Tumgik
luigifurone · 8 hours
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87. (and gently surrender)
delle foglie è sul bordo.
scende il messaggio,
devi appassire, bisbgilia.
la foglia
che mai inverno conobbe
s’acquieta, impaurita,
vorrebbe vorrebbe,
non può.
poco alla volta,
il sogno s'è stretto;
a questo sole tu devi morire,
si dice,
semplice farti,
con un colpo in un lampo
volare sparire.
cantò lento il poeta,
alla tua ombra,
ti carezzarono occhi,
la pioggia
e la notte,
che non ebbe misura,
me devi volare
sparire.
e con dolcezza, infine,
s’arrende, la foglia;
il nervo che muore,
alla terra s’affonda,
sul suo ultimo soffio
la strofa che un giorno
passato il marciume passato il lichene
passato anche il vento passato l’inverno
mille i rivoli rivoli
nel cielo imbrunito
nascerĂ  nuova ancora;
e che quel tal giorno
ora comincia.
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luigifurone · 22 days
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86. (Ida e Dattilo)
Un po’ allontanandosi,
a poi compattare
quel vuoto, quel vento,
che non avessero casa, pareva,
cittĂ , cui reclamare
né nome né lingua.
Ida e Dattilo.
Un vortice, chi
forse una danza,
nessuno sapeva
l'esatta equazione,
né carro o rotaia
rapido del naufragare.
Che fossero rocce?
Sussurravano forse,
di periapside chiusi?
Tremavano forse
che potesse una volta
sfilacciarsi, smembrarsi,
della vela il cordame,
solo loro la vela?
Non contavano piĂą
né stelle o centurie,
solo ancora guardarsi,
senza un nome bastevole,
ancora, volevano,
ancora,
nella notte d'alcun orizzonte
Ida e Dattilo ancora.
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luigifurone · 1 month
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85. (Bach)
Mi consideri a Sua disposizione. In che modo intende violarmi? Mi scusi. Sono stato un po’ proditorio. Avrei potuto chiederLe in che modo intenda glorificarmi. O forse in che modo mi voglia tenere, magari dimesso come un bruco in un bozzolo di seta, senza che diventi l’essere alato e variopinto. In fondo, anche un bruco, un verme, grassoccio, molliccio, disgustoso agli umani, cibo inerme di uccelli e chissà che altro, senza corazza, senza nerbo, in fondo anche lui ha una sua propria dignità, una sua propria bellezza, una cifra che nell’indice è indicata con chiarezza. Pensare a quanti pensieri si pensino non è affare da poco, invece che semplicemente lasciarsi andare alla propria vermità. Pensieri innumeri, lunghi e inconsistenti quanto una vita intera, fallaci, inani, ossessivi, maniacali, filosofie, tomi e tomi di scienza, ore e ore di meditazione tutto per sfuggire alla nostra pelle glabra, ossuta nella malattia, spocchiosa e piena di cicatrici, o pustole nel peggiore dei casi: vermità. Io non ho intenzione di avanzare più pretese, forse queste sono le ultime parole che ho da dire al riguardo, deve essere solo l’otre dell’anima che s’è aperto, come se la pressione di dentro dovesse equipararsi all’aria quieta e non sofferente di fuori. Non ho intenzione di fare proclami, non comizi, ora come un frate semplice terrò la mia livrea, quale che sia, terrosa come una creta, verde come la scaglia d’un serpente, grigia come una pietra slavata dalla pioggia e dal sole, quale che sia. Andrò dove e come mi portino i miei passi, come un re, come un servo, come l’alfiere della Sua grandezza, della Sua predipsozione, del Suo ordine, del Suo flusso, e io nella corrente, senza più volere che l’acqua mi si stacchi di dosso, che mi lasci intatto e vergine, dalla nascita e da prima che nascessi. Solo abbracciarLa ed esserne abbracciato.
