muffa21
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muffa21 · 7 days ago
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A OSCAR
Mi muovo io
avanti, indietro,
sferzando bufere e mulinelli di vento,
comprando ettolitri di alcool,
e chili e chili
di libri, acchiappasogni e altro ciarpame
nella speranza che mi regalino
la visione di beatitudini bene allerta
prima di un’estasi definitiva, eterna.
Mi muovo io,
avanti e indietro,
per stazioni, uffici, caffè di periferie incrostate di catarro
e di veleno,
verso battesimi, cresime, matrimoni, funerali,
abbuffandomi, svagandomi, divincolandomi
in qualsiasi modo
dalla stasi e dall’ascolto del mio corpo.
Perché se lo ascoltassi davvero
questo scatolo di ossa e di funghi e batteri e denti e pelle
una sola cosa direbbe,
una cosa soltanto:
“Non stai invecchiando.
Stai morendo.
Arrenditi,
perché niente ha senso.
E se qualcuno lo ha trovato
sappi
che è una truffa che ha rivolto egli stesso
contro le sue tasche”.
Sono io a muovermi
avanti e indietro
e non il pendolo.
Il pendolo resta fermo,
mentre io attraverso i simulacri del tempio
che lui abbatterà
come un buon carico
su un tavolino di plastica
abbatte tutte le speranze di vittoria
mentre si gioca a briscola.
Ma, adesso guarda;
posso fermarmi se voglio
e riconoscere la noia e il dolore.
E riconoscere che la noia è la parte giusta del pendolo.
E che il dolore insegna qualcosa solo ai bravi scolari…
come me.
Ecco, dunque, che per me, allora
anche il dolore
è la parte giusta del pendolo:
un Giano bifronte
che ti dona la vita
e mentre ti succhia la vita ti insegna
che meglio del nulla
il tutto.
Meglio del nulla,
avvertire la mancanza di qualcosa in questo tutto.
I miei avi
potevano restare per ore davanti all’uscio di casa
senza schioccare una sillaba,
a prendere solo vento e luce.
E credo che, se avessero avuto parole più numerose,
o più luminose
rispetto a quelle della razza dei villani
e dei costruttori di ville dei loro stessi padroni,
invece di chiamare quel tempo ben speso “noia”
lo avrebbero chiamato “ricucirsi l’anima col vento fresco delle sere d’estate”.
Sono triste oggi, per questo scrivo così.
Mi prendo in giro perché
hanno detto che il mio cane camperà ancora pochi giorni.
Il cane per cui ho rischiato di finire ucciso azzannato
da un Husky di trenta chili;
che per tutta l’estata del 2023 ho accudito,
ripulendogli le ferite per evitare che andassero in suppurazione.
La noia, il dolore.
Il tutto, il nulla.
Lo scrivere, il tacere.
Che senso ha tutto questo?
Non lo so.
Ho solo voglia
che qualcuno
che non paghi per farlo
mi chieda:
Carmelo, come stai oggi?
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muffa21 · 19 days ago
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L'insonnia della ragione genera mostri
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muffa21 · 1 month ago
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Forse Trump non dice cose assurde perché ci creda realmente, costretto a farlo da una forma aggressiva di demenza senile.
Forse Trump – imbeccato da qualche genio della comunicazione, con all’attivo numerosi corsi di perfezionamento in sociologia, antropologia e psicologia delle masse – utilizza le “sue” parole in maniera chirurgica, condivide i “suoi” video generati grazie all’aiuto dell’intelligenza artificiale con la stessa fredda precisione di un orologio atomico al cesio-133.
Ho riflettuto su queste cose in un afoso pomeriggio di inizio estate, strafatto di noia e di dubbi sul futuro delle generazioni.
Credo che Trump, e il suo entourage, abbiano compreso che i tiranni del passato, nel tenere a bada le folle con la paura, hanno sbagliato non nella qualità delle loro azioni (la paura è efficace per raggiungere lo scopo prefissato) ma nella quantità.
Le emozioni possiedono un gradiente. La malinconia può diventare tristezza o disperazione. La serenità, gioia, felicità o euforia che sfocia in episodi di manie di grandezza. La paura al suo grado “basale” prende il nome di “paura” appunto. Quando le masse provano paura, queste iniziano a bollire e a fare gesti inconsulti. Alla sua acme, la paura prende il nome di terrore (che sta un gradino sopra al panico). Le masse terrorizzate esplodono: rovesciano gerarchie, imperi, sette religiose il cui status quo durava da millenni; nel terrore si concepiscono opere d’arte impagabili per pregnanza di contenuti e resa formale, le masse terrorizzate sono state in grado di portare sulla Terra, nel 1870 a Parigi, la parvenza di un miracolo ultraterreno (da cui nacque Rimbaud, e nel bene e nel male, la facile, incantevole arte poetica del Novecento).
Trump non vuole nella maniera più assoluta tutto questo. Vuole che la nostra paura rimanga ad un livello che non sia quella dello zero, dell’indifferenza (e, dunque dell’ozio; un male che sfascerebbe il sistema capitalistico che è stato creato proprio da quelle masse terrorizzate che, nel Settecento, la fame e la rabbia portò a scegliere la ghigliottina invece che le brioche) e neanche al suo picco: il panico.
