osservatoriosubliminale
osservatoriosubliminale
Osservatorio Subliminale
145 posts
Volevo vedere le stelle, ma mi sporcai soltanto le scarpe.
Don't wanna be here? Send us removal request.
osservatoriosubliminale · 6 months ago
Text
Chantal
Chantal adora guardare in alto, forse più di ogni altra cosa. Il suo sguardo è spesso rivolto verso l'alto e i suoi occhi, marroni e adorabili, son sempre alla ricerca di nuovi dettagli: lo spigolo di quel palazzo, il ghirigori di quel monumento, quella persona in mutande che fuma una sigaretta con fare sognante o un gabbiano che sorvola la zona alla ricerca di qualcosa. Son tutti dettagli che Chantal coglie e immagazzina dentro di sé con brama e gelosia, quasi come se fossero tesori nascosti, quasi come se la rendessero unica in un ecosistema di cui fa parte, ma che può muoversi e andare avanti, anche senza di lei.
Chantal adora osservare le sue mani. All'improvviso si ferma, apre le sue mani e le scruta, cercando ogni piccolo particolare degno di nota: il neo, sotto il palmo della mano destra. La cicatrice, sull'indice della mano sinistra. Le osserva nei minimi particolari, proprio come fa quando guarda in alto e, dopo aver memorizzato la conformazione dei suoi dettagli chiude gli occhi e le ricrea nella sua mente, immaginandosi in situazioni comuni: si immagina quando prende la metro per andare dal suo ragazzo, oppure quando si sporca di ceramica provando a dare forma a una delle sue sculture, di acrilico quando dipinge uno dei suoi quadri, di inchiostro quando ha scritto questo racconto. Sporcarsi le mani, l'unico modo che Chantal conosce per abbandonare l'alone di perfezione che mostra agli altri con insistenza, quasi ossessione.
Chantal adora guardare in alto, forse più di ogni altra cosa. Il suo sguardo è spesso rivolto verso l'alto e i suoi occhi, marroni e adorabili, son sempre alla ricerca di nuovi dettagli: lo spigolo di quel palazzo, il ghirigori di quel monumento, quella persona in mutande che fuma una sigaretta con fare sognante o un gabbiano che sorvola la zona, alla ricerca di qualcosa. Ma nel farlo a Chantal gira la testa e, nel suo costante bisogno di aggrapparsi a qualcosa per non cadere, usa proprio quelle mani che tanto odia ma di cui ha bisogno per aggrapparsi al mondo, anche solo per non lasciarsi trascinare via, anche solo per non cadere.
Chantal ama accarezzare il suo ragazzo nel cuore della notte. Mentre tutti dormono Chantal sa che può essere sé stessa, senza avere paura. Chantal sa che può mostrarsi agli altri annullando qualsiasi livello tra sé e gli altri e per connettersi a Riccardo usa proprio le mani, quelle mani, il suo strumento per connettersi al mondo e agli altri. Quindi, chiudendo gli occhi, comincia a carezzare Aldo: lo fa passando le sue dita sulle scapole, proprio come piace a lui per poi passare al petto, il punto più sensibile di Francesco. A un certo punto una smorfia, sembra che Carlo si stia per svegliare, ma non è così e Chantal si sente libera di continuare. Ma Chantal sa che non durerà molto tutto questo, Chantal sa che se continuasse rimarrebbe invischiata in un qualcosa che non può portare avanti, in alcun modo.
Chantal ama giocare con il suo ciuffo biondo cenere. I polpastrelli intrecciano quel ciuffo che, di conseguenza, si avvinghia al polpastrello con sempre più forza. Chantal, che percepisce questa cosa, lo osserva contorcersi, o almeno ci prova. Il ciuffo prende la forma di un riccio e Chantal lo sa ma non riesce a vederlo in alcun modo e, più prova a scrutarlo, più non riesce a vedere. Ma quel gesto, così semplice, permette a Chantal di aggrapparsi a qualcosa quando il mondo non le consente nessun appiglio di sicurezza. Ma è una sicurezza temporanea, quel ciuffo ritornerà al suo posto e Chantal dovrà per forza aggrapparsi a qualcosa. È una conseguenza naturale delle cose, come un onda che sbatte e riposa sugli scogli o il sole che sorge all'orizzonte.
A Chantal piace chiudersi nella sua realtà, escludendo tutti gli altri. Lo fa di notte, quando la fine giunge su tutti gli altri ma non su di lei, non nella sua realtà. Usando le sue mani crea delle ombre, cariche di vita e forme. Un cane, che abbaia a un passante particolarmente antipatico. Un uccello, che vola sulla sua testa con fare guardingo. Una barca, che salpa per mete lontane lasciando tutto e tutti indietro, anche sé stessa. Un nuovo ragazzo, che Chantal adora particolarmente. Nel giocare con le ombre Chantal si mette alla luce mostrando solo il meglio di sé, lasciando che il marcio dentro di lei venga nascosto, proprio da quelle ombre. Ma a un certo punto la luce verrà spenta e Chantal sa che la polvere, nascosta sotto al tappeto, verrà fuori come un'onda, che si infrangerà nelle increspature delle sue insicurezze.
Chantal adora osservare le sue mani. Lo fa quando le gira la testa, in preda all'ennesima sua vertigine. Aggrappandosi a qualcosa Chantal chiude gli occhi e immagina affidare le sue mani a qualcuno, che la possa stringere a sé per tenerla al sicuro. Immagina un uomo alto, con una giacca verde e delle mani forti, che la stringe a sé e la rassicura, dicendole di non avere paura. Che tutto passerà, che andrà tutto bene. Chantal accenna un piccolo sorriso, una piccola lacrima di commozione ma, quando riapre gli occhi, accanto a Chantal non c'è altro che Chantal, o per meglio dire la copia sbiadita di Chantal, che riflette sugli altri in maniera calcolata, ragionata, premeditata. Una copia di Chantal ripulita e messa sotto la luce del sole degli altri, costruita per poter dare alle sue mani la sicurezza di cui hanno bisogno, senza fare fatica.
Chantal adorava guardare in alto, forse più di ogni altra cosa. Ma Chantal non guarda più in alto. A Chantal non piace più guardare in alto ma si ritrova costretta a farlo. Nel percorrere le scale, così lunghe e angoscianti, della sua città ha bisogno di capire dove portano, cos'è che le spetta dopo tutta quella fatica. Ma se il premio non fosse soddisfacente? Se, l'arrivare alla fine la rendesse debole, si fronte agli altri? Per questo Chantal preferisce non guardare. Nel non vedere la fine Chantal si rassicura, perché è negli inizi che Chantal riesce a stare bene, nel non arrivare alla fine delle cose Chantal riesce a essere sé stessa, senza alcuna paura.
Chantal odia le sue mani. Chantal le guarda e pensa che siano il suo unico modo per connettersi al mondo e agli altri e, allo stesso modo, il suo metodo per tenersi forte di fronte all'ignoto del mondo e non avere paura, proprio quand'è di fronte agli altri. Ma quelle mani, così fragili ed esili, non le concedono di scegliere. Quelle mani la costringono ad aggrapparsi alla prima cosa che trova. Chantal è costretta, anche quando non vuole, anche quando vorrebbe altro, perché ha paura di cadere.
Chantal adora rannicchiarsi su sé stessa, mentre osserva il sole sorgere dietro le colline della sua città. Quando lo fa crede di essere l'unica persona sveglia nel raggio di chilometri e questo le dà la sensazione di essere, sempre, un passo avanti agli altri. Questo la rassicura anche se sa, nel profondo nel suo cuore, che non è così. Chantal sa che è tutta un'illusione, Chantal sa di essere solamente un piccolo ingranaggio che si muove, assieme a tutti gli altri, in quella città così bella ma così austera nei suoi confronti. Lo fa mentre ascolta il rumore delle onde che la culla, come con una neonata che ancora non ha imparato cos'è il mondo, lo fa mentre stringe le sue gambe tra le sue braccia, con tutta la forza che ha, per proteggersi da sé stessa. Lo fa mentre piange, sapendo che dovrà abbandonare un'altra persona al suo destino per cercare una nuova mano a cui aggrapparsi e tenersi forte.
Chantal amava osservare le sue mani, fino a quando non ha notato un dettaglio di sé. Una linea, su palmo della sua mano che si interrompe a metà del palmo stesso, senza alcun motivo. Un dettaglio di sé che non ha mai mostrato a nessun ragazzo perché non è arrivata a farlo, perché nel scappare da sé stessa scappava anche dai suoi ragazzi che abbandonava al loro destino senza battere ciglio, in una ragione autocostruita attorno alla sua necessità di aggrapparsi a qualcosa. Ammirando le sue mani e le sue dita, che le permettevano di infilarsi ovunque, che le permettevano di aggrapparsi al mondo e tenersi forte, Chantal si sentiva forte, sicura di poter avere sempre qualcuno accanto da prendere per mano, per aggrapparcisi e non cadere.
Chantal prova a guardare in alto, ma non riesce più. Costringe il suo sguardo a guardare verso l'alto e i suoi occhi, marroni e adorabili, provano a cercare nuovi dettagli: lo spigolo di quel palazzo, il ghirigori di quel monumento, quella persona in mutande che fuma una sigaretta con fare sognante o un gabbiano che sorvola la zona alla ricerca di qualcosa. Ma adesso in alto non c'è più nulla, solo l'infinità del cielo e Chantal, nel guardare le nuvole all'orizzonte, guarda sé stessa, Chantal.
Chantal prova a guardare in alto, ma sa che non può. Nel sentirsi sola e persa in quelle nuvole le girerebbe la testa e le sue mani, di riflesso, cercherebbero di nuovo di aggrapparsi a qualcosa. All'improvviso Chantal si ferma, apre le sue mani e le scruta, cercando ogni piccolo particolare degno di nota: il neo, sotto il palmo della mano destra. La cicatrice, sull'indice della mano sinistra. Le osserva nei minimi particolari, proprio come fa quando guardava in alto e, dopo aver memorizzato la conformazione dei suoi dettagli chiude gli occhi e le ricrea nella sua mente, immaginando il suo nuovo ragazzo, che accarezzerà nel cuore della notte e a cui si aggrapperà, quando le girerà la testa.
0 notes
osservatoriosubliminale · 11 months ago
Text
la prima fase del sonno
Non riesci a dormire. Non ci provi nemmeno. Non riesci a non smettere di pensare. Non fai nulla per liberare la mente. Non ti metti comoda. Non c'è un posto in cui lo saresti. Non piangi. Non ti servirebbe a nulla. Non sorridi. Non c'è motivo per farlo. Non apri gli occhi. Non c'è nulla da vedere. Non ascolti il mondo esterno. Non c'è nulla da ascoltare. Non puoi credere di esser di nuovo qui. Non ti immagini in nessun altro posto.
Eppure eccoti Claire, benvenuta. Questa è la prima fase del sonno. Mi sei mancata.
Vorresti smettere di pensare, ma sai meglio di me che è impossibile smettere. Vorresti dormire, ma nemmeno le mura della tua stanza, addobbate a tua immagine e somiglianza, possono proteggerti. Vorresti scappare, ma non sapresti dove andare e, per quanto piccolo, almeno il tuo letto riesce a contenere e delimitare il tuo corpo, rappresentazione fisica di ciò che sei. Vorresti darmi la mano, ma non sai più dove sia finita, come aggrappartici. Vorresti star bene, ma la tua stessa essenza te lo impedisce, il peso di te stessa non te lo concede.
Sei soggiogata dalla finta felicità che ti circonda. Sei affaticata dal mondo e dalle sue azioni. Sei trascinata nel vortice delle tue stesse pessime scelte. Sei spaventata dalle conseguenze di ciò che fai. Sei ferma nel credere che sia questa la realtà giusta per te. Sei convinta di essere nel bene e nella ragione. Sei immobile nelle tue decisioni.
Ma sei davvero felice? Ma vuoi davvero vivere così? Ma è questo quello che vuoi per te? Ma sei sicura di voler far finta di nulla? Ma sei fiera di ciò che sei diventata? Ma va davvero tutto bene?
Quindi ti rigiri, convinta che ci possa essere un posto che possa acquietare le tue sofferenze. Ma non c'è o, se c'è, esiste solo quando chiudi gli occhi. Quindi provi a immaginarmi, lì con te. Nella stessa stanza, abbracciati l'uno all'altro mentre ti proteggo dal mondo esterno. Ma non è più possibile, io non ci sono più. Quindi provi a dormire, chiudendo gli occhi il più forte che puoi. Ma questo non ti farà scappare, domani sarai di nuovo qui, a sopportare il peso di ciò che sei. Quindi pensi ad altro e puoi farlo, ci mancherebbe. Ma il tuo cervello ti riporta qui, sempre e comunque. Quindi rifletti su come cambiare le cose, ma è troppo tardi. Ma non è mai troppo tardi e quindi pensi a cosa potresti fare. Quindi immagini. Potresti essere un'altra persona e fare quello che ti farebbe stare meglio. Ma non ne hai il coraggio, preferisci soffrire e far finta che vada tutto bene.
Però stai male. Però non sei felice. Però ti penti di ciò che hai fatto. Però non ti piace chi ti sta attorno. Però sei triste per ciò che sei diventata. Però non sopporti più la tua stessa vita. Però non sguazzi più bene in questa sofferenza. Però non sai più cosa vuoi, perché quello che vuoi è irraggiungibile.
Desideri essere da un'altra parte, il tuo corpo materiale ti sta stretto. Desideri chiamarti in un altro modo, sarebbe più facile per te fuggire. Desideri tornare indietro, per non fare più gli stessi errori. Desideri avere il coraggio, per prendere in mano la tua vita. Desideri riuscire a parlare, per esprimere ciò che hai dentro. Desideri chiedere scusa, per essere felice.
E se provassi a chiedere scusa? No, per te sarebbe solo tempo perso. E se provassi a cambiare le cose? No, ne avresti troppa paura. E se allontanassi tutte queste persone? No, non staresti bene da sola. E se mi scrivessi? No, non ne avresti il coraggio.
Claire, sei sfinita. È buio lì fuori. Il tuo corpo è accasciato su questo letto fatiscente, tremolante dal freddo e dalla tua tristezza. Le tue braccia sono sotto la federa del cuscino e tengono in mano un coltello, per recidere la gola alla te stessa cosciente, sveglia, che vive nel mondo e che interagisce con gli altri, col sistema, con l'impalcatura che ti sei creata attorno per tenerti in piedi, sveglia, all'apparenza felice.