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luigifurone · 1 month
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84. (happy toghether)
E non avendo più la tua schiena per le mie braccia; e non avendo più i tuoi capelli, incendiati dall’aria mossa, per le mie dita; niente più sorrisi per gli occhi e labbra per le labbra; non avendo purtroppo la tua figura vista di schiena; non avendo nemmeno la tua figura distesa, a volte come se dormissi, a volte sulla pancia, con le gambe come Lolita; non avendo i ghirigori che la tua voce disegnava compita e precisa; e nemmeno la tua luccicante sfuggenza, sulla quale, come su una roccia liscia, l’onda della mia mente si ritraeva nel mare, per slanciarsene ancora, ancora una volta; non avevo più le tue gambe strette alle mie e nemmeno le tue parole, quelle semplici di quando eri stanca, spezzettata in rigagnoli di dispiacere; non avendo il tuo sesso, polposo e lucido, come muscoli di un cavallo corridore; non avendo i liquore dei tuoi occhi, traboccanti di compassione; e il tuo sudore, come un’essenza preziosa, sotto il tuo seno, mentre ci amavamo; non avendo più ore con te, non avendo minuti, non avendo quasi più sogni; non avevo più le tue guance, le tue cosce sulle mie; non avevo i tuoi modi che non finivo mai di imparare, non avevo più la tua testa che scavava e spingeva e tirava, senza avere alcuna aria di volerlo fare, e invece avevo già tutti i suoi lacci addosso e addosso i suoi cento attenti occhi, ma adesso non li avevo più; e non avendo ormai più niente, maledizione, maledizione, come faceva male, come faceva male che non dovessi avere più niente, allora ho preso tutte queste cose, le ho raccolte per bene, avendo cura che non ne mancasse nessuna, spulciando l’elenco lungo di ogni momento passato con te, le ho sistemate in un foglio di carta preziosa, e il tutto in un bauletto, chiuso, inespugnabile, un forziere, cioè, dentro di me, un forziere che a forzarlo avrebbero forzato la mia vita stessa, e quindi erano al sicuro, le avrei salvate dall’incespicare della memoria, dalla grana del tempo, e poi c’era ancora la banalità, e le pozzanghere delle voci, e i fulmini irriguardosi, Dio mio, persino del granito, e così, pensavo, io le terrò qui, dentro di me, preziose e uniche come lo sono per me, protette e curate senza che alcuna opacità le insidi, e potranno starci per sempre.
E forse era solo per salvarmi.
E pensavo di essere il loro incorruttibile custode. E che restassero inerti al mio comando. E forse era solo per salvarmi.
Ma, sai? Ho scoperto una cosa. Tutti quei brandelli, tutte quelle impalpabili pellicole, depositate lì, a mescolarsi, a richiamarsi, a giocare insieme, non volevano saperne di starsene accucciate, a giacere composte nella loro teca corazzata. Hanno cominciato a sussurrare, la loro polvere colorata è diventata lievito, e il fermento s’è fatto clamore, e non è servito più lo scrigno, figuriamoci la carta. Sono entrate poi per ogni dove, le sentivo nelle braccia, nelle labbra, nella testa, ovunque, ovunque ci fosse una molecola di me, lì, a fare festa, con ritornelli insolenti, c’erano loro. Ovunque s’accampassero, impudenti, senza permesso, anche i quieti passaggi delle mie sentinelle cessavano, buttavano le armi, ebbre di danza anche loro. E credo di aver capito, credo di aver scoperto quanto poco conti dove tu sia, magari fuori o magari dentro. Non c’è luogo, fuori o dentro di me, dove io, da te, possa salvarmi.
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luigifurone · 1 month
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83. (Memoria)
Quanta memoria vuole,
questo circo?
Vent’anni?
Trenta?
A scuotere la faccia,
rivederla nuova,
il trucco appiccicoso
finalmente
via dalla mia pelle dalla tua?
Quanta memoria chiede
questa chiarina triste,
polvere, elefanti,
trenta quarant'anni,
il baraccone l’odore del letame?
Per i tuoi occhi stupidi cattivi,
risaputi, noti
come il giorno nuovo e
la notte ch'è già sporta?
Quanta
per quello che ho bevuto,
filtrato fino all’unghia,
le parole tue le vespe,
a ronzare avvelenare,
a dire cose che altro erano sempre?