Trump non vuole nemmeno farci bollire nello stadio basale della paura, però. Sa bene, infatti, che la storia della rana e della pentola rimane valida solo nelle efficienti metafore partorite dalla mente di Chomsky. I biologi hanno portato nella realtà questa favola della rana e della pentola: la pentola si scalda e si scalda e quando il calore diventa insopportabile - plop! – la rana salta e manda a fare in culo Chomsky, i biologi, la pentola, il termometro e tutti noialtri poveri stronzi, che, mentre quella ci saluta, noi nella lava continuiamo a sguazzarci beatamente.
Dunque, cosa vuole Trump quando sui profili ufficiali del Presidente degli Stati Uniti d’America pubblica le immagini di una striscia di Gaza trasformata in qualcosa che sta a metà tra Las Vegas e Riccione, ballerine barbute di danza del ventre comprese? Cosa vuole quando decide di invitare il signor Zelenski alla Casa Bianca? Uno che dopo anni di guerra contro l’ipermuscolare Russia di Putin, con la sua faccia un po’ così che abbiamo noi quando andiamo a Odessa, e la sua maglietta un po’ così, verde mimetica, anche se nei boschi insieme alla fanteria ucraina non lo hanno visto mai. Cosa vuole Trump, quando lo piazza davanti alle telecamere, in modo che possiamo vederlo bene questo gesucristo protomartire, e inizia a trattarlo, lui e tutta la sua cricca di centurioni incravattati e scemi più dei sassi del Trebbia, come farebbe una Maria De Filippi con una tronista qualunque che ha avuto l’ardire di andare a sculettare il reggaeton in una squallida balera della Bassa Modenese senza prima averle chiesto il permesso?
Cosa significa? Che senso ha? Che vuole? Perché fa così?
Ecco, il senso, secondo me, sta in questa tempesta di domande. Nel costringerci, ogni volta che apre bocca a dovercele porre.
Trump vuole, insomma, che noi si rimanga una pentola di fagioli che borbotta. Non vuole che i fagioli urlino, bollano, vuole farci sobbollire, vuole farci borbottare, perplessi, a mezza voce: “Ma è pazzo?” “Minchia, ma è strano forte ‘sto pagliaccio col tupè arancione?” “Che ha detto? Non ho capito: un momento fa parlava di sanità pubblica e adesso si è messo a cianciare di alieni, rettiliani…”
Vuole che cuciniamo a fuoco lento. Vuole che rosoliamo nell’olio freddo dell’inquietudine. Il grado minimo della paura. Vuole che friggiamo nella straniante inquietudine della sua stranezza. La stranezza dell’uomo più potente del mondo, di colui che può decidere delle nostre vite con un atto amministrativo, però, non dello scemo del villaggio. Stranezza e non follia, ché la follia terrorizza.
La stranezza delle sue parole e delle sue immagini che, gettate a caso nel flusso ininterrotto dell’Informazione – che a ben guardare non ci informa mai su nulla, se non sull’attualità e cioè sull’effimero variare delle cose, non dandoci nessuno strumento per poter comprendere quella varietà, che è la varietà della vita, e dunque la vita stessa – quelle parole gettate a caso devono essere così assurde da sembrare realmente gettate a caso e non colpi di bisturi precisissimi, mirati ad amputarci la volontà: la voglia di essere liberi un’altra volta ancora nell’eterno ciclo della storia.
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muffa21 · 1 month ago
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muffa21 · 3 months ago
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Come molti scrittori potrei sobbarcarmi l’onere - senza peraltro averne nessuna competenza se non appartenere per diritto di nascita alla sclatta dei bipedi tracannatori d’inquietudine - di scavare tanto a fondo in questa povera lingua orfana che parlo e che segno per raggiungere una qualche parvenza, non di verità, ma di aforisma che sembri abbia a che fare col mistero ed è invece un grumo di ego ornato di una retorica così barocca che leggendolo sembri significare qualcosa.
Potrei scomporre il cielo nelle sue sillabe primigenie, o riuscire a comprendere per via empirica se i primi vocalizzi degli umani fossero preghiere o fossero bestemmie.
Ma inconsistente, faceto, come un Bukowski qualunque, come un Ponzio Pilato avvinazzato che si aggira per i vicoli gialli e fetidi della Gerusalemme di oggi chiedendo a tutti nella sua lingua disfatta “Quid est veritas?” e ricevendo in cambio risate di scherno e sputi, fiele, calci nel sedere e infine legacci di ospedale psichiatrico giudiziario, mi accontento di impietrare oggi sul foglio soltanto per me questa immagine:
La signora dagli occhi stuporosi trova sulla panchina di pietra il biglietto strappato di una corsa per Como. Il residuo di un filtro per una canna. Fa per gettarlo ma si accorge di me. Lo rimette con cura al suo posto e mi dice di avvertire la polizia “perché io non sono più responsabile di queste cose”. Le dico con la bocca stia tranquilla, ci penserò io. Ma con la testa: “Non lo è mai stata, signora. Non è mai stata responsabile di niente”. E neanche io, per dio. Nemmeno io.
