Don't wanna be here? Send us removal request.
Text

Negli ultimi due anni ho corso troppo poco, o forse solo troppo ma in troppo poco tempo. Il risultato è che ho le ginocchia a pezzi, forse si sarebbero distrutte ugualmente ma sicuramente ci ho messo del mio. Non potendo camminare la gamba sinistra si è sgonfiata in fretta, il muscolo è sparito giorno dopo giorno, mi dicono che dovrei far palestra, fisioterapia per rafforzarlo in attesa di essere operato, ma sono stanco, stanco di dover ripartire da zero ancora una volta. La corsa che negli ultimi anni ha occupato la mia vita ora sembra allontanarsene, mi accorgo che buona parte dei miei contatti social degli ultimi anni sono legati a questa attività, tolta questa non ho grossi motivi per seguirli. La cosa in se non mi crea nessun problema. Alcuni giorni sono quasi compiaciuto del fatto di aver più tempo a disposizione. Ma allora perchè mettere il nome nella lotteria di Sciacchetrail? Perchè "tanto non mi sorteggiano". E invece mi sorteggiano. Potrei non iscrivermi, risparmiare 60 euro. Invece mi iscrivo pure. Non farlo mi sarebbe parso quasi un torto, anche se non so esattamente verso chi. Forse verso Niki che mi ha chiesto di iscriversi come Ring of bright water, o forse nei confronti dei miei ricordi fatti di estati negli anni settanta a Riomaggiore, quando nessun turista si sarebbe mai sognato di metterci piede.
Prendo in mano la bottiglia di Sciacchetrà che mi regalò Paco dopo averla vinta. Era l'anno in cui io invece mi ritirai Ho sempre pensato che l'avrei aperta per qualche buona occasione, ma è rimasta sempre li sullo scaffale. Non credo ci sarà mai un occasione abbastanza buona per aprirla.
4 notes
·
View notes
Text
Carnica Ultra Trail

Quanto valgono una crosta di pane e due dita d’acqua nel fondo della borraccia? Ingurgito l’ultimo pezzo di pane che Niki tira fuori dallo zaino, verso le due bustine di Oki direttamente nella borraccia quasi vuota e butto giù tutto. Sto zoppicando da circa un ora e il dolore al tibiale sta diventando insopportabile al punto che comincio a pensare che tutto possa naufragare così, a soli 10 km dal traguardo.
Questo “tutto” è iniziato circa tre anni fa, quando Francesco ci chiese di fare una squadra per prendere parte alla 177 K, una corsa a scopo benefico non competitiva di 200 K in quattro tappe, con partenza da San Candido e arrivo a Tarvisio. Alla fine dopo vari rinvii quest’anno sembra essere giunto l’anno buono e così ci iscriviamo, non sapendo naturalmente che qualche settimana prima di partire proprio Francesco si sarebbe infortunato e quindi a portare la croce saremmo stati solo in due, il sottoscritto e Niki.
Il giorno prima della partenza al lavoro mi sento un pò strano, torno a casa mi misuro la febbre: 37,5. Niki è già in viaggio dalla Liguria verso Padova, non gli dico niente e aspetto. La sera mi sembra andare meglio ma la mattina al momento di partire ho ancora febbre, nausea, giramenti di testa. Che facciamo? Gira e rigira decidiamo di partire lo stesso e poi si vedrà, chiedo a Niki di darmi una mano a fare la borsa e lui controlla che tutto il materiale obbligatorio ci sia, per il resto lascia a fare a me, e come vedremo non sarà proprio un ottima idea.. Partenza direzione Tarvisio, dove lasceremo l’auto per prendere un treno delle ferrovie austriache che ci porterà dopo 4 ore e tre cambi a San Candido. Sonnecchio mentre Niki guida, a Tarvisio prendiamo un tè butto giù un aspirina e andiamo verso la stazione dove facciamo subito conoscenza con alcuni tra quelli che diventeranno i nostri compagni di ventura, in particolare una simpatica coppia di Gemona del Friuli e una veterana della 177 k che farà da scopa. Il viaggio passa veloce e per le 17 siamo a San Candido, una splendida località nell’alta Val Pusteria, non troppo lontano dalle tre cime di Lavaredo. L’atmosfera nella base di partenza è molto positiva, tutti si preparano a trascorrere la notte nell’auditorium, con il mio socio ci ricaviamo una specie di stanzetta sul palco con dei pannelli fonoassorbenti, giusto per assicurarci almeno una prima notte di riposo. Visto la tipologia dell’evento decido di assistere al briefing dove Marcello uno degli organizzatori spiega tutto quello che dovremmo fare, ma sopratutto quello che NON dovremmo fare nei prossimi giorni. In realtà mentre parla tutta la mia attenzione è attirata dalle k-bike, delle carrozzine per disabili attrezzate con dei maniglioni per potere essere spinte da quattro persone allo stesso tempo. Infatti alla traversata parteciperanno incredibilmente tre ragazzi disabili anche se seguendo un percorso alternativo al nostro ma ugualmente molto impegnativo sia per loro che per gli “spingitori”.