Claire, chiudi gli occhi. È tardi. Sei troppo debole per continuare a lottare, troppo stanca per lottare contro la degradazione del tuo corpo, che rilassa i muscoli e abbassa la temperatura. Sei troppo stanca per lottare contro il tuo cervello che rallenta i tuoi pensieri, contro il tuo cuore che abbassa il tuo battito cardiaco. Il tuo corpo lo fa per il suo bene, il tuo corpo lo fa per sé stesso, te sei solo l'elemento che ostacola il suo naturale riposo.
Claire? Stai dormendo?
Claire, prendi la mia mano. Fidati di me. Nei tuoi sogni tutto è possibile e io sarò lì, ad aspettarti e prenderti per mano. Ti porterò e ti vedrei felice, come non lo sei mai stata. Andremo dove hai sempre voluto portarmi e io lo stesso, vivendo tutti i ricordi che non abbiamo vissuto e costruendo quello che ora vuoi per noi, anche se io non ci sono più.
Claire, quanto sei bella. Ora che posso vederti dormire non posso fare altro che mettermi seduto e osservarti, nei tuoi piccoli micro-dettagli: le tue lentiggini sul naso all'insù, le tue mani tremolanti che cercano di afferrarmi, le tue labbra socchiuse. Vorrei vedere il tuo sguardo, che mi scruta nell'anima e mi trasmette amore ma non si può più, posso solo immaginarlo.
Claire, forse è meglio che vada.
È l'ora di darti la buonanotte. È il momento di darti un bacio.
0 notes
osservatoriosubliminale · 11 months ago
Text
dimmi quando
dimmi quando, perché mi vestirò a gran festa (anche se avrò la giacca sgualcita)
dimmi quando, scriverò un discorso. poi lo dimenticherò, così da poterti dire quello che sento nel cuore e pentirmene il giorno dopo
dimmi quando, dimmi anche dove. spero di fronte a un tramonto mentre guardiamo il mare o davanti a un supermercato, che devo prendere l'insalata
dimmi quando, perché sono stanco d'aspettarti. no, non mi confondere, non è come pensi
mi correggo
dimmi quando, perché non riesco più ad aspettarti. l'unico posto che immagino per me è lì, accanto a te. così va meglio?
dimmi quando, ma dimmi anche il perché. li conosco ma parlamene comunque. piangi se possibile, perché avrei la scusa per tenerti stretta a me
e ah, dimmi quando, così mi taglio le unghie. non vorrei farti del male mentre ti asciugo le lacrime
dimmi quando, ma non quando di preciso. dammi un'indicazione, non so, "da 1 a 3 settimane", così potrei essere sorpreso ma non troppo, preparato ma col dubbio di quando accadrà
dimmi quando ma non troppo, non voglio lasciar parlare solo te. ho bisogno di parlarti, tirar fuori tutto quello che ho dentro, dirti quanto mi sei mancata
dimmi di spegnere la luce, così potrei pensare a tutte le volte che ho immaginato tutto questo. Poi sobbalzare, poiché avevo già vissuto questa realtà
dimmi di abbassare la voce, perché sarò arrabbiato con te. ma non voglio urlare, non voglio svegliare il vicinato
dimmi che non litigheremo, perché non vorrei che finisse così. anche se so che finirà così, per questo sei qui quindi per favore dimmi quando te ne andrai, così mi organizzo. potrei avere da fare, magari la spesa
anzi, facciamo così. non dirmelo, tanto se una sera non mangio l'insalata non succede nulla
dimmi quando, anzi, non farlo perché ho paura che tutto questo accada
mh, ho cambiato idea
dimmi quando, anzi, non dirmi nulla e fallo il più presto possibile. è l'unica cosa che voglio
0 notes
osservatoriosubliminale · 1 year ago
Text
Prendimi per mano ~ microstorie
Prendimi per mano, avanti. Che aspetti? Ti porto lontano, ti faccio vedere quello che non hai mai visto, quello che non hai nemmeno immaginato. Avanti, raggiungimi. La vedi la mia mano? Ora afferrala e smettila di pensare, smettila di avere paura. Non pensarci, andrà tutto bene. Raggiungimi, sarai felice insieme a me. Posa la tua mano sulla mia che andremo lontano. Tutto si risolverà, devi solo chiudere gli occhi e affidarti a me. Non ti farò del male, non te ne potrei mai. Perché stai pensando? Non avevi detto di smettere? Avanti, prendi la mia mano e non pensare più. Smettila di pensare. Pensare ti fa male, pensare ti rende solo diverso dagli altri, ma non in maniera migliore, no. L'unica cosa che non devi fare è pensare. Pensare va contro di me. Quindi non farlo e ascolta te stesso, la tua vocina interiore. Ascoltala e afferra la mia mano, forte. Non lasciarmi più, perché senza di te io non esisto. Senza di te sono vuota, in balia della mia stessa vita. Tieniti forte che andiamo al mare. Tieniti forte che andiamo a Vienna. Mi tengo forte, perché senza di te non saprei dove andare.
0 notes
osservatoriosubliminale · 1 year ago
Text
la prima fase del sonno ~ microstorie
Claire dorme o meglio, vorrebbe dormire, protetta dalle mura della stanza ma non può, non riesce, non le è data la possibilità. Si gira e si rigira tra le lenzuola, ma più lo fa e più non riesce a dormire, travolta dal suo stesso essere. È la prima fase del sonno. Claire vorrebbe dormire, soggiogata com'è dai bisogni del suo corpo o, più semplicemente, soggiogata dalla realtà del mondo che la circonda, dalla fatica che il mondo le lascia addosso. È un uragano, una roccia, che non riesce a sopportare, a reggere, a sostenere. Non riesce, intrappolata com'è all'interno di un vortice, una spirale discendente che dovrebbe portarla al sonno. Un vortice di pensieri, costruito dalla sua stessa vita e dalle sue stesse scelte che rinnega, ogni giorno. Claire vorrebbe dormire ma costruisce delle nuove realtà, diverse da quella che conosciamo, in cui si prepara alla realtà, quella che tutti conoscono. Claire non è pronta alla vita, quindi ogni notte si prepara ad affrontare il prossimo evento, la prossima sfortuna, il prossimo colpo di fortuna. Claire non sa cosa le succederà, quindi si prepara a tutte le evenienze, a tutte le possibilità e, quando sente di essersi preparata abbastanza, finalmente dorme. Claire si è addormentata e sorride, mentre i suoi capelli biondi adornano i suoi fianchi. Chissà cosa sta sognando Claire, chissà cosa succederà a Claire domani. Ma dormi bene Claire, riposati, che domani è un altro giorno e avrai bisogno di te stessa, più di ogni altra cosa.
0 notes
osservatoriosubliminale · 1 year ago
Text
una telefonata ~ microstorie
Joseph attendeva una telefonata, da fin troppo tempo. Era tardi e per non pensarci, Joseph, guardava l'orizzonte, ricordandosi di dove fosse fino a poco tempo fa: eccolo lì, il Joseph di qualche anno fa. Viveva in una città minuscola, antica, antiquata, che non gli era mai piaciuta, che aveva sempre mal sopportato, così aveva deciso di andare a studiare fuori. In quel freddo in cui si ritrovava ora e che mal sopportava si sentiva a casa, anche se non sapeva bene cosa volesse dire sentirsi a casa. À la maison, come avrebbe imparato poi a dire. Joseph pensava alle responsabilità che si era ritrovato addosso, quasi senza volerlo: studiare, lavorare, cercare di costruirsi un futuro migliore in quel posto così inospitale, freddo, crudele sotto certi punti di vista. Il tutto da solo, il tutto senza di lei. Andare in quel posto era stata un'intuizione, un sentore che l'aveva spinto a rischiare il tutto per tutto pur di stare bene. Non conosceva nessuno, non conosceva la lingua, i posti, il cibo locale, le usanze, ma non era importante perché Joseph avrebbe imparato a mimetizzarsi in mezzo agli altri. Si sarebbe adattato, Joseph sapeva di poterlo fare. L'unico mezzo che gli ricordava dell'esistenza del suo passato, oltre a quell'attesa, era il suo cellulare. Ogni tanto, mentre studiava o si riscaldava le mani per non patire il freddo, il suo telefono squillava: a volte era la madre, che si preoccupava per lui. A volte il padre, per verificare se il figlio stesse bene, con tono freddo e austero, com'era sempre stato. Joseph, però, non voleva le loro telefonate, no. L'unica telefonata che voleva ricevere era la sua, solo quella. Joseph le voleva bene, ma sapeva che non avrebbe mai ricevuto quella chiamata, ma allo stesso tempo sperava: la sera, quando provava a dormire, guardava il soffitto e teneva il telefono forte a sé sperando che quella telefonata arrivasse. A volte immaginava lo squillo del cellulare, il suo numero di telefono sullo schermo, la sua voce, calda e lontana e ricostruiva, battuta dopo battuta, quella telefonata:
"Speravo tanto tu mi chiamassi".
Quella chiamata non arrivò mai e Joseph, dopo qualche anno, tornò a casa.
"Avevo paura a farlo, pensavo non volessi sentirmi".
Era tardi, fin troppo tardi. In dormiveglia il telefono di Joseph squillò, era lei.
"Invece volevo tanto che tu lo facessi, solo che avevo paura".
Joseph non se ne accorse e si addormentò, ignorandola.
"Avevo paura anch'io, tanta paura".
Il giorno dopo Joseph si svegliò e lesse il suo nome sul display.
"Io ce l'ho ancora".
La ignorò.
"Forse avrò sempre paura di te".
0 notes
osservatoriosubliminale · 1 year ago
Text
il problema delle 3 scelte ~ microstorie
Il mio essere è stato abbastanza privo di etichette, ma è da quando prendo la metro che ho addosso più parole e ruoli di quel che vorrei. Non sono stato mai avvezzo all'attività fisica, ma è da quando ho iniziato a lavorare in quel posto che sono diventato uno che corre, all'impazzata, per arrivare in tempo al lavoro, agli appuntamenti, ai meeting, ai colloqui, agli incontri informali con i colleghi sempre un po' antipatici, senza nulla da dire, senza nulla da darmi e dar loro. Da quando mi si è rotta la macchina sono diventato sia un pendolare che un pensatore, ma mi spiego meglio: ogni mattina, quando mi sveglio, il mio orologio segna le 7:30. Mai un minuto in più, mai un minuto in meno. Alle 8 sono alla stazione sotto casa mia, alle 8:05 prendo la metro, alle 8:45 sono alla stazione vicina al lavoro e, da lì, mancano soltanto 15 minuti a piedi. Entrerei a lavoro alle 9 e sarei in orario, se solo non fosse per una scelta assurda, irrisolvibile, che devo fare ogni santo giorno: quale scala mobile prendere? Dopo aver salito la rampa di scale all'uscita della metro ci sono 3 scale mobili: la 1°, quella più vicina alla scala, è quella che prendono tutti poiché più comoda ma è quella più affollata. La 2° scala mobile, quella centrale, non è così lontana dalla 1° ma ha bisogno di un po' più d'impegno per essere raggiunta rispetto alla 1°; inoltre è anche meno affollata, per quanto comunque sia più affollata della 3° scala mobile, quella più lontana. È evidente il fatto che quest'ultima sia praticamente deserta rispetto alle altre, visto l'impegno fisico che ha bisogno per essere raggiunta. Ma ogni volta che esco dalla metro mi fermo e rifletto a quello che potrei fare: è obbligatorio passare davanti alla 1° scala mobile, poiché è sulla strada per raggiungere tutte le altre, quindi la prima cosa che faccio è arrivare all'inizio di quella scala. La guardo, ma solitamente vado avanti e raggiungo la 2° scala, quella di mezzo. Non è una scelta che faccio io però, perché se mi ritrovo in mezzo a delle persone le seguo, perché se più persone fanno una determinata scelta allora potrebbe essere la scelta corretta, per quanto ci possa essere sempre spazio di manovra. Davanti alla 2° scala mobile, però, mi fermo perché qui cosa dovrei fare? Potrei andare avanti, fare un piccolo sforzo e non avere nessuno attorno, potendomi permettere anche di camminare e arrivare in cima più velocemente, ma se restassi qui potrei fare meno fatica e raggiungere, con un ritardo discreto, il lavoro. Questa scelta sembra banale lo so, ma quelle 3 scale mobili sono per me una scelta. Una scelta, un qualcosa che mi spaventa così tanto da immobilizzarmi e tenermi fermo, aspettando che qualcuno scelga per me, per il meglio. Non voglio ragionare, voglio solo stare tranquillo senza pensare, cercando di vivere una vita senza etichette che è sì banale, ma tranquilla, serena, senza alcun grattacapo, preoccupazione, rischio. Ecco perché sono un pensatore, perché non voglio scegliere, affatto. Scegliere mi fa paura, scegliere mi immobilizza perché, di fronte a numerose possibilità, io voglio solo essere in grado di sopravvivere, senza fare alcunché. A un certo punto, però, ho notato dei lavori in corso nella metro. Lì per lì non capivo ma, dopo poche settimane, ho visto che avevano installato un ascensore, per permettere alle persone in difficoltà di salire più comodamente. C'ho pensato a lungo, ma la mia difficoltà è proprio scegliere e, senza pensarci due volte, ho deciso che da quel momento in poi avrei preso l'ascensore.
0 notes
osservatoriosubliminale · 1 year ago
Text
Pareidolia ~ microstorie
Un volto, in mezzo a tutte queste nuvole. Lo vedo, eccolo lì. Guarda! So che è tutto frutto della mia immaginazione, ma adoro sdraiarmi qui e guardare le nuvole per trovare geometrie, forme, contorni a me familiari. Una casa, lì in mezzo, guarda! Continuo a guardare tra le nuvole, giorno dopo giorno, perché è come vedere i contorni di ciò che desidero davvero: un qualcuno che mi stia accanto, un equilibrio soddisfacente, una vita gratificante. Le vorrei queste cose, ma non ho il coraggio di conquistarmele, non ne ho la voglia e quindi immagino, guardo, indicando con le dita quelle forme. Un anello, la felicità, la speranza di un futuro migliore. Guarda!
