"Non scrivo per essere compatito dai contemporanei, né per essere ricordato dai posteri. Scrivo per imprigionare i miei trascorsi."
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Maggie
Alzati e splendi, Maggie: avrei bisogno di parlare al tuo viso delicato come zagare mosse appena dallo scirocco dell'alba. Oh, Maggie, ti sento tanto stanca, ma temo di chiedere. Vorrei sentirti ridere, ma sarebbe un tremito nel midollo spinale che non nasconde le tue preoccupazioni, ritrovarmi nel tuo sorriso al contempo caldo e freddo, come l'isola vulcanica sommersa quale sei. Poi vorrei vedere la radiazione solare stagliare sui tuoi zigomi tutte le tue notti insonni, in pieno giorno, e la modulazione di frequenza delle tue insicurezze che vibra piano e si sparge appena tra l'ecumene, senza lasciare traccia alcuna nell'aria torrida e carica di luce. Oh, Maggie, lo sento, sei a pezzi, ma non ti pongo domande. Vorrei ascoltare ascoltare il tuo respiro tuonante, carico di incertezze, soffermarmi nell'incessante flusso elettrico dei pensieri che ti oscillano dalle Ande al Circeo, senza mai sostare. Poi vorrei studiare la creatura complessa che sei, il quesito che fa interrogare il bambino sul perché il cielo sia azzurro, l'ambivalenza dell'artista nei confronti della sua opera, il volo degli uccelli che migrano verso sud per l'ornitologo. Oh, Maggie, ti percepisco tanto misteriosa quanto fragile: lascia che ti ascolti, non ho paura di te, del temporale che ti porti in ogni arteria, di tutti i problemi del cosmo dei quali ti fai carico sulle clavicole tue leggere, come fossi l'Atlante che, alla sera, fissa le lenzuola con le lenti sbarrate e spossate. Infine, vorrei vederti aprire al sole come le gazanie d'Africa, con l'odore sulla pelle di chi non ha più timore del domani, cosicché anch'io possa non perdere mai una battaglia guardandoti in volto, intenta a combattere contro l'onere degli auspici, forte più di quanto tu possa esserne pienamente consapevole.
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Deanna
Deanna stringe un rumoroso silenzio bianco tra i denti; il silenzio di chi non si lascia trasportare, ma si china sulla sua borsetta per poi perdersi, tanto vicina quanto distante, con un bagliore astrale alle sue spalle. Vorrei potesse restare di più, condurla dove io non possa udire nulla che non sia il suo respiro rallentato, controllato, proprio come in quell'istante, immune dalle leggi del tempo e delle lancette che riprendono i loro processi cacofonici, ticchettando come esplosivi. Deanna è un caleidoscopio di suoni, uno scorrere incessante di lettere dalle labbra sue, dalle quali pendo, ma non raggiungo; Mi narra di un animo che non può essere compreso con la vile parola. Lasciami scoprire chi sei, so che tu vuoi lo stesso. Cerco le sue iridi disinfettate, come falene con i lampioni, sotto il peso delle morenti luci di una città spenta. Deanna ti tiene prigioniero delle gote sue purpuree, ti mostra le sue vene d'ardesia, che vorresti si mescolassero alle tue, e porta, tra le ossa temporali, segreti che pesano come piombo. Lei è un rubino tra i carboni ardenti, l'iridescente perlaceo dentro una conchiglia, linfa nelle foglie, rugiada nel plateau notturno e silente, vento in un campo di lavanda; è sufficiente il suo sorriso cristallino a farti sentire smarrito, quando la pioggia è la tua sola compagna di viaggio. Sempre più minuta, si disperde nelle pallide carni, fredde, come lo spirito di questa notte. Ha gli occhi da bambina, ma si allontana con il portamento di una donna. Deanna è una goccia di sangue su una rosa bianca, solitaria nella bruma, solare e rifulgente nella sua melancolia; Il suo odore è una bussola che segna il Sud, una fiamma che si autoalimenta debole nella totale oscurità, un brillante bagliore che guida chi ha perso il sentiero.
