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giuliettakelly · 6 years
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1. Lanterne Accese
L’orchestra suona Bach a Friburgo
e io sono di nuovo in piedi davanti alla chiesa verde di Budapest,
come una fredda notte di Capodanno
di oltre 20 anni fa.
Fiera, le spalle aperte,
sul petto appoggiato sta
il mio cuore, acceso in una lanterna d’oro.
Delicato e dolente,
d’allora in poi
la più impavida e fidata guida.
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giuliettakelly · 6 years
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1. Lanterne Accese
L’orchestra suona Bach a Friburgo
e io sono di nuovo in piedi davanti alla chiesa verde di Budapest,
come una fredda notte di Capodanno
di oltre 20 anni fa.
Fiera, le spalle aperte,
sul petto appoggiato sta
il mio cuore, acceso in una lanterna d’oro.
Delicato e dolente,
d’allora in poi
la più impavida e fidata guida.
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giuliettakelly · 6 years
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giuliettakelly · 7 years
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Per tutte le umane forme
Per chi sa di stalla Per chi va scalzo sull'altalena Per chi toglie i rifiuti Per chi cammina Per chi vende i frutti antichi Per tutte le umane forme per cui è doveroso amare
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giuliettakelly · 7 years
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Chewing Gum
Ero alla fermata dell’autobus di mattino presto I vestiti freschi I capelli appena lavati Un piccolo sogno incartato nella tasca
Ero di nuovo alla fermata dell’autobus che non era neanche mezzogiorno Sudata I capelli appiccicati al collo I pantaloni stropicciati In tasca il piccolo sogno,
masticato e sputato come una gomma.
Dalla pelle tutta la colla era entrata dentro, gli organi sudati, attaccati l’uno all’altro,
diventati un agglomerato denso, da strizzare il respiro
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giuliettakelly · 7 years
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Adolescenza
I genitori la maledicono, ma io sono grata all’adolescenza che rende me madre e te figlia di nuovo.
Tu nuova nata, donna partorita da te stessa bambina.
Io, discreta, gusto l’opportunità: amarti di più e meglio, anche la notte, quando senza parole chiedi carezze.
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giuliettakelly · 7 years
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Buoni propositi: sognare di più
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Ieri, non causalmente vicino all’inizio del nuovo anno, ho ricevuto una lunga lettera dell’amico Alberto Meschiari, in cui questo amabile scrittore quasi settantenne osa descrivere il mondo che vorrebbe. L’ho bevuta tutta d’un fiato, come un bicchiere d’acqua fresca dopo una corsa.
E’ questa un’epoca sospettosa verso i sogni, un’epoca tutta presa dal cinismo, dal gusto di criticare e demolire. Essere contro è “cool”, fino al complottismo. Chi ama sognare –a qualunque età – si sente stupido e ridicolo, passa per ingenuo e superficiale, per incurante dei problemi sociali, lontano dalle stringenti urgenze politiche.
Il sogno è visto come una vile fuga dalla realtà, un retorico romanticismo, un chiudere gli occhi davanti alle brutture, un’irresponsabile incapacità di fare i conti con la vita vera.
Come il mio amico, amo sognare. Ma se non riesco ad esprimere i miei sogni con sufficiente forza, è forse perché sento su di me il peso di questi giudizi e li temo, venendo da una famiglia di costruttori e ragionieri, gente di calcoli e di fatti.
D’altra parte, il mio essere madre e scrittrice nel modo in cui lo intendo io – un modo per fermarmi e scoprire l’incanto e magari aiutare altri a farlo – mi dice che è giusto sognare, anzi è necessario, anzi…dovrei sognare di più!
Sognare vuol dire anche pensare criticamente, non prendere il nostro modo di vivere come l’unico possibile, ma saperlo immaginare diverso, più giusto, più felice.
Presente “This is water” di David Foster Wallace? E’ il discorso del grande scrittore statunitense ai giovani del Kenyon College, su cui è stato fatto uno stupendo cortometraggio, che inizia con un pesce rosso che chiede “Hey, com’è l’acqua?” e l’altro risponde “Cosa cavolo è l’acqua?”.
Quel video ti fa capire che il mondo può essere sognato. Il mondo in cui viviamo – che spesso ci fa sentire oppressi e frustrati - non è così per caso, ma è così perché qualcuno prima lo ha sognato – o meglio lo ha “progettato”. Essere consapevoli di questo è il primo passo per sentirci addosso la libertà – ma anche la responsabilità – del sogno. Non è il mondo migliore per tutti, probabilmente è il mondo migliore per quel 2% di persone che detiene il 51% delle risorse. Quindi … sognare vuol dire avere il coraggio di mettere in discussione tutto, di immaginare ogni cosa diversa, di sentirsi liberi di vivere secondo non le convenzioni, ma le convinzioni.
Se dovessi dire qual’è il mio sogno, non sarebbe molto diverso da quello del mio amico: un mondo in cui ognuno può vivere dignitosamente, un mondo senza pregiudizi e stereotipi, in cui ognuno può esprimersi come lo fa stare meglio, un mondo d’amore tra umani, vegetali, animali, un mondo in cui ci si onora con rispetto, in cui la parola fa superare i conflitti, in cui il flusso della vita scorre in pace, in cui si sappia riconoscere la bellezza e ci si sappia stupire dell’infinità molteplicità della creazione.
E cosa succederebbe, se fossimo in tanti a fare lo stesso sogno? Forse diventerebbe qualcosa di più di una reverie, di un sogno ad occhi aperti. Potrebbe diventare una piccola rivoluzione pacifica, fatta di gesti di cura e di ascolto attento, di scelte diverse e personali. Tornando al mio amico scrittore, e pensando a Bruno Tognolini e alla sua rima qui sotto, direi che sarebbe il sogno comune di chi ci prova gusto a seminare, crescere e coltivare. Qualsiasi germoglio che abbia il sapore della vita.
“Nel mondo che vorrei il pane si seminerebbe per tutti e non per pochi, e fra tutti sarebbe equamente diviso. E con esso tutto ciò che ha forma e sapore di pane: la terra, la bellezza e l’amore.”
Alberto Meschiari, ispirandosi a parole di Neruda
"Seminate e innaffiate i vostri sogni
Contadini piantatori di miraggi
Spalate nuvole, lasciate segni
Frecce di favole per tutti i vostri viaggi
I sogni più sinceri e più sbruffoni
Si fanno oracoli, se bene detti
Se le visuali diventano visioni
Le profezie diventano progetti
Se non si avverano, era solo un sogno scemo
Ma se si avverano, allora brinderemo."