Quanto memoria chiedi,
tu afosa iprite,
dalla fossa dove
volevi io vivessi,
quant'aria da invocare?
Ma ognuno, sai,
solo muore,
e tu al tuo gioco morirai;
cercami altrove.
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luigifurone · 1 month
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82. (new gold dream)
Senz'affanno
il vento sulla vela.
Tesa la juta
ossesso il sartiame.
S'annegano le rotte,
l'ombra del giorno a venire
sfuma
scoperto fantasma.
Senza affanno
lancia gli arpioni il sole
al frangibile cristallo,
piĂą avanti agli occhi verdi,
germi del bosco.
Sferza e respiro,
così s'avvolge,
così in lacrime e faville
perpetuo sta il racconto.
Senza riparo,
uscirò:
lacrime sulla pelle, e faville,
tesa ossessa l'anima,
consacrato e
spudorato il verso.
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luigifurone · 2 months
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81. (La zuppa)
vecchio
a rimestare
certe mattine
stanca mestola
aperti gli occhi appena
sul fondo sul ferro
raccogli dividi complicare
gira mestolo gira
come vanno dicendo
forse è la saggezza
forse la follia.
con malavoglia
lascio e guardo
la mescola continua,
il fuoco le manopole adusate,
i conti giĂ  saldati.
di questo strano oliare
grumi
piccoli cocci d’ossa
filiformi fibrosi
liquido e bolle il resto.
sembra non abbia fatto altro,
da sveglio,
nato ch’ero,
rabbioso, sonnambulo,
sembra non abbia fatto altro,
come una mania.
chi non ha ci ha messo grano,
in questa zuppa chi?
quale pretesto
mai non ha saputo?
pure ci ha piovuto,
peccabile anche il tetto,
e goccia dopo goccia
io specchiavo.
e tutto d’un giorno
seduto accanto,
il braccio astenico
che posa, quasi,
tra l'ombre del chiuso lumeggiare
il gufo mormora
come il sapore mormora
quel che ci metti
quello ti ritrovi,
d’ogni dose
e cura e rivoltare,
quando è la saggezza,
quando è la follia.
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luigifurone · 2 months
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80. (Teoria del bagel)
Se tu sapessi che differenza, tra quello che vedi e quello che c’è sotto. E se sapessi, cosa c’è, sotto. Quanto non sopporto la miseria camuffata da cattiveria. Non sopporto il nulla, mascherato da vanità.
Era cominciata così, da una trasmissione leggera leggera. Di quelle che riesco a vedere perché non mi rivoltano. Di quelle che tengo in sottofondo tanto per, un ronzio che non mi fa sentire solo, quando mangio. E basta. Se appena non sono leggere, se appena hanno una qualche pretesa, se solo mirano a qualcosa, cambio. O spengo.
Era una gara tra fornai, aspiranti fornai. La questione della puntata era fare un buon bagel. E il bagel doveva avere il buco, un buco perfetto, o perlomeno buono abbastanza da farci passare un dito. Se non c’era il buco, il bagel diventava una pagnotta. E se invece era troppo largo, niente, era praticamente una ciambella.
Vedi? Vedi come il dentro delle cose sta sempre in agguato, ovunque ti giri? Era solo una trasmissione leggera, eppure è tornata il giorno dopo. Chissà come, su quali strade avrà portato la sua fiera. Era rimasta nelle vene? Stuzzicata da qualche memoria? Era il messaggero che la mia carne aspettava o qualche ciarlatano in cerca di un cliente?
Ero seduto sul divano e tu eri sdraiata sulle mie gambe, a pancia in giù, il bacino sulle cosce. Eri nuda e d’oro, come la prima volta che t’avevo vista. Ero nudo anch’io. Guardavo la tua schiena abbandonata ed il tuo magnifico culo. Mi venne in mente il bagel. “Voglio vedere se il tuo culo è un bagel perfetto. Ci deve passare un dito.”
Non dicesti nulla. Eri morta della mia stessa morte. La tua carne era mia, la mia vita eri tu.