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Splendida, imperfetta, fragile creatura
Scorre lento questo vento in piena, come un fiume di memorie che straripa,
impregnando di limo questa lunga, luminosa, triste giornata d'autunno,
vagante come polvere di stelle, che assaggia il tempo e rifugge lontana,
senza raggiungerti mai. Circolano le illusioni, in attesa di un calar della sera,
frenetico, che tocca il cielo e la necromassa, che oltrepassa sangue ed animi,
che ti tocca i capelli, mossi appena da brezza d'oltreoceano, che non ti consola,
stoica, prigioniera d'una spirale. Dammi il benvenuto a casa, sarò assorbito dalle
tue taglienti iridi, gladi arrugginiti, assopito dall'odore della tua pelle,
veleno d'aspide, guidato dalle tue braccia, serranti, come drosere.
Lasciati guardare: sei il mio miglior fallimento.
Guidami con la voce, avrò necessità di calpestare nuovamente la terra rigida,
annusare il battito cardiaco dei tuoi silenzi, leggere i tuoi pensieri mai
scritti, ascoltare gli sguardi vuoti e assenti, contemplare le sincretiche emozioni
che sai cedere, come atomi in allontanamento, come le cime delle case che soccombono allo sguardo e non terminano. Sono in ogni tuo respiro spezzato, in ogni lacrima stroncata a metà zigomo, nelle paure che ti rendono così unica e speciale, meraviglioso esemplare, homunculus dell'alchimista, splendida, imperfetta, fragile creatura.
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Nenia X - Delirium
Si protrae la naia, allo scorrere ciclico delle sabbie del tempo; Ciclico, come l'arrivo delle malattie, come le popolazioni che scompaiono e aumentano progressivamente il loro numero, sotto un sole sempre meno longevo, con andatura dinoccolante, cerco la spirale che mi guidi fra le altre, che mi conceda risposte, che m'illumini la via. Le parole non servono, nel qui ed ora: la tua compagnia è tutto ciò di cui necessiti; Recupera ogni tua pergamena, comprendi che, lungo il cammino per la tranquillità, il più grande ostacolo in cui puoi imbatterti sei tu stesso. Questa strada, no, non rappresenta un punto d'arrivo: è solo un passaggio. Tra le pareti della personale, eterea prigione, attendi il sorgere d'un sole nuovo, una motivazione nuova a rammentarti di conquistare te stesso; E sarà come conquistare un mondo, ma sarà il Tuo mondo. Ti chiedi se si possa annegare anche nella tua stanza, tenendo i piedi ben saldi al suolo, mentre cerchi appiglio in un sorriso che non raggiungi, che non ti appartiene, che non ti offre riparo alcuno. Ed eccoli arrivare, i frutti della mente tua, pronti ad effettuare una rivolta proprio sulla superficie di quella pelle accaldata. Cercami, lo necessito. Non lasciare che questa foresta di cemento mi deglutisca vivo. Cercami, necessito della stessa salvezza che potrei dare a te.
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Canto d’autunno
Cercami tra le luci spente d'un quartiere che non risponde mai al tuo richiamo, scava nella terra smossa come una talpa in un cimitero e ammetti di avvertire, come una fitta, la mia mancanza: e balla, aggrappata a me, come se fosse l'ultima cosa possibile rimastaci, cedi al desiderio della tua pelle contro la mia. Cercami tra le cime argentee di colline in cemento su cui giacere delicatamente, come gli imenotteri sugli ultimi fiori rimasti in un mattino rosso d'autunno inoltrato, tra gli odori di candele, anice e lavanda. Cercami tra i tuoi stessi capelli cioccolato, che ti riparano dalla solitudine come un mantello troppo corto, mentre fingi di riappropriarti di spazi che mai diverranno tuoi. Cercami tra le notti insonni, in quel soffitto che copre la volta illuminata che tanto ti allieta, ma dalla quale ti allontani. Rendimi unico.
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Rientro a casa da solo
Setaccio parole guardando la mia ombra riflessa in uno specchio, avverto un ticchettio di lancette indicanti un tempo che scorre lento, troppo lento, come sangue bollente da una piaga che non risana, nella speranza di trovare l'uscita dal labirinto a cui mi adatto. Sto tornando a casa. Il ciclico ritmo dei giorni grava, come il trillo dell'emicrania, come il fiore che, annerendo, perde il suo profumo. E m'è impossibile fissare la faccia lunare senza ripensare a quei freschi mattini confusi, alla soffocante luce del sole che attraversava le finestre, a ciò che non ho mai fatto, alle parole che non ho mai scritto, alle navi che salpano dal mio cranio e dal mio sterno, ad ogni pezzo che ho perduto, a quelle cicatrici sulle mie braccia che non necessito più. Sto tornando a casa. Trattengo il fiato nei polmoni, le dita fanno pressione sulla pelle mia raffreddata, bianca, come i suoi denti. Rientro a casa da solo.