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giuliettakelly · 7 years
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Satiro Migrante
La statua! La statua! la voce rotta e gli occhi brillanti di felicità, che dopo gli apostoli nessun pescatore mai era stato tanto graziato. Impigliato nelle reti, il peschereccio di Mazara, prima una gamba poi il resto aveva fra i pesci pescato un'opera inestimabile dalle profondità del mare.
S'affrettarono a lavarlo dal fango, gli fecero un cuscino di reti e arrivarono in porto più ebbri dei figli di Dioniso. Don Ciccio consegnò il tesoro non più segreto alle autorità, che lo battezzarono Eolo prima di riconoscere un satiro di Prassitele.
Come un malato, lo deposero sul tavolo d'intervento, su un girello costruito per lui, per essere mosso senza pericolo.
Come infermiere, le restauratrici asportarono la crosta sottomarina, con minuscoli scalpelli e pennelli e solventi naturali, per tornare a far risplendere del satiro la pelle di bronzo e gli occhi di alabastro.
Come un migrante, era caduto e sceso in fondo al mare, scampato al mercante di Capo Bon. A 2500 anni dal naufragio, il satiro ancora attendeva, che fu pescato col volto rivolto al cielo, come aggrappato alla nave per essere salvato.
Quanta cura nel ridare alla terra asciutta quel ballerino dei boschi al colmo del piacere roteante!
Ma non meno preziosi sono i corpi caldi che quelle stesse onde portano e inghiottiscono, corpi bramosi di vita nuova che ben meno amorevole salvataggio attende, inspiegabile paradosso.
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giuliettakelly · 8 years
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Epimeleia Steps
(passato)
Non credevo in me stessa.
Non credevo di essere capace di imparare nuove cose.
Non credevo di meritare ciò che desidero.
Non credevo di poter essere libera.
Non credevo di essere in grado di aiutare qualcuno.
Credevo di dover soffrire e lottare per ogni cosa.
Pensavo che tutti valessero più di me.
Aspettavo che piovesse dal cielo qualcosa di grande.
Non davo valore a quello che sapevo fare.
Non vedevo la mia bellezza.
Non sapevo stare sola.
Pensavo di poter fare a meno degli amici.
Desideravo una madre e una famiglia diversa.
Mi vergognavo delle mie origini.
Volevo essere la bambina.
Sognavo di azzerare e ricostruire tutto.
Ero disposta a barattare la libertà pur di non essere sola.
Pensavo di essere infallibile.
Non sapevo di sentirmi clandestina in questo mondo.
Volevo controllare tutto.
Pensavo che mi volessero bene solo a certe condizioni.
Non sapevo accettare i regali.
Pensavo si potesse pretendere un figlio.
Credevo che bastasse la buona volontà per ottenere tutto.
 (presente)
Ho camminato tanto.
Ho imparato a cadere, a sporcarmi e a rialzarmi.
Piano piano, ho cominciato a capire.
Se trattavo male le parole, stavo trattando male le mie amiche di sempre, le mie compagne di scorribande.
Ero io ad essere usurata, non loro.
Loro erano là, mi invitavano a giocare, pronte a farmi divertire accoppiandosi in modo strano.
Piano piano, mi è tornata la voglia di giocare con loro.
Insieme a loro avrei creato un fantastico mondo sommerso, insieme a loro, sciame di sorelle ridenti.
Ho capito che quel segreto vivere parallelo avrebbe avuto la potenza di attuare una metamorfosi.
Ho capito che potevo accartocciare e buttare la vittima, per diventare l’eroina.
Cacciatrice di felicità.
Potevo essere diversa, per davvero e non per forma.
Potevo essere io.
Ho scoperto di poter fare del bene, pur senza fare ciò che gli altri si aspettano da me.
Ho scoperto di poter donare autentica generosità.
Ho cominciato a spiazzare la mia progenie rabbiosa con la gentilezza.
Ho avuto il coraggio di dire “amore”.
Ho avuto il coraggio di tenere mani che fuggono.
Ho imparato ad aspettare, a sentirmi capace di imparare.
Mi sono inventata un lavoro nuovo.
Ho capito che la mia vita andava bene così com’era.
Ho imparato a ridere.
Ho capito che potevo scegliere.
Ho capito che le amicizie sono il pane, non il dessert.
Ho imparato a darmi una disciplina, a fare yoga e meditazione regolarmente, a mangiare con moderazione, a cercare la pace del cuore, la forza e la flessibilità del corpo.
Ho cominciato a cercare la mia voce.
Ho capito che il futuro esiste solo con entelechia.
Ho cambiato il mio modo di fare la spesa e di cucinare.
Ho piantato un orto aromatico – lo stesso giorno in cui, a centinaia di chilometri di distanza, alle mie compagne e compagni veniva affidata una piantina di cui prendersi cura.
So stare a giocare con mio figlio.
Ho imparato a riconoscere e a guardare l’ansia.
Ho cominciato a provare ad ascoltarli davvero, i miei figli.
 (futuro)
Ora, vorrei vivere sempre più la mia essenza.
Imparare ad esprimerla e ad affermarla.
Sentire il piacere del mio entusiasmo.
Continuare ad amare il mio corpo, esserne orgogliosa, ammirare la sua forza.
Gioire con gli altri, con la natura, con la fantasia.
Viaggiare di più.
Passare più tempo da sola.
Sentire il richiamo d’amore di ogni cosa.
Accogliere amore.
Confortare, incoraggiare.
Essere sempre più consapevole del mio valore - per quello che sono.
Avere fiducia.
Dominare il denaro, non esserne dominata.
Ascoltare di più chi sta crescendo e cerca un riferimento.
Sentirmi ancora più amata.
Non dimenticare che l’universo mi nutre e mi protegge.
Abolire la gerarchia degli esseri senzienti.
Trovare nuovi modi di fare l’amore.
Non avere più paura di non farcela.
Diventare più aperta.
Dire sempre “grazie” a ciò che è stato e “si” a ciò che sarà.
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giuliettakelly · 8 years
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giuliettakelly · 8 years
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Nessuno telefona
Nessuno telefona per avvisare quando sta per entrare o uscire da questo mondo.