0 notes
osservatoriosubliminale · 1 year ago
Text
Buonanotte Alma Bella ~ microstorie
Come ogni sera, anche stasera Marta è in camera di Alma. Marta la guarda negli occhi e si meraviglia, di quanto Alma sia bella: i suoi lunghi capelli castani, i suoi occhi marroni, il suo dolce viso e le sue fossette, attorno alle sue labbra. Alma è irrequieta, come se avesse qualcosa dentro di sé che non riusciva a tirar fuori in alcun modo e quindi Marta, sua madre, la calma raccontandole delle fiabe. "Dai Alma bella, adesso leggiamo insieme questa storia. Ti va?", è la frase che dice Marta, ogni volta che vuol distrar Alma dalla sua irrequietezza. Alma risponde imbronciandosi, ma è questione di un attimo perché Marta, con le sue storie, le mette sempre il sorriso. Sa cosa raccontarle: può essere un drago sputa fuoco, che va a salvare la principessa dalle grinfie di un orco cattivo, o un cavaliere che salva un cerbiatto dalla maledizione di una strega. Dopo la fiaba Alma crolla sotto il peso della stanchezza con un sorriso dolcissimo stampato sulla sua faccia, Marta a malapena riesce ad asciugarsi le lacrime col dorso delle sue mani mentre bacia Alma. Le augura la buonanotte, ma a malapena riesce a infilarsi a letto e far soffocare il suo dispiacere in quel cuscino sgualcito. Marta è irrequieta in quel letto così enorme e solitario ma non ha nessuno e quindi scrive: immagina cavalieri e draghi, pronti a salvarla dal cattivo di turno. Lo fa per Alma, per farla sorridere e farla dormire tranquilla. Lo fa per sé stessa, per darsi ancora speranza, per sperare ancora che qualcuno possa prendersi cura di lei e salvarla. Poi si addormenta, ma sul suo volto c'è solo un broncio, lo stesso di Alma prima che Marta si prenda cura di lei.
0 notes
osservatoriosubliminale · 1 year ago
Text
quadri da occultazione ~ microstorie
Aspettavo che la notte scendesse sulle anime di chi mi stava attorno per dipingere. Passavo le notti a farlo, anche se non era l'atto di dipingere che mi attraeva ma tutto quello che c'era dietro: il progettare il quadro, immaginarlo, vederlo nell'aria e prendere vita, muoversi ed evolversi nei contorni di una stanza che mi trasmetteva benessere ma allo stesso tempo dolore. Il problema è che non riuscivo a dipingere nulla: a volte guardavo l'orizzonte in attesa d'ispirazione, altre volte guardavo dentro di me per cercare di rappresentare qualcosa che non riuscivo a comprendere in alcun modo. Progettavo, ideavo e mi immergevo nelle opere che volevo dipingere ma non riuscivo a coglierle appieno, mi sfuggiva sempre qualcosa e, per questo, rinunciavo. A volte riuscivo anche a mettere il pennello sulla tela ma, appena capivo di star facendo qualcosa di mediocre, strappavo tutto per ricominciare da 0. Era sempre così, tutte le notti e più mi sentivo vicino alla realizzazione di qualcosa più mi bloccavo, esausto, da quel tentativo inutile di aprirmi a me stesso. Piangevo, ogni tanto, perché più provavo a fare qualcosa più mi rendevo conto che, dentro di me, c'era soltanto dolore. Ogni notte, sempre di più, mi accorgevo di quanto dentro di me fosse irrisolto e a quanta paura avevo nel mostrarmi a me stesso e, di riflesso, ai miei stessi quadri. Di quanto le mie emozioni fossero tarpate, compromesse, da un dolore atroce che non riuscivo a capire, comprendere, sviscerare e il dipingere, quei tentativi che facevo, erano solo un modo di dirmi che andava tutto bene, che non stavo male, che avevo superato tutto quello che mi era successo. Poi mi addormentavo e la mattina mi alzavo, come se non fosse successo nulla. Vivevo la mia vita mediocre, senza aspettativa né sorprese, con un'indifferenza così grande che mi sembrava di dormire. Ma sapevo che la notte sarebbe arrivata e i miei quadri, nascosti in piena vista, mi avrebbero fatto compagnia e lasciato solo, nell'unico momento in cui provavo davvero qualcosa.
0 notes
osservatoriosubliminale · 2 years ago
Text
Stanza 9D, piano 01
1° giorno, vuoto. Dove sono? Non conosco questo soffitto. Apro le tende. L'orizzonte conduce al nulla. Mi reggo in piedi? La pelle delle mie ginocchia sul mio volto. Il telefono squilla. No, mancherò. Mi manca un libro. Non riesco a mangiare. Ficcare le dita nella carne per tirarne via il cuore. Esprimi un desiderio. La morte non mi salverebbe. I miei sentimenti? Fanne ciò che vuoi. L'umido lo ritirano il Giovedì. Il conto dell'hotel. Fuori è ancora giorno. Vorrei solo piangere. È dentro. SOS. Sta bene signore? Si sente vuoto signore? È ancora lì signore?
Due giorni per ricordare. Avevo fiducia in te. Benvenuti a casa nostra. Stai mentendo. Smettila di pensare. Sei una persona disgustosa. Le ho chiesto di sposarla. Per quale motivo lo hai fatto. La nostra prima foto. Vai a pagare le bollette? Smettila. Vorrei andare a Varsavia. Non ti voglio più vedere. Hai distrutto il mio affetto. Cent'anni di solitudine. Preferisco stare in hotel. Alessandro, smettila di pensare. La dedica. Non voglio condividere con te un secondo di più. Non vedevo l'ora di vederti. Ti amo Alessandro. Non pensarci più. Non ti voglio più. Tua, Laura. Finiscila. Ti amo, Laura. Mi fai schifo. Basta. Non vedevo l'ora di essere tra le tue braccia.
Alba, formicolii. Il letto la mia nave che affonda. Il cuore ho controllato, funziona. Cosa ci sarà domani? Basta. Ai posti di partenza. Non riesco a provare altro che dolore. Vorrei solo riuscire ad alzarmi. I pensieri mi trovano ogni volta. Destinazione: il nulla. Conto alla rovescia. Non voglio immaginare il domani. Le palpebre tremano. Cosa dovrei fare? Il traguardo lontano da me. Vorrei solo che tutto finisse. Accarezzare l'infelicità. Dov'è il tasto per spegnere il sistema. Astenia. I polmoni si riempiono d'acqua. Basta. Vorrei solo una soluzione. C'era una volta. Niente può consolarmi. Incertezza. Non so nuotare. Sei una vergogna. E vissero tutti felici e contenti. Buonanotte infelicità. Che schifo.
4° giorno? B/N. I sensi si risvegliano. 9D, contenitore temporaneo della mia anima. Il passato sbatte contro le pareti della mia mente. Daena. Ti piace quanto ti sfioro così? Posizione fetale. Percorro il corridoio dei ricordi. Il mare accarezza le mie guance. Basta così. Servizio in camera. La luce che illumina il mio corpo. Tirare su col naso. Il futuro proiettato al cinema delle mie fantasie. Betelgeuse. Il buio che inquieta il mio animo. Un film horror. Il futuro mi aspetta al varco. Intorpidimento. L'odore dei tuoi capelli appena lavati. Dove mi trovo? Basta, ti prego. La conformazione del mio universo. Abbandonare il passato. Alessandro, il nostro protagonista. Un cane in autostrada. Le mie labbra che ti sfiorano. Immaginazione. La seta di queste tende. A cosa credere? Titoli di coda.
04:00. Tasto ON. Due mani che premono sulla mia gola. "Sei uno stronzo". Una montagna che mi avvolge. Laura, dove sei? "Smettila". Tremo come mai prima d'ora. Lo spettacolo della mia disperazione. "Cosa vuoi ancora?". Capita, che ci vai a fare. Il freddo di queste lenzuola. "Bastardo". Si va in scena. Chi c'è accanto a noi? "È colpa tua". Le mie labbra che ti cercano. Lasciatemi respirare vi prego. Raggiungere la meta. "Togliti di dosso". Un eterno scrutare. Dove mi trovo? "Cosa vuoi ancora da me?" Una luce, ad illuminarmi su questo palco. Qualcuno che ci interrompe. "Ti odio". Lorazepam. L'odore delle onde del mare. "Vergognati". Un angolo in cui rifugiarsi. Non c'è colore senza luce. Perché tutto questo? Basta, non ancora. I tuoi insulti, alle spalle di un faro. Cosa ti ho fatto? "Vaffanculo". Il sospiro nel pubblico. Parlami, ti prego. "Sei disgustoso". Perché tutto questo? La scenografia che crolla. "È solo colpa tua". Un bicchiere si infrange a terra. "Hai rovinato tutto". Il pubblico si alza in piedi. Il nulla mi avvolge. "C'è un'altra persona nella mia vita". Le mie mani a trattenere le lacrime. "Non sei più nulla per me". Il sipario si chiude. Un cuscino a far tacere i miei pensieri. Applausi a scena aperta. Un inchino. Basta. Grazie per essere venuti. Tasto OFF.
Giovedì? Servizio in camera. "Pronto?". Lo stridio dei gabbiani. "Caricamento...". Nessuna risposta. Un pescatore che ormeggia. Pezzi di vetro sotto la pianta dei piedi. Cosa c'è, al dì fuori di qui? "Attendere prego". Silenzio. Il rosso del mio sangue, unico colore in questa stanza. Basta. Chi è Alessandro? "Segreteria telefonica". La sabbia tra le dita dei piedi. E se la mia realtà non fosse questa? "Vuoi cancellare tutto?" Il rumore di un treno che passa. Chi è Laura? "Chiami il 901 per ulteriori informazioni". Una donna, seduta su una panchina. "Signore, posso entrare?". Forse non l'ho mai conosciuta davvero. Un palloncino rosso. Basta Laura. "Errore, chiudere il programma e riavviarlo". Prego, entri pure. Dondolare le gambe. Mi ha mentito per tutto il tempo. "Il numero da lei chiamato non è momentaneamente raggiungibile". Al suo posto un tulipano bianco. Appoggiati a me. Che bello il tramonto quando ci sei tu. "Riprovi più tardi. Grazie".
Di nuovo a questo mondo. La melodia della mia disperazione risuona nell'aria. Una lista di cose da fare. Toc toc. Come ho fatto a non accorgermene? Lì fuori tutti dormono. La sabbia che scorre tra le mie mani. Non svegliarmi guardando il tuo sorriso: fa male. Fa freddo, fuori le lenzuola. Basta. Chi è? Risolvere l'insonnia: da fare. Basta, non ho fatto nulla di male. Cos'è questo improvviso dolore alle gambe? Ho perso il controllo. Ciao, Laura. I miei sentimenti serviti a colazione. Cavaliere, salva la tua principessa. Ritrovare la lucidità: da fare. Il sole ti illumina ma è ancora buio. 404 - l'anima non è stata trovata. Perché tutto questo? Smettere di rigirarsi nelle lenzuola: fatto. Il sibilo di un cerbiatto in fin di vita. Come sei bella quando dormi. Ritrovare la lucidità: da fare. 7° giornata di sopravvivenza su quest'isola deserta. No, non potrei mai odiarti. I miei polpastrelli che delimitano il tuo viso. Non sei qui con me, vero? Alzarsi dal letto: fatto. Basta, non ne posso più. Ti odio quando mi dai i calci alle gambe. L'universo alternativo in cui tutto questo non è successo. No, non ne avresti il coraggio. Abituarmi alla tua assenza: da fare. Aggiungere un nuovo punto alla lista. Distorsione della realtà. Le tue labbra sottili, che nascondono il tuo splendido sorriso. Vattene via. Grazie Alessandro, ma la tua principessa è in un altro castello. Buongiorno dolcezza, hai dormito bene? Guardarti distesa sul nostro letto: fatto. No, non mi serve niente. Trovare uno scopo alla propria vita: da fare. Ciao, Laura. Non ha senso tutto ciò. Smettere di amare Laura: non so se lo farò.
Un 17. Una data o un orario. 71 ricordi feriti stamattina nella strage di Parigi. Chiudi gli occhi Alessandro. Marco, ci sei per domani? Basta. Ultima chiamata per il gate 17, volo Ryanair per Varsavia delle 11:17. Abbandonati al tuo destino. Un umarell a contemplare il cantiere di me stesso. È colpa tua Alessandro. Premi sulla ferita, più forte. Basta Laura, finiscila. Cosa ci fai tu qui? I miei biglietti, prego. Costruisci il tuo universo e infarciscilo dei tuoi desideri. Gianluca, finalmente c'incontriamo. Cos'ho fatto? Basta per favore. Ti farà male, ma continua a premere. Indagata una donna di nome Laura. Non sai quanto ti voglio bene Riccardo. Vuoi che Laura ritorni? Allora addormentati. Nulla, ma è colpa tua. Basta così ti prego. Basta. Si sposti. È suo questo orologio? Non svegliarti, torna a dormire. Allacciate le cinture di sicurezza, l'aereo sta per decollare. Basta Laura, ti prego. Signor Alessandro, è sua questa fotografia? Basta, ti scongiuro. Ti prego basta, basta Laura. Non ne posso più. Buonanotte Alessandro, non vedo l'ora che sia domani.