DAY ONE
Al mattino soliti riti pre partenza, si riempiono le flask, si ricontrolla lo zaino, la giornata sembra essere strepitosa quindi l’umore è alle stelle, io ho riposato e mi sento discretamente bene, quindi.. andiamo. Si parte subito con una bella salita tra gli abeti che ci porta a coprire i primi mille metri di dislivello nel corso dei primi dieci km, abbiamo già sconfinato in Austria e sembra girare tutto bene finch�� non inizio a sentire la testa girare, ho una forte nausea, inciampo e casco per terra, non so bene come arriviamo fino al rifugio Oberstanserseehutte e qui mi siedo convinto che sia stata una follia partire e che la mia corsa stia già per terminare. Passano tutte le altre squadre e iniziano la salita verso Sella Rosskopfthorl che si staglia di fronte al rifugio mentre io resto li infreddolito con la testa sul tavolo incapace di prendere una decisione. Prendo un tè, ci sciolgo un aspirina, aspetto e dopo un pò decido di provare a proseguire camminando piano. 100, 200, 300 mt di salita e mi sembra di andare un pò meglio, Niki mi raggiunge più andiamo avanti più mi sento di potercela fare, dopo qualche minuto stiamo di nuovo correndo.

I km scorrono veloci, di fronte a noi una cresta verdissima anticipa una discesa tecnica che attraversa un pascolo colorato da un tappeto di fiori gialli e viola in cui ci lanciamo a rotta di collo divertiti come bambini.

Ancora una sella, una malga, un rifugio (qui mi sfilo e dimentico su una panca la mia unica maglia a maniche lunghe) un ultima salita dove dei cavalli pascolano incuranti delle nostre fatiche e poi l’ultima discesa di 15 km che ci porta al primo campo base allestito per la notte.

Siamo tutti molto stanchi ma ancora dignitosamente convinti di quello che stiamo facendo, ceniamo e poco dopo cala il silenzio, ci infiliamo nelle tende in attesa della sveglia alle 4. La notte è fredda, battiamo un pò i denti ma tutto sommato questa resterà una delle migliori nottate passate in tenda.

DAY TWO
E’ ancora buio, un nugolo di frontali si aggira pigramente tra le tende come lucciole assonnate, ci muoviamo cauti parlando sottovoce tra borsoni, zaini e bucato steso in maniera improvvisata. Ritiriamo i gps, prendiamo il panino, facciamo colazione in fretta mentre qualcuno avvisa “Le sacche entro 10 minuti sul furgone!” Il percorso ha subito una variazione quindi per la prima parte seguiremo una traccia diversa balisata per l’occasione all’ultimo momento.

Partiamo molto lenti, così lenti che la scopa ci raggiunge e inizia a pungolarci facendomi un pò innervosire, vuoi per l’ora non proprio adatta al dialogo vuoi perché non vorrei essere così indietro, ma come dice saggiamente il mio socio “Calma, che la giornata è lunga”. Ed infatti più la salita si fa ripida e incerta più riprendiamo le altre squadre, ammiriamo un alba magnifica alle nostre spalle e con il sole che sorge riemerge anche il nostro buon umore, anche perché da più parti ci dicono che questa sarà la tappa più bella di tutte, e che attraverseremo le zone più selvagge del percorso, quelle che piacciono a noi.