Eppur una chiamata arriva sottile a chi accoglie nell'intimo la soglia. Una chiamata fatta di sogni con fiori-vagina da cui escono nuotando neonati. Una chiamata fatta di bianche visioni che guardano fisso a benedire per tempi immobili gli amati.
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giuliettakelly · 8 years
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La biografia di ogni uomo
Sono molte più le cose che ci uniscono rispetto a quelle che ci dividono. Parola di scienziati!
Come molti, ho riso e pianto guardando il video  in cui un gruppo di persone - filmato prima e dopo aver visto i risultati dell'analisi della propria mappa genetica - si trova improvvisamente a guardare gli altri da una prospettiva diversa: non più l'altro da sé ma l'altro dentro di sé. Ognuno scopre con sorpresa di essere il frutto fantasioso di un inaspettato mix di popolazioni, molte delle quali lontanissime dalla propria nazionalità. Chi ha pelle chiara e occhi azzurri scoprire magari di essere 70% africano e chi ha pelle nera di essere in gran parte cinese o celtico, tanto per fare un esempio. Insomma, il nostro DNA ha viaggiato tantissimo!
Al dirompere di tali insight, affiora una nuova benevolenza di sguardo, per cui i pregiudizi vengono considerati come aspetto parziale e ipersemplificato di un realtà più complessa e spesso portatrice di valori positivi.
Da questo esperimento si tocca con mano ciò su cui antropologi, archeologi, storici, genetisti e linguisti sono arrivati a concordare: il mondo è sempre stato villaggio - ben prima della globalizzazione - e noi umani siamo figli di un'unica stirpe che originò a Laetoli, in Tanzania settentrionale circa 3,75 milioni di anni fa. Vivevamo in riva a un lago che sorgeva tra vaste praterie, con monti all'orizzonte, attraversate da un sentiero, vivevamo in comunità insieme a branchi di (altri) animali. Questo è provato dal ritrovamento delle prime orme di camminata bipede in quella zona e spiegherebbe anche la nostra innata predilezione per questo tipo di paesaggi e - per esteso - un sentire comune in merito a ciò che è bello - una teoria evoluzionista della bellezza spiegata in modo divertente dal filosofo Denis Dutton nel suo libro The Art Instinct e ad una conferenza TED
A un bel momento la comunità dei nostri nonni di Laetoli comincia a desiderare di spostarsi, scavalcare i monti e cominciare la conquista del mondo. Lo rende possibile una rivoluzione anatomica, il bipedismo, che rende gli uomini più resistenti alla calura (perché è minore la superficie corporea esposta ai raggi solari), più abili (hanno le mani libere) è letteralmente più lungimiranti, potendo vedere lontano.
Dalla prateria inizia una migrazione che porta i nostri antenati a spostarsi verso est, a colonizzare India e Indocina, per attivare poi al vecchio mondo. Man mano che si espandono le comunità, si sviluppano particolari abilità e mutazioni genetiche per adattarsi agli habitat in cui si trovano.
A un certo punto, però, tra tutti gli "homo" rimane solo il Sapiens. Perché? Alcuni imputano le cause alla sua prolificità o all'estinzione dell'Homo di Neandertal, dell'Homo Heidelbergensis ed altri a causa di calamità naturali, come la terribile eruzione del vulcano Toba a Sumatra.
Eppure altri vedono nell'Homo Sapiens una grande carta vincente: la convergenza adattiva, cioè la capacità di adattarsi a mutate condizioni, sia a livello genetico (mutazioni nel colore della pelle, capacità di digerire determinate novità alimentari come il latte, ad esempio) sia a livello fisiologico (l'abbronzatura o la variazione di globuli rossi in relazione all'altitudine).
Ma esiste un altro livello che caratterizza l'Homo Sapiens: la capacità astrattiva di progettare. L'Homo Sapiens inventa tecniche costruttive che gli permettono di ripararsi, raffina l'arte della caccia con arco e freccia e inventa l'ago da cucire, con cui comincia a fabbricare vestiti che gli consentiranno di spingersi fino ai deserti freddi e montagne.
La capacità di inventare non risponde solo a necessità di sopravvivenza, bensì anche a necessità interiori, spirituali.
Ecco allora che, se pensiamo agli egizi come primi maestri di arte funeraria, ci sbagliamo, perché già 45000 anni fa - cioè 40000 anni prima - l'uomo preistorico seppelliva i defunti ornandoli di monili e suppellettili. Gli Asmat della Papua Guinea, ad esempio, celebravano un vero e proprio culto della testa, per cui fabbricavano teste di legno dipinte che venivano affiancate alla salma.
Se pensiamo alla medicina, ci stupiremo di scoprire pratiche di cura e assistenza ai malati, i cui segni sono stati ritrovati nelle sepolture di Shanidar sui monti Zagrei nel Kurdistan iracheno risalenti a 60.000 anni fa: le ossa dell'individuo trovato nella sepoltura in posizione fetale presentano segni di interventi di cura dopo lesioni, traumi e fratture e segni di pollini da fiori e semi di diverse piante utilizzati a scopo medicinale.
Se pensiamo alla narrazione, come capacità di creare mondi immaginari, scopriremo che le radici comuni delle fiabe popolari risiedevano nell'esperienza di iniziazione degli adolescenti al mondo adulto, per cui i ragazzi venivano allontanati da casa e spediti nel bosco in cui dovevano affrontare dure prove.
Evento, quello della conquista dell'età adulta, che veniva celebrato e festeggiato con canti e danze e la cui ritualità, una volta terminata la tradizione delle pratiche iniziativa, rimane come schema nelle narrazioni di tutti i popoli (allontanamento - prove - ritorno - conquista nuova identità).
Anche la narrazione segue una sorta di convergenza narrativa, risponde cioè al bisogno universale di dare risposte alle maggiori difficoltà della Vita: l'uomo adotta strategie narrative simili a grandi distanze, come emerge dallo studio comparativo delle mitologie di svariati popoli indigeni nei libri di Clarissa Pinkola Estes.
Tutto, osservando la storia della nostra evoluzione, sembra parlare di unità, tramite similitudini e ricorrenze.
Ma c'è una cosa che rimane molto variegata al suo interno ed è il linguaggio. Anche se non si sa ancora con certezza da dove nasca la prima lingua, sappiamo che i ceppi linguistici erano tantissimi e la varietà linguistica incredibile.