Cominciai a massaggiarti il buchetto. Ti sentivo sussultare, dolcemente.
Non voglio niente, da te. Magari solo la punta delle tue dita. Magari soffiami appena tra la pelle ed i vestiti. Perché tu sei questo, per me, un soffio dove finisce la mia pelle, prima che cominci il mondo. Sei lì, su ogni pelo, su ogni goccia che si forma, su ogni macchia. Sei sulle unghie, che ti sentono per quel poco che sentono.
Ero come una farfalla e tu eri il versarsi del vulcano. Eri tutta brace, viola, arancione. Mi avvicinavo, sì, ma come bruciavi. Ci avrei lasciato le ali e le antenne e tanto ci avrei lasciato ogni cosa. Mi avvicinavo e mi bruciavi e, quando sentivo la secchezza virare alla fiamma, provavo a rialzarmi dove c’era l’aria fresca, e anche la vita, forse. Ne stavo perdendo cognizione.
Solo la punta delle tue dita, per me. Solo averti addosso, prima del resto.
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luigifurone · 2 months
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79. (PasserĂ )
PasserĂ  la febbre.
M’hanno detto che
invece è tutto,
è questione di tempo,
sfaldandosi i muri le ore
crollerĂ  la casa,
crollerò anch’io.
E hanno ragione,
maledetti,
devono aver ragione loro,
i loro esatti regoli,
le loro litanie,
degli avi degli avi.
Ma la febbre passerĂ .
Mi sarebbe bastato
appena un giardino
dove l’occhio mi finisce,
le api, il vento.
Non chiedevo che
aspettare antares,
il respiro come calma parola,
due gocce d’oro.
PasserĂ  la febbre, passerĂ ,
mi prenderĂ , forse,
ma passerĂ .
Abbraccio questa sera,
aperte le braccia,
aperte,
aperta la porta,
ospite ognuno.
PasserĂ  la febbre e
non voglio maledire,
questa sera,
non chiedo,
che sia.
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luigifurone · 2 months
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78. (Brandelli)
Contando i brandelli,
così mi trovi,
 della mia vita,
di te.
C’è un urlo fuori
che qui zittisce,
scivola placida l’onda,
porta te,
a brandelli,
falde accese a urlare di piĂą.
Ti rivedo,
vera da non capirci
quanto vera tu sia,
senza uno sfregio,
l’offesa che ti tocchi,
che rubi la parte,
la tua.
A brandelli come foglie
minute d’età,
ampie d’ombra,
ed io eccomi qui,
quanto posso ti raccolgo.
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luigifurone · 2 months
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77. (21 lettere)
sono solo 21 e
tutto qui fuori è così
senza confine, e
non so, io, quanto potrò.
qualcuna l’ho messa
- era il rivo, poco oltre,
erano colonne o pietre
non scarnite,
oppure era che sudavo
l’anima, i giorni migliori,
forse,
era niente a volte -.
ma non cerco piĂą
Il segreto,
nemmeno le sue mani, dio mio,
nemmeno le sue mani;
solo le metto appresso,
mosaico strano,
come mangiare perché
devo reggermi, devo lavorare,
e qualcosa ci deve stare,
laggiĂą dove
se non si fa magia
però si vive,
lacrime e tosco in bocca,
o anche miele e melassa,
dove di 21
si farĂ  una storia
che la notte
zitta, notte, ascolta.
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luigifurone · 2 months
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76. (Fumo)
Era mezz’ora che suonava. Il piano era vicino alla tenda verde. Ci aveva messo un po’ per decidersi a cominciare. Gli esercizi erano difficili. Ma era più che altro che non ne aveva voglia. Non aveva voglia di niente. Le nuvole si contendevano il cielo e la gente fuori sembrava tutta presa dall’andare a casa. Il divano sarebbe stata una buona opzione. Andare in cucina a prendere dei biscotti e fare delle briciole mentre il giorno andava via. Restare a svernare per quella sera e il giorno dopo, se fosse servito. Forse sarebbe servito qualcosa in più, ma sperava che non fossero anni.