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muffa21 · 3 months ago
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VOLTANDOMI
Luppoli grossi come cicale frignano beate, sopra la soffice schiuma della birra che hai spillato stasera per me. Nella taverna è entrata l’estate. Stivali pesanti inzaccherati di polvere, capelli secchi, crespi, scarmigliati dal vento, e due labbra turgide e rosse di sole, di luce.
E come tutte le estati, mentre tu sistemavi le sedie sopra i tavolini prima di andare a dormire, dalla lingua di un bambino è schioccata una promessa già tradita.
Ma che importa? Il tuo sguardo ricambiato, dopo una serata di lotta contro il timore del ridicolo, contro la sensazione di essere a volte insignificante e a volte di troppo, mi ha reso consapevole di un coraggio, di una forza, che dieci anni di neve pensavo avessero seppellito. Li credevo morti, e invece aspettavano solo che una carezza, la carezza verde dei tuoi occhi, sul mio viso masticato e poi ricomposto li riportassero indietro dall’inferno.
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muffa21 · 4 months ago
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Una biscia spaventata mi si contorce dentro. Non ho idea di cosa la spaventi. Forse sono io a non volerlo sapere. Forse, per una volta, non voglio conoscerne le ragioni. Mi basta afferrare la sensazione e mutarla in qualcosa di comprensibile agli occhi: una biscia che nel calore bruno del ventre mi depone dentro le sue uova di tenebre. E cosa comporta questa sensazione? Niente che possa intaccarmi le vertebre, i surreni, la ghiandola pituitaria, e nemmeno - spero - la soffice, piatta superficie della mia corteccia cerebrale.
Più mi scollego dai motivi più prendo coscienza dei denti della biscia: piccoli denti innocenti che mordicchiano, senza veleno, la maschera rossa del mio intestino.
Delle volte non è questione di comprendere né di accettare. Delle volte è solo questione di rassegnare le proprie dimissioni al Settore motivazioni e seghe mentali dell’Ufficio oggetti smarriti e mai più ritrovati
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muffa21 · 4 months ago
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UNA RISATA CI SEPPELIRÀ
La strada è una cosa più viva e più noiosa della vita che viviamo di questi tempi. Vecchie, scolorite, scorie del Novecento non riusciamo ad apprezzare il canto d’un ubriaco senza scoprire quale cava di dolori stia all’origine di quelle note. Scorriamo sul telefono i commenti sotto al video - Internet. Il nuovo Colosseo. Per gente che non ha più voglia di scarpinare dentro la polvere della via Emilia, ma che ha comunque ancora appetito di gente trafitta, crocifissa, dilaniata - e i commenti sotto al video ci informano: Mango - La rondine. E un fiotto di dopamina ci annichilisce i nervi tesi, tra la risata e il rimorso. E non apriamo più bocca per chiedere l’ora o per sapere dov’è che è sepolto Sant’Agostino o “Dov’è che posso trovare un posto in cui mangiare bene e con poco?” (Questo, detto fra noi, è l’unico motivo che mi spinge sempre a dare delle monete a chi me le chiede. Non la pietà, non il bene, non l’empatia. Ho dato soldi alle peggiori merde umane del pianeta. L’unico motivo sta nel fatto di aver chiesto. Non “per favore”, solo chiesto. E per chiedere, elemosinare, ci vogliono le palle. E pare che oggi le abbiano rubate tutte come pere ormai buone per essere gettate nel macero).
Le strade, vive e noiose, hanno perduto le loro propaggini di carne e di voci e di orecchie, e hanno messo solitarie radici morte all’interno dei nostri apparati digito-neurali. Il tempo e lo spazio - roba che, badate bene, non esiste e che abbiamo sempre saputo non esistere come “gli schiavi hanno sempre saputo e i re hanno sempre saputo nel fondo della loro incoscienza di non essere schiavi o re per volere o diritto divino” - il tempo e lo spazio si informano e ci informano che vivono al di là della pura realtà della materia, e che quei numeri sulla schermata iniziale del telefono e quei punti di luce sulla mappa di luce e di nebbia sul telefono è la vera bibbia in cui credere. È divertente sapere che la via dei negozi sta là, e che la via delle puttane sta là, e che la via della malora sta qua, ancora prima di avere messo piede sulla Vigentina, a Pavia, o su Via Italia, a Monza, a sulla Favorita, a Palermo. E se magari arrivi e le puttane non ci stanno, pensi subito L’ufficio tecnico o la città stessa, chissà, avrà sbagliato a credersi così mentre qua sta scritto con firma di Re che le cose stanno cosà.
La strada, però, rimane viva, benché noiosa. Noi morti dentro gli schermi, intorno al parlottare delle cuffie, sopra pagine di libri o di taccuini, ogni tanto, per qualcuno che si risveglia dal torpore, sembriamo - siamo - vivi.
