Tumgik
millepiccolinsetti · 3 months
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Tornado touches down behind this abandoned homestead on the Colorado Palmer Divide on June 4, 2015; Eric Hurst
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millepiccolinsetti · 5 years
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dea dei concessionari, figlia dei form factor aerodinamici, luna che riflette sugli spazi affittati metropolitani, creatura che risponde al fischio dei treni, e raggio estivo sul suolo di province in cui hai risieduto, tu che di nome fai Ultima Occasione: ultima sì, ma per pietà. ascoltami. la rotta incrociata dei tram milanesi, vista dall'alto, è la mappa segreta che ci invita a una caccia di cui tu sei il tesoro. tu, smemorata anima bianca, soffio di vento tra i capelli delle bambine, nuvola fissa di questo mondo scuro, tu, che stai nel mezzo tra un clack della bomba innescata e un boom della bomba esplosa, tu che sei il tiro parabolico, la curvatura massima nello spazio, io che sono la corsa di un militare che fugge a nascondersi in trincea. tu che delle bambine sei il vento che scompiglia la loro nuova pettinatura, ma anche lo zampettare dinoccolato, la spontaneità di gesti piccoli, tu che esprimi il tuo amore donando oggetti rari come fanno gli uccelli nella gara dell’accoppiamento, planando sul mondo e cercando ciò che scintilla di più. tu che menti in una stanza gelida affacciata sul mare. tu, finzione crudele, e io, nel silenzio di una stanza sterile e color panna, in attesa che lo squillo smetta di ripetersi. non rispondi, o se rispondi parli a monosillabi, e dimentichi pure il mio nome, da dove vengo, se ti interesso oppure no. presto sarà estate: è una verità assoluta. lavorerai sulle spiagge, monterai lettini, preparerai cocktail per volti esteri o di regioni lontane. rinascerai abbronzata da queste ceneri saline, dai rigonfiamenti di queste onde infinite, nelle crepe degli scogli che tanto abbondano nei nostri mari, negli schiamazzi dei bambini, e in questo vorticoso dialogarsi di frazioni di vite vacanziere mi dimenticherai per un lasso di tempo breve che ha il sapore dell’eternità. ti innamorerai di occhi azzurri tedeschi, di archi nell’aria di tuffi inglesi, di litanie melodiose di francesi all’angolo del bar, e bacerai, amerai con tutta forza, senza freni. sarai libera, tra il lancio da una rupe e l’approdo soffice in un lago di lana. sarai dolce, bella, sincera, rossa in volto, cresciuta, lontana, pungente al contatto mio come un riccio che non si fida, velenosa come la pelle di una rana, in due parole: finalmente umana. queste chiamate che sono come vetri offuscati, vetri dai quali lo spettatore vede il protagonista e non viceversa, queste chiamate che perdono i pezzi per il segnale debole, queste parole, segnali di decibel, che si disperdono nell’azzurro piatto della pianura padana, che si mischiano coi fumi elettrici e tossici delle fabbriche, queste parole di cui dimentichiamo il significato, che non diciamo. è giugno e aspettiamo che qualcuno venga a reciderci: non c’è nient’altro, ma è abbastanza per piangere.
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millepiccolinsetti · 5 years
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tu ci sei e arrivi con un rasoio affilato nelle mie giornate. il taglio è deciso, netto, irrevocabile, profondo abbastanza per stuzzicare la recisione di una vena vitale, solo per terrorizzarmi. sei un buongiorno, un buonasera, un occhi dolci, un alzarsi per spegnersi la luce, una ciocca di capelli che sfugge all’orecchio. sei una scia che lasci mentre cammini, le porte cigolanti della metropolitana, il tonfo che fanno mentre si chiudono. la morte degli animali di campagna sul ciglio della strada, un ticchettio di orologi minimamente sfasato, una palette di colori tenue, un saluto, eccomi, buongiorno, buonasera, la mano che viene alzata al cielo per essere agitata a destra e a sinistra. una cometa mobile e confusa travestita da stella polare che fa perdere la strada a chi guida le navi nell'oceano. un occhi aperti, grandi, che attendono. un doppio di labbra schiuse, che attendono. una voce lontana, ingabbiata in queste mura coi nomi di mesi. un angelo vestito di bianco votato alla fuga. instauro un dialogo. la preghiera non è abbastanza. posso comunicare solo a frequenze inaudibili l'uno dall'altr*, come cani e gatti, pantere e delfini. si dice che alcuni animali delle caverne profonde parlino al muro e lo facciano tremare di suoni simbolici microscopici cosicché gli altri loro simili, lontani chilometriche distanze, possano percepirli. la natura è messaggera e allora lascio che i discorsi defluiscano nello scarico del lavandino, che ribollano nelle pentole sul fuoco, che si perdano nei passi delle strade vuote. non conta la quantità delle stagioni ma l'intensità del colore delle foglie degli alberi. conta il pensiero. sei il copriletto che si disfa sempre, al mattino, e sveste un letto ora nudo e rancido. sei un lampione che non si accende in un quartiere di malavita. sei le squame di banchi di pesci piccoli e rossi che scintillano a contatto col raggio di luce del faro. sei un’alba virtuale e semplice di un terrazzo di provincia. sei un discorso che non si dà una pace, che non trova conclusione. gira e gira, gira e gira, gira che ti rigira, torna sempre allo stesso punto, e ci prova e ci riprova a trovare un finale, ma non lo raggiunge mai. questo discorso balbettato, tremolante, come le frasi dei bambini quando imparano a disegnare sui fogli con le righe grosse, che piano piano si storcono come i rami spezzati invernali, convergono verso l’abisso della fine della pagina.