Era mezz’ora che suonava. Fuori c’era una pioggia che non sapeva di niente e neanche il sole. S’era decisa a fare gli esercizi perché lo sgabello vicino al piano era più vicino della porta della cucina. E poi non le andava di sentire l’odore del divano. Meglio quello dei tasti. Le dita erano pigre, lei era pigra. Dopo mezz’ora di martelletti il cervello s’era un pochino spento. Seguiva a memoria le note come stesse scivolando su un fiume. Ogni tanto doveva riprendere le mani, ogni tanto stavano per andarsene. Doveva essere così, vivere. Battere i tasti con una certa costanza, una certa ottusa attitudine.
Sicché non ne ebbe una precisa coscienza, quando successe. Se ne accorse dopo. Solo dopo si ricordò che mentre suonava aveva avuto una strana sensazione. Come un fumo poco denso, confuso lì per lì con qualcos’altro, un capogiro, un calo della vista. Un momentaneo calo della vista. Non smise neppure di suonare, rallentò solo l’esecuzione, e la cosa si dissolse.
Fu dopo un altro quarto d’ora, ormai fusa con la composizione, che non poté più dubitarne. La nebbiolina riprese ad uscire dal pianoforte. Non si spaventò. Era curiosa di quel fumo impalpabile da quelle parti. Non c’era fiamma, né dentro al piano, né fuori. Andò a controllare in cucina e non trovò nulla. Gironzolò per casa e stessa cosa. Provò persino ad aprire la finestra, ma nella strada punzecchiata dalle gocce scorreva l’identica indifferenza di prima. E poi quel fumo profumava, non sapeva di bruciato. Di cosa profumasse non avrebbe saputo dirlo. Era un profumo buono e di buono aveva anche che l’aveva salvata da quel pomeriggio atono. Che fosse impazzita poteva essere, forse anche lei si stava dissolvendo, come la sua vita. Di quei brandelli scollegati il sogno stava facendo incetta.
Quella fu la prima volta.
Ma l’apparizione finì lì, una specie di assaggio, informale. Un presagio. Il mese successivo era una giornata completamente diversa, almeno per il tempo. Appena tornata dal centro, s’era tolta il maglioncino perché certamente faceva caldo. Il concerto cominciava a profilarsi, restava l’incertezza della sala. C’era ancora abbastanza tempo, però, per cui non sentiva l’agitazione. Anche oggi avrebbe avuto una routine abbastanza monotona. Mangiò un cioccolatino e ne portò un altro da tenere in caso di emergenza. Le piaceva quella carta stagnola, quel luccicare innocente. Le sarebbe piaciuto essere così, un innocente luccicare. Piuttosto che il pezzo perso da qualche nave, nelle innumerevoli viuzze del mare.
Quando prese forma, lasciò che fosse. Lasciò andare le mani, la musica, e fece il salto, lasciò andare anche il fumo. Non voleva neppure sapere cosa fosse. Per un attimo sentì che poteva opporsi, tentare un pensiero, iniziare a respirare come se lo volesse, oppure tirare dritta. Come quando ci si tuffa dall’altezza che spaventa, che mezzo passo d’attesa è già troppo. Continuò, con l’anima ferma, immobile. Neanche un esercito di scorpioni, ora, avrebbe potuto toccarla, neanche un bombardiere, neppure diecimila occhi. Lasciò il fumo ad ispessirsi, a disegnare l’anima di quei dettagli così estranei. Quando il disegno fu completo, si mescolò con l’armonia che le sue dita andavano disegnando. Non osò interrompersi, non osò guardarlo in volto, sempre che un volto ci fosse stato, là sopra, oltre il ventre calmo ed il petto composto.
Poi, delicatamente, smise di suonare. Sembrava che la stessa musica lo chiedesse, di fermarsi appena, di aspettare. Il fumo non si contrasse, l’essere che s’era appoggiato al pianoforte restava, distese anzi una gamba, poggiò una mano sul ginocchio. Aveva un volto, aveva due occhi, era un uomo. Lei s’alzò, finse quasi di non averlo notato, finse di doversi avvicinare alla finestra a guardare la strada inetta. Cercò nel riflesso del vetro una conferma alla sua follia, ma non ne trovò. Si girò, lui era scomparso.