Dentro i giardini delle case i mandorli sbocciano in fiore e attorno ai fiori i passeri cantano e sopra i passeri la pioggia di marzo e il canto degli ubriachi e noi che pariamo morti e le radio che annunciano morte e la Morte che attende di raccoglierci tutti e regalarci sonno e, un’istante prima del sonno, la tardiva consapevolezza dei mandorli, dei fiori, dei passeri, della pioggia, degli ubriachi, dello spreco immane, e di Se stessa. La consapevolezza che è meglio morire di noia nelle strade vive, che morire e avere apprezzato solo la testa morta delle Terra, decapitata e spalmata su una mappa per sembrare più viva e più divertente. Una risata ci seppellirà.
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muffa21 · 4 months ago
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AMERICA
Chiedevo per un sorso d’acqua. Bussai a venti case, trenta consolati e mille e mille bettole. Aprì solo un cristo giallo con le vene gonfie e dure di bile nera. Mi disse; “Più avanti c’è l’ambasciata americana. Quando ebbi sete, aprirono e mi diedero quel che cercavo”. A passi lunghi mi avvicinai al grande edificio - pareva il viso di una bambina mascherata per sembrare già avvizzita e saggia - poi bussai.
La porta dava su un grande cortile. Dietro il lacchè pareva ci fosse una festa. E in effetti le bocche erano tirate in larghi, estatici sorrisi. Ma dalle gole usciva come un lamento d’upupa che riempiva il vuoto tra le colonne corinzie: le foglie scolpite in modo che apparissero già marcite.
Il lacchè chiese: “Che vuoi.” E io risposi. Poi chiese: “Chi ti manda?” E gli mostrai le mie labbra screpolate e la mia lingua percorsa da grosse crepe bianche. “Quello che ho da darti sta qua, nel mio taschino”. Tirò fuori un fazzoletto di seta. Mi disse Tira fuori la lingua prese un po’ di polvere dal fazzoletto e gliela gettò sopra: era sale.
Chiuse la porta ed ebbi ancora più sete.
Mi sentii preso in giro e una turgida corda di rabbia e veleno mi si agitava nel petto come una grossa biscia rognosa bisognosa di carezze. La sete montò ancora. E allora decisi di fare qualcosa: rubai una bottiglia di cedrata da un vecchio chiosco di gelati. Pensai, però Mezza la tengo. Più tardi avrò sete ancora.
Intorno, altra gente brancolava in cerca di pioggia. Quella mezza bottiglia, mi aveva permesso di accorgermene. Quella mezza bottiglia, era preziosa, mi accorsi. In breve tempo, divenni il re degli straccioni e degli assetati. Per un po’ di cedrata, o limonata, o bourbon erano disposti a barattare tutto: le nuore, le mogli, le figlie, le madri… E con madri, mogli, figlie e nuore divenni il re dei disamorati. E poi il re dei diseredati, e di chi aveva sepolto la dignità sotto il trogolo delle sere e dei mattini. Con la loro dignità riuscì a comprarmene una tutta mia. E per Corso Buenos Aires la gente mi guardava come pesci dentro a una boccia di vetro. Guardavano il mio vestito, il mio orologio, il mio toupet nuovo, al profumo di sandalo, la mia moglie nuova, profumata di zàffiro, e si chiedevano, tutti, cosa avessi fatto per meritarmi tutto quello.
Poi, una sera d’inverno, passeggiando nel grande parco a nord della città, beandomi dei miei privilegi, del mio merito e delle mie tasche gonfie di ciarpame, si mise a piovere. Ed io mi beai anche di quella carezza che Iddio in persona aveva deciso di regalarmi. Distesi il collo, e piegai in alto la testa per bearmi ancora meglio dell’aria fresca di gennaio e per vedere Dio negli occhi e stringergli la mano. Ma, arrampicatosi su un pioppo, vidi solo il lacchè che stava pisciandomi sul cappello. Chiesi solo “Che fai lassù.” “Aspetto” “Cosa.” “Che nostro Signore mi appaia” “Per fare?” “Per chiedergli cosa devo fare, quali santi devo pregare, stuprare o assassinare per meritarmi…” e un singhiozzo di profonda malinconia gli bloccò la lingua e il diaframma per un istante. Poi riprese: “…per meritarmi quella villa del cazzo che mi guarda dal punto migliore di Sunset Boulevard a Los Angeles”. Non mossi un dito. Non pronunciai un sibilo. Capivo. Capivo benissimo la sua disperazione. E allora bevvi. Aprì la gola e bevvi, come un disperato.
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muffa21 · 4 months ago
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DA QUI NON PASSERANNO
Potranno dire: “La Verità non esiste”. Ma io so che il sole sorgerà domani a dispetto di me, e so che oltre la mia finestra ci sono alberi e case e gatti e lucertole che si beano della luce di marzo e cadaveri che si beano dell’abisso, dell’oblio, del non essere più, del non essere mai stati. E so che l’aria non ha prezzo, e che l’acqua non ha prezzo, che l’amore non ha prezzo, e che, quando metteranno un codice a barre su queste cose, allora, diventerò il peggior criminale, ladro, figlio di puttana che questa Terra sul punto di franare abbia mai visto calpestare le sue zolle marce.