Le differenze linguistiche e genetiche nascono perché si creano comunità che non hanno scambi con altre. Nel lungo termine, questo porta a creare diversità genetiche e ramoscelli linguistici.
La lingua poi si evolve e cresce in sintonia con gli habitat: si sviluppa il lessico necessario a descrivere l'ambiente, che cambia nel tempo col mutare delle condizioni ambientali e sociali. Quindi tanto maggiore la biodiversità, tanto maggiore la ricchezza linguistica.
L'estinzione delle lingue fa parte dell'alterazione dell'ecosistema ad opera delle attività umane che marginalizzano le minoranze economiche e politiche.
In Nuova Guinea prima dell'arrivo degli occidentali si parlavano 5000 lingue, poi 700. Le lingue muoiono da sempre - vedi l'etrusco e l'ittita - ma da 5 secoli sono scomparse a velocità senza precedenti. L'evoluzione della diversità linguistica nel mondo moderno si riassume nell'espansione di poche lingue a scapito di altre.
Insieme alla biodiversità stiamo perdendo le lingue e stiamo mettendo a rischio la vita del pianeta, come mai prima.
Certo, il tempo ha estinto intere popolazioni con le glaciazioni e altre catastrofi naturali, ma ora sovrappopolazione, global warming, inquinamento e sfruttamento delle risorse rischiano di accelerare la prossima estinzione. Qualcuno si chiede se la peculiarità dell'Homo Sapiens, cioè sapersi adattare, sarà sufficiente a farlo sopravvivere ancora una volta. Di certo l'adattabilità è attiva e si manifesta nei grandi piedi e grandi stature delle nuove generazioni (nuovi grandi camminatori?) e nella mutazione genetica più recente, ossia il prolungamento dell'arto superiore generalmente destro con una propaggine chiamata smartphone.
Se gli adattamenti dell'Homo Sapiens ne potenziavano il corpo, siamo certi che sia lo stesso per la tecnologia? Non stiamo piuttosto trasferendo la nostra memoria alle banche dati, il nostro senso dell'orientamento ai navigatori, la nostra capacità logico-matematica ai calcolatori, le nostre abilità ai videogame e photoshop, le nostre relazioni alle chat, la nostra esperienza tattile e olfattiva allo shop online, la nostra capacità di osservare ed analizzare al rubare immagini?
Se la tecnologia venisse d'un tratto meno - in una non impossibile tempesta solare - i nativi digitali di oggi e del futuro, su quali abilità potrebbero contare?
È un peccato che la mostra Homo sapiens. Le nuove storie dell'evoluzione umana attiva in queste settimane al Mudecal  Museo delle Culture di Milano, dove ho appreso gran parte di queste informazioni, non affronti gli interrogativi che la ricostruzione storica proietta sul futuro.
Peccato davvero. Pare che mentre le architetture dei nuovi musei e i loro nomi (Mudec, Miart, Muse etc...) rispecchiano lo stile contemporaneo internazionale, i contenuti continuino ad essere esposti con un impianto didattico fondamentalmente classico, nonostante un make up d’immagine,  con una modalità poco incline a sviluppare il senso critico e la sintesi personale.
Un solo fatto la dice lunga: in questa mostra non si possono scattare fotografie. Ma a cosa servono le mostre se non a fare ricerca? E cosa ce ne facciamo di una ricerca che non possiamo ri-cercare, cioè letteralmente “cercare di nuovo”, se nell'era digitale non possiamo portare con noi nessun ricordo sintetico dell'esperienza? Ah già, forse una soluzione si trova: comprare il catalogo.
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giuliettakelly · 8 years
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When romantic love ruins our lives
Everybody has some kind of teenage-like mania. Mine is to be a flaming fan of some literary authors as if they were Superstars. My idols are not many and mostly dead. Therefore the chances to meet them are not that frequent and when they happen, I try not miss them - using an euphemism, as actually I act live pretty much like a 14 year-old girl craving to go to a Justin Biber concert.
That is why, when I discovered that philosopher and founder of The School of Life Alain De Botton was lecturing in Mantova, I connected to the Festival Letteratura eshop the same early morning the ticket sale was opening. Unfortunately tickets were already sold out, as Festival members had bought them all in the pre-sale.
But, as just any fan girl, I'm not easy to dissuade. So I checked out the Super Speaker schedule on his website and found out that he was holding the same day the same speech (but at different time) in Milan. Without reservation and for free.
So I decided to leave my family for their sunday ice cream in the city center, involved 2 more Art-for-Emotional-Intelligence fan girls and drove to Milan. We entered the Triennale conference room one hour before the speech started and could even find 3 comfortable seats on the floor. But on the first row, for sure. That is what happens when somebody decides to turn philosophy into a popular thing.
So Mr De Botton held his lectio magistralis – or rather his cabaret - "Romantic love ruins our Lives" in 30 minutes of satirical sketches against today love's big enemy – romanticims, indeed. At the beginning I was quite scared that this masochistic choice would lead me to loose self confidence, as I must confess that I so far considered myself a romantic human being. Moreover I’m easy influenced by other people's opinion, let alone my idols’ opinions. But after De Botton's explanation I felt relieved, as I realized I’m (no longer) a romantic. Except for love for nature, clouds and that particular time of the day between 6 and 7 o’clock in the evening, when everything is perfect for love.
So, what are the points of this dangerous romanticim?
- the idea that marriage is related to love (not to struggle for existence)
- the idea that sex is the pinnacle of love (not the natural way to the survival of human species)
- the certainty that we are normal and other people crazy (not that we’re as crazy as everyone else)
- the belief that love has to do with instinct (not with skills)
- the expectations about being perfectly understood by our partner, even without speaking
So what is love, if not predestination, nor instinct, nor sex, nor marriage, nor telepathy?
It is a 100% human thing, something everybody can learn, just like riding a bicycle or play bridge. Well, maybe a bit more complicated. But it's still a skill, the skill to treat our partner with patience, understanding and empathy - in other words, as if he or she would be a 2 year-old baby.
I think this all makes a lot of sense, especially for teenagers and young people in general, who need to learn how to love from zero and who are becoming more and more romantic then their parents, as one can tell from their favourite love icon - padlocks.
And what about adults? Emancipated couples who would like not having to choose between honesty and love, who are open about the fact that, if falling in love lasts 9 months and then love becomes a day-after-day creation, also monogamous sex becomes boring after a while and requires some "restyling".
