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Ognuno può padroneggiare un dolore, tranne chi l'ha. |1997, Brescia|
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To All the Boys I’ve Loved Before (2018)
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car rides by yourself.. with loud music… are good for the soul.
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Ho una figlia di sedici anni che ha un neo sulla clavicola, proprio come me, e quando parla gesticola allo stesso modo in cui gesticolo io.
Quando cammina rivedo me nei suoi passi, quando ero giovane come lei, insicuro come lei, pieno di sogni, proprio come lei.
Mia figlia ieri si é seduta accanto a me. Stavo leggendo un libro nel portico, mentre il sole si scioglieva nel cielo scuro della notte, e mi colse di sorpresa.
«Papà» mi chiamò «Posso chiederti una cosa?» i suoi occhi brillavano anche se fuori era calata l'oscurità.
«Certo tesoro» le risposi, mentre chiudevo il libro, lasciando in mezzo alle pagine la matita per non perdere il segno.
Si sedette accanto a me, si guardò le mani incrociate sul grembo, poi i suoi piedini scalzi ed infine parlò col tipico tono di voce che ha quando vuole chiedere qualcosa ma non ne é sicura.
«Papà, cosa ricordi degli anni del liceo?»
La sua domanda mi spiazzò e per un attimo restai in silenzio.
«Ricordo che quando andavo al liceo ero un ragazzo molto solo.» non so in quale meandro del mio cuore avevo sepolto quelle parole, ma quando le sputai fuori mi sentii subito più leggero.
Sentivo lo sguardo di mia figlia sulle spalle. I suoi occhioni color nocciola erano spalancati e le sue labbra rosa formavano una linea sottile.
«Parlavo poco e non avevo pressoché nessun amico, perciò passavo le ricreazioni a mangiare da solo, seduto in cortile.
Amavo il cortile, quella piccola illusione di libertà per dieci minuti, lontano dal chiasso dei miei compagni e dagli strilli delle professoresse.
Ricordo che quando arrivava l'inverno, pur di respirare un po’ di aria fresca, portavo l'ombrello e uscivo comunque.
Certo, gli altri mi classificavano come “quello strano”, ma era più forte di me, avevo bisogno del mio spazio» spiegai.
«una mattina di novembre, lo ricordo perché avevo compiuto da poco diciassette anni, al posto che guardare la strada dalle sbarre del pesante cancello di ferro, stavo guardando il corridoio dalle finestre che si affacciavano sul mio adorato cortile.
E, per puro caso, proprio in quel momento, passò una ragazza che non avevo mai visto.
Sai tesoro, quando non hai nessuno con cui parlare o con cui trascorrere il tempo, tendi ad analizzare tutto ciò che ti circonda, a osservare con scrupolosa attenzione l'ambiente in cui ti trovi e le persone che ci vivono.
Sapevo che il piano superiore dal piano terra distava 30 gradini, perché li avevo contati.
Sapevo che il ragazzo più scontroso della classe veniva picchiato da suo padre ogni venerdì sera, perché il sabato mattina, nello spogliatoio, aveva dei segni rossi sulla schiena, sapevo che la ragazza in prima fila mentiva riguardo la sua nuova dieta, in quanto non mangiava mai all'intervallo e più di una volta l'avevo vista piangere mentre correva in bagno.
Vedi, spesso si conosce meglio qualcuno osservandolo al posto che parlarci.
In ogni caso, perdonami se talvolta mi perdo fra i miei ricordi… cosa stavo dicendo? Ah si, quella ragazza.
Ecco, io non l'avevo mai vista.
Camminava lungo il corridoio schiacciata contro la parete, nel tentativo di farsi ancora più piccola e invisibile di quanto, probabilmente, si sentiva.
Passai quel giorno a pensare a lei, fino alla sera, quando mi sdraiai nel letto e chiusi gli occhi, e quella scena fu l'ultima cosa che vidi prima di sprofondare nel sonno»
Restai in silenzio. Una parte del mio cuore si stava risvegliando, facendo nuovamente sgorgare nelle mie vene emozioni e sensazioni passate… che fecero correre brividi lungo la mia spina dorsale.
«Da allora, ogni ricreazione la passavo guardando attraverso le finestre del corridoio che davano sul cortile nella speranza di rivederla.
C'era qualcosa nei suoi occhi, nel modo in cui tentava di essere invisibile, che mi ricordava me, e mi faceva sentire meno solo.»
Mia figlia era così presa dal mio racconto che per non disturbarmi respirava piano, e con la coda dell'occhio vedevo che stava immaginando un me un po’ più giovane.
«Fu una mattina di gennaio.
Aveva piovuto tutta la notte precedente e perciò fui costretto a non sedermi a terra come al solito ma ad appoggiarmi contro la parete. Non vedevo le finestre da quella posizione, ma una parte di me si era arresa.
Ero solo, lì fuori, col vento freddo che sferzava i miei capelli e mi graffiava le guance.
Mi strinsi nel mio giubbotto.
Sentii, ad un certo punto, dei passi che scricchiolavano sopra la ghiaia.