Bisogna vivere al di là degli schermi che illuminano le nostre ore. Anzi, spegnerli, ucciderli, farli diventare specchi neri e vedere cos’è che siamo diventati. I nostri occhi esausti, inariditi, un tempo satolli del silenzio di Dio, si cercheranno e non si riconosceranno; non si ritroveranno in quella carcassa monolitica di silice, litio, led e circuiti elettrici a cui abbiamo regalato, orfani di Padre, senza un sibilo di protesta, le nostre catene. Bisognerà, allora, cercare altrove. Bisognerà che il verde o l’azzurro o il nero o l’ambrato delle nostre iridi sfatte si riconoscano di nuovo nella ruota eccitata di un pavone, nello sguardo languido del cielo, nell’ala turgida di uno scarafaggio nei granelli cesellati delle spiagge. Bisognerà aprire i libri - di letteratura antica, di storia, di matematica purissima - e aprire le orecchie e ascoltare la voce delle genti che attraversano i deserti per giungere qui: in un deserto più vasto, ricco di rumore e di sogni stracciati. Quelle genti, che ancora credono in un Dio, che portano barbe e veli, e che, barbari, lapidano la gente per niente diranno: “La Verità esiste. Ed è questa e questa”. Li ascolteremo, intorno a un fuoco, e in sottofondo suoneremo Chopin e poi i Beatles e canteremo, infine, le poesie di Claudio Lolli come i Corifei, in Grecia, cantavano la tragedia di Antigone e Creonte. E alla loro Verità noi mescoleremo i nostri Dubbi. Di questa miscela feconda ci ubriacheremo, faremo insieme l’amore. E toglieremo loro le pietre e finalmente gli daremo le mani.
E a branchi i suprematisti scorrazzeranno e sputeranno addosso alle nostre utopiche bestemmie contro il loro Vitello d’Oro (e di sangue). Cerimoniosi, ci apriranno le gole come melograni maturi. Ma dal mio teschio, oggi, nell’anno del Signore 2025, su questo foglio, su queste parole non passeranno.
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muffa21 · 4 months ago
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MARTEDÌ, 5 AGOSTO 2024
Ho l’ansia in questo momento. Perché?
Inizio dalle sensazioni che provo.
Esplorando il mio corpo, sento un senso di pesantezza all’addome. Non penso sia una questione di visceri, ma di contrazione muscolare. I muscoli dell’addome sono tesi e rimanendo tesi per troppo tempo, ad un certo punto danno una sensazione non di dolore, ma di fastidio. L’ansia si concentra, poi, nella testa. Una tensione, anche qua, dei muscoli del collo, che sale, sale, sale, fino a contrarre (se esistessero) anche i muscoli del cervello.
Le emozioni.
Paura. Tristezza. Confusione.
Paura di che? Non lo so. Forse, è questo uno dei nuclei centrali della questione: non c’è alcun mostro che potrebbe sbranarmi, qui, nei quattro angoli di casa. Ma un mostro è esistito, anzi due: la malattia psichiatrica, e colui che l’ha generata: Francesco Ferrante.
La tristezza, forse, deriva dai lunghi anni, dal lungo logorio che questa contrazione dell’addome, che questa paura, hanno prodotto.
E forse, la tristezza, deriva anche dal fatto che il Mostro, Francesco Ferrante, fino a questo momento della mia vita, ha vinto.
Sta vincendo, perché il suo riverberare nel mio cranio ha prodotto ferite profonde che ancora fittìano.
Ferite grosse come canyon ancestrali; sanguinanti, purulente e cronicizzate.
La confusione è frutto del non sapere come affrontare il problema.
Esistono queste ferite. Queste ferite non si rimarginano. Le ferite fanno male (l’ansia). Come posso farle guarire?
Le ferite cosa sono in definitiva? Cosa ha fatto il Ferrante.
Ha abusato di me. Ha abusato delle mie mani (le mani che mia madre dice che non sono mai riuscito a far funzionare bene). Ha abusato della mia acerba curiosità nei confronti del sesso e dell’aspetto sessuale che rivestono le donne.
Ha trasformato le donne in esseri asessuati. Che non possono mai offrire il loro sacro pube a un essere dannato, orrendo, pieno di ferite purulente come me.
La mia non è paura del rifiuto. E’ certezza matematica del rifiuto. E’ l’assoluta convinzione che il sacro pube di una donna non è destinato alle mie mani. Alla mia bocca. Al mio sesso.
Ferrante ha scatenato l’Inferno dentro di me. La paura deriva anche dalla possibilità che quell’inferno possa ritornare.
Paura:
- Della impossibilità di avere una vita completa. Di dovere coartare per sempre l’istinto di baciare una donna o di farci l’amore.
- Del ritorno della malattia psichiatrica: dell’Inferno.
Soluzioni (Possibili):
- Nulla mi impedisce (realmente) di possedere una donna. Non ho menomazioni fisiche. Non sono brutto (cioè, dotato di malformazioni che mi storpiano il fisico come una sorta di Elephant Man). La convinzione che le donne sono esseri angelici è errata. Sono persone. Esistono donne moralmente orrende. Esistono donne normali. Non esistono angeli su questa terra.