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Nenia IX - Homo insipiens
Relegato nell'angolo più buio del tuo Paradiso, mi lasci solo nelle mie incertezze, tra i rimproveri delle Amadriadi, e resti inerme tra i suoi arti sicuri. T'attendo da tutta un'esistenza, forse anche dalla precedente; E ora che i fili delle nostre vite si sono intrecciati, dopo esserci rincorsi per aurei, aspri, campi di grano, sapresti dirmi a cosa siamo andati incontro? E in cosa potresti distinguermi, dal resto dei tuoi attori?
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Emily
Dov'è che t'ho già incontrata, Emily? Oh, certo, forse rimembro di quel tempo lontano in cui abbiamo eseguito piroette nello stesso stagno, riscaldato appena dalla tenue, ma fervente, luce solare; E tu, hai limpida in memoria quella volta in cui, aggrappati a malapena ai virgulti rami, abbiamo mostrato i canini l'un l'altra, per poi condividere gli stessi frutti, guardandoci vicendevolmente le spalle? Ancora, mi risovvengono le notti trascorse nei pressi d'un fuoco rubino che fischiava, scricchiolava, scoppiettava, crepitava in sottofondo, mentre, più alte, risuonavano nell'aere le nostre storie, i nostri miti, i nostri racconti, i nostri eroi; Attendevamo insieme per abbattere il rinoceronte lanuto, badavamo a percepire vicino il suo muggito e, nella faticosa attesa, col capo alto, m'insegnasti a rimirare gli astri; Luccicavano, a loro volta, nelle iridi tue sferiche e sveglie, acquee sotto un incontaminato tappeto di stelle. Ti ricordi, Emily, di quella nostra lite distante, delle notti bianche, delle lunghe, vuote, giornate estive trascorse a volgerci reciprocamente il pensiero, controllando una vitrea tavoletta minuta ma attendendoci vicendevolmente senza conoscerne il motivo? E se vero è che non ci si trova per caso, se vero è che si cammina, giorno dopo giorno e notte dopo notte verso qualcuno a noi affine, allora quando tutto questo avrà fine, dovesse esplodere tutto per permettere il rifiorire d'un nuovo inizio, sotto la luce lunare, sotto il rumorio delle fiamme e del gelido vento, con la stessa fiducia dell'oggi, spero che tu sarai al mio fianco nella prossima caccia.
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Sotto il segno di Mercurio
Mi riconosco in questo marchio che m'imprimi, i cui riflessi blu elettrico guidano il mio polso su questa bianca prateria pronta a macchiare le mie dita, le stesse ad imprigionare il legame al Fuoco e all'Acqua, vincolo sacro allo stendardo della Salamandra che mi dona, sotto il segno di Mercurio, la vicinanza ai miei confratelli dal sangue freddo, a quelli contigui alla salsedine, e un brillante intelletto che rivolge a te la rotta. Desidero porgere le mie mani alle tue, così che tu possa seguirne le tracce: e se dovessi essere proprio io l'oggetto sul quale investi le idee tue farò, dunque, come richiedi e non penserò a lungo, mi armerò di quel coraggio che serve per sostenere entrambe le nostre anime stanche, fino alla ricomparsa delle stelle a te sì care. Quando poggerò il cranio esausto sul grembo tuo, fammi da madre e perditi nei miei neri castagneti: non potrei chiederti di più. E nell'istante in cui nessuno canterà di noi, né per noi, estraimi i pensieri come sanguisughe dalle carni ormai violacee, conquista la tenerezza che cerchi, guerriera provata, mai esausta, incanala le energie di coloro che riappaiono soltanto dopo il tramonto, coloro a cui tutti rivolgono il naso, impossibilitati al tatto, condividila con me, corpo celeste dopo corpo celeste. Quanto dista? Dove sei?