What De Botton suggests to adult lovers, is to decide to leave the partner only if he can 100% be blamed for all our problems and failures. If he happens to be not, we should stay together and learn to consider each other “lovable idiots”, adopting a high tolerance threshold and lots of (possibily british) sense of humour.
I would really like to know if De Botton has ever watched the Polyamory US TV series and his opinion about it.
Maybe some hints about this topic can be found in his latest book “The course of love” Il Corso Dell'Amore (ed. italiana Guanda, settembre 2016)
As a perfect fangirl, it’s already on my night table.
Watch Alain De Botton's speech about love at a conference by Google held in London in May 2016 called Zeitgeist
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giuliettakelly · 8 years
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La scomoda autobiografia di Neruda
Vivere da poeti è vivere senza ragionevolezza. È vivere vicino al cuore, è ascoltare il battito profondo della terra e l'alta sinfonia delle galassie, è guardare con l'occhio invisibile il reale più reale, ma nascosto, è essere guerrieri della pace.
Mi sento poeta, perché mi muovono la bellezza, la gratitudine, l'amore, l'entusiasmo, la gentilezza.
Purtroppo il business vuole inglobare in sé tutto, persino il poeta, vuole farci credere che il poeta è chi scrive e pubblica poesia.
Ma il poeta, prima di scrivere, è.
E la poesia, prima di essere un mestiere, è un atto di pace.
Il poeta crede nel vegetale, nell'animale, nell'umano, nel siderale e nel mistero. Certo, la storia addita qualche poeta deragliato negli aberranti nazionalismi, come Céline o Ezra Pound. Ma la maggior parte dei poeti ha vissuto del coraggio di essere contro e anti, a favore prima di tutto della proprio acuto sentire, nonostante solitudini opprimenti, nonostante - spesso - persecuzioni.
"Il poeta nasce dalla pace come il pane nasce dalla farina. Gli incendiari, i guerrieri, i lupi, cercano il poeta per bruciarlo, per ucciderlo, per sbranarlo. Uno spadaccino lasciò Puskin ferito a morte fra gli alberi di un parco desolato. I cavalli di polvere galopparono impazziti sul corpo senza vita di Petöfi. Byron morì in Grecia lottando contro la guerra. I fascisti spagnoli iniziarono la guerra in Spagna assassinando il loro maggior poeta". (Pablo Neruda, Confesso che ho vissuto)
Neruda è stato una lettura scomoda, persino pericolosa, per me poeta a metà, che cerco di combinare poesia e borghesia, che relego la poesia negli stanzini e nelle anticamere, fingendomi soldatessa nei saloni.
La vita del grande cileno è stata coraggio, lotta, fuga, ribellione, rischio. Ha sempre saputo di essere poeta, tant'è che Neruda è uno pseudonimo scelto per nascondere al padre - che non voleva un figlio poeta - la prima pubblicazione giovanile, uno pseudonimo scelto ingenuamente sfogliando una rivista, senza sapere che quello era il nome di un scrittore cecoslovacco molto famoso in patria.
Neruda ha viaggiato il mondo, prima con l'alibi di console del Cile, poi come ambasciatore di pace, ha combattuto per il proprio paese e per il popolo spagnolo contro Franco, ha condiviso case, cibo, idee e cause con i grandi poeti spagnoli, russi, francesi, sudamericani.
Ha fatto della sua vita una via di ricerca, in una solitudine a volte colossale.
Leggere l'autobiografia di Neruda "Confesso che ho vissuto" non solo mi ha scatenato un'ammirazione stupita, non solo mi ha stimolato l'appetito di Paul Eluard, Federico Garcia Lorca, Rafael Alberti, Octavio Paz, non solo mi ha arricchito di tanti preziosi passi per la raccolta di citazioni che sto componendo da qualche anno, non solo mi ha portato in una Cina che non conoscevo e mi ha riportato in un Messico che ho conosciuto e amato, non solo mi ha scosso di parole e immagini sensazionali.
Il poeta mi ha interrogato sui fondamentali, ha puntato il dito dritto al cuore del mio cuore. Favorito forse da tête à tête notturni su una baia, in cui le luci degli alberi maestri si distinguono dalle stelle solo per il loro dondolio.
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giuliettakelly · 8 years
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Travel Personal Storytelling: Ivo from Mljet
ITALIANO
Vent'anni fa, molto prima di Airbnb, Home Away, Home Exchange, Homelidays, a Cuba sopopolava la moda delle case particular, cubani che avevano trasformato la loro casa, o più spesso parte di essa, in struttura turistica. Cosi avevo soggiornato a L'Havana, a Trinidad, a Cuernavaca, dove l'accoglienza era spesso più che spartana - nell'ultima delle località citate, al tempo ancora ben poco sviluppata, la famiglia ci aveva ceduto la sua capanna nel bananeto ed era andata a stare dai vicini.
Ora che viaggiare preferendo agli hotel le case della gente è diventato un grande sistema digitalizzato ed un piccolo business per molti giovani disoccupati disposti a condividere una stanza del loro appartamento, approfitto sempre di questa possibilità.
E così, abitando nelle case delle persone, scrutando le loro letture, indovinando le loro abitudini dall'organizzazione degli spazi, immaginando la loro personalità osservando gli arredi, ho conosciuto intimamente - pur senza averli mai incontrati - Florin di Londra, Yves di Parigi, Trevor di Minorca e altri.
Comincia però con Ivo di Mljet la rubrica di Personal Storytelling dedicata al viaggio "personal", o "particular", come direbbero i cubani.
Monti aspri come cuoio frusto sulla costa croata, i versanti solcati dalle bianche diagonali delle strade, con improvvisce strisce di verde, segno di portentosi venti e umidità, il bianco ottico delle pale eoliche e delle vele issate sugli alberi maestri. Verso sud sbiadiscono nella foschia i rilievi del litorale dalmata, montenegrino e poi albanese. Dalla barca da pescatore dipinta di fresco d'azzurro, le onde sembrano le falde della gonna di un immenso dervisci tourner. Dalle trasparenze dell'acqua bassa, si intravede il dondolio della poseidonia oceanica, con le lunghe foglie ossidate dalla salsedine. In una piccola radura di questa prateria sotterranea, s'aggrappa al fondo una stella marina.