Dopo qualche cresta sospesa nel vuoto imbocchiamo un traverso che si snoda a mezza costa in un mare di fiori gialli e piccoli torrenti carichi d’acqua da attraversare.


Ci godiamo questo pezzo corribile che ci porta al rifugio di Hochweisstein, dove ho la pessima idea di chiedere un panino. Mi passano due fette di pane da toast fredde con due sottilette ed una fetta di cetriolo al centro per la modica cifra di 9 euro. Riparto con il panino in gola, il percorso per fortuna è così bello che presto dimentico tutto. In cima alla sella ci aspetta Maja che ci da alcune indicazioni e ci avvisa “se vi è piaciuto fino ad ora vedrete il seguito!”.


Sorpassiamo un rumoroso gregge di pecore e scendiamo in una valle silenziosa, dove dei radi alberi spuntano tra l’erba fresca, l’unico rumore è quello del torrente che ci scorre a fianco. Io e il mio socio siamo a corto di aggettivi, raramente i siamo trovati in posti naturalisticamente così affascinanti, rallentiamo senza nemmeno accorgercene per godere meglio di quanto abbiamo intorno. Andiamo avanti così per diverso tempo, poi la valle risale fino al passo Giramondo e di li di nuovo giù verso una valle aperta dove incrociamo una piccola baita con una simpatica signora che alleva le sue capre rimproverandole amorevolmente in inglese per aver fatto poco latte il giorno prima. Siamo quasi al 40esimo km quindi ci rilassiamo un pò insieme ad un bizzarro trio di brianzoli con cui spesso ci troveremo a condividere pezzi di strada, mangiamo del formaggio fresco che sembra feta e beviamo una radler.

Abbandoniamo a malincuore questo piccolo angolo di paradiso e usando una strada forestale saliamo al lago Volaja, purtroppo il tempo sta cambiando e lo troviamo completamente avvolto nella nebbia, un vero peccato perché essendoci già stato anni fa da ore ne decantavo la bellezza a tutti. Non ci resta che individuare l’attacco del sentiero che ci porterà all’ultima lunga discesa che dopo 6/7 km termina direttamente nel campeggio. Qui facciamo due scoperte, la prima è che la sveglia domani verrà anticipata alle 3,30 e la seconda che la nostra tenda si trova a ridosso di un recinto di alpaca che passeranno la notte a fare un verso sconosciuto a 50 cm dalle nostre orecchie.


A cena ci viene servita dai gestori del camping una minestrina nella quale affondiamo due tre pagnotte creando così una specie di pastone sicuramente poco invitante ma almeno un pò più sostanzioso. Nella notte scoppia un fortissimo temporale, le tende reggono e quando alle tre e mezza ci alziamo è già finito tutto e sopra di noi c’è una stellata bellissima.
DAY THREE
Si parte per quella che è la temutissima terza tappa, 58 km con 4000 metri di dislivello ai quali è stato aggiunto un cancello alle 15,00 a circa metà percorso a causa di un previsto peggioramento del tempo nel pomeriggio.
Il paesaggio di oggi si discosta notevolmente rispetto a quello di ieri, dopo la ormai consueta salitona iniziale che porta al Passo Monte Croce Carnico discendiamo a valle e poi ci addentriamo in una valle rocciosa dove il tempo sembra essersi fermato a qualche milione di anni fa, a parte qualche asino non incrociamo nessuno fino ad un apprezzatissimo ristoro volante dove ci viene offerto del melone fresco insieme a qualche parola di incoraggiamento.

Da qui parte una salita lunga e molto impegnativa per Sella Avostanis, in cima troviamo ancora Maja e Giulio, le scope che ci spiegano un pò i prossimi bivi e ripartiamo subito in discesa verso il lago. Imbocchiamo la deviazione e attacchiamo un single track a mezza costa immerso nel verde più selvaggio che percorriamo in silenzio, Niki davanti e io dietro, ognuno immerso nei suoi pensieri. Siamo l’unica squadra che si è presentata sprovvista di bacchette, quando corriamo da soli il silenzio che ci circonda è assoluto.