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Nenia VIII - Ignoramus
Qui con me, c'è qualcun'altra. Carne e sangue che non sono i tuoi, all'interno di un Ecumene che non mi appartiene, mentre necessito di prendermi cura di te, disincarnata e dissacrata, debole e distante, triste e bellissima. Un filo invisibile mi trattiene, l'Omen porta all'apogeo, in cui sono dislocato, parte dell'animo tuo afflitto alle narici mie, che viaggia in una bolla, nella brezza violenta che giunge dal mare nero, poco distante. Il suo sorriso mi dilania, i suoi occhi blu non mi parlano di te, che sei nella Luna. Non permettere alle ombre evase dai miei lobi temporali di raggiungermi, fa in modo che non riescano a ritrovarmi e, se ne hai coraggio, salpa alle prime luci dell'alba, perditi con me. Sguardo basso nei riflessi smeraldini del bicchiere, sorreggo il cranio tra i palmi, rivolgerei mille domande al Demiurgo, ognuna delle quali ti vedrebbe al centro. Le ricambio il sorriso. Non sono i tuoi occhi spenti, quelli. Spenti, ma carichi di vitalità, combattenti, spalancati, carichi di lacrime salate, come l'oceano da cui provieni, scintillanti, come gli astri ferventi che ti hanno forgiata. Non ti senti riposata, e nemmeno a casa: solo in sosta asfissiante. Non devi sentirti aliena, con me.
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Vellamo Planitia
Distanti i nostri viaggi interni al labirinto cranico astrale in cui ci muoviamo, al di sotto di un soffitto che non ci giudica, anzi, ci guida all'unione delle nostre arterie e che ti rimembra di non dimostrarmi niente. Mi piaci così come sei, quando il nostro sangue, che diventa blu, si mescola. Sei una ferita disinfettata, grandine in un vasto deserto. Percepisco le tue mancanze affettive, la vicina lontananza e il modo in cui ti accasci, dolorante e insicura, nel baule della tempesta cerebrale che riconosce il modo in cui pensi che i tuoi difetti superino i tuoi pregi, da come reggi la penna con cui scrivi, stretta, tra le dita minute, ossute, rivolte ad un foglio avorio che fissi con occhi lucidi, spalancati, che sforzi. Percepisco il modo in cui respiri l'universo, come riesci a cogliere l'essenza vitale di ciò che ci circonda, con la mente rivolta alla notte, ma con l'umor acqueo fisso sulle falene attratte dalla morente luce della lampada che, a stento, t'illumina il viso spento, confuso, distratto che finisce con l'addormentarsi, carico di autocommiserazione, e reggendoti l'intestino tenue. Siamo uguali, in questo percorso: non riesco a lasciarti andare, Venere nera.
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Nenia VII - Ab Humanitate Discrepant
No, non sto bene qui seduto all'ombra delle zagare che emanano il profumo di chi, raggelato dalle notti di Luglio, necessita di attendere il ritorno alla grande ruota. No, non mi sento bene, io che al mattino avrei bisogno di parlarti incatenato a questo letto in decadimento, abbandonato, pietrificato, impossibilitato alla parvenza motoria di una falange esangue che vorrebbe stringere le lenzuola e lanciare via il macigno dai polmoni. No, non sono a mio agio, cerco di rigirarmi e riprendere il filo onirico di quell'incanto che avevo tralasciato prima di un brusco ritorno a ciò che ero stato, di quelle memorie attorno al fuoco sibilante, della lucentezza che traspariva dalle membranose ali dei pipistrelli, meramente illuminate dal bagliore di astri distanti: gli stessi a suggerirti che sarai migliore, che stai ascendendo proprio mentre pensi di esserti ancorato. E avverti l'ispido pelo della rabbia abbandonarti quando, calmo, ti accasci con le sopracciglia rivolte a stelle e pianeti. Ti conosco bene, so quanto ti perdi nel nero fumo che fluttua come torbido inchiostro di calamaro in acque incerte, che abbandoni. E, a luci soffuse, si spengono i ceri.