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millepiccolinsetti · 5 years
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a gianluca piacevano diverse cose. raccogliere le rane più minute, portarle in casa, in cucina, mentre sua nonna cucinava, e spaventarla. inginocchiarsi sulla terra con daniele, nel bel mezzo del bosco, e far arrampicare le formiche sul polpastrello dell’indice e poi appoggiarle sulla lingua, per mangiarle. erano dolci e scoppiettavano come le caramelle frizzanti al limone. fare la lotta con daniele con le spade di legno, i legnetti, le bacche delle siepi, le cerbottane improvvisate, le pistole di plastica, oppure con le mani, spingendosi e stringendosi e tirando qualche schiaffo e pugno ma per finta, con estrema attenzione, per non farsi davvero male, cercando di evitare di rompersi qualcosa. era rimasto traumatizzato da quella caduta al lago. un lancio di dodici metri da una scogliera alla vista dei suoi genitori. l’hanno fatto tutti, dicevano, al laghetto lucinasco si buttano tutti, dicevano, dalla scoglierina, gianluca! lo fanno poi tutti, non è nulla di che. basta chiudere gli occhi, e non pensare a niente. chiudi gli occhietti, gianluca. è poi solo un attimo. quel giorno erano in fila, lui e daniele. prima di loro una bambina, elena, bionda e riccia. di lei vedevano solo i suoi capelli che scintillavano al sole d’agosto. si è lanciata con grazia. un salto grazioso, dicevano i genitori dalla spiaggia, così ne ho visti proprio pochi, di solito sono più imbranati. la andavano ad abbracciare mentre si portava in salvo sulla riva. sei stata bravissima, elena, hai un futuro da tuffatrice, e intanto le poggiavano l’asciugamano sulle spalle come si fa coi sopravvissuti a un incendio o a un terremoto, e lei piangeva, e si soffiava il naso stringendo le narici con le dita. si salta dove c’è la statua della madonna alla quale, una volta, hanno mozzato la testa. è un rito che viene passato di generazione in generazione. non si tratta di coraggio (anche se il coraggio è un prerequisito fondamentale), né di passaggio a un’età adulta (anche se, in effetti, dopo il salto dicevano tutti di sentirsi qualche centimetro in più nelle ossa; di aver visto la mattina dopo, controllandosi allo specchio, qualche capello bianco): era una sorta di battesimo. una pulizia dei peccati, addirittura, un sacrificio per maria e agli occhi di maria, che sbiadita dai decenni, scolorita dalle intemperie, vestita di un rosa pallido e macchiata di blu sul fazzoletto poggiato sul capo, tiene le mani giunte in preghiera e rivolge uno sguardo addolorato davanti a sé, alla piccola conca dove il ragazzino o la ragazzina si getterà. tutti i suoi 35 centimetri di statua di pietra scolpita incutono timore, e lo sguardo della santa ti tiene d’occhio, che se ti ritiri all’ultimo, se hai un’esitazione, se lo ricorderà, lo dirà a dio, o ad altri santi come san paolo o san francesco, e poi si sa, va come non va e la voce si diffonde in tutti gli angoli dell’altro mondo e se ti va male finisce che se ne parla pure all’inferno, dove i diavoli pervertiti e malvagi escogitano degli scherzetti e ti portano via le coperte di notte, o ti fanno trovare i vermi nella mela, o ti fanno inciampare dalle scale. non c’è nulla su cui scherzare. il salto va fatto, senza se e senza ma, e poi sono loro, i genitori, che ti obbligano: loro stessi che l’hanno fatto decine di anni prima ti tengono la manina prima della salita, prima del patibolo. e se non salto, daniè? che succede? succede che poi la madonna lo dice ai santi che lo dicono agli angeli che lo dicono ai demoni e ai diavoli che di notte ti prendono dalle gambe e ti fanno fare un giretto in pigiama sulle alpi a meno cinquanta gradi. vabbè, ok. attendono al patibolo, gianluca e daniele. si guardano intorno, aspettano il loro turno, che arriva presto. riescono a sentire solo il rumore del corpicino di elena a contatto con l’acqua, il fragore degli schizzi. gianluca guarda la madonna. è sempre lì, al riparo sotto un tettuccio di legno, col suo sguardo affranto, e aspetta il famoso salto. c’è un attimo di esitazione, poi i piedi sono già sul bilico della conca. i genitori sono punti lontani, sfocati, delle pennellate sulla distesa puntinistica di pietre grigie, agitano la mano, si sbracciano, si fanno notare in un mare d’altri genitori in gran parte presenti per il salto del proprio figlio, in piccola parte per partecipare a quel rito collettivo da terzi esterni. chiudi gli occhietti, gianluca, e andrà tutto bene. dura un secondo, il salto. non c’è da aver paura. durante il salto non esitare. non temere. non pensare che possa succedere nulla di male, perché le profezie si avverano. capisci? gianluca si lancia. nel lancio pensa a cose mostruose, al suo corpo tagliato a metà da una pietra appuntita, alla gamba che con uno spostamento d’aria rotea su se stessa e si stacca dal corpo e sparisce all’orizzonte volteggiando come le pale di un elicottero, pensa all’acqua che nell’immaginazione fervida del ragazzino è diventata un muro ostile di cemento armato pronto a spappolarlo da vivo, a lasciarlo cosciente per quei trenta, quaranta secondi, abbastanza per vedere tutta la sua breve vita davanti a sé, per pentirsi degli scherzi alla nonna e per la fauna di formiche decimate nel bosco. gli attimi successivi sono confusi. all’improvviso è in alto, quasi sulle nuvole, e vede una scia di sangue nel mare, vede i genitori che da pennellate sulla spiaggia si trasformano droni di guerra che volano rapidi sullo specchio dell’acqua, e raccolgono il suo corpicino simile a un manichino per quanto è inanimato e gelido, e vede lo squarcio sulla gamba che ai suoi occhi è come la fontana della piazza del paese tanto spruzza sangue e tanto gli spruzzi sembrano avere una coerenza geometrica gradevole, studiata. e vede danielino che piange, corre dalla mamma, quasi scivola dalla discesa. qualcuno urla di chiamare l’ambulanza, c’è un gran trambusto, le persone si scambiano di posto, corrono frenetiche come le formiche quando si accorgono del pericolo umano. da sopra, racconta gianluca a danielino, sembrava tutto più pacifico. sapevo che stavo per morire e che mi faceva male tutto, ma non m’importava. sembrava avere tutto un senso. poi è apparso il demonio. ora non penso sia normale, ma quando ero lassù lo sembrava. mi ha detto: l’angelo dice che non hai saltato bene, come mai? ho avuto paura, signor demonio. e perché hai avuto paura, gianluca? sentiamo. perché ho pensato che sarebbe apparso un muro di cemento, e che le pietre sarebbero diventate tutte appuntite, e che il vento avrebbe reso la mia gamba una pala di un elicottero. gianluca, vuoi bene alla tua mamma? sì. e a tuo papà? non lo so. certe volte non è a casa. e cosa vorresti dire al tuo papà, gianluca? che gli voglio bene, ma non capisco perché a volte non è a casa. anche papà ha sbagliato il salto, da ragazzino. pensava che ad attenderlo nelle profondità del mare ci sarebbe stato un portale che l’avrebbe rigettato tutto vestito e asciugato sul letto del suo ex collegio. è un timore che vi portate dietro come un compagno di viaggio, dice il demonio. questo cane infervorato e violento chiamato dna. questa nube tossica del dolore che vi annulla, vi centrifuga, vi rende schiavi di una parola indicibile che vi frulla nel cervello finché siete coscienti, e che si ripresenta come una serpe, come un’anziana impazzita che brandisce un coltello, come un alieno che vi trasporta nella sua navicella, nella stanza delle torture, come una vecchia fidanzata che fa capolino nel mondo onirico per amarvi per un’ultima volta. questo mondo in cui non sembrate appartenere, in cui vi muovete senza muovere foglia, sottili come chicchi di riso. questo mondo in cui sopravvivete camminando coi gomiti, come i militari nei percorsi di guerra. questo mondo in cui l’amore è paura, la pace è paura, la felicità è paura, l’esistenza è paura, il salto è paura, il sangue, gli schizzi, la barella, l’ambulanza, l’ospedale, l’intervento d’emergenza, il battito che torna regolare, i giorni d’attesa, il cibo neutro della mensa fatto di minestrine, pasta in bianco, fettine di carne smunte, il ritorno a casa e quegli sguardi disperati nel vuoto, il salto che non è andato a buon fine, di padre in figlio sembra che qualcosa dovrebbe migliorare ma non migliora e il salto squarcia la pelle e rimane solo quello a imperitura memoria, perché il salto non si ripete, rimane unico, insostituibile, ci possono essere altri salti, altrove, sì, in altre province, ma il primo è un certificato, una sentenza. posso tornare a giocare nel bosco, demonio? puoi, gianluca. dà un bacio alla mamma. e poi sono tornato qua nel bosco, per farla breve. dall’alto anche la vita delle formiche sembra avere senso, no, daniele? per loro dev’essere tutto un gran casino, pensaci un po’. spesso guardano solo il sedere della formica che gli sta davanti per ore. noi comprendiamo lo schema più grande, il lavoro di una colonia, le strade che percorrono precise da far paura per andare a prendere il cibo, le gerarchie, chi comanda, chi sta più sotto. ma per una formica la vita dev’essere proprio un inferno, no? vedere solo il culo di quella che gli sta davanti per ore. da pazzi. ne prende una sul polpastrello, gianluca, e la poggia sulla lingua. la sente scoppiettare tra i molari. è dolce. 