Riprendiamo i brianzoli o loro riprendono noi, fatto sta che ci ritroviamo a correre di nuovo assieme in una valle semi-paludosa popolata da immobili e giganteschi yak (che Francesco sostiene essere invece mucche highlander). Un occhiata all’orologio, sono le 14,20 se vogliamo arrivare al cancello entro le tre bisogna spingere. Cominciamo a correre più veloce, 14,30 14,40 c’è ancora una discesa che scendiamo a cannone e 5 minuti allo scadere del tempo siamo a Straninger Alm. Chi arriverà dopo le 15,00 verrà fermato: di fatto siamo le ultime due squadre a passare. A questo punto mancano circa 25 km e abbiamo una finestra di due ore prima che il tempo peggiori, il che significa che dobbiamo cercare di non prendere il temporale almeno finché saremo in quota.

Riempiamo le borracce e ripartiamo subito, la prima parte è una passeggiata, ma quando è il momento di dover attraversare la sella di Aip utilizzando un sentiero esposto che taglia in due dei ghiaioni a 2000 metri di altezza il cielo comincia a farsi sempre più nero e minaccioso. Il percorso è molto lungo e bisogna procedere lentamente e con molta attenzione, a Niki si sta scaricando il tel dove conserva la traccia, traccia che io naturalmente non ho, comincio ad avere qualche timore che cerco di ingannare malamente ammirando quattro aquile che volteggiano sopra le cime. Fortunatamente quasi di colpo si alza un forte vento, che spinge le nuvole cariche di pioggia lontane dalle nostre teste. Il vento diventa così forte che una volta in cresta a fatica ci reggiamo in piedi, con i cappucci alzati avanziamo instabili come dei personaggi dell’Eternauta sempre più stanchi, sempre più sfiniti. Scavalchiamo delle rocce, attraversiamo una macchia di pino mugo ed ecco finalmente che ci appare in alto Passo Pramollo.

Ad aspettarci al termine dell’ennesima salita c’è Marcello, che forse un pò preoccupato ci è venuto incontro in macchina con un termos di tè caldo e dei panini. Ci indica la strada, dobbiamo salire fino agli impianti di risalita che nella sera che sta arrivando hanno un aspetto triste e desolato nonostante la loro modernità. Da qui giù per la pista di sci fino a lago Pramollo e quindi per la strada asfaltata arriviamo in una radura nel bosco dove è stato allestito l’arrivo e il campo base vicino ad una piccola baita. Arriviamo abbastanza provati ben oltre le 12 ore previste, non ci sono docce ma solo un torrente dove darsi una lavata. Ci hanno tenuto la cena in caldo, arrivano le scope, sotto il tendono ci raccontiamo un pò come è andata mentre scoppia di nuovo il temporale. Proviamo ad aspettare ma non accenna a smettere, anzi, sembra piovere sempre più forte. Tutti sono già a dormire ci copriamo alla meno peggio e corriamo verso la nostra tenda dove arriviamo zuppi.. Questa ultima notte in tenda non la dimenticheremo molto facilmente, è già tardi, ogni cosa è umida, fredda, bagnata. Ci avvolgiamo vestiti così come siamo nei sacchi a pelo e cerchiamo di far passare quelle quattro che ci separano dalla sveglia. Resto così immobile ma non riesco a dormire, ascolto la pioggia che batte sul telo e gocciola dentro, conto le ore, l’una le due le tre, le tre e mezza, finalmente è ora di alzarsi. Ieri sera avevo steso i pantaloncini ad asciugare all’arrivo e li ho dimenticati fuori, me li infilo così fradici, tanto tra poco saremo tutti bagnati. Per un attimo spero che venga rimandata la partenza per la pioggia, metto il naso fuori e invece c’è già qualcuno pronto. Dalla tenda al tendone è una palude, abbiamo i piedi fradici, piove fuori, piove dentro, piove dappertutto, eppure i volontari dell’organizzazione sono li pronti, impagabili con i loro pentoloni di caffè e tè caldo, ma sopratutto con i loro sorrisi presi in prestito chissà dove. C’è chi allestisce le k-bike e si assicura che Swami e gli altri ragazzi in carrozzina sia sufficientemente coperti, chi si avvolge in improbabili mantelle e avvolge gli zaini in sacchi delle immondizie recuperati li per li. Io mi limito a riempirmi la borraccia di tè caldo, ho talmente sonno che non riesco a formulare nessun pensiero.
DAY FOUR
Il countdown sotto la pioggia alla partenza non resterà sicuramente memorabile. Non siamo più in tanti, un paio di squadre si sono ritirate, più di qualcuno ha qualche problema fisico, eppure anche oggi si parte, compatti, quasi come un unica squadra ci immergiamo nel buio e nella pioggia decisi a portare a termine anche questa ultima tappa.