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La ballata dell’Omogenocene
Continua imperterrito l'addio, prolungandosi come una ferita aperta e sanguinante mentre siamo separati da un vasto oceano di palazzi scintillanti. E non avremo mai quel gatto, mia cara, a camminare silenziosamente sulle lenzuola irrorate dalla luce tenue, penetrante da uno sprazzo vitreo di un focolare domestico, ormai estinto, consistente in macerie ancora fumanti. Non ci attenderanno fresche mattine d'inverno in un letto pulito che ha vissuto la complicità di chi si è incontrato ad opera del Fato, per poi perdersi, stroncati dal volere del pulviscolo lunare. Restiamo fuori dal tempo che vede appassire le tue rose di plastica, rallentare le libellule ad orologeria e congelare il mio corpo con l'iride rivolta alle luci urbane in una notte qualunque che ci tiene distanti, in qualche punto. Accarezzo ancora, per ampi tratti, l'ombra del corpo tuo stanco, che giace addormentato sul sedile di quell'auto che ha dato il massimo per rassomigliare alla carrozza nelle tue corde, come l'ostrica appena cosciente di portare quella perla preziosa ai soli bulbi oculari di colui che gli attribuisce il valore che le spetta. E mentre resteremo in silenzio, riporteremo alla memoria di come tutti i semi al sole diverranno fiori, accettando la putrificazione del bello circostante quando, soli, cercheremo quel fiore tanto ambito in una vasta pianura interamente ricoperta da alta neve.
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Forte e sana
Forte e sana, dall'aura nero pece della quale
vorrei seguire le tracce, annusarla
come l'animale ferale che abita i
visceri dell'animo mio, nell'attesa
ineluttabile e perentoria d'essere liberato;
Forte e sana, raminga, dalle radici incerte
che cambi pelle come l'aspide che vive
nelle crepe della società, solitario e al buio,
mentre non ho ulteriore desiderio se non quello
di veder il sorgere di lune e il tramontar di soli.
Non ho ulteriore desiderio se non quello
di toccare il solstizio d'autunno
per sprofondare negli occhi spalancati tuoi,
di rapace, e non trovare più l'uscita
dalle tue rocce bianche, che allarghi,
dai tuoi salici dai riflessi neri,
le occhiaie che copri con del pesante
cielo notturno, privo di astri,
i tuoi effettori sanguigni
e l'amorevole derma pallido,
che bramo mio, lucente come ghiaccio.
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Escatologia della Natura III - Micete
Tira lento a sé l'austorio, la corda alla cui estremità è legata stretta la linfa vitale del compagno tradito, dal quale dipende tutta la sua vita. Lo pugnala, ma non troppo, mentre ingrassa a scapito di colui che ora è l'elemento debole, invertendo la Grande Piramide della vita, manipolando a proprio vantaggio la catena che traffica in carne; in corpi. E l'essere perfetto, senza rimorso né pietà, ribadisce la sua autorità, la sua essenziale funzione, il compito che nessuno vorrebbe svolgere con mezzi di cui pochi saprebbero usufruire senza mostrare le bollenti ferite della debolezza. E con un'ambizione che non conosce limiti, nemmeno quelli del fine stesso, si erge imponente senza rimorso alcuno.
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Escatologia della Natura II - Lucilia Sericata
Ancora calda la carcassa sanguinolenta sulla quale banchettano le dame smeraldine assetate del fetore di morte e dell'oscurità cieca. Danzano frenetiche e rompono il silenzio, assorbendo la decomposizione, rendendola viva e brulicante di prole necrofaga. Gioscono, le ballerine, figlie della notte, del calore e della Mietitrice.
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Escatologia della Natura I - La Venere di palude
Distesa al sole nella torba atra e luccicante, con le sue moltepilici bocche sanguinee mute e prive di labbra, se ne sta la Venere di palude, tanto silenziosa quanto immobile e paziente. La figlia del Ciclo Naturale apprezza la vita tanto quanto la morte e trova quest'ultima meravigliosa, la sua fonte di giovinezza, ciò che le permette di divenire ogni giorno più potente. Niente romperà il suo silenzio, né si stancherà di attendere per ciò che lascerà la sua essenza vitale nel suo abbraccio rosso fuoco; E ancora una volta, la bellezza mortale, digrigna i morbidi denti senza emettere respiro alcuno. Il sole annega lento nell'acquitrino, ma la Venere di palude non intende riposare fino all'arrivo del manto gelido dell'inverno; e allora poserà le sue acerbe braccia al suolo.
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