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millepiccolinsetti · 5 years
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le ali degli angeli
delle cento suture che hai inflitto al mio corpo
solo una ricorda il tuo volto.
sottile, piuma, docile
sibila il nome e il cognome
che vestivi
nei dintorni di questi appartamenti,
accompagnata dal vento,
guidata dai fiumi
dell'allerta rossa
è nel filo d'inciampo del giorno,
nella segnaletica,
nelle domeniche che passano
in fretta,
nell'odore del glicine
che la ferita, sovraumana,
si riapre
e lascia dialogare
le viscere
di pensieri innominabili
di quanto, per esempio
l'angelo possa sopravvivere
con un'ala sola
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millepiccolinsetti · 5 years
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se solo il parlottare dei morti non riducesse la tua risata a un sibilo, se solo nella sabbia vorticosa tenti il volo davanti al mio occhio vivido, se solo fantasma alato che non coglie differenze tra orizzonte e fantastico che dimena, spastico litania, cantico ma parti o no sei ferita, al massimo con un colpo magico giochi ancora un po’ con le architetture di quest’aria semplice disegni i confini di questo spazio infelice abbandoni in nuce questo corpo epatico, questo volto afasico, dalla terra nato candido, dal dolore fatto martire o carnefice, e tu fenice, sopravvissuta alla polvere dal dna servita di forze povere, al primo salto ma che caso, così alto chirurgica fuggi e io giù, sì do i numeri divisi dalle altitudini troppi colpi, esuberi morirò solo, tu sai perché
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millepiccolinsetti · 5 years
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e pensi che sia meglio per entrambi se non ci sentiamo più per un po’, che quel vestito che hai indossato l’altra sera ti sta molto bene, che per natale non c’è più bisogno di scambiarsi i regali, che l’altra volta quando dicevi che è tutto finito stavi solo scherzando, che tuo padre, che tira su i carichi col muletto nel magazzino di una grande multinazionale, è solo una formica in una grande infrastruttura ordinata con precisione millimetrica da qualche genio al di là dell’oceano. dici che i movimenti di tuo padre, prima a destra, nella corsia B15, poi a sinistra, nello spazio Pacchi Pesanti Fragili A16, infine alla ricerca dei carichi da spostare altrove nelle ante Z1, Z2 o Z3, sono telecomandati; che tuo padre, pur essendo carne e ossa e gambe e braccia e cuore pulsante e mente che capta informazioni e le rielabora producendo una nuova prospettiva sulla realtà, in quel momento, in quell’esatto momento in cui è alla guida del muletto finché non lo spegne e va a casa, non è nient’altro che un robot, qualcosa di simile a un drone, un non essere che risponde ai comandi di persone più in alto di lui, ragazzi di una trentina d’anni che servendosi di equazioni sofisticate e calcoli complessi al computer hanno studiato i percorsi più veloci, i movimenti più efficienti, hanno studiato quali pacchi conviene portare via per primi, e quali dopo. mio papà. non lo riconosco più. è l’ombra di se stesso. fa quasi ridere. quando torno a casa è lì, seduto sul divano, fissa il vuoto. poi mi guarda. cerca una risposta. la cerca nei miei occhi nocciola che vogliono solo un po’ di riposo dopo sei ore di studio. papà, come dici? non avrai più modo di mantenere i miei studi, forse? forse vuoi licenziarti? non ce la fai più? sei esausto? la vita è andata in malora dopo la morte di mamma? vuoi una carezza, cucciolino? che ne pensi di questa ragazza grassa, nevrotica, assatanata, sola, ancora vergine nei suoi ventidue f-o-t-t-u-t-i anni tondi tondi, incapace di avere rapporti con gli uomini perché ha imparato solo nell’anno precedente che oltre a una lingua a una voce, di suo, esiste un corpo che non deve necessariamente nascondere dietro una felpa xxl, di questa ragazza che spesso si avventura oltre il limite della sanità mentale per toccare i contorni di qualche disturbo mentale non ben identificato, di questa ragazza che un giorno sarà donna, seduta dietro la scrivania di un qualche cazzo di ufficio Back Office Fanculo Pratiche Della Minchia, e passerà le giornate a riempire le celle di excel l’una dopo l’altra mentre il suo boss verrà a controllare che tutto vada per il meglio e nel mentre le accarezzerà una coscia mentre le sorride con quel sorriso languido che ti rivolgono tutti gli uomini che si sono masturbati pensandoti almeno una ventina di volte negli ultimi sei mesi; dicevo, cosa pensi della donna che sarà costretta a questo destino infame? che ne dici se mi aiuti ancora un po’? mamma non torna. non tornerà. è inutile che guardi fuori dalla finestra. è inutile. pensi che il peluche di hello kitty non sia necessario portarlo nella nuova casa. che il lavoro da gelataia ti piace. viene poca gente, viene così poca gente, c’è così poca clientela, faccio non più di cinque o sei gelati al giorno, e credo che prima o poi questo posto chiuderà, mi chiedo solo quando, ma penso succederà presto, e pensi che i gelati qui non siano così buoni, manca qualcosa, forse non sono abbastanza zuccherati, forse sono le dosi di latte. pensi che ci voglia una pausa, che non vuoi costringermi a stare con te, a stare con una ragazza che non riesce ad avere rapporti sessuali. pensi che non hai una foto di mamma. perse col trasloco. in questo sgabuzzino in cui vivo ho perso tutto. ho solo un letto impolverato. ti sta tradendo qualche lacrima, lo sai? non dirmelo, coglione. sei proprio un coglione quando fai così. te ne approfitti. fai il furbo. non faccio il furbo. dimmi la verità. ho perso le foto. un album buttato via da qualche parte. non so dove sia finito. saranno stati i ragazzi del trasloco. oppure mi son confusa, e l’ho buttato via. non le ho mai fatto una foto col telefono. ti sembra superfluo. quando sei giovane pensi che le persone più grandi debbano vivere per sempre. non ho mai superato la fase “i miei genitori sono supereroi” finché non ho visto mia madre spirare nel centro del salotto dopo un arresto cardiaco. finalmente piangi. mi fai schifo, davvero. sai che mi dà fastidio mostrarmi debole e affondi il coltello nella piaga. io non ho coltelli. davvero. nessun coltello! sono l’uomo più innocente del mondo. mamma non se lo meritava. un giorno non ricorderò com’è fatta. papà non lo vedo da un mese. fisserà il vuoto come me, dopo il lavoro, come me. siamo due falliti. non credi?