Ho sonno e sono stanco, penso che devo solo far passare le prime due ore poi con la luce e il sole forse tutto cambierà. Fortuna vuole che dopo poco smetta di piovere, così ci togliamo i nostri strati e ci ritroviamo a correre prima in un bosco e poi attraverso una forestale che scende in due piccolissimi villaggi austriaci ancora addormentati dove gli unici abitanti sembrano essere mucche e cavalli a zonzo tra le case.


Sogno un caffè ma niente da fare, continuiamo a correre un’altro paio d’ore finché arriviamo ad una malga dove ci fermiamo a riposare. Niki beve una birra, sono solo le dieci ma in fondo siamo in giro già da cinque/sei ore. Da qui in poi ci hanno avvisato che non ci sarà più acqua per i prossimi venti km fino all’arrivo. Riempiamo bene tutte le borracce e ripartiamo, ma subito mi accorgo che quel dolore al piede sinistro che prima era solo un leggero fastidio sta aumentando a dismisura, cerco di ignorarlo ma niente da fare, più cammino più aumenta.

Ad un certo punto non riesco più a correre, soprattutto in discesa inizio a zoppicare. Manca ancora un bel pezzo all’arrivo, in particolare dobbiamo affrontare gli ultimi 600 mt di dislivello del Monte Capin, che sono i più ripidi che si possano immaginare, o forse così ci appaiono ora. In salita riesco ad andare ma appena inizia la discesa niente da fare, chiedo a Niki di dirmi con esattezza quanto manca ma già sapendo che mi mentirà non presto attenzione alla risposta. L’oki inizia a fare effetto, provo a correrci sopra, funziona… da qui è tutta discesa, andiamo giù spediti nonostante abbia iniziato a piovere, 5 km che sembrano un eternità ed ecco le prime case, imbocchiamo una strada asfaltata, non siamo molto lucidi, attraversiamo un cimitero convinti di essere fuori strada mentre in realtà siamo ormai praticamente arrivati, scendiamo sulla ciclabile ed ecco in fondo il gonfiabile, ancora cento metri e tagliamo il traguardo quasi increduli, quattro giorni fa eravamo li che nemmeno sapevamo se partire o meno con 200 km di sentieri davanti a noi ed ora è tutto finito. Arrivano i ragazzi spingendo le k-bike, non si può descrivere l’emozione generale, pianti, abbracci. Andiamo a farci la doccia, apro la borsa non ho più niente di asciutto o pulito, niente con cui asciugarmi, mi arrangio alla meno peggio, Niki mi da una maglietta. Sara la volontaria che ci ha sfamati e rifocillati per quattro giorni ci abbraccia e ci ringrazia mettendoci in imbarazzo per la sua gentilezza, Marcello sembra sollevato dopo quattro giorni di preoccupazioni ora finalmente sorride soddisfatto. Come due ubriachi ci avviamo silenziosamente vero la macchina. Sapevamo fino dal principio che questa non sarebbe stata una corsa come tutte le altre, quello che non sapevamo era che avremmo incontrato delle persone eccezionali, e che la corsa non sarebbe durata solo 4 giorni ma che sarebbe continuata nelle nostre teste per molti altri giorni ancora.

7 notes
·
View notes
Text
La bolgia delle streghe
Per salire sul Monte Cimone di Tonezza si possono scegliere diverse vie di accesso, io ho scelto di lasciare la macchina nel parcheggio di un ristorante poco distante da case Pierini subito dopo Arsiero da dove inizia il sentiero 540. Poco dopo i primi tornanti sulla destra parte una deviazione singolare, un minimale single track nel bosco che taglia orizzontalmente la montagna per condurci alla chiesetta di San Rocco e da qui all'imbocco del 541. Con mio stupore sebbene molto stretto il sentierino è ben tenuto e corriblissimo.