Guardo il soffitto. Vuoto. Sgombro da ogni possibilità. Lo guardo perché alla ricerca di un punto luminoso, un qualcosa che possa distrarmi e guidarmi in questo mare di assenza e silenzio. Riattivo i miei muscoli lentamente: li sento strusciare, sotto queste ruvide coperte. Mi sembra di sentire il sibilo del vento, solo che ho il potere di deciderne l'intensità, il rumore, la frequenza e la forza, addirittura la direzione. Ma il vento rallenta, fino quasi a fermarsi, quando capisco che sono in un letto, anche se non mio. Il mio corpo è a galla mentre le onde mi cullano ma allo stesso tempo mi agitano, da una parte all'altra di questo infinito ma delimitato oceano chiamato letto. Galleggio e quasi mi lascio annegare, quasi ad abbandonare un corpo che non sento mio. Che non ho mai sentito mio. Che abbandonerei, se potessi, su un'isola deserta a deperire per, poi, lasciarlo mangiare agli uccelli e ai pesci. Ma non affogo completamente. No. Non ne ho il coraggio. Anche se non sto cercando di nuotare perché, mi rendo conto, di non avere la forza per farlo. Non al momento almeno. Mi lascio quindi cullare da tutto questo, anche se sono stato sbattuto con violenza nei meandri di questo piccolo spazio, ritagliato all'interno delle infinite possibilità di un universo pieno di spazi, mal riempiti e mal concepiti, anche dalla mia piccola ed infinitesimale immaginazione. Una violenza che, però, ho scelto: ho cercato, addirittura desiderato, ad un certo punto. Che ho bramato fino a qualche ora fa ed immaginato, nei più piccoli e nefasti dettagli. I miei sensi, mi accorgo, sono spenti: gli occhi, aperti, non hanno nessuno stimolo. L'olfatto riesce solamente a captare il mio fiato, pesante e disgustoso. La mia bocca permea di un sapore orribile. Le mie orecchie che rifiuta quel sibilo così assordante. Il tatto che, al contrario degli altri sensi, capta un piccolo segno di vita: con i polpastrelli riesco a sfiorare qualcosa, ma capisco solo dopo cos'è. È carne. Pelle, nuda, che giace accanto a me inerme, immobile. C'è qualcuno accanto a me. Laura, è accanto a me. Il suo respiro è leggero, labile anche se accompagnato da un sibilo e, solo ora che sposto l'attenzione dei miei sensi su di lei, mi accorgo della sua esistenza, nella vacuità di questa camera d'albergo. Faccio un po' di fatica ad ascoltarla: per quanto sia accanto a me allo stesso tempo è dall'altro lato di quest'oceano limitato da questi bordi così stringenti ma accoglienti. So però che è viva e sopravvive, anche nel pieno della sua tenera arrendevolezza e, questo, mi rincuora. Cerco di muovermi il meno possibile; non vorrei tirarla fuori dal suo regno, fatto di subconscio e colori perché, forse, non ne sono degno. Mi rendo conto che l'assenza di guide, in questo cielo fatto di cemento armato, è proprio il risultato di una luce che mi ha portato proprio qui, accanto a lei, in questa stanza completamente buia. Potrei avvicinarmi al suo corpo docile e inerme per proteggerla dalle intemperie del mondo esterno ma decido di non farlo. Non credo sia giusto, come non credo sia giusto svegliarla, per quanto desideri osservarla nella sua semplice ma rassicurante bellezza. Mi piacerebbe scorgerla, dall'antro del suo io più incontrollato per guardarla dritta nei suoi occhi grandi e marroni ed osservare, nel suo sguardo, quello che Laura prova per me. Non posso però, no, o forse non voglio, perché nella staticità di tutto posso stare tranquillo ed esser sicuro che nulla cambierà, almeno finché lei dorme. Preferisco osservarla, o quantomeno immaginarla, visto che il buio mi nasconde i suoi lineamenti gentili. La figuro nella mia mente, nei rimasugli di ciò che mi rimane della sua immagine e, mentre lo faccio, il sibilo del vento aumenta perché i miei muscoli si riattivano. Mi rigiro nel letto e, nel farlo, le do le spalle. Farlo è condizione necessaria e sufficiente, perché qualsiasi cosa io veda in questo momento non è reale, non esiste, è tutto frutto della mia immaginazione. Le immagini che creo, i colori che associo a tutto questo, anche solo i lineamenti di Laura e il suo odore, le sue spalle, i suoi lunghi capelli, non esistono e, al momento, non ho bisogno di vedere. Non ho bisogno di vedere al di là delle cose e di tutto questo, né sento la necessità o la volontà di farlo. Le do le spalle perché così posso raffigurarla come voglio attingendo dai miei ricordi. Forse lo faccio perché temo che, dentro di me, il vederla di nuovo accanto a me, inerme, amorevole nei miei confronti potrebbe distruggermi. Forse lo faccio perché, stavolta, è l'unica cosa che posso fare: immaginarla è l'unica possibilità che ho di tenere in vita un qualcuno che, a quanto so, potrebbe anche non esistere più. Attingo ai ricordi della prima volta in cui sono stato qui, con Laura: faceva freddo, fuori era buio ed eravamo qui, insieme, increduli della rapidità in cui eravamo scivolati in quella stanza e dell'incredibile bellezza di quella giornata e di noi due. Era la prima volta che ci vedevamo, eppure sembrava come se ci conoscessimo da una vita, come se ci volessimo da praticamente sempre. Provo a ricostruire l'enorme passeggiata, in quei vicoli lunghi e nefasti ma, nel farlo, mi accorgo che i miei ricordi sono stati alterati. Qualcosa o qualcuno ha sostituito la luce del sorriso di Laura con del buio, cupo e denso, come fanghiglia. La luce è stata spenta in qualche modo e lei, Laura, non c'è più. Al suo posto ci sono delle sensazioni vaghe, che riflettono debolmente quello che ho provato in quei momenti e una sagoma, a cui attribuisco e indirizzo tutte le mie emozioni e sentimenti ma, che, non riesco più a riconoscere, comprendere e ricordare, rivivere, riflettere su quello che è ed è stata la mia vita, finché lei non se n'è andata. Laura è sparita e, con lei, la mia capacità di vederla, figurarla, ricordarla ed immaginarla. Laura ha distrutto sé stessa uccidendosi dentro di me. Sono stato privato dei miei stessi ricordi, estirpati come erbacce e cancellati in una maniera così brutale e cruda che ho fatto fatica ad accorgermene. Mi sento come se qualcuno avesse deciso di tirarmi via il cuore e farne carne da macello. Violato perché nessuno, nessuno, aveva così brutalmente distrutto la mia intimità, nei confronti dei miei stessi ricordi. Ma non voglio, no. Non deve andare così. Mi catapulto nei vicoli della cittadina dei ricordi che abbiamo costruito insieme, nel tentativo di rincorrere Laura e quello che è stato ed ha rappresentato per me: percorro i suoi gesti, piccoli, che mi dedicava ogni giorno. Riguardo e riscopro, in una ricerca affannosa, le sensazioni che mi ha trasmesso, l'amore che ho e che mi ha dedicato. I momenti di noi due che nessuno potrà cancellare ma, che, son stati irrimediabilmente modificati ed alterati, in nome di non so bene che cosa. Ricerco il suo sguardo, ma più ci provo più mi accorgo di non riuscire ad attingere dai miei ricordi perché Laura non c'è più: sono da solo in questa cittadina e, più tento di attraversare le strade della nostra storia, più mi accorgo di quanto desolata e in rovina sia il tutto. Laura è sparita, sostituita da una vaga figura che non le assomiglia più e io sono da solo, in mezzo a tutto questo. Provo a guardare nelle vetrine dei negozi, esposti i quadri dei nostri ricordi ormai imbrattati da ciò che è stato. Rincorro qualsiasi ombra perché, in cuor mio, spero di vedere la tua figura. Corro, urlo e mi dimeno, sperando di farmi notare da te almeno per un'ultima volta ma, ogni volta che mi avvicino a te, c'è un vicolo cieco e, ogni volta che mi metto sulle punte per guardare in là e cercare di scrutare il tuo dolce viso, non vedo altro che desolazione, tristezza, paura. Non posso rimanere qui, non c'è altro che la mia infinita tristezza. All'improvviso sono di nuovo a letto, accanto a lei: è da qualche minuto, o forse di più, che credo di aver distrutto l'immobilismo di questo posto con il rumore, incessante ma labile, del mio singhiozzare. Aggiungo nuove gocce d'acqua a quest'oceano che, lentamente, mi sta inghiottendo, lasciandomi respirare a fatica. Dall'altra parte Laura è immobile, impassibile, mentre continua a far sibilare il vento col suo semplice e dolce respirare. Il suo sibilo, il suo dolce sibilo, fa agitare le onde di quest'oceano. Ho deciso di lasciarmi andare. Impassibile, come se non m'importasse più nulla di tutto questo. Sono quasi felice, al fatto che io stia lì, inerme, pronto a morire senza lottare. Pronto ad assumermi la responsabilità e la colpa di ciò che è successo, anche se non è un qualcosa che mi dovrei affibbiare ma non importa, perché sono sicuro che nel fondo di questo oceano troverò le mie colpe e, allo stesso tempo, la mia liberazione. Perché forse di colpe ne ho, anche se sono stato soltanto vittima. Chiudo gli occhi, o almeno ci provo, mentre l'acqua comincia ad invadere la mia gola e le mie narici mentre il mio corpo, stanco e provato, comincia ad arenarsi sul fondo di quest'oceano di colpa e dolore. Potrei reagire, ma non lo faccio. Non reagisco, no. Morire è una giusta punizione. Come dovrei reagire poi? Perché dovrei farlo? Non c'è niente che mi aspetti, nulla che possa anche solo mitigare ciò che è successo. Chiudo gli occhi, in attesa della fine ma, appena lo faccio, le onde si calmano. Non sono più in balia della mia colpa e delle onde, di questo mare 160 X 190 blu notte. Il sibilo del vento è cessato perché Laura si è svegliata e, dall'alto di questo oceano, mi sta parlando. Continuo a tener chiusi gli occhi, perché non credo di voler vedere come finirà tutto questo. Mi affido quindi al mio udito: sento la sua voce lontana, filtrata dall'acqua, che mi dice di fidarmi di lei. Fidati di me Alessandro. Fidati di me, per favore. Per quanto io ci provi non posso annegare nel mio mare di colpa e dolore, nemmeno se volessi. Potrei farlo, mi basterebbe pochissimo per annientare completamente ciò che sono e chi ho attorno. È una possibilità, com'è una possibilità giacere nel fondo di quest'oceano e restare qui, a contemplare la mia vita nell'indifferenza generale. Potrei, ma è la mia ultima possibilità per stare con Laura. Riapro gli occhi e, appena lo faccio, il mio corpo reagisce. Cerco di risalire e, più mi avvicino ai bordi di questo letto, più mi accorgo che è ancora tutto buio. Laura è oscurità e, più tento di metterla a fuoco, più i bordi del suo dolce corpo si confondono con le asperità di questa stanza. Fidati di me Alessandro. La mia testa fuoriesce da quest'oceano e, appena succede, sento la sua mano tra i miei capelli. Mi accarezza, come faceva quando eravamo a letto e voleva consolarmi dall'ennesima giornata storta della mia vita, dall'ennesimo dolore subito, da un torto che non avevo meritato. Sono tra le sue braccia, perché sento il suo odore attorno a me. Vorrei darle un bacio, guardarla negli occhi e dirle che la adoro ma non posso, non riesco, o forse non voglio perché sento, sento, che è tutto così sbagliato, che non è naturale, che è tutto frutto della mia immaginazione. Fidati. Quello che c'è dentro di me è, però, più forte e il desiderio di vederla solamente un'ultima volta per stringerla tra le mie braccia, prima di abbandonarla al suo destino, cresce ed è enorme dentro di me anche se so che, quando tutto questo finirà, dovrò imparare a fare a meno di lei, in tutto e per tutto. Ma è la mia ultima possibilità per accarezzarla, sfiorarla, sentire il suo dolce corpo sotto i miei umili polpastrelli, leggere le note della sua pelle, percepire i movimenti della sua carne viva. Per favore, non lasciarmi andare. Non la vedo, no, ma non importa, perché le mie dita percorrono i suoi fianchi, dolcemente, assaporando ogni vivido spigolo, pregustando ogni lembo di carne e aggredendolo come se fosse una preda e le mie dita il cacciatore. Mi abbandono alla mia volontà e, questo, mi permette di arrivare al suo seno piccolo e morbido, che sfioro. Per quanto io non la veda sento il suo respiro e il suo sibilare acquietarsi e rallentare, come se già sapesse cosa sta per accadere, come se stesse aspettando il momento in cui tutto questo finirà. Fidati, c'è un motivo per tutto ciò. Le mie dita arrivano alle sue clavicole, che percorro nella loro interezza e tenerezza, perché questa era la cosa che più mi piaceva fare quando c'era lei. Lei lo adorava, e mi diceva sempre che ero il primo e l'unico a fare questa cosa. Ma per quanto quel gesto, ripetuto 1000 volte, fosse automatico non lo è più in questo momento perché, in quest'ultimo brandello di felicità, non sto facendo altro che raccontarmi una menzogna. Fidati e riaccoglimi tra le tue braccia. La Laura che è qui, accanto a me, è solo rimasuglio di ciò che è rimasto dentro di me ma, forse, non importa. Credo vada bene così, perché è inutile continuare a lottare per dei ricordi che, forse, solo io mi porto dentro. Forse è il momento di lasciarla andare davvero. Il mio respiro è affannoso, ansioso, pesante. Non mi rendo ancora conto di cosa io stia per fare. Laura è di fronte a me: non la vedo, ma ne percepisco la presenza, anche solo grazie al suo sibilo. Le sue mani afferrano le mie, accarezzandole come faceva sempre. Fidati di me, sarò ciò che vuoi che io sia. Chiudo gli occhi perché ho paura. Mi avvicino alla linea del suo volto, morbido e accogliente, per tentare di ricordarla un'ultima volta. Le mie lacrime continuano a scendere, ancora e ancora, quando le mie mani si avvicinano al suo collo e cominciano a stringere. Non lascio per un istante la presa e uso tutta la mia forza, il più a lungo che posso, per far sì che Laura soffochi: non ne vedo i connotati, non sento alcun rumore, non c'è nessuna reazione, ma so che sta soffocando per causa mia. Fidati di me. Perché lo sto facendo? Perché sto uccidendo gli ultimi ricordi di una persona che ho amato? Le sue mani sono ancora appoggiate alle mie, continuando a rassicurarmi. Perché ho bisogno di questo, per andare avanti? Perché tanta violenza? Perché tutto questo? Forse perché non posso fare finta di nulla, non posso far finta che non sia successo nulla. Forse perché bisogno di porre fine a tutto questo. Forse perché non posso più sopportare questo dolore. Ho sbagliato. Ti amo, Alessandro. Ti amo anch'io, Laura.
EXIT ↦. Il soffitto della 9D. Pronto? Una luna rosso sangue, raffigurata in maniera raffazzonata. Perché sono ancora qui? Acidità di stomaco, una sensazione di amarezza. Fidati di me Alessandro. La zip di una borsa. Volume della TV a 17. Forse sono pronto a lasciare questa stanza. Raccogliere dei resti. Andrà tutto bene? Segnali dal futuro. È stato ritrovato morto Ugo, l'ultimo gufo bianco della colonia. L'acqua nelle orecchie. Fidati. Era un sogno? Le ricordiamo che deve lasciare la stanza entro le 17. È vero, capita. Di colpo le mani mi fanno male. Com'è andato il soggiorno? Sono pronto ad uscire da qui. Lasci una recensione se vuole. Non so come andrà. Il solco di due corpi su questo letto fradicio. Fidati di me. Buon proseguimento. Dove la porto? Non so se andrà tutto bene. Era realtà? Tenga il resto. Prego, l'uscita è lì. Fidati di me Alessandro. Grazie di tutto.
È davvero una bella giornata.