I giorni si mettevano uno sull’altro. Lei non sapeva spiegarsi nulla. Né cosa avesse visto, né se fosse un sogno o una malattia. Soprattutto non sapeva spiegarsi quel senso di pace che aveva provato. E poi quel desiderio, quella sete. Non avrebbe chiesto nessun consulto, non voleva un dottore, non voleva un esperto. Voleva solo vivere quella cosa, voleva solo che quella fosse la sua vita, senza intrusioni. C’era stata una dolcezza, in quel momento, che non riusciva a decifrare e neppure lo voleva; chiedeva solo di incontrarla di nuovo. Forse sarebbe servito qualcosa di simile ad una preghiera, ma s’era risolta a non farlo; lui sarebbe semplicemente tornato, se ne avesse avuto voglia. Doveva essere così.
Non uscì di casa tanto spesso, nei primi tempi. Il fumo s’era dissolto com’era venuto, senza un’apparente ragione, senza lasciare tracce, macchie, scie. Tranne che dentro, dove s’agitava ancora, come s’agitano i sogni che la notte non riesce a contenere e continuano a gridare nella piena luce del mattino.
Provò a suonare ancora, con più impegno, senza risultati. Una volta si ritrovò a piangere. Pensava a quell’uomo che avrebbe voluto rivestire di carne. Oppure si sarebbe volentieri legata a lui fino a diventare fumo e a seguirlo in quel mondo che scompariva dietro le note, dietro il paravento dell’aria tanto conosciuta. Sapeva quanto folle fosse. Era folle, certo. Era insano. Era tutto ciò contro cui chiunque, lei stessa compresa, avrebbe potuto obiettare, ed a ragione. Eppure, contro questa monumentale parete, stava ciò che teneva nel ventre. Una assurda pienezza. Qualcosa senza la quale supponeva di non poter resistere, di non poter vivere con soddisfazione. Qualcosa che ancora non era riuscita a stringere e che disperava di poter incontrare nei sentieri che andava calpestando. Forse valeva la pena di viverla, questla follia, forse era il suo destino, un destino poco credibile, ma vero, nella stessa identica misura.
Lo incontrò ancora due volte, e una volta si sorrisero. Era un sorriso così intimo, che non chiedeva altro. Meno che mai parole. Forse nemmeno carne. Era una specie di riconoscimento, una specie di risposta. Come fossero state rocce lanciate a rincorrersi per l’universo, per traiettorie eccentriche, per il gioco di qualche divinità. Ora s’erano ritrovati.
La vita scorreva loro accanto come un pretesto. Lo vide ancora una volta e poi più niente, per vent’anni. L’ultima volta, capì che non l’avrebbe più rivisto. Non lo aveva mai dimenticato, sarebbe stato impossibile, eppure non le dispiaceva, che quella strana storia finisse, quel giorno. Se ne accorse: era guarita. Era già guarita, da quando l'aveva incontrato. Lui era stato la cura.
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luigifurone · 2 months
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75. (Neanche uno iota di te)
Che non ne perda uno,
nessuno che vada dimenticato,
nessuno che mi scivoli addosso,
sulla buccia umida pavida,
nessuno iota di te che mi sfugga,
io voglio,
io chiedo,
come una falce apri i solchi,
né uno iota della pelle, né dei capelli,
sii il vomere, spacca la zolla quand’è dura,
io questo voglio, che tu mi stia dentro,
né uno iota del tuo sorriso
né dei tuoi singoli denti
né delle tue dita
che non rimanga sconosciuto
che non rimanga intatto alla mia vita
nessuno iota mai di te
nessuno iota mai.
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luigifurone · 2 months
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74. (Lei)
Guardavo le vetrine di là dal finestrone del tram. Le vetrine si mescolavano con gli alberi, zone chiare a zone scure. La città non era caotica come al solito, il traffico me lo immaginavo sulle strade del mare, la coda ai mercatini vicino alle spiagge, panini e un po’ di prosciutto. Qui viveva invece una specie di abbandono, come se la città fosse un animale ferito, occupato a leccarsi ferite lunghe di mesi.