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millepiccolinsetti · 5 years
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tra me e te il volo sordo degli uccelli nell’aria, i ciottoli delle strade dove inciampi, e nient’altro. ti scrivo che hai dimenticato il dentifricio. sarà da qualche parte nella borsa, mi rispondi. non preoccuparti. la notte è un trucco che ti porta via nascosta nel maglione. dalle cantine a via barletta dentro le case che hanno nomi di persone e nei cieli miracolati dal cambio di stagione rincorrerò col dito tutte le orme del non lasciarmi mai
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millepiccolinsetti · 5 years
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chissà quali effetti di noi due nascondi sotto le lenzuola e nei cerchi del legno cosa scrivi e se ricordi ancora dell’anno del miele e della stagione triste dall’inverno all’estate i decenni fanno sbiadire i volti sulle carte d’identità fantasmi irrecuperabili così avvicini la tua foto alla mia, la tua foto alla mia: vicini nella sparizione, fedeli al degradarsi ora la notte è una scialuppa di salvataggio: siamo ancora sicuri che i nostri occhi riflettano la luce della stessa luna
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millepiccolinsetti · 5 years
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eppure pensavo che sarebbe stato il primo lunedì senza trappole nel mio cammino, senza ostacoli, senza il rischio di precipitare, di cadere, di sbucciarsi le ginocchia, di farsi male sul serio. sono in camera. ho ancora indosso il pigiama, e ho gli angoli della bocca sporchi di latte. una vespa ronza davanti ai miei occhi. così mi appare: un punto nero fosforescente, che percepisco peloso, un corpo minuto, che occupa poco spazio ma che in quello spazio moltiplica in suoi pochi centimetri all’infinito. la vespa ronza, ronza. si avvicina ai libri della libreria. fugge da me, a dirla breve. a me gli animali che possono attaccarmi fanno paura. non sono abituato. ho vissuto la maggior parte della mia vita fuori dalle campagne, fuori dalla natura. nella culla dei soggiorni delle case in cui mi sono trasferito prima con entrambi i genitori, poi con una sola madre. cresciuto da una sola madre. il padre, assente. sparito dalla circolazione. a volte mi chiama per farmi gli auguri. è sempre il giorno sbagliato. gli dico, papà, questo non è il mio compleanno. sorride. posso vedere il ghigno al di là della cornetta. quel ghigno malefico con cui accompagna un saluto imbarazzato quando mi vede per strada. il ghigno di una persona che non ha voglia di vedermi. che saltava i weekend dedicati a lui. ha fatto male alla mamma. per me esiste solo la mamma. ha dovuto crescermi da solo, e mi lasciava nell’ambiente sicuro della sala. davanti a una televisione a vedere in loop i cartoni animati. a gambe incrociate, sul pavimento. il freddo pavimento. a stringere le dita dei piedi e ciondolare avanti e indietro. fuggo anch’io dalla vespa. lei fugge da me, io fuggo da lei. non ci conosciamo, siamo spaventati. io socchiudo la porta, sorreggo le spalle sul muro lì vicino, aspetto qualche secondo, sospiro, rientro. la vespa è sparita. la vespa non c’è. avrà avuto il tempo di scappare, questi cinque o dieci secondi saranno stati abbastanza per ritrovare la via di casa. eppure è strano. dieci secondo. così poco. così. poco. controllo dietro ai libri, controllo dietro agli specchi, agli armadi, controllo sotto il letto, sotto le coperte, penso ma dove si sarà cacciata, io so che sei qua, non farmi paura, per favore, non farmi scherzi. dicono che una vespa che sparisce sia un brutto segno. forse ha avuto il tempo, qualche attimo per riposarsi e poi via, verso il cielo. che animale intelligente. così furbo. non darebbe a vedere...eppure. ho cercato su google. le vespe si nascondono ovunque, nelle scatole che colleziono copiose nel mio appartamento. un altro trasferimento. dieci anni dopo. dieci case dopo. questa l’undicesima. ho comprato una torta. ho messo sopra undici candeline. le ho spente con un bel soffio. ho portato le scatole su dalle scale. mi sono lasciato con la fidanzata. la casa, la casa...era sua. non c’era modo di stare assieme. incompatibilità. non possiamo stare assieme, davide, non ora. scusami. non siamo compatibili. c’è qualcosa, in te...non posso farmi inghiottire dalla tua oscurità, scusami. devi scacciarla da solo. ci faremmo divorare in due. non posso far sì che questo mostro faccia due vittime. non posso sacrificarmi con te. non posso proprio. dopo tutto quello che ho sacrificato, nella vita. devo cercare di appigliarmi a quel poco di felicità che mi rimane, capisci? ho discusso la sua opinione. ho fatto finta che non ci fosse un accidente di oscurità in me, nella mia vita. ho detto una bugia. no sofia...io sto bene...basterebbe solo un attimo, un po’ di tempo, poi le cose si rimetterebbero in sesto...ti ricordi i primi mesi, che andava tutto bene...ero sempre sorridente, non c’era una cosa fuori posto...poi ho preso scatole e scatoloni. non ho lasciato niente, da sofia. non uno spazzolino, non una pentola. ho cacciato tutto nelle scatole. non c’era un amico a portarmi via la roba, così ho chiamato un tizio che fa il trasloco delle case. è venuto di sopra, da sofia, con me. lei stava con le mani sui fianchi, ci guardava in silenzio, imbarazzata. poi è andata da un’altra parte, in un’altra stanza, a fare altro. fingeva di fare altro, pur di non dover assistere a questa scena penosa. io prendevo e portavo le scatole col ragazzo. non volevo fargli fare tutto da solo. no, questa lasciala a me, gli dicevo. e mi guardavo la punta delle scarpe con uno sguardo da cane bastonato. la vespa. ho letto su internet che nidificano ovunque. ho controllato dietro gli armadi, dietro gli specchi, sotto le coperte, sotto al letto. l’ho fatto per giorni. nulla che potesse farmi sospettare che fosse rimasta qui da me per davvero. è solo una mia paranoia. ma avevo così paura. ci pensavo così spesso. e vedi un po’ se non ho guardato bene...ci sono armadi troppo grandi per poterli spostare da solo...e quell’interstizio tra la camera da letto e il bagno? se è abbastanza furba...potrebbe essersi ficcata lì. vivevo col terrore. una notte l’ho sognata. la vespa, proprio lei, sfuggente, ora però grande, cresciuta, già adulta, troppo adulta, così adulta dall’essere a ridosso della vecchiaia, disgustosa, mefitica, e mi guardava con due grandi occhi da essere umano ma con un’espressività crudele da cartone animato. si avvicinava lentamente col pungiglione e mi diceva: ora vedi un po’ che ti succede! e poi mi svegliavo. è una premonizione. questo sogno dice qualcosa. succederà, presto o tardi. la vespa si sveglierà dal caldo torpore del suo nascondiglio. farà dei cuccioli, prolifereranno in questa casa. più ne avrò paura, più prolifereranno. con gli incubi funziona così. più ne hai paura, più proliferano. più hai