4 notes · View notes
osservatoriosubliminale · 2 years ago
Text
Angoli
In questi giorni mi viene difficile comprendere a chi, o a cosa, dare retta. Lo so, mi rendo conto perfettamente che è la realtà, quella che conta. Le parole, le azioni, i gesti e i fatti. Quelli descritti sul giornale che vado a comprare alle 7 del mattino quando il mondo inizia a muoversi e, io, con lui. Ma quando mi incammino per tornare a casa mi chiedo cos'è, la realtà. L'evidenza di un qualcosa che riusciamo ad osservare in maniera chiara e limpida, forse. O un qualcosa, basato su fatti, che condividiamo, accettiamo e diamo per assodato insieme agli altri, in maniera silente. Un qualcosa che esiste, indipendentemente dalla nostra presenza, dalla nostra sfera di influenza composta da intelletto, percezione e personalità. Immagino possa essere una buona definizione di realtà, questa. Ma, se la mia realtà fosse diversa? Se la mia realtà fosse frutto di un qualcosa di illogico e non percepibile dagli altri? Potrei definire, la mia realtà, realtà in tutto e per tutto? Me lo chiedo quando torno a casa col giornale sotto braccio e mia moglie mi chiama, amorevole, com'è sempre stata. Sa che ho comprato il giornale e, tenera, mi chiede sempre di leggerle le notizie. Non riesce più a leggere da anni, la sua realtà è cambiata con la sua, brutta malattia. Vorrei farlo, vorrei leggerle delle elezioni del nuovo Papa e della strage a Parigi di qualche giorno fa, ma non lo faccio. Quando mi poggio sulla sedia a dondolo all'angolo della nostra stanza apro il giornale e, facendo finta di cercare notizie degne di essere lette, le dico che non è successo nulla di importante. Le dico che il mondo è esattamente dove dovrebbe essere e, insieme a lui, anche lei è dove dovrebbe essere. A letto, sofferente, col suo eterno amore nei miei confronti e con un senso di colpa che non se n'è mai andato, anche dopo tutti questi anni. La sua realtà, influenzata dalla sua malattia, è realtà tanto quanto quella degli altri. Ma la mia realtà, derivata da una verità personale, non so se sia davvero realtà. Sì, potrei dire di sì, ma la mia è una realtà individuale, unica, a cui posso credere io e io soltanto. Una realtà senza evidenze scientifiche, sorretta da una verità priva della condivisione e dell'accettazione degli altri. Una realtà debole, sostenuta soltanto da me stesso, ma vera tanto quanto la realtà degli altri e, per questo, realtà. Nuda e cruda, nelle sue strane regole non scritte e vissuta, in maniera unica e irripetibile. È iniziato tutto un giorno, di tanto tempo fa. Forse era Ottobre, no, Novembre. Faceva caldo, ma ero comunque avvolto nelle coperte. Avevo bisogno di un abbraccio, o anche solo di un modo banale per asciugare velocemente le mie lacrime. Forse avevo sognato qualcosa, non lo so, ma ricordo fossero le 4 di notte. Il mio corpo decise di svegliarmi nel cuore della notte, e lo fece facendomi tremare come mai ho più tremato in questi 80 anni di vita. Mi alzai per cercare riparo, ma avevo la schiena indolenzita e provai fatica. A stento riuscii a bere un bicchiere d'acqua. Mi rannicchiai in un angolo e, preso dall'angoscia e dal dolore, intuii che fosse colpa di mia moglie: era lontana, non aveva più un ruolo nella mia vita, ma capii che mi odiava. Mi odiava, così tanto da farmi svegliare e tremare nel cuore della notte. E nelle strane regole accennate di quella nuova realtà, di cui avevo annusato soltanto i paradigmi più evidenti, credevo di esser impazzito. Non ero matto, non lo sono tutt'ora, ma è come se avessi vissuto la mia intera vita in una dimensione mia, personale, diversa da quella degli altri. Dimensione che non ho mai capito appieno e, che, mi ha spinto a farmi innumerevoli domande. A mettere in dubbio qualsiasi mia certezza. A pormi interrogativi anche sulle cose che davo per assodato, nella mia vita. L'ho fatto per giorni, settimane, mesi, anni, dopo quell'accadimento perché, da quel momento in poi, ogni verità di ciò che era la mia realtà è stata messa in discussione da una percezione delle cose diversa, atipica, anormale. Tutto quello che pensavo di sapere era stato messo in dubbio da un qualcosa di incredibile ma inspiegabile, sia nella semplicità della sua azione che nella complessità della comprensione delle cose che, senza alcun motivo, capivo. Per intuizione. E non potevo controllare tutto questo, no, perché la mia nuova realtà mi sorprendeva durante i momenti più banali della mia vita. Quando lavavo i piatti e guardavo il cielo, in certi momenti dell'anno il tramonto. Quando ero seduto all'angolo del mio vecchio divano e guardavo fuori, all'orizzonte, ammirando le luci lontane. Guardavo lontano, perché più lo facevo e più riuscivo a capire cosa stesse succedendo ed era buffo, perché ogni mia intuizione mi riportava a mia moglie. Lei era lì fuori e, per quanto lei non volesse e io nemmeno o forse sì, ero accanto a lei. Ero lì, mentre provava a mettermi da parte odiandomi più forte che poteva. Ero lì, quando ha cercato di ignorare completamente quello che era ed ero stato, quello che aveva fatto, quello che aveva causato. Il dolore che mi aveva fatto provare nell'attesa di un qualcosa che non era mai arrivato. E nel fare tutto questo, nello scrollarsi di dosso le proprie colpe, cercando come obiettivo una vita leggera, senza impegni e priva di conseguenze, io ero lì. Ero lì anche quando si è arresa all'evidenza dei fatti. E so, so, che mia moglie non ha più provato odio nei miei confronti perché non ce l'ha più fatta. Non ne aveva più la forza. E io, che non avrei mai dovuto sapere nulla di tutto questo, ho fatto finta di essere ignaro e lei con me, tacendo su tutta la questione. La comprendo, non le do nessuna colpa, anche perché conosco i suoi perché. Li conosco, anche se li ha sempre nascosti dietro al suo dolce sorriso, ed è proprio quel sorriso il perché di tutto. La fine e l'inizio, perché nell'odio si crea l'amore. Quella notte, in quel momento, ha capito che non poteva fare altro che legarsi a me, di nuovo. L'ha capito nel suo momento migliore e peggiore, nel punto più alto della sua vita e in quello più basso perché, nell'ammettere di quella necessità, ha dovuto ammettere anche altro. Ed è per questo che mi ha odiato, quella sera. Ma io non ero sicuro, di nulla. Quella verità si basava su un qualcosa di così aleatorio, irreale, che non sapevo come agire nei confronti di tutto quello che sapevo, ma di cui non ero sicuro. Perché la realtà dei fatti, quella sostenuta dallo spettro del visibile, era venuta meno e, io, non sapevo più a chi, o cosa, credere. Mi sono ritrovato a vivere due realtà, una logica e una irrazionale e, nel decidere a quale realtà affidarmi, non facevo altro che tormentarmi. Disperarmi. Rimanere nell'angolo del mio letto a piangere, per ore, perché la crudeltà di quello che era successo nella realtà condivisa da tutti si scontrava con un qualcosa di sì crudo ma diverso, speranzoso, positivo nella sua negatività ma che vedevo solo io, io soltanto. Poi, ho capito. Avevo bisogno di una prova, di un qualcosa che dimostrasse le mie teorie, un qualcosa che sostenesse la mia realtà. Un Dio che fornisce le prove ai suoi discepoli, per permettere loro di credere in lui. In una verità costruita dentro di me e senza nessuna dimostrazione pratica non potevo fare altro che chiedere una prova tangibile, di ciò che comprendevo. Perché nel continuare a vivere in due realtà non stavo più vivendo. Ma dove, e come, trovare una prova di quello che sapevo? Come dimostrare quell'odio, quell'indifferenza, quell'amore? Sembrava stupido, tra me e me, chiedere a un qualcosa di incomprensibile un qualcosa di tangibile. A chi dovevo chiederlo, poi? Potevo chiedere solo a me stesso, Dio, messia e discepolo della mia stessa religione. Ma come chiedere una prova della veridicità di un qualcosa di incontrollabile, dentro di me? Mi sembrava un cortocircuito logico, dato il mio essere vittima e carnefice della mia stessa realtà. E proprio nel comprendere l'illogicità di una richiesta del genere che pensai di non dare più retta, alle mie intuizioni. Come potevo dimostrare quella realtà agli altri? Come potevo dimostrarlo a me stesso? Per quanto avessi i risultati della mia verità, quelle che venivano meno erano proprio le formule che portavano al risultato, le fondamenta che sorreggevano la mia realtà. Ma Dio vede e provvede e, per quanto avessi abbandonato l'idea di seguire la mia verità, proprio quella stessa realtà mi diede la prova della sua veridicità, della sua concreta esistenza. Era sera. Non sapevo cosa fare, ma sapevo di non voler rimanere immerso in quella realtà così fragile alle fondamenta ma, allo stesso tempo, così solida e difficile da sopportare. Andai a camminare. Non lo facevo da tanto, non riuscivo più ad apprezzare ciò che mi circondava. La mia realtà era così totalizzante che feci fatica, anche solo ad alzare lo sguardo per scorgere i dettagli dei tetti dei palazzi addobbati per le feste. Non riuscivo più a guardare in alto, gli altri punti di vista non mi interessavano più. Decisi quindi di entrare in un pub. D'istinto, come avrei poi imparato a fare. Presi una birra e, appoggiato ad un angolo, decisi di godermi la solitudine di quel posto così pieno di persone, idee, verità e realtà che rimbombavano nell'aria ma che non volevo cogliere, poiché inutili. Quella sera sarò sembrato scontroso, arrabbiato, forse triste e patetico ma, anche con quell'aspetto, una ragazza mi si avvicinò. Aveva un fare amichevole e familiare, forse perché aveva lo stesso sorriso di mia moglie. Le offrii una birra. Lei, gentile, si prese cura di me e, io, di lei. Passammo la serata a parlare delle nostre storie, molto simili ma diverse, e della nostra vita fino a quel momento. Ci confessammo, Dio che ascolta il suo discepolo e viceversa. Ma nel trovare tanti punti in comune, molte similitudini, nel confessare le nostre verità, accadde. Una parola, che lei mi disse in risposta a quello che le raccontai di mia moglie, attirò la mia attenzione. Non ci rivedemmo più ma, per quanto mi colpii quella persona, quella parola fu fondamentale per me, come un discepolo a cui viene rivelata la verità e vede la sua vita stravolta. Fino a quel momento pensai che la mia realtà fosse individuale, unica e inimitabile, nelle sue dinamiche e nella natura delle sue intuizioni ma, per quanto lo sia e io sia convinto di non poter spiegare concretamente tutto quello che vivo ogni giorno, avevo dimenticato dell'aspetto di osservazione della realtà stessa e, di conseguenza, della mia realtà. Perché, per quanto io sia un animale in gabbia, attorno a me il mondo si muove e, per quanto questo possa sembrarmi assurdo, il mondo è in continua osservazione. E per quanto io creda che la mia realtà sia incomprensibile e renitente agli altri allo stesso tempo non è così perché, per quanto io possa crederlo, anche gli altri compongono la mia realtà, la mia verità, influenzandola nelle sue dinamiche. Quella parola mi venne a mente qualche giorno dopo, mentre osservavo l'ennesimo tramonto. Capii che non era una parola pronunciata per caso da una sconosciuta in un pub, no. Era il titolo di un racconto che, mia moglie, mi aveva ispirato. Un racconto che avevo iniziato a scrivere come sfogo per il mio dolore ma, che, non avevo concluso proprio perché quel dolore scomparve, prima di vederlo riapparire di nuovo. Ma anche perché non mi sentivo pronto, all'altezza, di quello scritto. Non era il caso di andare avanti, non era la cosa giusta. Andai nell'archivio dove tenevo i miei scritti e, mentre rileggevo le bozze, gli appunti, di quel racconto, iniziai a piangere. Mi resi conto che il me stesso del passato mi stava dicendo di credere. Di non far caso alla realtà ma credere alle intuizioni. Mi chiedeva di fermarsi, per riuscire a comprendere delle paure, dei timori, delle emozioni, di mia moglie. Mi sembrò profetico e, davanti a quella verità, mi arresi. Di fronte all'evidenza di quello che la mia realtà mi stava dicendo non potevo fare altro che questo. Dovevo arrendermi, non potevo più lottare contro quella realtà perché, per quanto potesse essere tutto frutto della mia immaginazione, non potevo fare altro che credere. Ero troppo stanco e debole, per continuare a lottare contro quella verità, così assurda ma allo stesso tempo così viva e vivida, ai miei occhi. Decisi così di dare tutto per assodato, per vero. Accettai quella verità, unica ed assoluta nella mia realtà ma incompiuta e immaginaria nella realtà degli altri e la abbracciai, per quanto non fosse nelle mie intenzioni e per quanto, questo, avrebbe poi portato a delle complicazioni. Ero seduto all'angolo più lontano di una scogliera, sotto ad un faro ricoperto di maiolica. Guardavo l'orizzonte e il mare, muoversi dolcemente in quella mattinata di fine Dicembre. Nello zaino un libro, consigliato proprio da mia moglie. Guardavo lontano, cercando di far chiarezza nei miei pensieri quando, ad un certo punto, intravedo un ragazzo e una ragazza. Erano all'altro lato della scogliera e si stavano baciando, dolcemente. O, almeno, così sembrava. Lei, infastidita, cercava di sfuggire al suo affetto in tutti i modi. Lui, paziente, la cercava e la attendeva. Con gli occhi, con le mani, con le labbra. Ma lei non voleva, no. Cercava di sfuggire al suo affetto, al suo volerla accanto. Fino a quando, insofferente, cominciò a inveire contro di lui, insultandolo. Si alzò, di scatto, per poi andarsene. L'odio, gratuito e grottesco, che quella ragazza mi trasmise mi sembrò similare all'odio che avevo provato io, in quella notte di Novembre. Allo stesso tempo, però, quella situazione mi fece riflettere. Distratto com'ero dal capire se credere o meno, stretto nelle maglie delle regole di quella nuova realtà, mi ero dimenticato di poter scegliere. Nel vedere lui, titubante, nel seguire quella ragazza o meno ricordai che potevo agire, decidere, e mi sembrò stupido arrivare a una conclusione così banale ma, in quel momento, mi sembrò una rivelazione. Per quanto fossi assoggettato dalle mie stesse intuizioni potevo decidere come sarebbero andate le cose. Nel sapere che lei mi amasse, nel prevedere che, un giorno, avrebbe bussato di nuovo alla mia porta potevo scegliere. Ma, per quanto mi sembrò rivelatorio tutto questo, in qualche modo fu anche la mia condanna. Fino a quel momento rimasi assoggettato alle verità che la mia realtà mi forniva, in maniera passiva, senza dover o poter fare qualcosa