Mljet incanta con i suoi aromi balsamici, coi suoi fichi maturi, i suoi melograni e bergamotti, col verde accecante dei suoi pini d' Aleppo, che misteriosamente ricoprono la crosta di quest'isola su cui si narra che Ulisse incontrò Calipso.
Qui ci è venuto incontro all'arrivo un pescatore alto due metri, a torso nudo e con pantaloncini consunti, un po' gobbo, con la voce profonda, gli occhi malinconici e le sopracciglia folte e lunghissime.
Eliza, you arrive here, all alone! You have so much positive energy!
Ha continuato a tuonare ogni giorno, tra le pulizie degli appartamenti, le uscite a pesca, il check out di un ospite o la grigliata per un altro.
Ivo, si chiama quest'omone filiforme, dallo sguardo buono e dalla gran voglia di parlare, nonostante l'inglese precario. Gli piace insegnare, a Ivo. Racconta di corde, boe, ancore, catene, venti, onde senza coniugare i verbi, infilando qua e là parole croate, italiane e dialetto dalmaziano, poi ti chiede "Understand?" e, dopo tutti i suoi sforzi, non puoi che dirgli di si.
Ci offre il pesce che pesca, entra in cucina e preleva dal tegame per allungarcelo un generoso assaggio di quello che sta cucinando la moglie Mirjana, cuoca all'ospedale di Dubrovnik ed ex cuoca dello Stermasi, il miglior ristorante dell'isola. Mai mangiato un capretto arrosto cosi fenomenale!
Ivo ci offrirebbe tutto, prenoterebbe per noi un sole della giusta temperatura e un maestrale della giusta intensità, se sapesse la lingua ci racconterebbe barzellette per tenerci allegri. Ha staccato dalla rete da pesca che decora la parete della sua cucina un'enorme conchiglia per scusarsi di un disguido irrilevante. Ci ha portato con lui a pescare, ci ha spiegato il motore entrobordo, la pesca con le gabbie, ci ha fatto impugnare il timone. Alla terza gabbia che ha sollevato dalle profondità, orrore!, due murene! Eliza go back! Mi ha fatto spostare, ho preso mio figlio in braccio mentre lui rilasciava sul pagliolato i due neri rettili di mare e subito ha cominciato a colpirli con una clava finché ha ammazzato la grande, mentre la piccola è riuscita a sgusciare via e infilarsi sotto il motore. Ivo allora ha preso il coltello e l'ha tirata fuori infilzata per la gola.
Ivo è un gigante sanguigno, affettuosamente invadente, osservatore, istintivo, curioso della gente, con un rispetto antico e una semplicità saggia che lo tiene vicino al suo cuore. E' un romantico che ancora aspetta il tramonto per caricare sua moglie Mirijana e due birre sulla barca e fare rotta verso il sole rosso.
Oggi, giorno dell'Assunzione di Maria in cielo e a due mesi dalla morte della madre, per la prima volta Ivo ha indossato le scarpe e i pantaloni lunghi, e col figlio più piccolo e più solare dei tre è salito sull'auto bella per andare alla processione, contrariato solo dal rifiuto della figlia di andare con lui.
Era bastato parlargli per telefono per capire che per quell'uomo concreto nulla era più importante della parola data, del contatto umano, delle stagioni per pescare e raccogliere le olive. Per abuso d'empatia, al telefono mi ero messa a parlare un inglese così ingolfato, che mio marito si chiedeva cosa mi stette succedendo.
Don't worry Eliza, no problem. Ripete Ivo, anche quando ci s'inceppa il motore della barca che ci ha noleggiato.
Per Ivo di Mljet, sindaco di Saplunara, grande fan dell'energia positiva e grande oppositore dell'industria e dell'arroganza, tutto si aggiusta, basta non avere fretta. Ma in fin dei conti, che fretta bisognerebbe mai avere affacciati  su una baia silenziosa dal nome dolce e avvolgente come Saplunara?
 ENGLISH
Twenty years ago, long before Airbnb, Home Away, Home Exchange, Homelidays, in Cuba the casa particular was the hottest trend. Cubans used to transform their house or part of it into a bed and breakfast. I stayed in a casa particular in L'Havana, in Trinidad, in Cuernavaca -  in the last one, a tiny seaside village, at that time still undeveloped for tourism, a family gave us their shed in the middle of a banana orchard and went to stay at the neighbours shed.
Now that travelling by staying in people' s houses have become a big digitalized system and a small business for young unemployed, I usually take advantage of this possibility.
By staying in private accomodations, you get to know people without even meeting them, only by observing the layout and the interior design of their flat, by peeping into their books, paintings, pictures. It' in this way that I got to know Florin from London, Yves from Paris, Trevor from Minorca and others.
But it's with Ivo from Mljet - whom I get to know directly, as he lives just beside the flats - hat this Travel Personal Storytelling section begins.
Harsh mountains like worn leather on the croation coast, the slopes ploughed by white roads, with sudden green stripes, sign of prodigious winds and humidity, the optical white of the eolic generators and of the sails on the masts. Southwards the croatian, then montenegrin, then albanian reliefs fade into the haze. From our fishing boat newly painted in light blue, waves look like the skirt of an enormous dervisci tourner. Under transparent water you can see the swinging of the poseidonia oceanica with its long leaves oxidized by salt. In a little clearing of this underwater grassland, a starfish grabs on to the ocean floor.
Mljet enchants with its balsamic herbs, figs, bergamots and pomegranates, with the blinding green of its Aleppo pines, that misteriously cover the crustal plate of this island, where it is said that Odysseus met Calypso.
Here we have been welcomed by fisherman and former sailor Ivo, a two-meter-tall man, a bit round-shouldered, bare-chested, with worn shorts, a deep voice,  melancholic eyes and extra long eye brows.
"Eliza you made it all alone til here! You are so full of positive energy!" he kept on thundering everyday, between one cleaning, a check out or a grill and another.
Ivo, that's the name of this thin man, with a mild look and who likes to chat, despite his poor English. He likes to teach, also. He talks about ropes, boats, waves, fish, winds, buoys, chains, without conjugating verbs, inserting here and there Dalmatian, Croatian, Italian words, then he asks you full of hope "Understand?" and you cannot but say yes, after his such big effort.