paura, più procreano tra di loro, generano altre paure. paure ancor più orrende, deformi, vomitevoli. lo dico al mio coinquilino, il mio coinquilino debosciato. ho paura che mi prenda per matto. gli dico: paolo, penso ci sia una vespa, qui in giro. è entrata per un attimo in camera, e io sono uscito dalla camera, sempre per un attimo, perché lo sai, ho paura...rientro, e non c’è più. non è che ha nidificato? forse dovremmo controllare. forse sei un cagasotto, mi dice lui. e avrà ragione. sono un cagasotto. ma l’incubo mi consuma, accarezza la realtà nei sogni, e nei sogni il pungiglione mi accarezza la pelle, la stuzzica, forgia i nomi delle mie paure sull’epidermide. non si conficca mai, no: è un avvertimento. può succedere, se non stai attento. può essere che la vespa ci sia davvero, se non stai all’erta. se non fai attenzione, può essere che la vespa, adulta nella sua deformità, raggiunga il tuo misero corpo umano coi suoi figli e figliocci. può essere che usino la tua carne come terreno di allenamento per apprendere le loro abilità di difesa. un occhio ovunque, davide. un occhio alle spalle. stai attento. ma l’incubo, più ne hai paura, più si moltiplica. allora potrebbe essere ovunque, dietro alla porta, a casa di sofia. un giorno bisognerà chiamare sofia, e dirle che la vespa potrebbe essere finita persino a casa sua. non si sa mai. le vespe seguono percorsi inimmaginabili. dopo due settimane di terrore torno a casa dal lavoro. succede quello che ho sempre temuto. vado in cucina, prendo un bicchiere dal lavello e sotto al lavandino, vicino ai tubi di scarico, lo vedo. per la prima volta, nella mia vita, coi miei nudi occhi. non mi era mai accaduto. beh, a voler essere onesto nei giorni precedenti ne avevo già fatto una conoscenza esteriore su youtube, per documentarmi. per prepararmi. ora era così, a un passo e mezzo da me, reale. come quando vedi un amico che hai solo conosciuto online. un impasto di legno a forma di sfera. una struttura assimilabile a quella di una stazione spaziale aliena, se dovessimo immaginarne una. deforme e spaventoso come me lo immaginavo. un buco sull’estremità superiore, perché possano uscire e rientrare. un lavoro certosino di creature ignobili. caccio un urlo. fuggo dal mio coinquilino. sono in lacrime, ansimo. riesco a malapena a parlarne. paolo, ma l’hai visto?! tu sei tutto il giorno a casa, e non mi hai detto niente?! sì, davide. certo che l’ho visto. che problema c’è. ma come che problema c’è?! abbiamo un cazzo di nido di vespe in casa, e tu pensi non ci sia nessun problema?! oh, dio, davide. si vede che non hai mai vissuto in campagna. che sarà mai. al massimo entrano...poi escono, dal buco dell’estremità...questa è la natura. vorresti interrompere il corso della natura, davide? e se mi pungono? e se ti pungono, davide? qual è il problema? ti faranno male. imparerai a conviverci, come tu imparerai a convivere con loro. e poi io non le ho mai viste. tu le hai mai viste, in giro? probabilmente volevano lasciarci un regalino, tutto qua. non si faranno vedere, te lo assicuro. oh, beh...se credi che questa sia l’opzione migliore...ti darò corda. ecco, bravo. dio, stai tranquillo. sei sempre così nervoso. non capisco che cazzo ti prende, davvero. sì, forse ho ecceduto. scusami. l’incubo. col terrore si convive. ho paura che possano volare sopra il mio naso di notte, ma io. ora sono confortato. io. ora penso che non potrebbero farmi così male. certe volte sogno di accarezzare il nido. immagino le vespe felici, la madre che porta ai pargoletti il cibo quotidiano, mi si scalda il cuore. e pensare che le volevo bruciare...volevo chiamare i vigili del fuoco...ma quanto sono esagerato. non so proprio controllarmi. passano i giorni. vado e torno dal lavoro con una mente ebete, non mi sembra di vivere: la realtà mi sembra irreale. il nido sta prendendo più spazio. non vediamo mai le vespe, no, ma certe volte sotto il nostro sguardo il nido cresce lentamente, con un movimento che sembra virtuale, come quello delle nuvole quando c’è troppo poco vento: la sfera legnosa si gonfia di una frazione micragnosa di un millimetro, prende una fetta piccola piccola dello spazio ma abbastanza grande perché noi ce ne possiamo accorgere. non ce ne preoccupiamo troppo. abbiamo imparato a convivere col nido, non importa più nulla. io ho paura, sì, ma è come una gamba monca per uno zoppo. impari a vivere come se fosse il grado zero della tua esistenza. non c’è vita prima del nido, non c’è vita oltre il nido. non se ne parla, di dargli fuoco, non ci penso nemmeno a cambiare casa. la sofferenza è come il cerchio di fuoco che deve attraversare l’asino prima degli applausi dal pubblico pagante. vale la pena di qualche notte insonne. del terrore degli occhi imenotteri che ti guardano nel buio, appollaiati nell’alto del mobilio, che aspettano un momento di insicurezza, quello in cui ti coglie il sonno, per attaccare. il nido non può morire. il nido sono io, il nido siamo noi: cancellarlo equivarrebbe a cancellarci. il nido cresce, cresce. occupa porzioni della nostra cucina sempre più sostanziose. quasi non possiamo muoverci. il nido cresce, a un certo punto torno dal lavoro e non posso aprire la porta. il nido ha preso la casa. è sua, ora. chiavi in mano. l’abbiamo venduta al nido. contratto e tutto il resto. firmata. scatoloni, suoi. spazzolini, coperte, affar suo. è tutto-tutto-tutto suo. non voglio più vederne niente. nell’incubo hai proliferato e ora puoi goderti tutto. hai vinto tu, e la mia vita ormai dipende dalla tua enormità. succhi via ogni mia linfa vitale, e io la cedo volentieri, tuo schiavo. la mia esistenza è donata alla tua crescita. e avrò paura quanto vuoi, perché tu possa crescere. mamma, papà, sofia, non c’è sofia che tenga. il nido, gigante, mi costringe all’addio. non posso entrare, anche volessi. occupa tutto lo spazio. nessun ultimo saluto alle mie mura quotidiane, che avevo conosciuto da così poco ma già erano entrate nel mio cuore. scendo le scale di corsa, aggrappandomi ai pantaloni eleganti dell’ufficio. sono già fuori. da lontano vedo il nido. straborda dalle finestre, la sua imponenza è ormai evidente a qualsiasi passante. si fa strada un piccolo piacere perverso, in me. il piacere di farla finita. chiamo i vigili. salve, in cosa possiamo esserle utili? c’è un nido, in casa mia, è molto grande. è davvero molto grande. dovreste mandare tutti gli uomini che avete lì in stazione, perché ce n’è davvero bisogno. non so nemmeno come ci si possa disfare, di una roba del genere. non so come spiegarvelo. è gigantesco. ok, arriviamo subito. non c’è spazio per entrambi. non c’è spazio per uno solo. o vivi tu, e io mi dimezzo, o muoriamo entrambi. così ho scelto. e la paura, quella piccola, deliziosa paura...quella paura di amare, e i pomeriggi ciondolanti davanti alla tivù, da piccolo...tutta polvere ammucchiata negli angoli di casa tua. sono sul ponte. mi lancio.