Anche qui dopo un paio di tornanti ho preso a destra l'indicazione per la Cresta della Rocca, un sentiero che sale ripidamente prima nel bosco e poi tra rocce e gallerie che ricordano molto il percorso della Trans D'havet.

Ci vuole almeno un ora e mezza a buon ritmo per risalire le pendici del monte ed arrivare nei pressi del cimitero di quota neutra. Qui sono sepolti i resti dei 1210 soldati italiani che gli austriaci fecero saltare in aria dopo aver scavato per due mesi una galleria sotto la cima ed averci collocato e fatto esplodere una mina da 150 quintali.

Pare che l'esplosione fu talmente devastante che la montagna si abbassò notevolmente di altezza. Da qui alla cima c'è ancora un bello strappo in salita, si passano alcuni avamposti, un baito e dopo un ultima scalinata si è in vetta dove si erge un sacrario dal dubbio gusto estetico.

Poco distante si arriva ad una radura nel bosco dove è ancora visibile e percorribile una ragnatela di trincee che permettevano ai soldati di spostarsi in una zona particolarmente esposta e pericolosa appunto ribattezzata dagli stessi come la Bolgia delle streghe.



L'atmosfera non è certo delle migliori quindi decido di scendere verso un ampio sentiero che nel giro di pochi km mi porta al Largo degli Alpini, un piazzale dove una comitiva di allegri locali non più giovanissimi ha appena concluso un pranzo al sacco, gli scrocco un pò di acqua, vorrebbero darmi anche da mangiare ma ringrazio e riparto, mi ricollego al 540 e inizio una lunga discesa su una mulattiera abbastanza comoda che nel giro di poco più di mezzora mi riporta al punto di partenza. In tutto ci ho impiegato circa tre ore, il dislivello suppongo essere oltre i 1200 m. Una borraccia non basta.
1 note
·
View note
Text
La solitudine della Val Pruche
Ci sono dei posti che esercitano un attrattiva a volte difficilmente spiegabile, uno di questi è il versante est del gruppo del Pasubio, ovvero quell’insieme di sentieri antichissimi che una volta (ma non solo una volta) venivano usati dai pastori per salire verso i pascoli di Malga Pasubio. Avevo già percorso in discesa la Val Pruche in estate e tentato di risalirla in inverno, senza riuscirci a causa della neve, così quando mi sono messo in macchina con un pomeriggio intero a disposizione quasi senza accorgermene mi sono trovato a superare l’abitato di Posina per poi lasciare la macchina nel piccolo parcheggio di Doppio. Basta percorrere un centinaio di metri di asfalto e sulla sinistra, non visibilissimo, c’è l’imbocco del sentiero 380 che attraversa la Val Pruche. Fin dall’inizio ci si trova immersi in un fitto bosco e il sentiero inizia a salire con una serie di tornanti piuttosto ripidi che velocemente portano in quota. Bisogna fare molta attenzione a quelle che io chiamo “le trappole”, ovvero dei cavi di acciaio di qualche vecchia teleferica abbandonata che in tre quattro punti attraversano il sentiero ad altezza uomo.

Si continua a salire per circa un ora, ogni tanto la salita lascia posto a qualche brevissimo traverso, ma si riesce a correre veramente poco, finché il sentiero termina dentro un grosso canalone che sembra essere il letto di un torrente in secca cosparso di grossi macigni.

Un pò saltando e un pò arrampicando inizia la risalita, spesso bisogna aiutarsi con le mani per superare i punti più difficili, il canalone è abbastanza lungo, fa una curva e poi diventa ancora più ripido fino ad arrivare a quello che appare come un rebus, a sinistra sembrerebbe proseguire restringendosi ma porta in un vicolo cieco dal quale ridiscendo non senza qualche difficoltà, davanti parrebbe ostruito da una grossa frana, provo a risalirlo ma mi rendo subito conto di essere fuori strada.

Proprio ritornando indietro scorgo un pallino rosso mezzo scolorito su una roccetta ricoperta di vegetazione, infatti il sentiero prosegue a destra mascherandosi subito in una debolissima traccia quasi invisibile che si arrampica tra l’erba alta. Più volte mi accorgo di essere fuori strada, torno indietro e mi rimetto sulla retta via grazie ai pochissimi segnali e a qualche pila di sassi.