Il sottofondo delle mie emozioni era un velo di sudore sule braccia, la voglia di sedermi al bar e bere qualcosa. Ogni tanto, negli spiragli delle piazze, si apriva la visione su qualche immobile chiesa. Là sì che si sarebbe stati al fresco. Le facciate delle chiese facevano respirare, quel tanto che bastava prima di ripiombare nella routine di negozi e rivendite. Qualche bambino cercava la felicità giocando nel parco. Un cane se ne sbatteva, andava. Poi entrò lei.
Aveva un vestito di lino bianco, bianca la giacca leggera, e i sandali neri. Era semplicissima. La guardai per un attimo, il tempo di entrare anch’io nei suoi occhi. La mia strada finiva poco dopo, dietro il palazzo marrone il tram svoltava a destra e sarei sceso. Avrei voluto farmi qualche altra fermata, così, tanto per godermi ancora il modo in cui era seduta. Cominciai con l’alzarmi, mi feci vicino a lei, ma, nel momento in cui avrebbe potuto guardarmi, si girò da un’altra parte. E allora si aprirono le porte ed io scesi, trascinato dal risucchio dell’afa.
Mi aspettava un marciapiede, le poche persone ancora in giro e l’aria stanca di quella mattina di luglio. Avevo due commissioni da fare, la prima se ne andò in cinque minuti. Più di tutto mi piaceva la città, che restava. Restava a dispetto di chi era via, di chi parlava di andarci, in vacanza, di chi era appena tornato. A dispetto di chi non ci poteva andare, ma avrebbe tanto voluto. Come se non ci fosse altro.
I palazzi, le strade, sembravano invece invitare ognuno ad andarsene. Le case ed i viali sarebbero rimasti soli, sì, ma senza mestizia. Soli come chi non ha da sperare dalle ferie, se ne sta solo a guardare, a resistere. Soli come me.
La seconda commissione richiese un supplemento di tempo. Il tipo che cercavo non c’era ancora, forse potevo trovarlo dopo tre quarti d’ora. Di aspettare lì non se ne parlava, cominciai a girare, tra l’altro quella era una zona che non conoscevo. I muri avevano un muso grigio che sapeva di Ottocento. Un’officina, una copisteria, due ragazzi di colore. Meno male che camminavo all’ombra. Poi un dehor che non sembrava male; potevo fermarmi a bere qualcosa. Decisi di entrare, perché l’interno del locale aveva un’oscurità che sapeva di pace. Era il legno alle pareti. Mi sedetti ad un tavolino, e proprio quando mi stavo poggiando sulla sedia, ecco, di nuovo, lei, un tavolino più in là.
Chissà perché. Aveva un caffè, leggeva qualcosa, dei fogli, pratiche. Aveva tolto la giacca, anche le spalle erano bellissime. Forse aveva la voce brutta. Eh sì, doveva avere per forza la voce bruttissima, un grugnito, qualcosa. Qualcosa che la rendesse dimenticabile, che ancora non avevo scoperto. E poi, dopo due mesi a farci l’amore, sarebbe diventata un’abitudine, anche lei. Facevo calcoli perché immaginavo che lei potesse essere una condanna. La mia condanna.
Presi un caffè anch’io. Continuavo a guardarla. Adesso avrei inventato qualcosa per parlarle.
La guardai ancora un po’. Da qualche parte, fuori, c’era il mio impegno, mezz’ora era già passata, da qualche parte la gente si copriva d’olio, il sole bruciava le foglie, le strade sbuffavano, gli impiegati superstiti aprivano le finestre come fossero in un manicomio. Da qualche parte altrove ci si accalcava, le cose si mettevano una appresso all’altra, mescolate, come se fossero cadute dall’alto in una macina. Da qualche parte fuori era restato anche un certo io, la parte di me cui di solito sopravvivevo.
Qui, invece, c’era lei.