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millepiccolinsetti · 5 years
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dalla tua casa alla mia saranno sì e no seicento metri. forse varrà la pena percorrerli. forse ti darò un bacio sulla fronte, ti rimboccherò le coperte e forse, a quel punto, ti addormenterai di sasso; come ogni giorno, come ogni sera da almeno venticinque sere a questa parte. sono solo una decina di minuti e poi sarò a casa tua, so che hai bisogno di me per addormentarti. forse anche questa volta, mentre navighi nelle acque di una prima morte apparente, mi sussurrerai una parola dolce, lascerai che il tuo amore riesca a fuggire dagli interstizi fortificati del tuo cuore, che solletichi le corde vocali stordite, che venga pronunciato come lettera che svanisce a contatto con l’aria, l’ossigeno. amore..., detto così, in fade out, con la e che quasi sembra un microbo da quanto è piccola, e poi ti aggrappi al cuscino, ti aggrappi quasi alle mie braccia che non cingono il tuo corpo perché non sei mia, ma stanno a distanza di sicurezza per proteggerti nel caso appaia un mostro della notte. ricordo quando mi dicevi di amarmi e sentivo fosse come un urlo cacciato tra le montagne, un eco che rimbomba dalle rocce, ai rami, ai piccoli animali dei boschi. eri bella, e i tuoi capelli castani brillavano al sole, e quando chiedevi il gelato lasciavi le monetine al gelataio calandole delicatamente dalla tua mano alla sua, guardandomi con un sorriso da scema, per provocarmi. in un punto di quattro anni fa siamo entrambi seduti intorno al tavolo dello stabilimento e incrociamo le mani e prendiamo il sole e mangiamo i cremini senza considerarci l’un l’altro, e poi all’improvviso vieni vicino a me, appoggi le tue mani sulle mie spalle, e mi dici: io ti amo, f. e poi ridi, e mi prendi la mano, e andiamo in riva al mare. ci baciamo per venti minuti, dritti dritti. poi fa troppo brutto tempo. piove, un temporale mai visto prima di allora. ci ripariamo coi giornali. scappiamo sotto la tettoia di un ristorante. sono fidanzata, sai? ho un fidanzato. ma le cose non vanno granché bene. non so se starò con lui ancora per molto. mi sento una merda, non so perché ti ho baciata. non so perché ti amo, ma è così. tu mi ami? sì. perché? era il 2015, erano quattro anni fa, e da allora mi hai raggiunta in vacanza ogni anno, venticinque giorni all’anno. conosco solo la “te” dello stabilimento balneare mirafiori. non esiste “te” al di fuori dello stabilimento balneare mirafiori. l’unica “te” diversa che riesco a cogliere, è su internet. ma non sei davvero tu. hai una capigliatura diversa, un vestiario diverso, gesticoli in modo diverso, ti abbracci con amiche che non conosco, e poi, ecco qua, sei con g., sei con g. ovunque, in luoghi che non conosco, in piazze che non ho mai visto, in feste in cui non presenzio. lo stabilimento per te è un mondo magico. lasci a casa i tuoi indumenti da persona normale, entri che sei maga, e mi streghi. per venire qui, cambi pelle. non deve rimanere traccia di ciò che sei gli altri undici mesi dell’anno.  sei solo un amore estivo, mi diceva un’amica. sei un amore stagionale. vali il tanto che vale una stagione. hai una data di scadenza. lei arriva, ti incanta, e poi scappa. non ha nemmeno voglia che vi sentiate, gli altri giorni dell’anno, quindi perché lo fai? perché continui a darle corda? perché la amo. perché? nell’ultimo anno non riuscivi più a dormire. per questo mi chiamavi ogni giorno, alle undici, a mezzanotte, per dirmi di raggiungerti a casa. avevi bisogno di calore umano. ti ho chiesto il motivo dell’insonnia. hai risposto che la maturità ha sconvolto i tuoi piani. non so più quello che voglio essere, f., mi hai detto. ho sempre voluto fare il medico, ma ora mi sembra una stronzata bella e buona. mi sembra una puttanata. quando ero piccola giocavo a fare la dottoressa coi miei compagni, prendevo lo stetoscopio e controllavo loro il respiro. pensavo fosse la mia vocazione. ma ora non so più nulla. g. vuole andare a vivere assieme a bologna... non credo dovresti ascoltarlo. da anni dici che l’amore va spegnendosi. e allora? e allora non s’è mai davvero spento. la luce è tenue, ma resiste. resiste da anni. e un motivo ci dev’essere. anche la nostra luce resiste. e a quel punto si è rigirata nel letto, mi dava le spalle. la sentivo piangere. percepivo il suo volto contorcersi in smorfie convulsive. l’ho abbracciata. non puoi farlo. solo chi è fidanzato può abbracciarsi nello stesso letto. mi pare una stronzata. mi pare una stronzata che hai sempre accettato essere legge, da quando ci conosciamo. ma stai male, piangi. piango per te. ma io ti amo. perché? arrivo davanti a casa tua. questa forse sarà l’ultima estate assieme. abbiamo entrambi diciannove anni, e tra qualche mese ci trasferiremo...devi ancora decidere se rimanere a casa tua, o se raggiungerai g. a bologna. quando viene fuori l’argomento perdi il tuo sguardo nel vuoto, fai su e giù nella sabbia, mangi il gelato pensosa. i tuoi capelli non brillano più. non mi prendi più le mani, ma ci baciamo ancora, quando siamo già esausti per la giornata. penso e ripenso se è il caso di starti ancora accanto. se ti fa bene, se mi fa bene. guardo il cielo. le costellazioni sono sempre ferme nel cielo. penso alla prima volta che ti ho spostato i capelli dal viso e mi hai guardato sorridendo. mi viene da piangere. mi fermo davanti alla tua porta. stringo in una mano la maniglia, faccio un bel sospiro. entro.