He offers us the fish he fished in the morning, he goes into his kitchen and takes out of the pan one big portion for us of some typical dish that is beeing cooked by his wife Mirjan, now cook at the Dubrovnik hospital and former first chef at Stermasi, Mljet's best restaurant, where you can taste delicious under-the-bell octopus or lamb. Never tasted a better kid then Mirjana's one!
Ivo would offer us everything, would book for us the right air temperature, would make jokes all the times to keep us cheerful. He removed a huge shell from the fishing net decorating his kitchen's wall and gave it to me to apologize for an irrelevant mistake.
He took us to fishing with him, explained to us how his boat's engine and fishing with cages work, he let us take the helm. At the third cage he lifted from the depth of the sea - horror! - two moray eels! Eliza go back! I picked my son up while he released the black sea snakes on the floor of the boat and started to hit them with a stick. He killed the big one whereas the second one managed to flew and hide under the motor. Then Ivo took a knife and he pulled it out pierced through the throat.
Ivo is a full-blooded giant, an affectionately intrusive person, an observer who can still trust his instinct, have respect and be authentically close to his heart. He's a romantic husband who takes his wife on his fishing boat with two beer bottles and heads for the sun at sunset time.
Today it's Virgin Mary's Assumption day and Ivo has put on for the first time in ten days long- sleeved shirt and long trousers. He has taken the good car and has driven to Koriza with the youngest son, the most cheerful one, to the service. When he left he was a bit nervous, I guess maybe it was because his daughter did not want to go.
It had been enough talking to him over the phone for the reservation to seize that, for that practical man, nothing was more important then a promise, a dialogue, and the season for fishing and picking olives. This all was a perfect premise for the relaxing holiday I was looking forward to. For enthusiasm and an excess of empathy, I started talking with him in a totally basic, even stammering, English.
Don't worry Eliza, no problem, keeps on saying Ivo, also when the engine of the boat we rented from him would not start again.
For Ivo from Mljet, mayor of Saplunara, a big fan of positive energy and a fighter of industry and arrogance,  everything can be fixed, you just do not need to hurry.
On the other hand, why should you ever hurry up, in the peaceful bay with the sweet name of Saplunara?
by Elisa Barbieri
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Ivo Pitarevic
http://www.apartments-ivo-mljet.hr/en/
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giuliettakelly · 8 years
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Prima di scrivere, un poeta è. Si spiega come una vela a ricevere ciò che l'aria gli raccoglie: inchini, armonie, lamenti, fruscii, urla, sbadigli, preghiere. E quando gli echi lo strabordano, li tramuta in canto.
Non scrivo molto, perchè non sono abbastanza. Tra tutti i bisognosi, tra quelli che già ricevono e quelli che rifiutano,
ad una poeta che mi abita faccio spazio, e tramite lei a questo e ai paralleli mondi.
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giuliettakelly · 8 years
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Io, chi? Intervista al filosofo Thomas Metzinger sull’identità nella realtà virtuale
Sarà perchè, come autobiografa, ho impiegato per mesi a ricostruire il mio io. Sarà perché come mamma ho passato sere con altri genitori coinvolti nel progetto Cittadinanza Digitale per produrre una carta etica del comportamento online. Oppure sarà perché una sera un amico, direttore IT di un grosso ente, mi ha invitato a cena e mi ha fatto provare dei visori 3D di ultima generazione sotto forma di occhiali in cui si inserisce il cellulare e si ha la possibilità di immergersi completamente in una realtà virtuale, che si cotruisce seguendo le direzioni del proprio sguardo.
Più probabilmente sarà per tutti e tre questi motivi insieme, che mi ha colpito l'intervista apparsa sul settimanale tedesco der Spiegel al filosofo Thomas Metzinger. La rivoluzione digitale ci permette di assumere altre identità. Dove ci porta questo? Alla perdita dell’io?
E’ tutto possibile. Persino robot che soffrono per davvero – sostiene Metzinger.
Traduco l’intervista per voi.
SPIEGEL: Signor Metzinger, per un ricercatore della coscienza deve essere un periodo interessante, questo. Essere tante persone contemporaneamente è reso possibile dalla rivoluzione digitale: posso essere elfo, se voglio, oppure cyberpunk oppure gladiatore o nano…
METZINGER: …posso immergermi totalmente nella realtà virutale indossando dei visori 3d sotto forma di occhiali e sperimentare come cambia la sensazione di me stesso e di quello che riteniamo essere la nostra esperienza consapevole, reale ed autentica. Quest’anno è probabile che questi prodotti entrino sul mercato in modo massiccio.
SPIEGEL: Li ha provati?
METZINGER: Naturalmente. Nella realtà virtuale sono stati sviluppati dei modelli corporei molto buoni, praticamente già i primi modelli di un io artificale. L’ultima volta che ero in laboratorio, mi sono incarnato in una donna, che era alta come un ragazzino di 14 anni. Ho guardato con i suoi occhi, poi tutto d’un tratto lei è stata aggredita da un altro Avatar.
SPIEGEL: Spiacevole…
METZINGER: Per un momento mi sono spaventato: indossavo questi visori 3D sotto forma di occhiali, ero seduto in una stanza, immerso nella realtà virtuale, nella TV davano un video musicale, c’era un camino col fuoco acceso, quando ho guardato in basso e mi sono accorto, che il mio Avatar non era ancora stato creato. Avevo la sensazione di essere seduto, ma guardando in basso ho visto solo la sedia vuota.
SPIEGEL: Mancava qualcosa…
METZINGER: Si, il mio corpo. Raccapricciante.
SPIEGEL: A cosa servono queste prove?
METZINGER: Hanno a che fare con la percezione. Per esempio, ci possono essere molti utilizzi clinici, nella psicoterapia, ad esempio, oppure per creare ambienti di apprendimento completamente nuovi. Ci si può allenare a combattere la paura dell’altezza, gli anoressici possono fare una nuova esperienza del loro corpo, ci sono esperimenti per costruire avatar per le persone paralizzate attraverso un’interfaccia cervello-computer.
Le tecnologie di realtà virtuale possono servire per facilitare l’empatia, oppure per distruggerla. Questi metodi sono potenti strumenti di manipolazione psicologica. Ora è importante stabilire degli standard etici, per la ricerca, certo, ma anche per la quotidianità, per la relazione interpersonale nella realtà virtuale.