Si va avanti così sempre a salire finché la visuale non si apre e in cima ad una ripida salita appare il passo degli Alberghetti. Ci metto ancora una mezzora buona a raggiungerlo ma una volta arrivati su la visuale è magnifica da entrambi i versanti (mica per niente durante la prima guerra mondiale ci avevano piazzato dei pezzi di artiglieria).

Il pezzo che segue da qui in poi oltre ad essere una liberazione al termine di una salita infinita è un momento di pura poesia trail, un single track nell’erba leggermente in discesa che taglia in due tutta la vallata.

Bastano un paio di km per raggiungere uno dei monumenti più discutibili che si possano trovare nelle piccole dolomiti, un “vero” arco romano costruito negli anni 30 per commemorare i caduti della prima guerra mondiale.

Questa è una metà abbastanza ricorrente nei giri degli appassionati delle Piccole Dolomiti che in genere si raggiunge arrivando dalla parte opposta, quella che arriva dal rifugio Papa. Gran dispiego di targhe, tombe, cippi, bandiere dedicati ai caduti della prima guerra mondiale che mi puzza sempre di retorica militaresca, così salgo su alla Selletta Comando dove c’è l’unica targa a cui porto un fiore.

Ridiscendo e proseguo verso il rifugio Papa, sono senz’acqua da un paio d’ore ed essendo anche senza soldi confido nella generosità dei gestori che riempiendomi la borraccia mi rispondono “Siamo pur sempre un rifugio di montagna”. Da qui ci sarebbero diverse soluzioni per ridiscendere a valle, ma inizia ad essere un pò tardi e ho il tel scarico quindi cerco l’imbocco del 377 che scende per la Val Sorapache. Percorro il primo tratto senza grossi problemi, finché non incrocio sul sentiero il più grosso gregge di pecore che abbia mai visto, ma non sono solo pecore (due/trecento?) ci sono anche muli, cavalli e.. cani soprattutto diversi cani, tra cui alcuni maremmani dalle dimensioni piuttosto ragguardevoli. Uno in particolare è forse più grosso di Cjiorven e mi sta già tenendo d’occhio a distanza. A questo punto la scelta è tra farmi sbranare da “Orso” (così lo sento chiamare dai pastori) oppure circumnavigare il gregge attraversando dei prati dove sicuramente prenderò un miliardo di zecche. Scelgo per le zecche inizio la manovra di accerchiamento sotto gli occhi vigili dei pastori e dei cani, finché arrivato in cima ad una roccia e immerso nell'erba alta sento il pastore chiamarmi “Vien giù da li, guarda che mica ti morde Orso” mezzo imbarazzato inizio a scendere verso di loro fin quando Orso fa un accenno di abbaio per poi prontamente tornare a fare il suo dovere di cane pastore, a questo punto siamo quasi migliori amici io e Orso, scambio due parole con il pastore che mi indica la strada e riparto camminando, perché correre mi sembra quasi irrispettoso in quel frangente, o forse solo ridicolo. Dopo una serie di curve però il sentiero scompare nella vegetazione, bisogna farsi largo con le mani per aprisi un varco e scoprire la traccia sul terreno, non sempre visibile, infatti mi perdo almeno un paio di volte in questa specie di amazzonia. Un pò alla volta mi metto qualche km alle spalle, tornante dopo tornante scendo sempre più a valle, scaviglio, riparto, mi confondo sul letto di un torrente che inizio a scendere inutilmente, lo risalgo per accorgermi che il sentiero lo attraversava soltanto per poi proseguire nel bosco. L’ultimo tratto è una discesa ripida nascosta sotto uno spesso strato di foglie che porta fino ad incrociare il torrente Posina, qui ci sono delle cascatelle e un paio di pozze dove ci si può rinfrescare e accucciandosi quasi immergersi del tutto nell’acqua. Ancora un paio di curve e si arriva al ponte e quindi alla strada asfaltata, da qui svoltando a sinistra risalgo fino al parcheggio dove recupero la macchina. Sono stato in giro circa quattro ore e mezza, non ho incontrato nessuno ne a salire ne a scendere, escluse le persone al rifugio. Una borraccia da 1/2 lt è decisamente insufficiente.

4 notes
·
View notes