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millepiccolinsetti · 5 years
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la cava magica dove i modem lasciano tramortiti il loro messaggio d’addio, dove le linee telefoniche si arrendono al peso degli auguri di natale, dove lasci le vesti della resurrezione "avranno spento le luci a milano", e ridi, mentre fuori c'è chi parla dei nostri paradisi e dei nostri labirinti e poi in un attimo l'autobus vuoto, il duomo che scintilla e il tuo volto che ciondola davanti al mio "sono rimasta ferma a quando tutto è cominciato", e sparisci in un volo di molecole, e dai un ultimo bacio che è come un'ascia scagliata sul legno
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millepiccolinsetti · 5 years
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dovresti smetterla di pensare che siano creature mitologiche perché non lo sono, davvero. davvero. mettitelo in testa. non c’è nulla di straordinario, in loro, esattamente come non c’è nulla di straordinario in te. non mi pare troppo difficile. siete entrambi umani. poveri, luridi, schifosi umani. nient’altro che questo. siete pelle e ossa, vi riproducete per mandare avanti la razza umana, morite lasciando sul pianeta terra l’ultima e l’unica impronta del vostro passaggio: una tomba in finto marmo da far curare ai vostri figli finché campano - e chissà se lo faranno, e chissà se lo faranno controvoglia, lasciando seccare i fiori, se avranno almeno voglia di buttare via le foglie morte che si accumulano tra una visita e l’altra, e chissà quanto tempo passerà, tra una visita e l’altra, e chissà se sentirai la loro presenza, quando saranno davanti alla tua tomba in finto marmo, cioè davanti a te, quando loro saranno in cerchio e in silenzio e con le mani incrociate in preghiera, chissà se sentirai i loro ave maria o i loro padre nostro o i pezzegoli della loro vita quotidiana alla quale tu non puoi più accedere perché sei spirito, angelo, vapore - oltre alla tomba lascerai qualche migliaio di euro di debito con la banca, e questo è quanto, ecco, come tu avrai questa fine indegna e francamente spaventosa, lo stesso sarà per lei. l’unica cosa che cambiano sono le foglie sul marmo, caro mio. o il debito in banca. è zero. è mille. diecimila. ci son le foglie. non ci sono. c’è una lapide in finto marmo, in marmo vero, un mausoleo, c’è una corona di fiori rari o una comprata da un discount pochi minuti prima. piccole inezie. siete entrambe persone che avranno un impatto zero sul mondo. non cambierete il pianeta né lo sposterete di un millimetro. vi limiterete ad assecondare la gravità. vi siete limitati ad assecondare la gravità. allora semplicemente parlale, e dilli quello che provi per lei, e sii sincero, e ricordati della tomba e delle ossa e delle ceneri e dei debiti perché è questo quello che siamo, davvero. d’accordo. avrai ragione. sarà così che stanno le cose, immagino. il fatto è che temo di avere qualche piccolo impedimento, ecco. temo sia successo qualcosa, nella mia crescita. un fattaccio grave. qualche spintone alle elementari, all’intervallo. forse la mancanza di fiducia dei miei genitori nei miei confronti. forse qualcos’altro ancora. io non lo so. pago uno psicoterapeuta per scoprirlo. lo pago fior di quattrini. duecento euro a seduta per stare steso su un lettino marroncino appiccicoso che ho ritrovato su amazon a non più di quaranta euro da un rivenditore cinese di quarta categoria - lo stronzetto ti fa pagare una seduta duecento euro e non ha nemmeno la dignità di comprare un vero e proprio lettino coi controcazzi, quindi stai steso come un baccalà per quarantacinque minuti su un dannatissimo lettino appiccicoso che odora di pelle finta chiusa in una fabbrica che viola qualsiasi regola umana morale e fisica in tema d’inquinamento e iriciclaggio di materiali e così via, insomma stai lì immobile paralizzato all’idea di fare un movimento strano agli occhi del terapeuta perché hai il timore che possa segnarselo, analizzarlo e sviscerarlo e giudicarti e tu, io, temo molto il giudizio altrui, e quindi cerco di evitare qualsiasi giudizio quantomeno superfluo in un ambiente in cui comunque devo mettermi alla prova: da uno psicoterapeuta non puoi certo aspettarti di non uscirne giudicato. ecco, sei steso lì come un tonno che soffoca all’aria aperta e il coglioncello con la capigliatura gellata fino al midollo ti chiede perché cazzo hai così paura delle femmine e perché ti viene da vomitare quando vedi delle gambe di donna e cos’è che ti fa così paura dell’intimità e perché quando fai sesso o sei estremamente freddo o fingi all’inverosimile o costruisci un’immagine virile nella tua mente per riuscire a godere e perché quando hai avuto la tua prima cotta alle elementari di giorno la facevi ridere un sacco e di sera piangevi pensando che non ce l’avresti mai fatta a darle un bacino, e perché quel piccolo stand up comedian in erba capace di fare ciò che tanti uomini non riescono a fare, cioè far ridere una donna, ragazza, femmina, bambina, ha sviluppato gambe e braccia e cuore e polmoni e naso e organi genitali ed è diventato un semi-uomo così attaccato al giudizio femminile nei suoi confronti e per il quale, allo stesso tempo, prova una repulsione viscerale, così profonda che riesce a passare da anni di amore incondizionato verso il genere femminile ad anni di totale distacco e riflesso di vomito al contatto visivo con le gambe nude, alla totale freddezza e alienazione nei confronti delle ragazze, e perché piangi quando di notte non pensi più al bacino che manca nella tua vita con la cotta della tua vita, ma al fatto che non potrai sposarti, amare davvero, figliare e insegnare ai tuoi figli a giocare a calcio e a guidare la macchina quando avranno scollinato la maggiore età, e perché ti intristisci quando sei a lavoro e pensi che il denaro che accumuli in quantità non inferiori a 3000€ ogni mese sudando ogni giorno in uno sporco e asettico ufficio con un capo stronzo che non ti molla non serviranno a niente, mai a niente, se non a stare meglio per un attimo il giorno successivo ordinando qualche ammennicolo tecnologico su amazon come la macchina degli smoothies o quella che ti permette di cuocere la carne sottovuoto o le luci smart che si accendono col battito di mani, ecco una cosa dico al poveretto coi capelli leccati da una mucca in calore, ecco sa cosa vorrei fare in un vicino futuro, vorrei battere le mani e accendere le luci e vedere mia moglie con un sorriso da qui a qua (e faccio il gesto con la mano per fargli capire: da guancia a guancia, un arco perfetto) perché dio, è talmente felice di vedermi che non ne poteva più, perché io sono la sua vita e lei la mia, lei è la mia vita assieme alla macchina degli smoothies e alla luce che si accende col battito di mani, che mio figlio accenderebbe col battito di mani. ma non potrò farlo, in un prossimo futuro. perché sono rotto. manca un ingranaggio. quello fondamentale. non mi funziona l’ingranaggio dell’intimità. sarà che mi hanno picchiato all’intervallo per fottermi la merenda o che mi sono accorto che qualcosa io faccia in un rapporto umano è quella sbagliata, tanto che a un certo punto quasi potrei convincermi di essere semplicemente un esperimento dello stato per vedere come sopravvive un essere umano che non sa relazionarsi con gli altri, ed ecco, vorrei andare da questo ipotetico e fantasioso Team Esperimenti Molto Segreti - la prego, non pensi che io mi invento delle teorie del complotto e nemmeno che io ci creda, si tratta di un discorso ipotetico e fantasioso, lo sa che ho una mente molto creativa - e dirgli beh, ve lo do io l’abstract del paper, il riassuntino è semplice: un-umano-così-non-fa-un-cazzo-di-niente. ed ecco, non si tratta di creature mitologiche. è che ho il terrore, marco, ho il terrore di deludere qualcun altro. non voglio più deludere nessuno. capisci cosa intendo? sì, lo capisco. non mi va più di far soffrire nessuno. voglio solo una famiglia...voglio stare sereno. voglio dire allo psicanalista gellato che sono guarito. voglio accendere le luci col battito di mani. voglio andare in ufficio e affrontare le schermate di compilazione dati anagrafe con un piglio nuovo, sorridendo perché so che a casa mi aspetta un bel polpettone da mangiare con la famiglia. voglio sorridere davanti ai raggi del sole. voglio correre felice su un prato. voglio amare qualcuno sinceramente. voglio le corone di fiori rari sulla tomba. voglio un piccolo bacino sulle labbra, voglio che mi ami senza nessun timore, voglio digitare il numero e dirle che l’ho amata dal primo giorno che l’ho vista che al club aveva un vestito bellissimo e non ho vomitato per le gambe e ho sentito di voler vomitare per quanto avessi voglia di amarla e che voglio fare un bambino con lei e voglio fare l’amore senza immaginarmi macho o senza pensare che la odio o senza distaccarmi e pensare di essere appeso alla parete come l’uomo ragno mentre guardo l’amplesso in terza persona e che anzi voglio viverlo in prima persona come fanno nei migliori film, con le coperte sui nostri corpi nudi mentre ci guardiamo negli occhi come se fossimo una cosa preziosa l’uno con l’altro e poi ci diciamo cose talmente sdolcinate che se glielo dicessi ora, a lei, probabilmente non vorrebbe mai più fare l’amore, ma è così che voglio che vada perché voglio una cosa finta e indesiderabile, voglio un ideale inconcepibile, voglio il bacino sulle labbra.