Il rifiuto cosa è? Perché questo terrore? E’ un no. Non alla tua persona nella tua totalità. Ma alla tua persona, come passa attraverso gli occhi dell’individuo che ha conosciuto quella parziale porzione di te. Un’incompatibilità estetica, politica, programmatica.
E come può esistere il rifiuto (incompatibilità) può esistere il consenso.
Una donna può vedere in te qualcosa di potenzialmente buono. Di compatibile con i suoi gusti estetici (sì, perché possono esistere donne che possono trovarti attraente - brutto cazzone - e anche se non lo accetti (nemmeno questo!) lo sai) politici, programmatici
- La malattia psichiatrica al momento è sotto controllo. Assumi i farmaci regolarmente. Fai psicoterapia da dieci anni. Tieni tu stesso sott’occhio (forse con un po’ troppa meticolosità) ogni singolo singulto del pensiero, dell’umore e del comportamento.
Per risolvere il problema dell’Ansia, in definitiva, devi lavorare su una cosa (che poi sono due): non darla vinta a Ferrante. Lotta per raggiungere la tua libertà sessuale. Lotta per prevenire il ritorno dell’inferno. L’ansia che provi è il terrore della tempesta. Ma al momento non vedo nemmeno nuvole all’orizzonte. Ho tempo (spero) per poter vincere contro il Mostro. E se non vincerò, non avrò il rimpianto di non aver lottato. Di essermi lasciato divorare. Come ho fatto negli anni dell’infanzia (ma non è stata colpa tua, davvero, non lo è stata… tu eri un bambino. Un bambino non può combattere contro Godzilla, nemmeno contro Dracula, e neanche contro un cane rabbioso… eri un bambino… solo un bambino).
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muffa21 · 6 months ago
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AMALIA
Nel centro della Città Vecchia, a Riga - meno sette gradi sotto lo zero - troviamo un bar per riposarci dal freddo e riprendere fiato. Il bar si chiama Libertà. Esiste. Potete cercarlo sulle mappe, se volete: Kungu iela (il nome della via) o giù di lì.
Per pagare le poltrone e il tepore, ordiniamo due bicchierini del loro balsamo liquoroso, prodotto tipico della città, che odorano di manicomio ed hanno il sapore del metano. Beviamo, e alla radio passano - esperanto della Terra - un pezzo classico del rock anni ’80 e che ai tempi in cui il pezzo è stato scritto, qui lo si poteva ascoltare solo se qualche eroe, in odore di martirio, riusciva a passarti sottobanco la sua cassetta registrata intercettando una radio della Germania Ovest, oppure se eri uno psicopatico al soldo di altri psicopatici che ti avevano assunto nel KGB per mantenere un ordine, che nelle regole dell’universo e nelle fantasie del dio che avevano ammazzato non sarebbe mai potuto esistere. Se avevi questa attitudine per la macelleria industriale, oltre al disco di Under Pressure, ti era concesso anche un hamburger e un pacchetto di Lucky Strike per digerirlo meglio.
Le nostre mani, comunque, al bar Libertà, possono permettersi il lusso di muoversi a inseguire il mistero delle note intrecciate che colano dalla bocca di Bowie e di Mercury quando raggiungono il picco del sublime.
Poi, senza accorgercene, le mani continuano a muoversi e tutti lì dentro capiscono: siamo italiani. I gesti, però, non sono sguaiati. In tono calmo, rilassato, riflessivo, mettono delle linee e pongono degli accenti melodici sotto le nostre parole. Parole sottili, che si raccontano le brutture, le banalità e le meraviglie di un’amicizia pluridecennale.
Le nostre voci, in qualche strano modo, diventano come un caminetto acceso nel pallido pomeriggio di Riga.
E qualcuno sente freddo.
La ragazza che ci ha servito pochi minuti prima i bicchieri di Riga Balzam - un donna che in Italia avrebbe tappeti rossi stesi davanti ad ogni bettola, o casa, o raccapricciante postribolo dove il potere si mesce in carte intestate con lo stemma della Repubblica, e che qui, dove la bellezza sui visi delle donne abbonda, come se a dio fosse scappata la mano, è solo una tra le tante - questa donna di vent’anni, che De Gregori avrebbe descritto come una ragazza la cui espressione del viso somiglia alla frana di una diga, si avvicina.
Inizia con il parlare del liquore che ci ha servito. Dice che ne esiste una versione migliore, benché la ricetta non sia quella della tradizione, che ha un sapore fruttato, più aromatico, più bevibile e che ti trita il cervello allo stesso modo dell’originale. Dice anche che è quello che beve quando stacca dal lavoro.
Lei è rilassata e accogliente, e noi le chiediamo della Lettonia. Le chiediamo come mai alle undici della sera le strade diventano un deserto. E lei risponde che il motivo risiede nel fatto che qui si inizia a uscire e a far baldoria alle due di notte. Poi è lei a chiederci dell’Italia. E noi rispondiamo alla sua domanda. Finisce che passiamo due ore - mentre lei ogni tanto si allontana per lavorare - a conversare, in inglese - esperanto del potere - su Dante, la perestrojka, i russi, di come io sia diventato maggiorenne e del perché lei voglia diventare un medico e come mai, invece, io non ho voluto.