a riguardo. Ma quando compresi le potenzialità che ciò che avevo tra le mani andai nel panico. Cosa dovevo fare? Mi sembrò banale, scontato sedermi su una panchina, far dondolare le gambe e attendere che la mia realtà, comprovata soltanto da verità illogiche e irrazionali, si manifestasse. Allo stesso tempo, in quell'attesa senza data di scadenza, non potevo far finta di nulla. Sentivo la necessità di prendere una decisione, di comprendere il da farsi perché nel non farlo, nel vivere nell'incertezza di quel lasso di tempo indefinito, non avrei vissuto serenamente. Ragionai a lungo e arrivai a comprendere che, di fronte a me, avevo due scelte ugualmente dolorose perché non avevano come protagonista lei, ma la mia stessa realtà. Perché nella crudeltà di ciò che era stato nel passato, avevo intuito e compreso la bellezza di quello che sarebbe stato nel futuro, nel mio attuale presente. Io e mia moglie, nella casa che poi abbiamo acquistato. I nostri gatti, ormai morti. La libreria in comune e i miei soprannomi. Le discussioni, gli abbracci e il suo sguardo, innamorato, che mi accoglie ogni volta che torno col giornale. L'angolo dove scrivo le mie cose e dove lei, solitamente, mi attendeva quando aveva bisogno di me. Come poteva, la mia realtà, farmi intuire delle cose così importanti in quel momento, quando tutto era finito e non c'era alcuna possibilità che quelle cose accadessero? Mi sembrava assurdo, dopo quello che era successo. Una follia, un qualcosa di così fuori dalla realtà degli altri che, per quanto ci credessi, mi sembrava l'ultima cosa che potesse accadere nella mia vita, ormai segnata dalla mia stessa realtà. Ma nel mare agitato di quella follia dovevo decidere il da farsi. Di fronte a questa verità la mia scelta si riduceva ad un puro, e semplice, fidarsi. Perché potevo andare contro la mia realtà, accettando sì le mie verità ma rifiutandomi di proseguire e lasciando morire la questione, quando quello che avevo intuito sarebbe accaduto oppure accogliere la verità, raccogliere le informazioni di cui ero a conoscenza, interiorizzarle e andare avanti, con lei accanto a me. Avrei potuto rifiutare tutto questo, in nome di un dolore che mi aveva lacerato e di una difficoltà di ricostruzione che mi sembrava insormontabile, o avrei potuto accettare di fidarmi, in nome di quel qualcosa che la mia verità mi aveva fatto sembrare possibile, al dì fuori della mia logicità e di qualsiasi altra realtà. Per quanto pensai di non poter scegliere in quel momento, per quanto qualsiasi decisione potesse essere giusta e sbagliata allo stesso tempo, non potevo far altro che rimandare quel discorso a quando, la mia realtà, avrebbe agito, sia nel suo rivelarsi che nel farmi comprendere di ciò che non sapevo o non comprendevo appieno. Ma proprio nell'attesa della sua rivelazione la mia realtà agì, indisturbata. Nel non sapere cosa fare mi diede la possibilità di stare accanto a lei, anche nella sua assenza. Costringendomi a farlo, per quanto non volessi e non potessi sopportare la sua presenza ed esistenza. Due care amiche mi invitarono ad una festa. Era in un posto lontano, che non conoscevo. Ero annoiato, quella sera, e non stavo proprio benissimo. Avevo decimi di febbre, il naso che gocciolava. Decisi di andare, l'istinto mi disse di farlo. Mi ritrovai in una stradina con un monte, sopra la mia testa, quasi a proteggermi dalle avversità. Bussai, alla porta di questa sorta di palazzina. Erano lì le mie amiche, e con loro i parenti. Mi sembrò di essere al centro dell'attenzione, per un momento. Era quasi come essere in un sogno. Forse lo era. Nel raccontare di ciò che mi era successo una di loro mi prese da parte e cominciò a parlarmi. Di quanto fossi sprecato nello stare da solo, in quel momento. Di come avrei potuto trovare la felicità, se solo avessi aperto il cuore ad altre persone. Di come, col mio carattere, avrei potuto trovare in poco tempo una persona adatta a me. Cercai di spiegare quanto non fosse il caso, in quel momento, di mettermi alla ricerca di qualcuno. Non funzionò perché anche i parenti, che mi conoscevano, dissero la stessa identica cosa. Decisi di andare a prendere un po' d'aria e, dopo esser ritornato in strada, decisi di camminare. Era buio, il monte non si vedeva più, ma il rumore del mare mi richiamava e non potevo far altro che seguirlo. Mi ritrovai su una banchina. In fondo un molo e, all'angolo, seduta, una ragazza. Era mia moglie. Non poteva essere lì, in alcun modo. Eppure era lei, mi stava aspettando proprio lì. Mi sorrise per, poi, sparire. Mi sentii sereno. Sereno, nei confronti di ciò che era in quel momento e nei confronti di ciò che era stato, fino a quel momento. Sereno, anche se da quel momento in poi cominciai a vederla, dappertutto. La vedevo nei sorrisi delle ragazze che notavo, al pub. Nelle foto di altre persone. Nelle notizie, nei film che guardavo e di quello che leggevo. Nei dettagli che gli altri, mi facevano notare di me e che, lei, aveva notato prima di tutti. E notai che anche io la cercavo, in qualche modo. Perché, nell'andare avanti, la cercavo, anche solo col pensiero. La cercavo nelle cose che leggevo e di cui volevo raccontarle. Nel solo pensare di condividere quello che guardavo, scoprivo, conoscevo, ed immaginare cosa pensasse, delle cose che mi erano entrate nel cuore. E a volte immaginavo il suo sguardo, mentre leggeva uno dei miei racconti. Glieli inviavo via posta, perché volevo li tenesse lei. Perché era lei che mi ispirava. E, nell'andare avanti nella mia vita, avrei voluto raccontarle tutto. Avrei voluto telefonarla dal mio telefono analogico e raccontarle di ciò che avevo fatto e stavo facendo. Volevo renderla fiera di me, far sì che fosse felice di quello che avevo raggiunto, di quello che avevo superato ma, anche se non fosse stato così, volevo solo renderla felice. Non importava come. Mi riabituai a lei, per quanto non fosse nella mia vita. E nel farlo cominciai a fare delle cose, agendo proprio come se fosse accanto a me anche se sapevo, che quell'impegno e quello sforzo mentale, sarebbero potuti essere vani se la mia realtà non si fosse poi avverata. Ma non era più importante, a quel punto. Ero sereno nei confronti della mia realtà e di quello che ero e avevo accettato quello che era stato e, indipendentemente da ciò che sarebbe successo, andava bene così. Nella possibilità di non sentirla o vederla mai più nella vita ero riuscito a superare tutto, a perdonare e ad andare avanti. Accettare, quello che era stato ed essere in pace a riguardo, anche nei confronti di una scelta che non avevo ancora compiuto. Addirittura felice, quando riuscivo a ricordare ciò che era stato, prima di quella orribile notte di Novembre. Poi, mi telefonò.
Ogni tanto mia moglie mi chiedeva di raccontarle una fiaba. Dormiva tutto il giorno e, quando si svegliava, di sera, mi chiedeva di leggerle qualcosa. Dopo averle letto le notizie mi chiudevo nel mio studio e scrivevo, il più possibile. Cercavo di renderla felice, per quanto la sua malattia la stesse aggredendo e divorando, giorno dopo giorno. Per quanto non fosse in grado di capire appieno ciò che le dico cercavo di impegnarmi per scriverle, sempre, belle cose. Le descrivevo luoghi, persone, angoli ed orizzonti. Poco dopo quella telefonata, arrivata poco dopo quegli accadimenti, la mia realtà cominciò a tacere nei suoi confronti. Non aveva più niente da dire, avevo già tutte le informazioni di cui dovevo sapere. Ma, l'altro giorno, mentre scrivevo, è successo qualcosa. La mia realtà si è risvegliata, ricordandomi di una fiaba. Una cosa che le avevo scritto prima che lei mi telefonasse e, che, non avevo mai concluso. Non gliene avevo mai parlato, non le avevo raccontato nulla. Mi sembrava la cosa più logica da fare perché, nel tacere nei confronti di quel che sapevo, avevo incluso la prova più inconfutabile di tutte. Quella fiaba. Cercai nel mio archivio e, dopo averla trovata, mi misi subito al lavoro. Mentre lavoravo, mentre davo una forma al tutto, le leggevo i miei progressi. Lo facevo ogni sera e, nel farlo, la vedevo in sé, come non la vedevo da anni. Dopo aver letto mi sussurrava del suo amore, come non faceva da tanto. E mi veniva da sorridere perché, sapevo, sarebbe finito tutto di lì a poco. Mi ritrovo seduto, nell'angolo più remoto di camera nostra e, nel ripensare a tutto ciò che è stato, non posso fare altro che piangere. Piango, perché nel lottare contro la mia stessa realtà non ho fatto altro che arrendermi e, nel raccontarle quella fiaba, questa storia, non posso fare altro che essere felice. Felice di ciò che siamo stati, felice di aver dato ascolto alla mia realtà e aver amato, al dì fuori di ogni logica e verità che non fosse la mia.
6 notes · View notes
osservatoriosubliminale · 3 years ago
Text
quando dormi
Mi capita spesso di svegliarmi nel cuore della notte. È un qualcosa che mi trascino dietro da anni e, qualsiasi tentativo io abbia fatto per capire anche solo le origini di questo problema, è stato fallimentare. Te l'ho raccontato spesso, non è una novità. Come non è una novità l'impegno che c'ho messo, all'epoca, per trovare nuovi modi per ammazzare il tempo: ero riuscito addirittura a crearmi delle routine, per non rigirarmi ancora e ancora nelle lenzuola, per fare in modo di svegliare il mio cervello dal torpore della notte.
Questo, fino a quando non sei arrivata tu.
Le mie routine sono state stravolte da quando dormi accanto a me, da quando abbiamo scelto il soffitto che protegge le nostre teste dal mondo esterno per uno stupido e semplice motivo: il sibilo, inudibile ma riconoscibile nel silenzio della notte, del tuo respiro.
Quando scherziamo, quando ci prendiamo in giro, mi piace tirare fuori questo discorso e, lo sai, lo faccio teneramente perché adoro paragonarti ad un minuscolo treno a vapore. "Ciuff ciuff, dolcezza, ciuff ciuff", di solito ti dico così, perché mi fa tanto ridere immaginarti in quelle vesti ed hai ragione a darmi dello stronzo quando succede, a prendermi in giro e lanciarmi i cuscini, perché dovrei tacere e non lo faccio mai. Anche perché parlo io, che russo come una campana.
C'è un dettaglio, però, che non ti ho mai confessato: adoro quel sibilo. È una di quelle cose che mai avrei scoperto di adorare di te e che adesso non cambierei per nulla al mondo perché, anche se ne sei inconsapevole, mi sento protetto da quell'inudibile ma riconoscibile rumore. Mi rassicura, perché io di notte non sono più me stesso. Io tremo, quando dormi.
Nell'oscurità della notte, nell'immobilità del mondo esterno e di quello che sei in quei momenti, apro gli occhi e la prima sensazione che provo è quella del terrore. Ho paura, pasticcino, perché quando lì fuori il mondo è in silenzio le uniche voci che sento sono quelle delle mie insicurezze. Succede ogni volta, puntualmente, e ti confesso che mi capita di piangere, anche se so di essere accanto a te e dovrei sentirmi rassicurato, anche solo dalla tua presenza. Mi vergogno molto ma è così, e l'unica routine che sono riuscito a creare da quando siamo qui è lasciar che le lacrime inondino il mio volto cercando di fare meno rumore possibile.
A questo punto decido cosa fare: a volte mi chiudo in bagno e piango fino a quando esaurisco le energie, altre volte vado in veranda a guardare l'orizzonte, sperando che il terrore passi. Spesso, però, resto qui e ti guardo, perché non c'è cosa più bella che io possa fare.
Sei splendida. Questo non te lo dico mai, non mi sopporto per questa cosa, ma quando cerco di asciugarmi le lacrime non posso fare altro che notare quanto tu lo sia, anche quando dormi. Forse lo sei perché non puoi darmi dello stronzo, ma in realtà è così perché sembri così serena, immersa nei tuoi sogni e nel tuo meritato riposo giornaliero. Ed è incredibile come tu sia così incantevole anche in circostanze del genere, anche quando non sei consapevole di esserlo, in alcun modo.
Cerco di concentrarmi sui dettagli, perché sono quelli che ti rendono così incantevole: i tuoi capelli, che cadono gentilmente sul tuo viso, quasi ad accarezzarti. Le tue labbra, sottili, che sanno sempre cosa fare e dire, in ogni circostanza. Il tuo naso all'insù, che mi piace sempre percorrere con le dita. Le tue mani, gentili quando sai che non voglio andare da nessuna parte e forti quando invece non vuoi che vada via e hai bisogno di aggrapparti, a me o al cuscino che ti culla. C'è altro che adoro di te, come il tuo sorriso, che mi colpisce sempre da quant'è bello e da quanto mi stordisce, ogni volta che lo vedo. A volte mi sembra di notarlo nel buio della notte e, quando succede, piango un po' di più perché so che non stai sorridendo davvero o, quantomeno, non stai dedicando quel sorriso a me.
Poi, però, penso al fatto che potrei svegliarti, perché so che se lo facessi non mi diresti nulla e, anzi, ne saresti felice, perché ogni momento che passiamo insieme è stupendo, fantastico, splendido. Anche quando uno dei due sta male. Anche quando abbiamo bisogno davvero, l'uno dell'altro. E se tu mi vedessi in lacrime so già che giocheresti coi miei ricci e mi rassicureresti, fino a quando non mi addormenterei, in qualche modo. Oppure mi daresti la mano, facendomi capire che ci sei e sei lì, per me, e lo faresti anche solo per ricordarmi di quanto io sia forte e di quante cose abbia passato e superato, in questi anni. Insieme a te, anche quando non ci sei stata ed eri solo un concetto, dentro di me.
Ma non ti sveglio. No. Non potrei mai, odierei svegliarti per una cosa così stupida. Preferisco consumare tutte le mie lacrime piuttosto che fare una cosa del genere.
Il problema è che c'è una vocina, dentro di me. Un qualcosa di incomprensibile che, nel silenzio della notte, urla talmente forte che non riesco a non ascoltarla. E quando ti guardo, così beata nel tuo sonno, quel qualcosa mi dice di stare attento, di prepararmi, perché sta per finire tutto. Vorrei svegliarti, perché so che metteresti a tacere questi pensieri, ma non voglio, non mi va. Quindi cerco di combattere contro me stesso, di non starmi a sentire, e mi ripeto che tutto quello che immagino è solo dentro di me perché è così, non c'è alcun dubbio, ma è così straziante e difficile non ascoltarsi che piango, da morire. Perché non voglio credere al fatto che stia per finire tutto. Perché ogni notte è una lotta verso me stesso che perdo, inesorabilmente. Perché so che, quella vocina, è lì solamente per farmi credere che non sia tu, la persona giusta per me.