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millepiccolinsetti · 5 years
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il nettare sta al fiore come la paralisi al silenzio “non puoi dirmi quello che devo fare”, e la voce rivivisce, e le formicole, che sono cieche percorrono cavità irraggiungibili sotto i nostri piedi, reggono le impalcature dei nostri pensieri “non sarai tu a dirmi quello che devo fare”, e riviviscono ancora le quattro mura del buio, gli spiriti del sonno che sospirano “sarà un’altra estate, allora, sarà un’altra estate quella giusta”
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millepiccolinsetti · 5 years
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l’idea, certo, è che a milano in cui, incrociando le coordinate dei palazzi più alti, si arrivi a un punto in cui ritornano in vita le nostre orme, i nostri respiri; in cui i nostri movimenti vengono di nuovo tratteggiati da linee sporche, tremole, dando loro vita nuova, piccoli organismi monocellulari fluttuanti di storie a sé. è la magia delle grandi città: il fatto che niente davvero muoia, e che in realtà ogni metro quadro sia un sovraffollamento di storie che sopravvivono alla polvere, che si aggrappano ansimanti, con le ultime forze, al ciglio del burrone; che reggono al deperimento: chi le ha esperite davvero, reali, concrete, in carne e ossa dà loro alimento col pensiero. chi le pensa: a chilometri di distanza, distanti col cuore, distanti geograficamente, ma sempre abbastanza vicini da far schizzare onde elettromagnetiche dovunque nel globo, farle rimbalzare sulle montagne, poi sullo specchio dei fiumi a quello del mare, perché giungano lì dove il corpo vegetale sta già lasciando le forze per abbracciare la morte. il ricordo si manifesta a noi: non siamo noi a cercarlo. talvolta capita che, se cerchiamo il ricordo, ad esempio muniti di una mappa del tesoro o di google maps, troveremo soltanto il vuoto. una fossa delle marianne. un traforo verticale che raggiunge le viscere del pianeta. l’ho visto anch’io, sì, a un palmo di mano: e ho lanciato una moneta per sentire che rumore fa il fondo. ha fatto un piccolo plof, come quando lanciamo piccoli sassi nell’acqua da bambino. che le viscere non siano nient’altro che placenta? che l’inferno non sia che della stessa materia del concepimento?                                                         ***
gianluca, hai di nuovo abbandonato la barca? hai lasciato gli ormeggi? sei a riva? cos'è quella barba, i vestiti stracci? ti cibi di pesce pescato con la lenza di fortuna? sei un sopravvissuto. tracci un aiuto scrivendo la parola pietra dopo pietra, l'una al fianco dell'altra, cosicché un aeroplano, allarmatosi, venga a salvarti. ma l’aeroplano si avvicinerà, gianluca mio? è questo che speri? speri nell’aeroplano? nel decollo? speri negli angeli di lamiera? speri nella mano che saluta, il volto invisibile per la distanza?
dea mia, perché mi hai lasciato? che ricordo hai di me? dove sono inciampato? che filo d'oro devo seguire per ritrovarti? appoggio l'orecchio al tuo costato e sento il rumore della cassa automatica, le ruote sul terreno quando l'autobus frena brusco. rivedo i nostri corpi per terra, le risate, i ragazzi che dipingono le strisce pedonali, gli insulti. andate a cagare, dicono, e noi con le suole sporche di vernice a imbrattare milano, a lasciare la nostra orma sull'asfalto, a disperderci come primitivi durante la caccia. dea mia, se tutto ritorna, perché tu no?
sopravvivi per la prassi dell'autoconservazione. sei una serpe, sei bugiardo, sei malvagio. forse inconsapevole. gianluca, ti dirò che non sarà l’angelo di lamiera a salvarti, ma il tuono dolce. aggrappati a una palma, aspetta che il tempo faccia brutto, e prega perché il lampo ti raggiunga e ti guidi verso un’altra dimensione. improvvisamente non sei carne: sei liquido, viaggi nello spazio. sei terreno, sei di nuovo a milano. la città è la stessa, ma i palazzi, i monumenti, le piazze, le vie si sono dati il cambio con una logica che è impenetrabile all’occhio nudo. raggiungi casa grazie all’ultima traccia fissa rimasta del tuo passato, l’unico percorso visibile, l’unica via del ritorno intatta: le rotaie dei tram. ad esse ti aggrappi come un ragno all’intonaco dei muri, le segui come un cane da tartufo segue la scia di profumo, e altre rotaie di altri tram ti attraggono, e vorresti deviare e andare chissà dove, e sforare dai sentieri prestabiliti, creare nuovi solchi nella terra, nuove possibilità per nuove vite che ti attendono al di là dei confini dati dalla vita, ma già che stai recitando in te stesso questa bugia sei a casa. un ricordo del filo d’oro: i capelli sul cuscino, oppure i cavi micro-usb, gli schermi lcd dove scorrono a rallenty le scene migliori della nostra vita. un aeroplano solca il cielo: c’è chi, sì, in isole più belle, ottiene la grazie di essere salvato. non io, non oggi, non ancora.
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millepiccolinsetti · 5 years
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come un treno fermo che finge di muoversi, che tu fingi si muova, tu, sola il formicolio di mille piccoli insetti nelle vene, l'arto torpido, fermo e la tua assenza carne morta, e quiete tra i sassi e nelle cose ti saluta il volto pallido della notte
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millepiccolinsetti · 5 years
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momento “rebloggo le mie poesie prefe”
noi come addormentati in verticale e abbonati al risveglio di soprassalto tristi come l'odore del bagno pulito negli hotel, come il mobilio sterile, gli asciugamani ordinati il bianco col bianco e le fasce blu del terrazzo e i gatti si arrampicano col corpo dritto col muso stretto, ancora aggrappati con le unghie al foglio increspato dei nostri appartamenti i bagnanti sulla spiaggia come punti fermi elettrizzati, meteore fosforescenti siamo ancora una volta stranieri
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