D’un tratto le sorge un dubbio. Ci fa - lei, la donna per cui gli Achei avrebbero spostato le loro navi fino alla cima del monte Olimpo per muovere guerra a Zeus in persona se solo avesse osato violarla, come aveva già fatto con Europa e Aracne - ci fa: non è che forse sono di troppo? Che magari sto violando i vostri spazi e il vostro tempo?
E mentre lo dice, arrossisce; le sue mani bianche e grandi davanti al petto come a volere farsi già lontana. E a noi pare ancora più bella, ed estranea, forestiera, straniera, in una maniera ormai irreparabile, in un mondo di ombre e panini al salmone del baltico e kvas, venduti solo per fottere i turisti. Straniera in Italia, e in Lettonia e sulla Terra e, forse, anche in cielo.
Ma il balsamo finisce.
E’ ora di pagare, ché Riga domani tramonta, e anche Amālija - questo il suo nome - dietro agli uffici, alle maschere e ai sogni americani.
Non ero mai andato all’estero, prima d’adesso. Mi faceva paura volare, mi faceva paura il mondo. Ma, aprendo finalmente la scatola cranica del pianeta, come prima figura, ci ho trovato dentro questa Elena di Troia che invece di spargere guerre, semina i campi di domande e di risposte feconde.
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muffa21 · 7 months ago
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Forse è vero: un destino esiste. Ma, al momento, sono convinto che esso non ha sempre la forma di una vena cava che punta al cuore. Delle volte si sfrangia, sboccia in un fascio di arterie aperte a ventaglio. Ti è concesso, dunque, di dirigerti verso le unghie dei piedi a scavare nel fango, oppure di percorrere la strada che conduce al magma dello stomaco. Puoi decidere di riposarti e contemplare il colore adrenalinico accovacciato nella soffice parte midollare di un surrene. Ogni tanto puoi scegliere di lasciare che i tuoi passi percorrano i ricordi del passato fino a incistarti, magari, per un secolo nel regno nostalgico del fiasco di Ammone. Oppure, puoi fermarti a capire quanto pesa in effetti il prurito che gonfia di sangue il tuo sesso e decidere quanto vale davvero sul piatto sbilanciato dei bisogni e delle galassie.
Fuor di metafora credo che gli esseri umani siano dei tentativi, degli azzardi, delle scommesse, che a zonzo si muovono seguendo una luce. Ma la luce esiste solo perché noi possiamo nominarla - lu-ce - e dunque attribuirle un significato. Si può scegliere che luce sia tenere in catene e calpestare la faccia e la luce di un altro. E io so, e tu sai, che è sbagliato. Lo senti dentro, senza che ci sia il bisogno di scomodare Kant. Vendicati pure, se vuoi, del male che credi ti sia stato fatto. Ma mentre accoltelli il tuo assassino, o il papa, o un arcangelo gabriele, o iddio in persona, sentirai un piacere arrossirti le gote e una voragine spalancarsi tra i gomitoli delle tue budella.
Io, per me, ho scelto che la luce è ascoltare, comprendere come mai gli autunni mi rendevano felice e le estati sempre più disperato. Credo, al momento, che fosse perché la luce d’agosto mi pareva una truffa troppo grande per il mio piccolo io zoppo assetato di un sorso di infinito. Settembre andava bene. Novembre era perfetto. La sua piccola fredda lampada era come una mamma che mi sussurrava, con fiato di camomilla e di miele, caldo: “Adesso puoi… adesso puoi dormire”.
Forse il destino esiste. E forse il nostro destino - la nostra potenziale salvezza - è sovrapporre, far giungere alla stessa lunghezza l’onda di luce di agosto con la nostra.
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muffa21 · 7 months ago
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LA CAREZZA
Qual è il senso di questo ostinarsi a cavar fuori parole dal pozzo senza appigli della mia vergogna? E poi intrecciarle per renderle più soffici all’orecchio più masticabili al palato? Non mi preoccupa per niente che la poesia, oggi, non abbia mercato. Né che non entrerò mai nei canoni, sbozzati da arguti uomini che al mondo hanno avuto da offrire soltanto un goniometro, un compasso e la presunzione di possedere un gusto sopraffino - come se la loro lingua non appartenesse in realtà al regno delle muffe e dei vermi - I versi che scrivo stanno dentro al tamburo di una pistola che tengo perennemente puntata contro la tempia. Tutti fanno cilecca e io rimango vivo e inutile. Ma aspetto e spero che uno finalmente esploda e il sangue colatomi dal naso fecondi il mondo: ne nasca una carezza.
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muffa21 · 7 months ago
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Forse, trentaquattro anni sono troppi per iniziare ad aurorare. Ma al buon dio non sono mai parsi troppo pochi gli anni di suo figlio, o quelli dei mie due fratelli nati morti, per concedergli la gioia della notte senza riservargli prima la gentilezza di assaporare lo stagnante mistero del crepuscolo.