Era lei. Lo sguardo spaesato, il volto pallido proprio come il sole d'inverno, nascosta in una sciarpa che le cadeva lungo il busto, mentre i lunghi capelli le ricoprivano le sue esili spalle.
Le sue ciglia brillavano in un modo strano, come se fossero cosparse di lacrime.
Vedi tesoro, io ero molto timido allora. Stavo sempre solo e mi ero abituato al silenzio, ad ignorare gli altri, e non avevo idea di come si iniziasse a conversare con una ragazza.
Perciò, tutto quello che riuscii a fare fu smettere di mangiare il mio panino, sorriderle con la bocca ancora mezza piena, e guardarla, sperando che riuscisse a sentire ciò che i miei occhi stavano gridando, ovvero “non lasciarmi solo anche te”.
Lo so, sarò sembrato un perfetto svitato, coi capelli arruffati e le guance piene di cibo, ma riuscii a farla sorridere.
Ci riuscii da solo. »
Mi accorsi che stavo sorridendo come un ebete mentre raccontavo e un rossore bollente infiammò le mie guance, ma solo per pochi secondi.
«Ricordo che mi chiese come mai stavo lì in cortile, tutto solo.
“Preferisco stare solo qui fuori, al posto che sentirmi solo lì dentro.”
Nel suo volto leggevo comprensione.
“Anche io mi sento molto sola.”
Si appoggiò alla parete, di fianco a me.
Restammo in silenzio, a guardare il cielo scuro, fino a quando la campanella suono la fine della ricreazione.
Ricordo che ci guardammo e sorridemmo d'impulso, certo in parte era per l'imbarazzo, ma anche perché dentro noi sapevamo che stavamo iniziando qualcosa di grande.
Quando condividi il tuo silenzio con qualcun altro, inizi sempre qualcosa di grande.
La mattina seguente, all'intervallo, era già li, appoggiata alla parete del cortile.
La successiva, pure.
Iniziammo a parlarci con più scioltezza, ad abbassare mono frequentemente lo sguardo, a tremarmi meno le mani quando lei si avvicinava.
“È come se dentro me ci fosse un vuoto che risucchiasse ogni emozione.
Ogni cosa ha perso interesse e mi sento inutile.” Mi disse un giorno, alla fine di marzo.
“Tu, per me, sei importante” le risposi, accarezzandola nel modo più tenero possibile con lo sguardo, in quanto ero troppo timido anche solo per sfiorala.
“Per quale motivo?” Abbozzò un sorriso, ma il suo tono di voce era velato di incredulità e tristezza, quel genere di tristezza che sentono le persone che si sono arrese, arrese al fatto che certe cose non cambieranno mai e dovranno soffrirle per sempre.
“Perché, ecco… vedi..” farfugliai imbarazzato. Quelle parole pesavano tanto e mi ci volle molta forza per riuscirle a pronunciare “mi sono sempre sentito come se fossi troppo diverso per poter piacere agli altri e avere degli amici. Mi sono sempre sentito come se il mio posto fosse quello dell'ultimo banco, dell'ultimo in fila, del posto in bus col sedile affianco perennemente vuoto, perché ero io ed era normale. Ero invisibile. Ero il ragazzino che tutti prendevano in giro alle elementari, che canzonavano con parole cattive alle medie e ignoravano alle superiori.
E mi ero abituato. Mi ero convinto che il mio dolore mi avrebbe pervaso per sempre, perché sapevo di non poter cambiare e che nessuno mi avrebbe anche solo notato per chi ero davvero”. Ricordo che stavo per scoppiare a piangere “ma poi… poi… sei arrivata tu… che mi guardi come se le mie stranezze non sono un ostacolo insormontabile per starmi accanto… che mi aspetti ogni mattina qui, solo per trascorrere 10 minuti con me… che mi parli e mi ascolti e mi fai sentire… non lo so… non saprei descriverlo…. ” la guardai negli occhi, perché fino a quel momento avevo lo sguardo puntato a terra “tu non sei riuscita ad aggiustarmi, perché so come sono fatto. Ma sei riuscita a fare molto di più; sei riuscita a farmi sentire bene con me stesso, nonostante sia rotto”.
Lei scoppiò a piangere, accasciandosi contro il mio petto e per la prima volta la strinsi fra le braccia e ricordo che mi sentivo come se il mio cuore stesse Per esplodermi in petto. Tremavo come una foglia.
Lei si scostò leggermente da me, alzò le maniche della maglia e mi guardò:“anche io sono rotta”. Lunghi filamenti rossi le solcavano i polsi. Si leggeva odio. Rabbia. Delusione. Silenzio. Solitudine.
Appoggiai il mento sui suoi capelli, che erano soffici e profumavano come le rose, stringendola nuovamente fra le braccia e le sussurrai “ti prometto che riuscirò a farti sentire esattamente come tu sei riuscita a farmi sentire”.
E i giorni continuavano a passare, sempre più veloci, e mentre le rose iniziavano a sfiorire, noi continuavamo a germogliare.»
Mi sentivo come se fossi tornato ragazzo, come se fossi ancora lì con lei.