Potrebbe anche essere così, non lo metto in dubbio, e andrebbe bene comunque perché avrei vissuto comunque anni meravigliosi, ma fa male vivere così. Vivo nel terrore che tutto questo possa finire per colpa di una vocina stupida e già solo dirti certe cose, parlartene, mi terrorizza perché so che, tutto questo, potrebbe compromettere ciò che abbiamo costruito. Non mi perdonerei mai una cosa del genere, sapere di aver messo la parola fine solamente per colpa di una vocina mi dilanierebbe.
Voglio essere sincero con te, dolcezza, e per quanto adesso provi disgusto nei miei stessi confronti penso sia giusto dirti questa cosa: in quei momenti mi capita di mettere in dubbio i sentimenti che ho per te. Non lo faccio per volontà, se sono arrivato a tanto con te è perché credo in ciò che sei e siamo, ma inconsciamente so che metto in dubbio tutto per darmi una via d'uscita facile, nel caso dovesse andare tutto storto. Per darti la colpa. Per poter riuscire a dirmi "va beh, tanto non la amavo poi così tanto" e lavarmene le mani, senza prendermi troppe responsabilità. Non sai quanto mi odio, per questo.  
Ma ad un certo punto della notte, quando la vocina si stanca di ripetermi sempre le stesse cose, riesco finalmente ad udire il sibilo del tuo respiro. È impercettibile, ma quando riesco ad intuirne le note mi concentro sulla melodia del tuo respiro, sulla frequenza del tuo inspirare ed espirare ed è buffo, ma questa cosa mi calma. Riesco a smettere di piangere, quando riesco ad accorgermi di questa tua particolarità e lo so, è una cosa piccola ed insignificante, ma adoro questo tuo piccolo dettaglio perché ci sei tu, in quel sibilo: in qualche modo, quel dolce ma fastidioso rumore, fa parte di te e, nella banalità di una cosa così stupida, mi rendo conto di essere l'unico ad essersi accorto di questo minuscolo dettaglio e so che sarò l'unico a coglierlo, per tanto tempo.
Poi arriva l'alba. I primi raggi di luce si irradiano nella nostra stanza e, un po' alla volta, illuminano il tuo viso. Sei splendida in quei momenti, tu non sai quanto, ma è nell'innocenza di ciò che sei che decido come mentirti.
La prima cosa che faccio è girarmi, per prendere il mio telefono e capire se devi andare al lavoro o meno e, nel caso, capire in maniera approssimativa quanto manca al suono orribile della tua sveglia: se manca poco, e di solito è così, faccio finta di dormire così so che sarai tu ad avvicinarti a me e a svegliarmi, con un bacio ma, se manca tanto o non devi andare da nessuna parte, mi rigiro verso di te e ti accarezzo il viso. L'ultima azione della mia routine notturna.
A volte vorrei cambiare la mia routine e inserire, all'interno di essa, un bacio. Potrei svegliarti con un bacio sulla guancia e darti il buongiorno, oppure accoccolarmi a te e farti sentire protetta. Potrei fare tanto, lo so, ma col tempo ho capito che preferisco notare il tuo sguardo perché, quando ti accorgi che sono lì per te e con te, riesci a trasmettermi tutto il tuo amore. Non so come tu riesca a farlo, ancora sto qui a chiedermelo, ma lo fai: nella quotidianità, quando torni da scuola e i tuoi alunni ti hanno fatto passare una giornata d'inferno, quando mi chiedi di cucinare perché sei stanca, quando stai male e hai bisogno delle mie spalle, per accoccolarti a me e piangere.
Adoro questa cosa, mi rende felice, perché mi fai sentire tuo e amato, in ogni istante che passiamo insieme. Ed anche se ho passato tutta la notte in lacrime mi basta vedere i tuoi occhi che si spalancano per notare meglio i miei ricci o il mio viso, il tuo sorriso che è lì, ogni volta che dico una cazzata e le tue mani, che stringono le mie, per farmi essere sicuro di quello che sei e siamo, ricordarmi il perché io ti ami così tanto, del perché io lotti contro la mia vocina interiore e perché io adori così tanto, anche se ti sfotto per questo, il sibilo del tuo respiro.
1 note · View note
osservatoriosubliminale · 3 years ago
Text
Il capriolo, il cavaliere e il metaverso (bozza n.3)
C'era una volta, in un regno lontano lontano, un forte ed audace cavaliere. Lui-Chan, questo il suo nome.
Riconosciuto ed acclamato da tutti, il cavaliere aveva salvato il regno più e più volte, solo con la sua spada di ferro e i suoi possenti muscoli. Draghi, stregoni, avidi ladri veneziani, gnomi con la mazza di ferro di nome Andrea e orcuti cantanti neomelodici, nessuno poteva nulla contro quel cavaliere così abile, forte e valoroso.
Tutti, tranne Antonietta. Tanto tempo fa, quand'era, solamente una ragazzina, si infatuò del cavaliere. Provo in tutti i modi a dimostrare il suo amore ma, il cavaliere, concentrato com'era a salvare il regno, rifiutò sempre le sue avances.
Era infatuata di quel cavaliere così bello e valoroso ma, dopo tutti quei rifiuti, quell'amore si trasformò in odio. Decise di studiare stregoneria e, da bella ragazzina qual era, si trasformò in una grassa, scorbutica e napoletana strega. Assieme a lei due gatti, Pampu e Champu, che chiamava dal balcone di casa sua urlando alle 2 di notte, fregandosene dei vicini.
Dopo qualche anno di studi, alcuni anche fuori dal regno stesso, Antonietta era pronta per la sua vendetta. Dopo aver allertato i suoi due gatti andò verso il castello del regno, dove risiedeva il solo re Ugo, la cui moglie era sparita in circostanze misteriose. Il re la accolse ma, lei, lanciò un potente incantesimo, che trasformò l'uomo in un piccolo e vecchio riccio.
Preso il controllo del regno e aver cancellato i ricordi di Lui-Chan dalla mente dei sudditi del re-riccio Ugo, Antonietta decise quindi di attendere il ritorno del cavaliere dalla sua ennesima battaglia, per lanciare contro di lui una potente maledizione.
Il cavaliere, tornato di nuovo vittorioso dall'ennesima battaglia, notò che nel regno qualcosa era cambiato: non risuonava alcuna musica, nessun odore giungeva alle sue narici. Non c'era anima viva nel regno, solo un gatto nero che correva furtivo con uno strano pendaglio al collo.  
Il cavaliere, senza alcuna paura, si incamminò per raggiungere il castello e annunciare la sua vittoria. Il portone del castello era stranamente aperto. Lui-gian, spada in mano, entrò. Ma i suoi occhi non potevano credere alla scena che gli si parò davanti: il re Ugo si era trasformato in un riccio!
La strega Antonietta, nascosta, gli lanciò la maledizione che aveva preparato da anni. Con una fragorosa risata annunciò al cavaliere che si sarebbe trasformato in un orco e, che, non avrebbe più potuto amare anima viva perché, se fosse successo, sarebbe stato esiliato nel metaverso.
Scacciato dal regno, Lui-Chan viveva nascosto nella foresta di quel regno, in una casetta fatta di sterco di asino, spazzatura e ramoscelli, tra alberi caduti e zanzare radioattive. Costretto alla solitudine, l'orco viveva una vita miserabile, fatta di espedienti e soprusi, da parte dei cittadini di quel regno: nessuno gli rivolgeva la parola, sporco, brutto e puzzolente com'era. Lo odiavano tutti. Nessuno gli voleva bene.
I giorni passavano tutti uguali ma, durante una delle sue esplorazioni, Lui-Chan trovò delle piccole orme. Cominciò a seguirle e, dopo un po', trovò in mezzo ad un mucchio di foglie un capriolo, ferito da un colpo di arma da fuoco. L'orco, essersi accorto delle gravi condizioni del capriolo, lo prese e lo portò nella sua capanna di fango e legna, per curarlo al meglio delle sue possibilità.
Lui-Chan, dopo averlo adagiato sul suo letto di paglia, cominciò a prendersi cura del cerbiatto, medicandolo e curandolo utilizzando tutti i trucchi che aveva imparato in battaglia. Si dedicò a quel capriolo giorno e notte, non dormendo per giorni interi.
Pampu, uno dei due gatti della strega, si accorse della cura che l'orco aveva per il cerbiatto e, scambiandolo per una forma d'affetto, allertò la strega della cosa. Antonietta si recò subito al capanno di Lui-Chan. Gelosa del loro amore andò su tutte le furie e decise di punire l'orco e il capriolo rinchiudendo entrambi nel metaverso n.901.
Lui-Chan e il capriolo si ritrovarono in un mondo completamente diverso ed estraneo, rispetto a quello che conoscevano. Nel cielo grattacieli maestosi ed infiniti, a terra pubblicità di crypto, gigantografie di Elon Musk e acquisti in-app anche solo per camminare comodamente. Un incubo.
L'orco decise di scappare in un vicolo poco distante, per fare mente locale e capire come muoversi in quel nuovo mondo. Un gatto, lì vicino, si avvicinò a loro due e, ad un certo punto, parlò. L'orco, spaventato, fece due passi indietro ma quel gatto si presento col nome di Iulilenia, la regina del regno scomparsa qualche tempo fa. Il gatto-regina chiese all'orco di seguirla, per poter raggiungere un posto tranquillo.
Arrivati in una stanza di un O&A abbandonato nella città più brutta della sottosezione V. di quel metaverso, Iulilenia spiegò all'orco del perché fosse lì. Antonietta, durante i suoi studi di stregoneria, decise di clonare la sua anima e racchiuderne una nel gatto di quel metaverso e, l'altra, nel gatto del regno originario. In maniera tale da metterli sia in comunicazione e, sia, di poter influenzare i corpi dei due mondi in maniera indiretta. Sì, non ha senso, disse Iulilenia, !!ma è un pretesto di trama che l'autore non ha ancora voluto correggere in questa bozza. Lascia fare. -- Aggiungere spiegazione.
Lui-Chan, preoccupato, chiese alla regina come uscire da quel posto. Iulilenia raccontò di come, nel corso degli anni, ha sviluppato un AI atta proprio a questo scopo, un AI atta a studiare il punto debole di quella strega che, con la sua forza, controlla la stabilità di questo mondo. Bisognava attaccare sotto due punti: intaccando l'entropia, e quindi l'equilibro di questo mondo, alzandola a tal punto da distruggere le barriere di questo mondo.
Il piano era semplice. Bastava distrarre la strega nel mondo reale e, allo stesso tempo, creare disordine in questo, così da creare un portale spazio temporale per uscire da questo metaverso.
Come? La mia AI ha studiato il comportamento della strega Antonietta, nel corso di questi ultimi anni e ha trovato il modo perfetto per distrarre la strega così tanto da far cedere questo mondo. La mia controparte reale ha reperito, in un altro dei multiversi, un succhiaclitoride.
Cos'è? Chiese Lui-Chan. Niente di raccontabile in una favola, disse Iulilenia.
E come facciamo a rompere la stabilità di questo mondo? Chiese Lui-Chan. Semplice, basta trasformare il capriolo che porti tra le braccia in un essere umano, così da causare un errore nella simulazione e distruggere le barriere tra questo e il mondo reale.
La Iulilenia del mondo reale, nel frattempo, aveva già consegnato il succhiaclitoride alla strega, e attendeva il suo utilizzo per mettere a punto il piano. La strega, dopo aver raccolto lo strano marchingegno, capii come utilizzarlo ed ebbe il suo primo ed unico orgasmo nella sua vita.
Nel frattempo Iulilenia, con i poteri che aveva acquisito nel metaverso, trasformò il capriolo in una dolce fanciulla e, nel farlò, aprì un portale verso il mondo reale. Lui-Chan e la ragazza attraversarono il tutto, ma Iulilenia no. La presenza di due di loro all'interno del mondo reale avrebbe distrutto l'equilibrio dei due mondi. Affidò a loro il compito di rompere tutte le maledizioni che la strega, nel tempo, aveva lanciato, regalando loro uno smartphone.
Tornati nel mondo reale e trovata il gatto-regina nel mondo reale Lui-Chan digitò sullo schermo del cellulare il numero della GdF della magia, che arrivò subito sul posto. Dopo attente analisi fiscali, la strega fu poi beccata e arrestata per lancio illegale di maledizioni, spaccio, e percezione illegale del reddito di magidinanza. Condannata alla reclusione, il giudice sciolse tutte le maledizioni presenti sul regno.
Lui-Chan ritornò umano, Iulilenia una regina in carne ed ossa, Ugo ritornò umano e gli abitanti si ricordarono di nuovo di Lui-Chan e delle sue gesta.
Erano tutti felici e, in quell'istante, la donna-capriolo si svegliò, per la prima volta. Il suo nome era Martina e, una volta visto il cavaliere, gli diede subito un bacio.
E vissero tutti felici e contenti.
0 notes
osservatoriosubliminale · 3 years ago
Text
Spazio Colore. 901 + Sunset Boulevard St., California. Viola. 20/03/22. 11:59.
901
Guardo il soffitto. Vuoto. Sgombro da ogni possibilità. Lo guardo perché alla ricerca di un punto luminoso, un qualcosa che possa distrarmi ed guidarmi in questo mare di assenza e silenzio.
Riattivo i miei muscoli lentamente: li sento strusciare, sotto queste ruvide coperte. Mi sembra di sentire il sibilo del vento, solo che ho il potere di deciderne l'intensità, il rumore, la frequenza e la forza, addirittura la direzione. Ma il vento rallenta, fino quasi a fermarsi, quando capisco che sono in un letto, anche se non mio.
Il mio corpo è a galla mentre le onde mi cullano ma allo stesso tempo mi agitano, da una parte all'altra, di questo infinito ma delimitato oceano chiamato letto. Galleggio e quasi mi lascio annegare, quasi ad abbandonare un corpo che non sento mio. Che non ho mai sentito mio. Che abbandonerei, se potessi, su un'isola deserta a deperire per, poi, lasciarlo mangiare agli uccelli e ai pesci. Ma non affogo completamente. No. Non ne ho il coraggio. Anche se non sto cercando di nuotare perché, mi rendo conto, di non avere la forza per farlo. Non al momento almeno.
Mi lascio quindi cullare da tutto questo, anche se sono stato sbattuto con violenza nei meandri di questo piccolo spazio, ritagliato all'interno delle infinite possibilità di un universo pieno di spazi, mal riempiti e mal concepiti, anche dalla mia piccola ed infinitesimale immaginazione.
Una violenza che, però, ho scelto: ho cercato, addirittura desiderato, ad un certo punto. Che ho bramato fino a qualche ora fa ed immaginato, nei più piccoli e nefasti dettagli.