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luigifurone · 2 months
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73. (Pink Obsession)
Come polpi scomposti in una nassa,
scomposte le tue braccia e le mie,
i pensieri dove?
Questa colla lo dice,
che non dobbiamo andare,
che pure morti così la pelle è una.
Incrocio una mentos dopo l’altra,
anguria mela arancia ribes chissĂ ,
che masticando non sbuchi fuori,
qualcosa,
magari capire magari tu,
magari capirci qualcosa,
magari trovare te
e invece no,
tu e la vita nascosti dentro al guscio dentro al mare,
io pazza sentinella tra i gigli a respirare.
Ed è che sognarti è complicato.
Perché allucinando ti ritrovo
in un embrione di collant,
perché il piacere sognato non finisce,
imbrigliato in una nassa la fame saziata non sazia.
Perché perché perché.
Un milione di perché per annusarti il braccio.
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luigifurone · 3 months
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72. (Lontano)
Non ti piace, eh?
Lo so cosa vuoi. Tu vuoi solo chicchi croccanti di melograno, sotto i denti.
E il succo che esce e sbava e ti colora il colletto, dopo aver colorato le labbra.
Sangue e latte.
Sangue e latte.
E forse un nastro di raso blu.
Peccato che io stia per morire. Non tutto. Una parte di me sta per andarsene, una parte che assorbirĂ  il resto.
Devo andarmene un po’ lassù, tra le stelle. In un posto solido come un gas immobile. E’ un posto dove arriva solo qualche canzone, solo qualche accordo, le altre cose, anche le parole, anche le mani, fanno fatica ad entrare. Se mai ci riescono.
E poi non lo so.
Non lo so se tornerò. Se tornerò ad avere quei sorrisi che dicevi t’incantassero, e quegli occhi che dicevi non vedere quando finissero. Non erano loro a non finire, in realtà. In realtà cercavano, spingevano, grattavano come una talpa e meno male che avevi un’anima profonda. Feconda. Nei miei occhi vedevi solo quello che trovavo e prendevo, senza ritegno, in te.
Ma sì, ma sì che tornerò. Tutto deve finire bene, no?
Come l’inverno, come la crosta dura e ghiacciata, quella che insieme abbiamo letto tante volte, e abbiamo accarezzato con gli occhi di vetro, ecco, come quella cosa che ti sta di fronte solo per sbatterci contro, se hai voglia di romperti la faccia, ecco, come quella cosa, anche quella cosa, anche quella cosa deve avere qualcos’altro sotto.
Sangue e latte.
E un nastro di raso blu.
Sono tra le stelle. Queste sono chicchi d’argento. Il nastro blu è un lago e i chicchi d’argento sono i pesci e io ci sto dentro, come un’alga strappata che la corrente dei colpi di coda tiene bassa. Oh, lo vedessi il tuo latte. Potessi vedere il bianco e i disegni che il sangue versato ci fa dentro. Una goccia di vita.
Lasciami stare. Tanto non c’è. Lasciami stare. 
E però mi dispiace che la tua voce muoia, qui in fondo. Mi dispiace che l’eco s’anneghi in queste molecole dense. Così dense fitte e forti.
Uscirò,
uscirò lo giuro.
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luigifurone · 3 months
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71. (Scavando)
Continuano gli scavi,
pomeriggio di luglio,
erba secca e cicale,
polvere in bocca,
bocca salata e acqua,
X.
Una piccola tessera sbuca,
chissà dov’eri,
qual era lo spartito, chissĂ ,
ma intanto tu,
di te, una piccola tessera,
X.
Chino per terra,
o in piedi, a prender fiato,
intanto piccoli veli,
schegge di memoria,
fotogrammi d’una sera a venire,
intanto tu,
X.
Vasto il programma,
tutta mia l’area e
senza tempo scavo e scavo e scavo,
un bracciolo s’alza compatto,
ansa d’anfora,
ansa delle tue braccia,
X.
Segno ogni particola,
non mi spaventa questo sole di luglio,
ma il tuo, dentro, sì,
che lo lascio bruciare
perché da solo brucia,
X.
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