Mia figlia, con la bocca spalancata e gli occhi lucidi, mi chiese «papà ma chi è questa ragazza? Che fine ha fatto? La conosci ancora? » e ad un certo punto, un'ombra le travolse il volto… «non dormi che… che…»
Adesso ero io che piangevo «Si, era la mamma. Tu e lei siete state gli unici amori della mia vita.
Se penso al liceo, l'unica cosa che mi ricordo fu come incontrai tua madre, perché iniziai a vivere da quel momento. Lei mi aveva regalato un nuovo inizio. Ed io l'amavo con ogni atomo, ogni fibra, ogni cellula del mio corpo. Il tempo lo trascorrevamo sempre assieme, io le dicevo che con me non doveva tenere di indossare le magliette a mezza manica, che io continuavo a vederla bellissima, che i suoi difetti ai miei occhi erano solo un pretesto per amarla ancora di più. E lei aveva iniziato a sorridere più spesso. Aveva iniziato a raccogliersi i capelli, a camminare senza schiacciarsi alle pareti, ad abbracciarmi più a lungo, a parlare per ore.
Tesoro, l'amore salva le persone. Assieme, ceravamo salvati. »
«Papà e poi? E poi cosa é successo? Dove é ora la mamma?» mia figlia stava piangendo, le lunghe ciglia scure erano imperlate di lacrime.
«ti sei mai domandata il motivo per cui non festeggio mai il mio compleanno?» le domandai e lei scosse il capo «Perché quel giorno, quel maledetto giorno, era il mio compleanno. Era novembre, e il freddo aveva già reso le strade una lastrica di ghiaccio. Avevo appena finito di scrivere la promessa di matrimonio a a tua madre. Qualche tempo prima, avevo ritrovato un figlio in cui aveva appuntato tutto ciò che odiava di se stessa. Ed io, quella mattina, avevo aggiunto “lo so che, se ti dico che per me sei perfetta, tu non mi credi, perché nel tuo cuore sai di non esserlo.
Perciò ti dico che nonostante i tuoi difetti, io ti amo, e continuerò a scioglierti ogni giorno, fino alla fine. ”
Ci saremmo sposati a gennaio, perché fu proprio in quel periodo che noi ci conoscemmo. »
La voce iniziò a tremarmi. Mi girava la testa. «Tu eri nata da pochi mesi. Ricordo ancora che ti avevo letto la mia promessa e tu avevi sorriso. Tesoro… poi accadde quel che accadde… la strada ghiacciata, le auto che sfrecciavano veloci per strada e poi… l'incidente. »
Mia figlia mi getto le braccia al collo e iniziammo silenziosamente a piangere assieme.
«giorni dopo avevo trovato la sua promessa.» dissi singhiozzando «Aveva scritto: ti ricordi quel giorno, quando mi dicesti che tu eri rotto ed io dissi che anche io ero rotta? Ecco, volevo dirti che da quando tu mi avevi stretta fra le tue braccia, mi ero resa conto che la mia testa si incastrava perfettamente tra il tuo collo e la sua spalla, e il mio corpo aderiva perfettamente al tuo, e che i nostri cuori battevano allo stesso ritmo. Fra le tue braccia non solo mi sentivo al riparo; mi sentivo anche riparata. Tu mi avevi già aggiustato. »
-Alessia Alpi, scritta da me.
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avere ancora addosso il suo profumo.
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Inspiro il profumo della sua pelle; sa di buono, mette tranquillità.
Natasha Maselli.
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sulle labbra il tuo sapore, sui vestiti il tuo odore.
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Vi è mai capitato di sentire il suo odore, così all'improvviso? È meraviglioso.
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Sfido i miei occhi
a non guardarti
mentre sei distratto,
col tuo sguardo
perso nell'orizzonte,
con la sigaretta
tra le dita,
che poi,
lentamente
avvicini alle labbra.
Sfido i miei passi
a non seguire i tuoi
mentre rincorri
quei tuoi sogni
che ritieni
così irraggiungibili;
e sfido le mie mani
a non stringere
le tue,
a non aiutarti
a rialzarti
tutte le volte che cadi,
tutte le volte che crolli,
tutte le volte che dici “mai più”,
ed io ribatto con quegli
insoliti,
continui “ancora”.
Sfido il mio cuore
a non accelerare
i battiti
quando mi sei vicino,
e sfido la mente
a restare lucida
quando mi accarezzi.
E sfido le mie labbra
a non sorriderti
quando ti vedo arrivare,
quando mi parli,
mi guardi negli occhi
e mi sussurri dolcemente
parole che mai nessuno
ha pronunciato
per me.
E sfido il mondo
a separarci,
dopo tutte le nostre
corse,
rincorse,
dopo esserci riempiti
di carezze
là dove le nostre cicatrici
dolevano di più,
là dove nessuno,
nemmeno noi,
ha avuto la forza
di ammettere
i propri errori,
lasciandoci camminare
con sul cuore
macigni di rabbia.
Sfido,
con la consapevolezza
che stavolta
vinceremo noi.
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Ho un sogno
e questo sogno
ha due occhi
mozzafiato.
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ho bisogno di essere amata
giorno per giorno
con la stessa quantitá
e voglia
di come amo io.
non mi accontento più.
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