SPIEGEL: Come filosofo che studia il confine tra scienze della natura e dello spirito, ci dica: cosa fa di noi la realtà virtuale? Come cambia la rivoluzione digitale ciò che intendiamo per “io”.
METZINGER: Di preciso non lo sa nessuno. Quello che sta succedendo ora è una specie di esperiemento di massa. Può essere che l’identificazione totale con gli Avatar cambi la percezione dell’Io, all’inizio in maniera impercettibile. Potrebbe essere che le persone, che per lungo tempo vivono nella realtà virtuale, in seguito possano soffrire di disturbi di spersonalizzazione, ossia la sensazione cronica che il corpo reale, nel mondo vero, non sia più reale. Oppure il fatto di percepirsi come degli automi oppure che tutto ciò che ci circonda sia un sogno.
SPIEGEL: Le novità sono sempre minacciose. Nel 18mo secolo si temeva che l’ascesa del romanzo potesse scatenare una “foga da lettura” nei giovani. Poi è diventato un pericolo la Tv, ora Internet.
METZINGER: E Platone ha criticato già nel Fedro la scrittura, per via del fatto che indebolisce la memoria e non sia adatta al trasferimento della saggezza. La realtà virtuale che abbiamo studiato, è però diversa da un film o da una chatroom. L’utente ha una percezione diversa perché tutto ciò che lo circonda è stato disegnato dai creatori della realtà virtuale. La persona che si muove all’interno della realtà virtuale vive l’illusione di possedere e controllare un corpo, che non è il suo. Questa tecnica cambia il rapporto con noi stessi. SPIEGEL: Lo spazio virtuale e più in generale digitale è un mare di possibilità: cosa che non deve essere per forza cattiva. In Facebook ci sono circa 60 tipi di identità di genere. Posso decidere liberamente, se voglio essere uomo, donna, transessuale, bianco o nero. Da qui l’eterna domanda: chi sono? Chi voglio essere? Decidere non è allettante?
METZINGER: Se non si perde la propria autonomia spirituale, sì. Cliccando su Internet abbiamo una gamma di opzioni infinita, certo. Ma c’è anche il rischio enorme che ciò che clicchiamo non sia la migliore delle opzioni. Questo ci mette dubbi e in realtà l’essere umano non ama l’insicurezza. Un brillante scienziato inglese, Karl Friston, ha sviluppato un modello matematico, che precisa l’idea di base di Kant e Helmholtz in relazione a ciò che fa il cervello. Semplificando, il cervello fa sempre questo: riduce l’insicurezza, evita le brutte sorprese.
SPIEGEL: Perché abbiamo così paura?
METZINGER: Noi esseri umani col nostro cervello siamo sistemi che cercano costantemente le prove della propria esistenza. Vogliamo costantemente sapere, se esistiamo ancora. Abbiamo bisogno di segni che dicano: non sono morto, sto bene. La vita e la coscienza sono profezie di auto-realizzazione.
SPIEGEL: Così come i maniaci di Twitter o dei selfie, che devono sempre far sapere al mondo tutto ciò che stanno facendo. Come dire: guardate qui, ci sono, esisto.
METZINGER: Si l’estensione isterica e costante del modello di sé nel mondo dei media.
[…]
SPIEGEL: Anche la realtà virtuale ha bisogno di nuove forme di coscienza. Tant’è, che Lei ha già presentato un codice etico di comportamento online.
METZINGER: Si, perché ci sono tanti aspetti da chiarire. C’è bisogno di un “diritto al proprio avatar”, connesso al diritto d’utilizzo della propria imagine? Presto si potranno resuscitare i morti, come Avatar. Che conseguenza ha questo sull’elaborazione del lutto da parte di chi rimane, è un bene o un male? Quali sono i costi delle conseguenze psicosociali dello sviluppo delle nuove tecnologie, se sempre più giovani diventeranno dipendenti? Presto si potrà entrare in un film porno in modo molto più profondo e interattivo, con un’esperienza corporea completa, che coinvolge anche il senso del tatto, potendo quindi prendere parte direttamente anche ad azioni perseguibili fino a poco prima nel mondo reale. Cosa succederà alle persone? L’industria del porno deve essere fortemente regolamentata, allora?
SPIEGEL: Fino ad ora l’abbiamo seguita: nuovi sviluppi portano nuove conseguenze. Ma nel suo libro “Il tunnel dell’io”, che ha presentato da poco, lei mette in guardia rispetto alla creazione di un coscienze artificiali. Con un’argomentazione singolare.
METZINGER: La mia tesi è che non dovremmo creare soggetti artificiali, perché in questo modo potremmo produrre una grande quantità di dolore, senza che sia necessario.
SPIEGEL: Robot che soffrono?
METZINGER: Si, è pensabile.
SPIEGEL: Davvero, robot che soffrono? Non sono né persone, né animali, né piante. Solo macchine.
METZINGER: L’hardware è insignificante. All’interno dell’intelligenza artificale c’è un dibattito su alcuni soggetti artificiali eccezionali
SPIEGEL: Cioè quelli che dispongono di una coscienza?
METZINGER: Si. Oggi possiamo costruire robot che simulano il dolore in modo fantastico, che hanno sensori e magari persino urlano, e nessuno crede che loro sentano davvero male. Ma prima o poi questo dolore ci sarà veramente. La biorobotica costruisce robot con hardware biologico. Ci sono ricercatori che costruiscono robot capaci di curiosità, fame, sete, rabbia – si tratta di esseri ancora senza coscienza, ma prima o poi ci arriveremo.
SPIEGEL: Davvero?
METZINGER: Dico: se vogliamo mettere in campo un’evoluzione artificale della coscienza – cosa che non succederà sicuramente né oggi né domani, ma forse un po’ dopo sì – allora ci sarebbe un rischio molto alto. Potremmo smuovere delle cascate, duplicare tramite Internet molte copie di modelli di coscienza artificiale, che probabilmente soffriranno della loro esistenza.
SPIEGEL: Questa è fantascienza.
METZINGER: Ma penso che ce se ne debba occupare.
[…]
In fin dei conti, questa storia dei robot che s’innamorano, godono e poi s’arrabbiano, s’ingelosiscono e vanno per la loro strada non l’avevamo già vista nel film “Lei”? Solo che solo qualche anno fa, nel 2013, quando che la sceneggiatura di Spike Jonze vinse l’Oscar, pensavamo fosse una storia di fiction (e non di probabile prossima non-fiction). J
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