I miei sensi, mi accorgo, sono spenti: gli occhi, aperti, non hanno nessuno stimolo. L'olfatto riesce solamente a captare il mio fiato, pesante e disgustoso. La mia bocca permea di un sapore orribile. Le mie orecchie che rifiutano quel silenzio assordante. Il tatto che, al contrario degli altri sensi, capta un piccolo segno di vita: con i polpastrelli riesco a sfiorare qualcosa, ma capisco solo dopo cos'è. È carne. Pelle, nuda, che giace accanto a me inerme, immobile.
C'è qualcuno accanto a me.
Un segno di fiducia. Dormire accanto a qualcuno è un segno di fiducia. Dormire accanto a qualcuno è un segno di arrendevolezza, nei confronti di qualcuno di inerme tanto quanto me. Vanessa.
C'è Vanessa, accanto a me. Il suo respiro è leggero, labile, e solo ora che sposto l'attenzione dei miei sensi su di lei mi accorgo della sua esistenza, nella vacuità di questa camera d'albergo. Faccio un po' di fatica ad ascoltarla: lei è dall'altro lato di quest'oceano limitato da questi bordi così stringenti ma accoglienti, ma è viva e sopravvive, anche nel pieno della sua tenera arrendevolezza e, questo, mi rincuora.
Cerco di muovere i miei polpastrelli il meno possibile. Non vorrei tirarla fuori dal suo subconscio, forse non ne sono degno.
Vanessa.
Mi rendo conto che l'assenza di guide, in questo cielo fatto di cemento armato, è proprio il risultato di una luce che mi ha portato proprio qui, accanto a lei, in questa stanza completamente buia.
Sunset Boulevard St., California
Le mie scarpe sono umide, i piedi sguazzano all'interno di esse. È notte. In mano una birra, l'orizzonte pieno di palazzi. Case ancora vive, radianti di luce propria, con all'interno persone.   Al 1° piano una donna, la vedo. Sta cucinando, nel frattempo sorride. È al telefono. Al 2° piano un vecchio, decrepito, sporco tanto quanto me. Che guarda, mi guarda. Col suo fare assente, come per compatirmi. Mi regala il suo perdono. Non lo accetto. Nessuno può perdonarmi, o tantomeno giudicarmi. Solo Dio potrebbe, ma non credo a tutte quelle favole per bambini. Al 3° piano una coppia. Che scopa. Lei sbattuta da dietro. Che urla. Geme. Ma chiede di più. Sempre di più. Credo sia così. Non riesco a vedere lui. Vorrei essere io. Io. Io seduto, su un gradino di un palazzo fatiscente. Al coperto. La guardo. Ancora piove. Ogni tanto alzo lo sguardo. La vergogna. Il cielo pieno di nuvole. Lacrime di disgrazia. Ogni tanto abbasso lo sguardo. La miseria. Strade piene di pozzanghere. Rimasugli di lacrime non ancora asciugate. Il rumore della città ancora in moto mi distrae da quella scena. Le auto passano a pochi metri da me. Pochi centimetri e le scarpe non sarebbero più un problema. Ma anche adesso non lo sono. Non lo sono affatto. La donna non è più alla finestra. Non vedo più le sue tette sbattere contro il vetro. Non vale la pena continuare a guardare quel palazzo. Brindo. L'ultimo sorso di birra sparisce nella mia gola. Cerco un altro briciolo di umanità all'interno di quelle auto. Così vicine dal rendermi ancor più miserabile, così lontane da essere ancora affascinanti. Da quanto tempo sono qui? Una macchina di lusso si ferma a pochi metri da me. In quel sottile lembo delimitato dalla mia psiche. Vedo un uomo vestito elegante. Non mi guarda, ma io guardo lui. È agitato. Così tanto da non riuscire a contenersi. Sbraita, urla, si fa del male. Piange. Non lo vedo ma lo capisco. Prende il telefono. Chiama qualcuno. Ma quel qualcuno non risponde. E lui sbraita, urla, si fa del male. Piange. Non lo vedo ma lo capisco. La pioggia comincia a battere forte. I suoni azzerati completamente. La vista ridotta ai minimi termini. Riesco solo a vedere l'auto, e nulla più.
1 note · View note
osservatoriosubliminale · 3 years ago
Text
Spazio Colore. Vita, morte, e il mio camice troppo largo. Verde. 23/02/22. 18:43.
Subject: Vita, morte e il mio camice troppo largo
Ti scrivo questa mail mentre sono seduto qui fuori, ad osservare il vento muovere queste foglie che stanno solo ora ritornando al colore della vita: mi incanto a guardarle perché stanno respirando, proprio come sto facendo io in questo momento, anche se in maniera affannosa rispetto a come lo stanno facendo loro.
O almeno credo, non sono sicuro di come stiano respirando in questo momento.
Quiggiù il mondo è molto "tranquillo", anche se potrei riassumere meglio il tutto con la parola morto, anche se adesso quella parola mi fa paura perché sai che non mi resta molto da vivere, o comunque non ho grandi probabilità di restare in vita. Giusto per essere completi e dare merito anche alla probabilità e alla statistica: esistono per una ragione, dopotutto.
Ma la mia paura non ha granché bisogno di percentuali, soprattutto in questo momento: da quando ho saputo ha preso i miei organi e i miei muscoli, impossessandosi di tutto il mio corpo e di tutti i miei pensieri e l'ha fatto senza combattere. Ho però preservato un pensiero, quello che ho di e per te: le ho chiesto questa cortesia, me l'ha concessa senza troppi complimenti.
Mi rendo conto che potrei aggrapparmi a quella piccola percentuale di vita che m'è rimasta, d'altronde è pur sempre un qualcosa di positivo, ma mi rendo conto che sperare non mi conviene, perché potrei rimanere deluso: pensare a una vita, dopo questa cosa, potrebbe essere così controproducente che, forse, morirei di delusione se non riuscissi a morire qui, in questo palazzone anonimo.
A che pro, poi? Certo, potrei sperare di mandare avanti la mia vita come se niente fosse successo, svegliandomi nello stesso letto in cui tu dormi e ritorni in vita, dopo un sonno ristoratore e potrei farlo, potrei davvero, ma quando entro in camera mia e guardo fuori mi rendo conto che vivo ad una velocità completamente anomala rispetto al resto: attendere la probabile morte è come rallentare, guardare alla finestra gli altri e vederli vivere mentre tu sei fermo, incatenato ed immobile, ad attendere un qualcosa che ha rovinato completamente i tuoi piani.
Anche se di piani non ne avevo, ma era proprio questo il mio piano.
Ma adesso mi rendo conto che il mio piano è proprio morire, perché non voglio ritornare a vivere: vivere vorrebbe dire ritornare a guardarti tornare in vita mentre il sole colpisce i tuoi occhi nocciola, sì, ma con un piccolo puntino di verde che guardo sempre quando ti svegli, perché mi rendo conto che in quella piccola imperfezione è racchiusa la tua essenza e anima.
Però lo sappiamo entrambi che non sarebbe, più, la stessa cosa.
Ritornare a guardare quella piccola imperfezione mi ricorderebbe che niente è mai stato perfetto, a questo mondo, e l'unica cosa che si avvicinava alla perfezione è inevitabilmente compromessa per via di un qualcosa che sta divorando il mio corpo, quasi irrimediabilmente.
Forse dovrei sperare in qualcosa? In effetti la morte è un ottimo modo per iniziare a fare le cose che non si fanno mai, nella vita. Tipo boh, pregare? Sto davvero dicendo una cosa del genere, sì.
Pregare quel maledetto dannato potrebbe essere un bel modo per passare il tempo in questo posto di morte e sofferenza ma no, non è proprio da me.
Di una cosa, però, mi pento: non essermi sforzato con te. Mai, nemmeno per una volta.
Sai quella cosa col ditino che volevi farmi ma che non abbiamo mai fatto? Di quello mi pento tantissimo, avevo paura e non mi sono reso conto che avremmo potuto costruire un bellissimo ricordo. Certo, un ricordo basato su un dito nel culo, ma pur sempre un bellissimo ricordo.
Ed è anche per questo che ti sto scrivendo questa lettera e non ti sto chiedendo di venire qui da me, per vederci (se Dio vuole) per l'ultima volta: sai, i ricordi che hai di me sono molto più preziosi dei mie, in questo momento, perché io sto per lasciare questo mondo e i miei ricordi verranno con me, mentre i tuoi saranno ancora qui, sulla Terra, per un bel pezzo, e non mi va di essere prepotente per l'ennesima volta.  
Ti ho chiesto varie volte di cambiare, certi tuoi atteggiamenti: a volte eri troppo dura, sia con te stessa che con me, altre volte invece eri troppo esagerata, in certe cose.
0 notes
osservatoriosubliminale · 3 years ago
Text
Spazio Colore. Giuramento di Ippocrate. Nero. 22/01/22. 10:34.
COLLO
Stracci la camicia che mi hai regalato.
Le mie tette al vento.
Mi getti a terra, come se fossi uno straccio.
Sono bagnata.
In ginocchio.
Davanti a te.
Che hai il potere.
Che decidi, della mia vita.
Mi guardi.
Ti faccio schifo.
Il tuo sguardo è eloquente.
Mi sputi addosso.
Disprezzo.
Odio.
Disgusto.
La tua saliva mi arriva in faccia.
Scende sul collo.
Mi fa schifo.
Mi fai schifo.
Mi faccio schifo.
Ti amo.
Fammi tua.
Sono bagnata.
Fammi tua.
Ferdinando.
Ti prego.
Scopami.
Sbattimi più che puoi.
Voglio il tuo cazzone duro dentro di me.
Ti prego.
Fammi del male.
Fammi tutto quello che vuoi.
Ti imploro.
Fai silenzio.
Uno schiaffo.
Forte.
Così violento che non mi accorgo di nulla.
Sbatto la testa a terra.
Sono inerme.
Sono tua.
Ti abbassi su di me.
Allargo le gambe.
Toglimi il pantalone.
Toglimi le mutandine.  
La mia figa è qui per te.
Ti amo Ferdinando.
Ti amo.
Uno schiaffo.
Mi togli il pantalone.
Le mie gambe piene di lividi.
Per colpa tua.
Per colpa tua.
Ho freddo.
Il pavimento è gelato.
Non riesco a guardarti.
Il soffitto è nero.
Mi togli le mutandine.
È tutto buio.
Ti sento su di me.
Le tue mani mi afferrano per il collo.
Non ti merito.
Il suo cazzo entra dentro di me.
Rumore secco.
Le mie gambe che tremano.
Sono la sua bambola.
Il suo involucro.
Dove lui può svuotarsi.
Con cui lui può sfogarsi.
Mi sbatte.
Dentro e fuori.
Il suo cazzone duro dentro di me.
Comincio ad ansimare.
Sono sempre più bagnata.
Cerco di aggrapparmi a lui.
Mi aggrappo a l'unica cosa che mi è rimasta in questa vita.
Toglie le mani dal collo e sbatte le mie braccia a terra.
Con violenza.
Le mani tornano sul mio collo.
Le sento stringere.
Mi manca l'aria.
Comincio a non respirare.
Godo.
Lui mi sbatte come fossi la sua troia.
Lo sono.
Sono una troia.
Sono la sua troia.
Ansimo sempre di più.
Ma le sue mani stringono.
Fortissimo.
Mi manca l'aria.
Ma a lui non interessa.
È arrabbiato.
Io non conto niente adesso.
Sono una nullità.
Segnale d'emergenza.
▄ ▄ ▄ ▄▄▄ ▄▄▄ ▄▄▄ ▄ ▄ ▄
Stringe ancora di più.
Mi divincolo.
Agito le braccia.
Cerco di chiamarlo.
FERDINANDO
FERDINANDO
FERDINANDO
Il mio cuore batte all'impazzata.
I miei respiri accelerano.
Fame d'aria.
Non ho più le forze.
Non ho più le forze per divincolarmi.
Non ho più le forze per lottare.
Non ho più le forze.
Farei meglio a sparire.
Lui stringe.
Sempre più forte.
Sempre più a fondo.
Afferro le sue mani.
Ma non riesco a staccarle da me.
È troppo forte.
Non riesco più a muovermi.
Mi sto abbandonando al suo volere.
Il mio corpo si agita.
Convulsioni.
Non riesco a guardarlo negli occhi.
Ho perso il controllo.
Adrenalina.
Urlo con tutte le mie forze.
FERDINANDO.
FERDINANDO.
FERDINANDO.
Mi assopisco.
Lui continua a premere.
Sto per morire.
Il battito rallenta.
Sto perdendo conoscenza.
Chiudo gli occhi.
Ti amo.
PIEDI
Le mani tremano.
Sporche.
Luride.
Come questo posto.
Batto violentemente la carta sul tavolino.
Non riesco ad essere preciso.
Prendo i soldi.
Il portafoglio a terra, in mezzo al vomito di chi voleva scappare da sé stesso prima di me.
Arrotolo.
Più velocemente che posso.
Il mio corpo si accascia verso di lei.  
La banconota ficcata nella narice.
A toccare il cervello.
Conto alla rovescia.
Chiudo gli occhi.
La sniffo.
Il corpo cede.
Inizia il viaggio.
La testa cade all'indietro.
Le palle degli occhi che scrutano il cervello.
Il nero della mia anima pronto ad ammazzarmi.
Tremo.
Dopamina.
Reazione chimica.
Il mio cervello reagisce.
Eccitazione.
Euforia.
Benessere.
Forza.
Quanto cazzo è buona questa roba.
Emanuele.
Emanuele.
EMANUELE.
SEI UN MAGO.
Il naso sporco di cocaina.
Lo bacio.
Mi alzo.
Gli struscio il mio cazzo addosso.
Sono eccitato.
Devo correre.
Andare via da qui.
Dove sono le chiavi.
DOVE SONO LE CHIAVI.
PIEDE SULL'ACCELERATORE.
130km/h.
Queste macchine non si spostano.
La cocaina sta salendo.
Forte. Fortissimo.
Le luci.
Corrono.
Accanto a me.
Il mio piede pesante sull'acceleratore.
Nerea.
Quella troia.
COME HA OSATO DUBITARE DI ME
AAAAAAAAAAAAAAAAAAA
Devo slacciarmi i pantaloni.
Sono eccitato.
Ho il cazzo durisiso
Sono fuori controllo.
Non voglio che smetta.
NON VOGLIO NON VOGLIO NON VOGLIO.
UOOOOOOOOOOOOO.
Non aprire gli occhi.
No.
Non farlo.
NON FARLO.
STO BENE ADESSO.
NON STO MALE.
IL NERO DENTRO DI ME NON C'È PIÙ.
Il nero della notte mi avvolge.
Uccidere prostituta.
ANIMA
Il telefono.
Nerea.
COSA VUOI PUTTANA?
COSA CAZZO VUOI?
Ohhh sì.
Ho il cazzo di pietra.
TI AMMAZZO PUTTANA, TI AMMAZZO
0 notes