quanti il bene che mi fai a 360 gradi, ti lancerò alle persone che mi stanno intorno, finché non arriverai al cielo. Lì sarai un grande Sole, tondo come il salvagente e il cerchio, ma anche caldo, accogliente, eternamente presente e immobile, come quelli che disegnano i bambini, con grandissimi raggi e di un giallo rischiarante.
E lì, mio caro sole, sarai capace di eliminare la nebbia, di illuminare le vie sempre insidiose e senza lampioni, e la strade alternative a quelle bloccate.
Ma lascerai il posto anche alla pioggia, che mi ricorderà quel mare di lacrime e di gocce che cerco di evitare, ma a cui riuscirò a resistere, perché tu non sei solo sopra di me, come il cielo stellato di cui parla Kant, ma anche dentro di me come legge morale, capace di guidarmi nel diluvio del mio malessere esistenziale.
Se ci pensi, con un po’ di immaginazione, unendo i tre cerchi, due sopra e uno sotto, si forma un cuore. Ed è il mio cuore che pulsa ogni volta che ti penso, cuore che viene salvato dal dolore, reso felice, e illuminato dall’affetto, dalla sensibilità e dalla resilienza.
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Per leggere un libro ci vuole passione, leggere costa fatica, ci vogliono degli educatori che riescano a motivare e appassionare i ragazzi, gli adolescenti. Appassionare alla cultura, questa è la chiave di volta. La cultura è il destino di un popolo: guardate lo sterminio degli ebrei e quello degli armeni, il primo è molto più noto perché gli ebrei sono molto più colti. Educazione investe la sfera emotiva, le pulsioni le abbiamo per natura, poi le emozioni che sono a metà strada fra natura e cultura. I giovani di adesso non hanno un livello emotivo maturo, non conoscono la differenza fra bene e male. Ci sono molti soggetti psicopatici. I sentimenti vanno educati e i sentimenti li abbiamo per cultura. La letteratura ci insegna cosa sono i sentimenti. Se io conosco un dolore perché ho letto tanto ne posso uscire e non è più un dolore atroce. Non bisogna riempire le scuole di computer ma di maestri, di persone che sanno affascinare ed educare. Dopo si tornerà a leggere. Viviamo nella società della tecnica e interpretiamo ancora il mondo con il nostro punto di vista umanistico, dobbiamo cambiar modo di leggere il mondo. Ogni volta che leggo un libro devo entrare in crisi, è questa la funzione dei libri, perché le mie idee hanno bisogno di essere continuamente modificate. La cultura attutisce la cultura, se io leggo il dolore occupa un piccolo settore della mia psiche.
- Umberto Galimberti filosofo
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