È vero: ho perso tardi i miei denti da latte. Ho dovuto prima costruire gengive abbastanza forti per poter reggere il peso delle mie zanne da cane. L’ho fatto in aule di scuola spettrali e nel paludoso labirinto della malattia mentale. Ma non è stato tempo sprecato. Soltanto tempo. Tempo. Un costrutto della mente umana che a volte assume la forma di uno sciame di cavallette. Tu, spiga di frumento solitaria, in un campo brumoso, sterminato, cullata mollemente dal grecale. Lontani, i colli lunghi delle ciminiere. Intorno, il silenzio di dio. Il Silenzio.
Aurorare a trentaquattro anni. Forse, una vergogna. Per molti, uno sperpero. Meglio, però, che vivere nell’infinito meriggiare di una vita che s’illude di non essere fragile; passata a mangiucchiare e a sbevazzare sopra le carcasse dei Maestri, teneri assassini di altri, più antichi, Maestri. Assisi sulla loro montagna di cadaveri freddi e luminosi, come scimmioni con le loro punte di selce, curvi su uno schermo a vedere una ragazzina impiastricciarsi le labbra, o Riga, nello splendore del natale, lasciata che venga assaporata da chi ha scelto, troppo tardi, l’aurora e non il mezzogiorno fasullo di un sole posticcio.
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muffa21 · 7 months ago
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Se diventando più vecchio d’un giorno aumenta la confidenza nei confronti del mondo, riesci ad essere una pedina del gioco più libera di muoversi dove vuole, consapevole di non essere né un cavallo né una torre, ma uno scheggiato, anonimo pedone. Se diventando più vecchio di dieci anni inizi a far pace con la mano che decide le tare, gli handicap, i lupi che ti verranno posti sulla scacchiera, e a far pace con la maschera incomprensibile che si cela sotto l’antica polvere sul tuo viso; e inizi a prendere gusto nel prendere in giro e nel fare l’amore col Gioco… è pur vero che la paura aumenta. La paura non di perdere - ché in questo Gioco vincono solo gli idioti, poverini, che non hanno capito nulla, neppure delle regole basilari - ma che il gioco finisca. Che venga il momento di salutare la luna, le mantidi, gli altari di pietra, il mare… con lo strano gorgoglìo rabbioso di non avere avuto mani tanto giganti da riuscire tutto ad afferrare, con tutto e tutti e tutte giocare. Una piccola mano, invece, bianca, esangue, come una bandiera di resa, morta, magari all’improvviso, che non è stata neppure in grado di agitarsi in un ultimo gesto cerimonioso di commiato.
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muffa21 · 7 months ago
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Libero di tracciare un segno nel fango che dice: “Ho ballato, scritto, cantato, faticato, sudato, prodotto scartoffie, benessere e dolore. Vi ho amato e poi detestato. Ho provato commozione e gratitudine per aver conosciuto l’amore di mia sorella e delle grandi anime splendenti di chi mi ha concepito”.
Sono grato per ogni passo che posso ancora gettare e che getto come talleri su un tavolo verde, azzardando tutto, sulla grande fronte serena e microbica della Terra. Grato per ogni sillaba che riesco ad articolare, per ogni dito che riesco a piegare, per ogni pasto che riesco a guadagnare, masticare, digerire; per ogni pisciata che la mia uretra pervia, la mia vescica tonica e i miei reni sani mi permettono di fare ogni volta che ne sento il bisogno. Sono grato per ogni ondata di sangue che la mattina rende il mio sesso una freccia feroce puntata contro il cuore snudato delle stelle. Grato per ogni fotone che le mie retine riescono ancora a raccogliere dall’enorme bianco nutriente calderone magmatico del sole. E per tutte le forme che questi fotoni riescono ad assumere ed io a interpretare, quando si sfrangiano sulle nudità di una donna, oppure sulla corteccia di una betulla, in estate, o sulla turgida carne azzurra del mare, o sulle scapole stondate di un orizzonte brumoso e senza fine in un mattino d’inverno.
Però, mi si screpolano le vertebre e la mia anima si affloscia nel sapere che morirò. Ma la morte è una lupa feroce che inseguendoti dà un senso a quei tuoi muscoli che altrimenti terresti attaccati alle ossa come degli orpelli privi di significato. La morte pompa dentro i muscoli acido da batteria e gli consentono di creare, distruggere, correre e saccheggiare la grossa vulva succosa della vita. Sono grato del fatto che io abbia una scadenza scritta in qualche punto invisibile sulla parte posteriore del mio corpo e che, dunque non possa leggerla. Mi rende fragile, e perciò commovente. Sono una barca di carta sul punto di inzupparsi di mare e di affondare, ma che ancora - incredibile – non affonda; libero ancora di raggiungere porti segreti, porte segrete, dove si respirano lingue e odori diversi dai miei. Sono grato anche alla morte, dunque. Al regalo finale, alla bestemmia suprema rivolta da dio contro gli esseri umani
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